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1 Borderline Pag. 03 L’urbanistica e l’ircocervo. Eguaglianza e libertà, coesione e sussidiarietà nel governo del territorio di Umberto Janin Rivolin Pag. 09 Per una storia analitica dell’economia politica di Marco Passarella Pag. 21 Cosmosofia di Santa De Siena Pag. 51 Giovanni Vailati e Antonio Gramsci: una “quistione di parole” di Irina Di Vora Focus: Silvio Trentin Pag. 59 Natura, diritto e territorio ne “La crisi“ di Silvio Trentin di Umberto Vincenti Pag. 65 Giusnaturalismo e federalismo nella “Crisi del Diritto e dello Stato” di Silvio Trentin di Elio Franzin Pag. 75 Ricordo di Silvio Trentin di Giuseppe Gangemi Il Sestante Pag. 79 Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide di Ana Živkovi´ c Pag. 104 La libertà come non interferenza arbitraria: libertà dal dominio e dalla corruzione di Giuseppe Gangemi Pag. 113 Un momento aureo della cultura a Padova di Mario Quaranta LibriLibriLibri Pag. 123 Recensioni SOMMARIO Culture Economie e Territori Rivista Quadrimestrale Numero Diciotto, 2007

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Borderline

Pag. 03 L’urbanistica e l’ircocervo. Eguaglianza e libertà, coesione e sussidiarietà nel governo del territorio di Umberto Janin Rivolin

Pag. 09 Per una storia analitica dell’economia politica di Marco Passarella

Pag. 21 Cosmosofia di Santa De Siena

Pag. 51 Giovanni Vailati e Antonio Gramsci: una “quistione di parole” di Irina Di Vora

Focus: Silvio Trentin

Pag. 59 Natura, diritto e territorio ne “La crisi“ di Silvio Trentin di Umberto Vincenti

Pag. 65 Giusnaturalismo e federalismo nella “Crisi del Diritto e dello Stato” di Silvio Trentin di Elio Franzin

Pag. 75 Ricordo di Silvio Trentin di Giuseppe Gangemi

Il Sestante

Pag. 79 Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide di Ana Živkovic

Pag. 104 La libertà come non interferenza arbitraria: libertà dal dominio e dalla corruzione di Giuseppe Gangemi

Pag. 113 Un momento aureo della cultura a Padova di Mario Quaranta

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IO Culture Economie e Territori

Rivista QuadrimestraleNumero Diciotto, 2007

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Che libera lismo e socia lismo non sia no incompa tibili non dice a ncora nullasulle forme e sui modi della loro possibile congiunzione

Norberto Bobbio (1997b, 163)

Per consuetudine istituzionale e tecnica, il piano urbanistico prescrive i diritti ditrasformazione del suolo, ponendo gli obiettivi di giustizia sociale e di libertàindividuale in tendenziale contrapposizione: il primo tende a perseguirsi a dis-capito del secondo. Ciò lascia supporre che la prospettiva del “socialismo libera-le”, fondata invece sull’idea che detti obiettivi siano intrinsecamente connessi,non sia fra le esperienze riformiste che hanno caratterizzato la tradizione dellapianificazione urbanistica.Ripartire da tale prospettiva sembra però inevitabile di fronte all’attualità dei pro-blemi di governo del territorio. Ciò è implicitamente suggerito anche dal pro-getto d’integrazione europea che, attraverso i principi di coesione e di sussidia-rietà, ripropone l’esigenza di combinare ragioni di eguaglianza e di libertà nellatrasformazione territoriale.

1. Premessa

La metafora dell’“ircocervo”, animale favoloso per metà capro e per metà cervo,fu polemicamente evocata da Benedetto Croce per liquidare, come irrealistica,l’idea del “socialismo liberale”. Questa prospettiva di pensiero, teorizzata daCarlo Rosselli nel 19301, ha infatti avuto scarsa fortuna. D’altra parte, basata sulsuperamento degli aspetti meno convincenti della palingenesi marxista2 e soste-nuta, sia pure con accenti diversi nel tempo, da nomi illustri del riformismo inter-nazionale3, essa pone una questione ancora oggi aperta nel dibattito politico efilosofico: come conciliare, in un contesto economicamente efficiente, la libertàindividuale con la giustizia sociale, intendendosi la seconda come logica esten-sione della prima.Sebbene la questione sia al centro dei problemi di governo della città e del ter-ritorio, occorre ammettere che neppure il sapere urbanistico, certamente non inItalia, ha storicamente riconosciuto nel pensiero liberalsocialista un orientamen-

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Umberto Janin Rivolin

L’urbanistica e l’ircocervo. Eguaglianza e libertà, coesione e sussidiarietà nel governodel territorio*

Borderline

* Relazione presentata allaX Conferenza nazionale

della Società italiana degliurbanisti “Riformismo al

plurale. Urbanistica eazione pubblica”, Milano

18-19 maggio 2006 (JaninRivolin 2007).

1 Le declinazioni assuntedal pensiero liberalsociali-sta nel nostro paese sono

molteplici (dal libertari-smo sociale di FrancescoSaverio Merlino al liberal-

socialismo di GuidoCalogero, al federalismo

di Ernesto Rossi e diAltiero Spinelli), ma

«…nella storia del pensie-ro politico italiano quan-do si parla di “socialismo

liberale” è all’opera diRosselli che ci si riferisce»

(Bobbio 1997a, xl-xli).Come è noto, Rosselli

diede vita con alcuni diquesti autori al movimen-to antifascista “Giustizia eLibertà”, poi confluito nel

Partito d’azione.

2 «Il cambiamento dirotta consiste nell’affer-mare che il socialismo,

che era da sempre statoconsiderato… inscindibi-

le dal marxismo, è conesso alla fine incompatibi-

le, ed è invece perfetta-mente compatibile col

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to proficuo. Al contrario, vittima forse inconsapevole dell’ircocervo crociano, l’i-dentità riformista del sapere urbanistico si è costruita nel corso del ‘900 sul pre-supposto che giustizia sociale e libertà individuale siano opposti tendenzialmen-te inconciliabili nei processi d’uso e di trasformazione del suolo. Condizionata einsieme garantita da un contesto istituzionale improntato al paternalismo e aldirigismo propri della cultura welfarista, l’urbanistica riformista ha generalmentecoltivato l’assunto che solo lo Stato, unico depositario dell’interesse collettivo,possa realizzare una città giusta e un territorio equilibrato, arginando con il pianole libertà individuali espresse dai progetti immobiliari. Incoraggiato dal progres-sismo apparente di tale assunto, il sapere tecnico ha contribuito ad alimentare ilmodello istituzionale dell’urbanistica “conformativa”, in base al quale le trasfor-mazioni del suolo devono conformarsi alle prescrizioni del piano.Del resto, tale modello ha prosperato nel corso del ‘900, sia pure in forme nonidentiche, in quasi tutti i paesi occidentali. Le esigenze della ricostruzione post-bellica e dell’urbanizzazione fordista hanno reso generalmente conveniente l’a-dozione di un’urbanistica gerarchica nel postulare le relazioni verticali tra i pianidi scala differente e dirigista nel regolare i rapporti orizzontali all’interno delpiano. Soltanto la crisi del fordismo, l’esplosione della globalizzazione e i conse-guenti processi di riorganizzazione spaziale hanno fatto emergere, con evidenzacrescente dagli anni ’70, i limiti del modello, insiti proprio nella difficoltà di con-ciliare le esigenze, sempre più decisive, di equilibrio sociale e di valorizzazionedelle istanze locali e soggettive di sviluppo.In un contesto globale caratterizzato dalla difficoltà istituzionale di governare inmodo coordinato le sollecitazioni inferte dal mutamento socioeconomico, il pro-getto dell’integrazione europea si è imposto all’attenzione internazionale comerisposta “più efficiente ed equa” ai problemi emergenti4. Meno appariscente, mainteressante in special modo per gli urbanisti, è il ruolo che la UE (pur priva diqualsiasi potere di determinazione delle trasformazioni del suolo) ha assegnatoal territorio nella realizzazione del progetto comunitario. L’obiettivo della“coesione”, da una parte, e il principio di “sussidiarietà”, dall’altra, orientano iprocessi di governance territoriale in Europa da ormai quasi vent’anni5 propo-nendo, sotto nuova luce, l’esigenza di combinare ragioni di eguaglianza e di effi-cienza nelle trasformazioni del suolo. Le aspirazioni “performative” del progettocomunitario faticano a conciliarsi, tuttavia, col modello dell’urbanistica confor-mativa, che tuttora prevale nei paesi europei.Nei paragrafi che seguono, dopo aver chiarito in quali termini coesione e sussi-diarietà si rapportano al governo del territorio, si esplorano le loro possibili rela-zioni con i principi del socialismo liberale. Se ne deduce che l’opportunità diconciliare libertà individuale e giustizia sociale nei processi territoriali deve com-portare l’abbandono dell’urbanistica conformativa.

2. Governo del territorio nell’attualità europea

In un recente articolo ho sostenuto che (a) il perseguimento della “coesioneeconomica, sociale e territoriale”, tra gli “obiettivi dell’Unione” secondo il nuovoTrattato costituzionale europeo (art. I-3), richiede l’istituzione di qualche formacoordinamento fra i sistemi nazionali di pianificazione in Europa; e che (b) ilprincipio della “sussidiarietà” (art. I-11), di solito invocato a discapito di tale

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liberalismo, del quale erastato considerato perlunga tradizione… l’anti-tesi. Il socialismo, intesocome ideale di libertà nonper i pochi ma per i più,non solo non è incompa-tibile col liberalismo, mane è teoricamente la logi-ca conclusione, pratica-mente e storicamente lacontinuazione» (Bobbio1997a, xxvi).

3 Bobbio (1997b) vi ricon-duce in particolare le ideedi Mill, Oppenheimer,Russel e Dewey. Tra icontemporanei, Rawls eSen possono forse consi-derarsene gli epigoni piùautorevoli.

4 Per queste ragioni l’opi-nionista britannico WillHutton (2003), già coau-tore con Antony Giddensdi un fortunato volumesul capitalismo globale,considera il progettoeuropeo assai preferibileal modello neoliberista dimatrice nordamericana..

5 Rimando, per un com-pendio critico, a: JaninRivolin 2004.

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Umberto Janin Rivolin L’urbanistica e l’ircocervo

richiesta, dovrebbe costituire piuttosto il cardine funzionale del coordinamentoauspicato6.Considerato che «ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni e ilritardo delle regioni più svantaggiate» (art. III-220) è il fine dichiarato dellacoesione, la prima tesi (a) si fonda su ragioni interrelate di:- efficacia della politica europea, poiché i sistemi nazionali di pianificazione sta-biliscono i principi di trasformazione e sviluppo del territorio;- efficienza del sistema di governo, poiché nessuna interazione è al momento isti-tuita fra politica comunitaria di coesione e sistemi nazionali di pianificazione;- equità del processo di governance, poiché i sistemi di pianificazione vigentinella UE sono attualmente 25 e funzionano secondo modalità differenti.Le ragioni della seconda tesi (b) sono più complesse e sollevano problemi isti-tuzionali e tecnici relativi alla pianificazione urbanistica, più che alle modalitàd’integrazione comunitaria. Esse, pertanto, esulano dal confronto europeo(anche se le pratiche di governance territoriale comunitaria offrono più d’unriscontro in favore) per riguardare, piuttosto, l’esperienza ordinaria di governodel territorio, nel nostro e in altri paesi della UE.In breve, posto che la sussidiarietà è principio riconosciuto (non solo dalla UE)7

per affermare modalità “performative” di regolazione in un orizzonte di gover-nance8, su esso dovrebbe imperniarsi anche il funzionamento della pianificazio-ne; la quale, al contrario, promuove la trasformazione del territorio attraversomodalità “conformative” di regolazione. S’intende con ciò l’impostazione gerar-chica delle scale di piano (relazioni verticali), per cui il piano di scala inferioredeve conformarsi a quello di scala superiore; e soprattutto9 la natura prescrittivadel rapporto fra strategia e progetti all’interno del piano (relazioni orizzontali),per cui i progetti devono risultare conformi alla strategia per avere titolo di legit-timità al fine della trasformazione10.Pertanto, la contraddizione che fa problema non è quella, solo apparente, fracoesione e sussidiarietà ma quella, effettiva, fra regolazione conformativa e per-formativa, dal momento che il controllo di conformità dei progetti di trasforma-zione rispetto ai diritti prescritti (e, sia pure in forme meno coercitive, dei pianilocali rispetto al piano centrale) vanifica di fatto, per effetto dei termini giuridici,il loro controllo di prestazione rispetto agli obiettivi condivisi11.In sintesi, se la mancanza d’interazione fra politica europea di coesione e sisteminazionali di pianificazione rappresenta l’aspetto formale e secondario del pro-blema sollevato, il carattere conformativo tradizionalmente assunto dalla pianifi-cazione urbanistica in Europa ne costituisce l’aspetto sostanziale e prioritario.

3. Sussidiarietà come perfezionamento del “metodo liberale”

Secondo il modello dell’urbanistica conformativa, come si è detto, funzione prin-cipale del piano è la prescrizione dei diritti di trasformazione del suolo in basealla strategia assunta. Ancora di recente, le proposte più progredite (e maggiori-tarie) di riforma dell’ordinamento urbanistico nel nostro paese non rinunciano,nel riconoscere l’opportunità di un «piano strutturale non prescrittivo», a riaffer-mare la necessità di un «piano operativo quinquennale prescrittivo per l’attua-zione»12.Sembra, dunque, che la “sindrome dell’ircocervo” impedisca tuttora al sapere

5

6 Cfr. Janin Rivolin 2005.Va richiamato che, mal-

grado la mancata ratificadel Trattato costituzionaleeuropeo, l’obiettivo dellacoesione e il principio di

sussidiarietà sono entram-bi riconosciuti nei trattati

comunitari vigenti.

7 L’adozione del princi-pio di sussidiarietà daparte della Comunità

europea fu preparata dalParlamento europeo nel

1984 su iniziativa diAltiero Spinelli. La

Costituzione italiana hariconosciuto il principio

di sussidiarietà verticale eorizzontale (art. 118) con

la riforma del 2001.

8 Cfr. il Libro bianco sullaGovernance europea

(CCE 2001).

9 La gerarchia scalare fra ipiani è una conseguenza

del presupposto idealedella supremazia dello

Stato sulla società.

10 Con riferimento all’e-sperienza italiana, si tratta

dell’ordinario funziona-mento del piano regolato-

re generale.

11 Con riferimento all’e-sperienza italiana ed

europea, si spiegano intal modo tanto il ricorso

crescente alle “varianti” dipiano, quanto la più

recente iniziativa di legit-timare attraverso un

“piano strategico” (spessoindefinito quanto a prero-

gative istituzionali e fun-zionali) gli obiettivi nonconformi ai diritti di tra-

sformazione prescritti dalpiano regolatore.

12 Così Campos Venuti(2005a, 4) nel richiamarei principi della proposta

di riforma urbanistica

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urbanistico riformista di condividere il «metodo liberale» suggerito quasi ottan-t’anni fa da Carlo Rosselli al fine di conciliare, nell’azione di governo, ragioni dilibertà individuale e di giustizia sociale:“Il metodo liberale vuole che i popoli e le classi, al pari degli individui, si ammi-nistrino da sé, con le loro forze, senza interventi coercitivi o paternalistici. La suagrande virtù pedagogica consiste appunto nell’assicurare un clima che sospingatutti gli uomini ad esercitare le loro più alte facoltà, nell’approntare istituti cheinducano a partecipare attivamente alla vita sociale. Esso reca come premessafondamentale il principio che la libera persuasione del maggior numero allo stes-so modo che è il miglior mezzo per raggiungere la verità, così è il miglior mezzoper garantire il progresso sociale e assicurare la libertà. …Il riconoscimento delmetodo liberale, la fedeltà al metodo, ecco in che si sostanzia praticamente illiberalismo politico”13.Si osserva che il metodo liberale di Rosselli fa riferimento a un’idea di libertà“positiva”, oltre che “negativa”14, che è invece la sola connaturata al modello del-l’urbanistica conformativa. In questo, anticipa il principio di sussidiarietà (oriz-zontale) il quale, «affermando che lo Stato interviene solo quando l’autonomiadella società risulti inefficace, si contrappone all’idea di una “cittadinanza di merapartecipazione” e promuove invece “una cittadinanza di azione” in cui è valoriz-zata la “genialità creativa dei singoli” e delle formazioni sociali»15. Malgrado lachiara valenza antistatalista e antiassistenzialista, il metodo liberale, così come ilprincipio di sussidiarietà, non conduce all’ipotesi neoliberale dello “Stato mini-mo” poiché, «mentre riconosce alla persona il diritto di iniziativa, nel contempone afferma la responsabilità sociale»16.Il metodo liberale, pertanto, non implica la rinuncia alla pianificazione, ma ilricorso a «una pianificazione diversa»: volta a «coordinare le attività umane permezzo di un complesso di norme impersonali, entro il quale i rapporti che si sta-biliscono spontaneamente tra gli individui conducono al bene comune», piutto-sto che a «far prescrivere in modo preciso ogni azione, od ogni categoria di azio-ni»17. Poiché, dunque, lo Stato non è il depositario a priori dell’interesse colletti-vo e il suo intervento richiede sempre una giustificazione, la «vera difficoltà stase mai… nel progettare praticamente una volontà collettiva tale che le decisio-ni da essa prese siano da accogliersi come la massima espressione di volontà diogni singolo»18.

4. Giustizia sociale e coesione in rapporto alla sussidiarietà

Nella prospettiva liberalsocialista, lo Stato coordina i diritti di trasformazione delsuolo non attraverso la prescrizione di “ogni azione o categoria di azioni”, mapromuovendo progetti di “volontà collettiva” e “norme impersonali” volte al con-seguimento del bene comune. La città giusta e il territorio equilibrato derivano,pertanto, non già dal potere di conformare le libertà individuali alla strategia col-lettiva, ma dalla capacità di progettare strategie persuasive e norme condivise percoordinare (promuovere, condizionare o impedire)19 le iniziative di trasforma-zione.Dietro il velo della retorica progressista e della presunzione prescrittiva, l’urba-nistica odierna non è strutturalmente in grado di garantire obiettivi di giustiziasociale per il non unico ma fondato motivo che la prevalenza giuridica del con-

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avanzata dall’Inu nella scor-sa legislatura. Cfr. anche:Campos Venuti 2005b.

13 Rosselli 1997, 100-101.

14 «Per “libertà negativa”s’intende, nel linguaggiopolitico, la situazione incui un soggetto ha la pos-sibilità di agire senza esse-re impedito, o di nonagire senza essere costret-to, da altri soggetti. …Per“libertà positiva” s’intende…la situazione in cui unsoggetto ha la possibilitàdi orientare il propriovolere verso uno scopo,di prendere delle decisio-ni, senza essere determi-nato dal volere altrui.Questa forma di libertà sichiama anche “autodeter-minazione” o, ancor piùappropriatamente, “auto-nomia”... La libertà negati-va è una qualifica dell’a-zione, la libertà positiva èuna qualifica della volon-tà» (Bobbio 1995, 45-50).

15 Battista 2001, 51.

16 «Contestando il presup-posto dello statalismo enon esaurendosi nella for-mula liberalista, non rap-presenta nemmeno unaformula di compromessotra le due teorie, ma espri-me una concezione origi-nale» (Battista 2001, 51).

17 Così Ernesto Rossi(2006, 250), citandoLionel Robbins, in un arti-colo del 1954.

18 «Si tratta peraltro di unadifficoltà politica, non diuna difficoltà concettuale.Che politicamente lalibertà positiva comeautodeterminazione col-lettiva sia un ideale-limite,non toglie che sia unideale continuamenteriproposto, e che sia leci-to considerare un regime

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Umberto Janin Rivolin L’urbanistica e l’ircocervo

trollo di conformità delle trasformazioni svincola le indicazioni di piano dall’o-nere, politico e tecnico, della prova. L’idea, invalsa in tempi più recenti, della“perequazione urbanistica”20, da un lato offre una soluzione soltanto parziale alproblema, dal momento che può applicarsi ai soli diritti di proprietà interessatida trasformazioni (non alla cittadinanza interessata dal piano); dall’altro, poichési propone come correttivo degli squilibri attesi dalle prescrizioni, è un’ammis-sione implicita delle contraddizioni del modello conformativo.Al contrario, liberalismo e sussidiarietà implicano che, al di là di ogni legittimoobiettivo strategico del piano, la giustizia sociale sia un cardine delle “normeimpersonali” utili a coordinare le iniziative di trasformazione territoriale. In par-ticolare, poiché l’eguaglianza sociale, prima che ideale più o meno condivisibile,è l’esito fattivo del rapporto dato fra “giustizia retributiva” (rapporti di scambio)e “giustizia attributiva” (rapporti di convivenza o solidarietà)21, è lecito sostenereche il suo trattamento debba competere, prima che alla strategia, alla condivi-sione di regole di compensazione degli interessi (collettivi e individuali) pena-lizzati dalle trasformazioni territoriali ammesse, a seguito di circostanziato con-trollo di prestazione, in rapporto alla strategia.In conclusione, riprendendo i termini del progetto d’integrazione europea, sem-bra che il principio di sussidiarietà e le finalità di riequilibrio e di solidarietà insi-ti nell’obiettivo di “coesione economica, sociale e territoriale” costituiscano ilriferimento istituzionale utile a un riordino della pianificazione urbanistica neipaesi europei nel solco tracciato, agli albori del secolo scorso, dalla prospettivadel socialismo liberale.

Riferimenti bibliografici

Battista A. (2001), Il principio di sussidia rietà nel diritto ita lia no e comunita -rio, tesi di laurea in Economia aziendale, Università degli studi Roma Tre.Bobbio N. (1995), Egua glia nza e libertà , Einaudi, Torino.Bobbio N. (1997a), Introduzione, in: C. Rosselli, Socia lismo libera le, Einaudi,Torino, xxi-liii.Bobbio N. (1997b), Tra dizione ed eredità del libera lsocia lismo, in: C. Rosselli,Socia lismo libera le, Einaudi, Torino, 145-164.Campos Venuti G. (2005a), “Come andare verso la riforma urbanistica”,Urba nistica Informa zioni, n. 203, 3-4.Campos Venuti G. (2005b), “Una strategia per il riequilibrio delle trasformazioniterritoriali”, Urba nistica , n. 126, 96-102.CCE – Commissione delle Comunità europee (2001), La governa nce europea .Libro bia nco, COM(2001) 428, Bruxelles, 5.8.2001.Hutton W. (2003), Europa vs. Usa . Perché la nostra economia è più efficiente ela nostra società più equa , Fazi, Roma.Janin Rivolin U. (2004), Europea n spa tia l pla nning. La governa nce territoria lecomunita ria e le innova zioni dell’urba nistica , Franco Angeli, Milano.Janin Rivolin, U. (2005), “Cohesion and subsidiarity: towards good territorial gov-ernance in Europe”, Town Pla nning Review, vol. 76, n. 1, 93-106.Janin Rivolin, U. (2007), Egua glia nza e libertà , coesione e sussidia rietà nelgoverno del territorio, in: A. Lanzani e S. Moroni, a cura di, Città e a zione pub-blica . Riformismo a l plura le, Carocci, Roma, 291-296.

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tanto più desiderabilequanto più vi si avvicina»

(Bobbio 1995, 68).

19 Liberalismo e sussidia-rietà, come è chiaro, non

revocano allo Stato lafacoltà di divieto; piutto-sto, ne impongono l’ob-

bligo di giustificazionepermanente.

20 Anche la perequazione,che dispone l’equa distri-buzione dei valori immo-

biliari prodotti dal piano edegli oneri derivanti dallarealizzazione degli inter-

venti, è tra i principi dellaproposta di riforma soste-

nuta dall’Inu.

21 Bobbio 1995, 8-16. Cfr.inoltre: Merlino 2006.

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Merlino F. S. (2006), “Libertà e giustizia”, in: C. Ocone e N. Urbinati, a cura di, Lalibertà e i suoi limiti, Laterza, Roma-Bari, pp. 197-205 (or.: 1897).Rosselli C. (1997), Socia lismo libera le, Einaudi, Torino (or.: Valois, Paris, 1930).Rossi E. (2006), Dirigismo libera le, in: C. Ocone e N. Urbinati, a cura di, La liber-tà e i suoi limiti, Laterza, Roma-Bari, pp. 248-252 (or.: 1954).

Umberto Janin Rivolin è professore associato di Tecnica e pianificazione urbani-stica al Politecnico di Torino. Ha coordinato di recente, in rappresentanzadell’Italia, le ricerche europee ESPON (www.espon.eu) 2.3.1 – Application of theESDP in the Member States (coordinamento internazionale: Nordregio,Stoccolma) e 2.3.2 – Governance of territorial and urban policies from EU tolocal level (coordinamento internazionale: Università di Valencia). Tra le pubbli-cazioni: Le politiche territoriali dell’Unione europea (a cura, Franco Angeli, 2000)e European spatial planning (Franco Angeli, 2004), oltre a vari articoli su rivistescientifiche internazionali e nazionali.

[email protected].

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Senza dubbio, è meglio getta r via i modi di pensiero sorpa ssa ti che rima nerea tta cca ti indefinita mente a d essi. Nondimeno, le visite in soffitta possonoriuscir profittevoli, purché non durino troppo a lungo.(J. A. Schumpeter)

Non appare certo roseo il futuro della Storia del Pensiero Economico1 nell’ambi-to del sistema accademico italiano. Si tratta, è vero, di una disciplina di studioancora vitale e dinamica, tuttora in grado di attrarre nuove generazioni di studio-si. Tuttavia, a dispetto di rare quanto lodevoli eccezioni, essa rimane un insegna-mento facoltativo nella grande maggioranza dei corsi di laurea. Fatto assai preoc-cupante, la SPE è spinta sempre più al margine proprio nelle Facoltà di Economia,dove fatica a trovare un proprio spazio, stretta tra il successo crescente dei corsia zienda listi ed il malcelato fastidio degli economisti teorici e «applicati». Le ragioni di questa difficoltà sono, ovviamente, più d’una – non ultima la recen-te «riforma universitaria». Qui, tuttavia, s’intende sottolineare un diverso aspet-to, dibattuto anche nel corso dell’annuale convegno ESHET tenutosi nell’apriledel 2006 a Porto: l’intrinseca debolezza a na litica che caratterizza una parte rile-vante dei lavori pubblicati, ancora di recente, sulle principali riviste specializzatedi SPE. Capita, infatti, non di rado, di imbattersi in storie aneddotiche su econo-misti, ricche di particolari sulla vita pubblica e privata dei protagonisti, ma caren-ti di contenuto teoretico e analitico. Veri e propri schizzi agiografici che guada-gnano in ridondanza di informa zioni ciò che perdono in comprensione. Il risul-tato di una storia siffatta è in genere quello di far conoscere tutto, ma propriotutto, dell’autore considerato tranne… il suo pensiero economico.Nel migliore dei casi, tale eccedenza (spesso compiaciuta) di erudizione con-sente una meticolosa ricostruzione dell’ambiente in cui si colloca il singolo eco-nomista, al prezzo, però, di metterne in ombra le derivazioni intellettuali e lepossibili interrelazioni teoriche con altri autori. Un esempio, e non certo tra ipeggiori, è la monumentale biografia di Johan Maynard Keynes ad opera diRobert Skidelsky, in cui la riflessione sulla teoria economica viene affogata in unmare di informazioni personali, cosicché la ricostruzione cronologica dei fattibiografici prende il sopravvento sulla ricostruzione logica delle concatenazionidi pensiero (Skidelsky 1989; 1996; 2000).Va, però, subito chiarito che non si tratta qui di aprire l’ennesimo, estenuante,

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Marco Passarella

Per una storia analitica dell’economia politica

Borderline

Nota: il saggio pubblicatoin queste pagine è la ver-sione riveduta e corretta

dell’omonimo paper pre-sentato in occasione delIII Convegno NazionaleStor.e.p., Lecce 1-3 giu-

gno 2006.

1 D’ora in poi SPE.

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Methodenstreit. Ciò che si vuole sottolineare è, piuttosto, l’esigenza per lo stori-co del pensiero economico di riuscire a coniugare determinazione storica e rigo-re d’analisi, collocando i sistemi teorici (ed i loro modelli analitici) dentro lecesure storiche che, di volta in volta, ne hanno favorito la nascita e l’affermazio-ne; ovvero la caduta e l’oblio.

***Chi scrive condivide l’idea che l’economia politica, dopo la rivoluzione del paradig-ma inaugurata da Hume, Quesnay e Galiani alla metà del secolo diciottesimo e por-tata a compimento con la Wea lth of Nations di Adam Smith (1776), abbia procedu-to solamente per rivoluzioni nel paradigma, ossia per «catastrofi epistemologiche»interne ad un unico paradigma. Che, insomma, «tipizzato l’homo oeconomicus e lasua logica della scelta, il resto – da Adam Smith a John Nash – se non è stato certa-mente silenzio, è stato però solo conseguenza» (Gattei 2004, pp. 207-208)2.La fonda zione epistemologica della scienza economica, che affonda le sue radi-ci nell’Età dei Lumi, riflette lo sconvolgimento/superamento del sistema econo-mico e sociale feudale (o, comunque, pre-capitalistico) indotto dalla progressivaaffermazione della moderna produzione capitalistica manifatturiera (a cui, com’ènoto, fa seguito la diffusione del sistema di fabbrica, caratterizzato dall’impiegomassiccio di macchinari e di capitale fisso). Da allora, il pensiero economicosembra aver seguito un andamento ciclico «a onde lunghe» in stretta connessio-ne con i mutamenti intervenuti, via via, nel modo di produzione basato sul capi-tale. Da questo punto di vista, è possibile scorgere almeno quattro successivemetamorfosi nel paradigma, identificabili, rispettivamente, con il pessimismoagonistico degli economisti classici (pro o a nti) ricardiani, con l’equilibrismomeccanicistico dei marginalisti e dell’ortodossia neoclassica, con lo squilibrismoeterodosso di John Maynard Keynes e Joseph Alois Schumpeter e, da ultimo, conl’antagonismo polemico di Piero Sraffa, proprio negli anni del consolidamentodella sintesi neoclassica come «situazione classica» per eccellenza. Tre grandicicli di rottura e di successiva affermazione delle nuove idee ed un quarto ciclo,tuttora in corso, che sembra non avere ancora espresso un vera e propria ege-monia teorica.Procedendo con ordine, il primo mutamento nel paradigma della scienza eco-nomica coincide, dunque, con la riformulazione della teoria smithiana operatadagli economisti del XIX secolo, e, in particolare, da David Ricardo. I «classici»,come li ribattezzerà in seguito Marx, per distinguerli dagli economisti «volgari»3,si pongono alla ricerca delle leggi immutabili di una Na tura razionale e quindipienamente intelligibile dallo scienziato, ma, al tempo stesso, avida e matrignacon il genere umano. In effetti, se, da un lato, l’idea di Smith di un «ordine natu-rale» oggettivo, accessibile alla Ra gione, rappresenta la grande ereditàdell’Illuminismo settecentesco, dall’altro, la sfiducia nelle «magnifiche sorti eprogressive» del capitalismo manifestata dagli economisti classici è, con ogniprobabilità, ascrivibile all’influsso della nascente cultura romantica. La malthu-siana «legge di popolazione» (secondo cui lo scarto negativo tra il tasso di cre-scita, aritmetico, delle superfici coltivabili e quello, geometrico, delle nascite,condanna la classe lavoratrice ad un salario di mera sussistenza), o l’aumentodella rendita fondiaria a scapito del saggio di profitto degli imprenditori-capitali-sti (inscritto nella legge dei rendimenti decrescenti dei terreni agricoli, ovveronell’esaurimento delle opportunità di investimento di una economia letteralmen-te pre-destina ta allo «stato stazionario»), sono tracce di un «pessimismo agonisti-

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2 Da allora, il dibattito fragli economisti è talvoltaaspro, ma si svolge entroun quadro di regole e lin-guaggio standardizzati.

3 La definizione di «classi-ci» coincide con quella dieconomia ricardiana,ossia di sistema teorico eanalitico incentrato sullateoria del valore-lavoro,sulla categoria di sovrap-più e sull’idea di unasocietà divisa in classi. Percontro, l’appellativo dieconomisti «volgari» vieneriservato da Marx ai teori-ci dell’ordine spontaneodel mercato, ossia a quei«pugilatori a pagamento»del capitale che produco-no consenso anzichéscienza (Screpanti-Zamagni 2000, p. 151).

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co» – per utilizzare un’espressione cara a Sebastiano Timpanaro – che, seppure inmodo difforme, permea le opere di Malthus, Ricardo e Sismondi. Non è un caso,dunque, che nei classici la componente macro della teoria economica finisca perprevalere, pur senza mai eliminarla, su quella squisitamente micro. La metodolo-gia degli aggregati dell’economia politica classica rimane infatti saldamente anco-rata ad una analisi della produzione, della distribuzione e dello scambio fondatasulle categorie di cla sse socia le (intesa come categoria strutturale, non meramen-te funzionale), di costo di produzione (posto a fondamento di una teoria oggetti-vista del valore e risolto, in genere, nella quantità di lavoro contenuto nel prodot-to) e di sovrappiù (inteso come detrazione, sotto forma di profitto, interesse, ren-dita o altro, dal prodotto del lavoro). Si tratta di strumenti atti ad affrontare il gran-de tema dello sviluppo economico: delle sue cause e dei suoi limiti immanenti.Il secondo mutamento nel paradigma della scienza economica è rappresentatodalla perentoria quanto improvvisa affermazione, sul finire del secolo XIX, delladottrina neoclassica, così come espressa nella sintesi magistrale dell’equilibrioeconomico genera le di Léon Walras. Nei suoi Elements d’économie politiquepure (1874-77), l’economista francese offre una rappresentazione algebrica,essenziale ma rigorosa, della configurazione d’equilibrio generale concorrenzia-le dei quattro mercati caratteristici (dei fattori produttivi, dei beni di consumo,dei nuovi beni capitali e del risparmio), che rappresenta il maggiore contributoa (e di) quella che passerà alla storia come «Rivoluzione Marginalista». Di fatto,tutti (o quasi) gli sviluppi successivi del pensiero economico del Novecentoprenderanno le mosse, consapevolmente o meno, da questa ma gna cha rta del-l’economia «pura». D’ora in avanti, l’economica neoclassica, liberata dalle super-stizioni e dai giudizi di valore (wertfrei, secondo l’espressione di Karl Menger),si affiderà alla matematica come criterio di ragione (intesa come coerenza logico-formale di modelli astratti) e guarderà alle scienze naturali, in particolare alla fisicateorica, come al proprio paradigma scientifico di riferimento. Una vera e propriaridefinizione epistemologica della scienza economica che sposta l’attenzione del-l’economista dal tema dello sviluppo economico a quello dell’a llocazione di risor-se scarse tra usi a lterna tivi (secondo la nota definizione di Robbins).I cardini di tale rivoluzione, che è essenzialmente una rivoluzione contro i cla s-sici di Ma rx, possono essere brevemente richiamati. Essi consistono: a) nell’a-dozione di una teoria soggettivista del valore, secondo cui il valore è sempreindividuale (in quanto fine di un particolare individuo) e soggettivo (ossia sca-turisce da un processo di scelta ); b) nella riduzione di tutte le proposizioni rela-tive agli aggregati sociali a proposizioni sul singolo individuo o sulla singola unitàdecisionale (secondo i canoni del c.d. individua lismo metodologico); c) nellarivendicazione della completa a -storicità dell’economica e delle sue leggi; d)nella simmetria consumatore/imprenditore, con il principio di ma ssimizza zionevincola ta (dell’utilità, del profitto, ecc.) posto a fondamento dell’intero sistema;e) infine, nel livello crescente di sofisticazione matematica dei relativi modellianalitici, a dispetto della estrema semplicità concettuale dell’impianto teorico.In questo senso, una tappa decisiva nella lunga storia della ortodossia neoclassi-ca è la fondazione nel 1930, ad opera di Karl Menger, del Ma thema tischesKolloquium, circolo viennese che può contare sulla partecipazione di studiosidella statura di Wald, von Neumann e Morgenstern (interessati alle possibili a ppli-ca zioni della matematica ai principali problemi economici del tempo). Va da sé,che il filone di ricerca inaugurato dal Kolloquium contiene già in nuce quel pas-

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saggio, che pure si realizzerà compiutamente solo alcuni decenni più tardi, da unama instrea m economics interessata al system of forces (SOF), ossia all’analisi deiprocessi economici generati da forze di mercato (e non) che conducono all’equi-librio economico generale (descritto mediante un sistema di equazioni che con-sente di calcolarne prezzi e quantità), ad una disciplina che limita il proprio ambi-to di indagine al system of rela tions (SOR), vale a dire alle condizioni logiche diesistenza, unicità e stabilità dell’equilibrio (Giocoli 2001; 2003).Ma è solo a partire dalla fine degli anni sessanta che la matematica (in particola-re l’a ssioma tica ), unica disciplina scientifica non sperimentale, si sostituisce allafisica come modello di riferimento per la scienza economica neoclassica. Lanozione di equilibrio transita dalla accezione di punto terminale di una dinami-ca di forze economiche, a quella di mutua e perfetta compatibilità dei piani degliagenti economici; mentre l’altra nozione neoclassica fondamentale, quella dira ziona lità , passa dal tradizionale significato di perseguimento e massimizza-zione del self-interest, a quello, odierno, di consistenza e coerenza delle scelte(e/o delle preferenze). Caposcuola di questa svolta radicale nell’ambito dellavisione dominante, nota come «rivoluzione formalista», è l’economista-matema-tico francese (poi naturalizzato americano) Gérard Debreu. Per l’autore diTheory of Va lue (1959) l’azione di un individuo può essere descritta da un puntoin uno spazio di n beni, ovvero nello spazio reale dei vettori di dimensione fini-ta, assimilabile (al pari dell’analogo insieme dei prezzi) ad uno spazio euclideo.Da notare che, in questo contesto, non è nemmeno più possibile parlare di indi-vidua lismo metodologico, dato che qui l’individuo, con le sue motivazioni all’a-zione economica, letteralmente scompa re.Saranno Keynes e Schumpeter ad elaborare, nei primi decenni del Novecento, ledue grandi alternative teoretiche all’equilibrio economico generale walrasiano e,più in generale, al corpo dottrinale neoclassico. Nella sua Genera l Theory (1936)Keynes dimostra scientificamente che un’economia lasciata a sé stessa può «rima-nere in una condizione cronica di attività inferiore al normale per un periodo con-siderevole senza una tendenza decisa verso la ripresa o verso la rovina totale»(Keynes [1936] 2006). Il nesso causale istituito dalla legge di Say (per la quale, alivello aggregato, è l’offerta che «crea» la propria domanda) deve perciò essererovesciato: sono le decisioni di spesa degli agenti economici che generano ladomanda effettiva aggregata e, tramite questa, determinano il reddito aggregato,la produzione reale e l’occupazione. Il problema è che le decisioni di investimen-to (la c.d. «spesa autonoma») dipendono da fattori psicologici imponderabili,quali lo stato d’animo (gli a nima l spirits) degli imprenditori-investitori o la «pre-ferenza per la liquidità» dei mercati finanziari che dovrebbero mettere a disposi-zione le risorse monetarie necessarie per l’acquisto dei beni capitali. Il che, ovvia-mente, rende quanto mai problematico il mantenimento dell’equilibrio ex antefra risparmi e investimenti correnti. Come se non bastasse, una seconda fonte disquilibrio – interna al sistema economico, ma assai discontinua – viene indivi-duata da Schumpeter nell’azione degli imprenditori-innovatori, moderni capitanid’industria alla perenne ricerca di un’opportunità di profitto, ossia di un redditod’impresa positivo (che, invece, è del tutto assente nel modello walrasiano, in cuil’imprenditore non consegue né gua da gno, né perdita ). Il problema del finan-ziamento dei necessari investimenti, oltre l’ammontare disponibile di risparmiocorrente, viene risolto dall’imprenditore schumpeteriano mediante il ricorso alcredito bancario. Le banche, infatti, non svolgono il ruolo di semplici intermedia-

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ri tra risparmiatori e investitori; esse creano liquidità (ossia potere d’acquisto) exnihilo. Non stupisce, quindi, che per Schumpeter il credito rappresenti, assiemeallo spirito borghese d’intrapresa, il vero carburante dello sviluppo economico,inteso come squilibrio positivo del sistema (Schumpeter [1911] 1971).Ma se gli aspetti più innovativi del pensiero di Schumpeter vengono quasi com-pletamente ignorati negli ambienti accademici del dopoguerra, la prontezza e l’ef-ficacia della risposta neoclassica alla grande eresia keynesiana sono impressio-nanti. Il lavoro di riassorbimento della Genera l Theory nell’alveo del pensieroeconomico dominante, inaugurato da Hicks ad appena pochi mesi di distanzadalla pubblicazione dell’opera, occuperà gli economisti ma instrea m per almenouna ventina d’anni, dando origine alla moderna metodologia degli aggregati neo-keynesiana (definita anche, più propriamente, «sintesi neoclassica»). Così, già allametà del secolo, l’ortodossia economica può contare, oltre che sull’eleganza for-male del modello di equilibrio economico generale di Arrow-Debreu-McKenzie esulla semplicità analitica del modello di crescita di Solow-Swan, anche sulla versa-tilità teorica del modello di equilibrio macroeconomico IS-LM di Hicks-Modigliani(Screpanti-Zamagni 2000, pp. 21, 331). Una geometrica potenza analitica che nonconosce precedenti nella storia della scienza economica.Il quarto mutamento nel paradigma dell’economia politica coincide con la pub-blicazione di Produzione di merci a mezzo di merci (1960) di Piero Sraffa. Insole centoventi pagine, per di più estremamente avare di riferimenti, l’economi-sta di Cambridge costruisce un sistema simultaneo di equazioni di prezzo ingrado di dare soluzione al problema distributivo senza ricorrere ad alcuna teoriadel valore. Perchè se la teoria marxista del valore-lavoro è, di per sé, irrileva nteper il calcolo dei prezzi relativi e delle quote distributive, la teoria marginalisticadella distribuzione si mostra affetta da circola rità , potendosi definire il rendi-mento del fattore capitale soltanto previa conoscenza proprio di quei prezzi rela-tivi (dei beni capitali) che si vorrebbero determinare. Affrancato dalla «metafisi-ca del valore», il sistema mostra allora una «ricardiana» relazione inversa che legail saggio di profitto realizzato dai possessori di capitale al salario unitario perce-pito dai lavoratori. Ne deriva l’impossibilità di stabilire un criterio economico chedetermini in modo «oggettivo» o «naturale» la distribuzione del reddito fra i sin-goli attori economici in base alle loro funzioni, ovvero in proporzione al lorodiverso contributo alla produzione (come invece predicato dalla dottrina neo-classica). Piuttosto, fissata esogenamente una variabile distributiva (salario unita-rio oppure saggio di profitto) sulla base dei rispettivi rapporti di forza, l’altraviene determinata in termini residuali simultaneamente ai prezzi. Così, se in filo-sofia il pensiero del Novecento proclama l’indifferenza di tutti i valori, lasciandoall’individuo migliore di porre il va lore delle cose, analogamente il sistema sraf-fiano si affida, per chiudersi, al soprassalto della classe sociale capace di imporreil proprio reddito quale variabile indipendente (Gattei 1994, p. 52). La distribu-zione del reddito tra le classi sociali viene in tal modo ridotta a mera contesaredistributiva, a volontà di potenza e nient’a ltro! Da quanto è stato detto sino ad ora, dovrebbe risultare con chiarezza che lacausa di tutte le svolte nel paradigma della scienza economica va cercata «nellatrasformazione del concreto storico di riferimento, a cui il ‘concreto di pensiero’(per dirla con Marx) non può che adeguarsi» (Gattei 2004, p. 208), generandosistemi teorici e modelli analitici distinti, benché appartenenti allo stesso generepa ra digma tico. Ovviamente, le idee, specie le gra ndi idee, per quanto influen-

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zate dalla visione dell’economista, non possono essere considerate un meroriflesso delle sue convinzioni pre-analitiche. Ma ciò non significa che l’oggetto del-l’indagine non venga suggerito in primo luogo dal contesto storico-sociale – l’a m-biente – in cui egli è inserito e dai problemi che concretamente si pongono. Non sono state, forse, la saturazione dei terreni agricoli inglesi e l’introduzionedelle macchine a stimolare la riflessione sui rendimenti decrescenti della terra esulla disoccupazione tecnologica? E se è solo con la definitiva affermazione dellaborghesia come classe egemone, anche sul piano politico, che l’attenzione deglieconomisti si sposta dalla sfera della produzione a quella dello scambio (in cui fala propria comparsa il moderno consuma tore), non è però soltanto con l’incal-zare della prima Große Depression (1873-1895) del capitalismo mondiale che sirichiede che venga scientificamente provata l’efficienza del mercato nell’alloca-zione delle risorse? Ancora: è con lo sviluppo della produzione di massa e l’e-splosione della crisi del ventinove che si impone la riflessione sulle imperfezionidei mercati e sulla insufficienza della domanda aggregata. Mentre sono il rag-giungimento del tetto del pieno impiego e la conseguente ripresa del conflitto diclasse nel secondo dopoguerra ad accendere il dibattito sulla natura antagonisti-ca della distribuzione del reddito.Al di fuori di questa, pur sintetica, periodizzazione per «svolte nel paradigma»rimane da segnalare la controrivoluzione dei Chica go Boys, estremo (macoerente) punto d’approdo della grande opera di normalizzazione del pensierokeynesiano realizzata nel corso degli anni ‘40 e ‘50. L’ascesa del Moneta rismo diFriedman e Phelps ed il successivo trionfo del Neomoneta rismo di Lucas,Sargent e Wallace, pur essendo espressione di mutamenti rea li intervenuti nelleeconomie occidentali – l’avvio di imponenti processi di ristrutturazione capitali-stica, gli shock petroliferi e la stagflazione degli anni settanta – non possono tut-tavia essere considerati una vera rivoluzione nel paradigma della scienza eco-nomica. Se il primo filone di ricerca rappresenta, per così dire, il «lato cattivo» delsistema teorico neokeynesiano e dei suoi sviluppi successivi, il secondo appare,piuttosto, come un tentativo – peraltro riuscito – di resta ura zione della vecchiabuona dottrina quantitativista della moneta4.Nemmeno il Progra mma di Ricerca Austria co o, la più recente, Public ChoiceSchool hanno prodotto una discontinuità paradigmatica nella storia della scien-za economica. E ciò malgrado entrambi gli approcci mostrino un non trascura-bile margine di alterità teorica rispetto al filone neoclassico più tradizionale.In effetti, se i lavori degli economisti austriaci fino ai primi anni trenta possonoessere considerati alla stregua di una variante dell’ortodossia marginalista deldecennio precedente, a partire da quel periodo i contributi di Mises ed Hayek sipongono l’obiettivo dichiarato di spingere la scuola austriaca in una direzioneaffatto differente. Sebbene quasi completamente ignorati all’epoca, i lavori diquesti due autori hanno così dato origine al reviva l austriaco dell’ultimo quartodi secolo, fondando l’a pproccio neoa ustria co alla comprensione del processoconcorrenziale di mercato. Alla base di questo filone di studi c’è l’idea che lamicroeconomia neoclassica, di cui l’equilibrio economico generale di Walras(nella versione di Arrow-Debreau) rappresenta il core, non sia riuscita a fornireun modello teorico in grado di spiegare ciò che accade realmente nelle econo-mie di mercato. Tale convinzione prende le mosse da due questioni aperte: (a)l’irrilevanza della modellistica neoclassica che considera il mercato in posizionedi equilibrio in ogni istante di tempo; e (b) la fragilità metodologica implicata dal-

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4 Secondo cui, poiché unaumento della basemonetaria deve risolversiin una crescita proporzio-nale del livello dei prezzi,lasciando invariate legrandezze reali (produzio-ne e occupazione), in pre-senza di agenti razionaliqualsiasi sistematica poli-tica monetaria espansiva èdestinata al fallimento.Del resto, siamo nel belmezzo dell’apogeo delneoconservatorismo that-cheriano e reaganiano.Ma non va dimenticatoche è proprio con l’affer-mazione del neomoneta-rismo che ha luogo quellospostamento, anche inambito macroeconomico,dal punto di vista SOFdella tradizione (neo)clas-sica ad un punto di vistapiù tipicamente SOR –implicito, ad esempio,nelle ipotesi di individuorappresentativo caratteriz-zato da aspettative ra-zio-nali e di mercati in equili-brio in ogni istante ditempo.

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l’ipotesi strumentale che il mercato abbia già raggiunto tale posizione di equili-brio. Ciò che occorre è invece una teoria che offra una spiegazione plausibile dicome, a partire da un dato insieme iniziale di condizioni di non-equilibrio, le ten-denze equilibratrici del mercato possano essere messe in moto. Per gli austriacil’avvicinamento all’equilibrio è, infatti, un processo sistematico di apprendimen-to, in cui i partecipanti al mercato acquisiscono progressivamente e reciproca-mente una maggiore conoscenza circa le condizioni di domanda e di offerta. Sitratta, in altri termini, non di negare l’operare della concorrenza in equilibrio(come impongono di fare i modelli neoclassici, caratterizzati da una concorren-za senza… concorrenza); ma, all’opposto, di riformulare tale nozione in modotale da renderla totalmente incompatibile con la categoria di equilibrio (Kirzner1997; [1973] 1997). Mises parla, a questo proposito, di «concorrenza rivale».Invero, tale approccio, che rappresenta tutt’altro che un edificio dottrinariocompatto, si trova oggi di fronte ad un dilemma decisivo: l’adozione del «sog-gettivismo radicale» propugnato dalle nuove generazioni di economisti austriaci,che impone la ricerca di una razionalità scientifica diversa sia dall’apriorismo deivecchi maestri (Menger e, soprattutto, Mises), che dal pur cauto empirismo pop-periano di Hayek, da un lato; oppure l’individuazione di limiti al soggettivismostesso, storico «cavallo di battaglia» della scuola austriaca, dall’altro (Barrotta-Raffaelli 1998). Un’idea, quest’ultima, caldeggiata dagli economisti austriaci, percosì dire, «moderati», tra i quali, in particolare, Israel Kirzner. Il fatto è che le con-tinue estensioni del soggettivismo operate dalla scuola austriaca – pur essendocoerenti con il nucleo originario del suo programma di ricerca – hanno finitocon il mettere in dubbio non solo la possibilità di giungere alla formulazione dileggi economiche rigorose, ma la legittimità stessa di una scienza economica teo-rica , distinta dalla semplice interpreta zione dei fatti economici5.Quanto al filone della public choice di Buchanan e Tullock, l’idea-cardine è chele azioni dello Stato possono essere spiegate come esito del comportamentorazionale di individui che perseguono il loro interesse personale, anziché quellogenerale, in risposta alle regole del gioco politiche (Stiglitz 2003, p. 164).Compito dell’economista è dunque quello di individuare una Costituzione, ossiaun sistema condiviso (dunque ottima le) di regole, che informi anche l’azionedei poteri pubblici alla logica contra ttua lista del mercato. L’intendimento criti-co circa le potenziali implicazioni interventiste dello schema di equilibrio eco-nomico generale è qui evidente: prefigurando un modello concorrenziale ideale(una sorta di «dover essere») a cui la realtà fattuale deve tendere, la teoria neo-classica tradizionale adombra un ruolo attivo dello Stato tutte le volte che il mer-cato si rivela incapace di assicurare un’allocazione Pa reto-efficiente delle risorse6

– al punto che si è soliti parlare, a tal riguardo, di «fallimenti del mercato»7. Mase si accettano i principi dell’individualismo metodologico, secondo cui allasocietà non può essere attribuita alcuna volontà trascendente quella dei singoliindividui, siccome gli individui sono diversi, non esiste alcuna razionalità a prioridel mercato da ripristinare mediante l’intervento dello Stato. Nessun ente colletti-vo è, infatti, legittimato a sottoporre le decisioni autonome del mercato a corre-zioni o limitazioni, né tanto meno a proporre misure efficientistiche che dovreb-bero ispirare l’azione dell’autorità pubblica. Questo perché nessun ente collettivoè in grado di determinare il costo-opportunità (il valore che per il singolo indivi-duo ha l’alternativa a cui egli deve rinunciare) sopportato da ogni agente indivi-duale a seguito delle proprie scelte. Perciò, l’attenzione degli economisti deve

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5 C’è chi ha parlato, conriferimento ai neoaustria-ci, di «nichilismo teorico»(Barrotta-Raffaelli 1998).

6 Un mercato è efficientein senso paretiano se esolo se non è possibile

migliorare la condizionedi alcuno degli operatori

senza peggiorare quella diqualcun altro. Si può

dimostrare che tale defini-zione descrive un merca-to di concorrenza perfet-

ta, in cui ciascuna impresa(price-taker) sa di non

poter influenzare, con ilproprio comportamento,

il prezzo del prodotto (fis-sato al costo marginale).

7 Il punto è che nelmondo concreto la con-

correnza tra le imprese èlimitata da molteplici fat-tori quali la mancanza di

perfetta informazione, l’e-sistenza di monopoli

naturali, la presenza diprotezioni brevettuali, lapossibilità di comporta-

mento collusivo tra leimprese, ecc.

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essere spostata dalla valutazione del fine del processo economico alle moda litàcon cui vengono effettuate le scelte collettive, dove l’unico criterio di valutazioneammesso è quello paretiano, ossia il criterio che regola lo scambio.Anche in questo caso valgono, tuttavia, alcune delle considerazioni già svolte conriferimento agli sviluppi del pensiero austriaco, talché non pare lecito parlare dimetamorfosi nel paradigma della scienza economica. Piuttosto, con la PublicChoice School «la prospettiva metodologica dell’economia austriaca viene este-sa alle attività degli stati, delle burocrazie e dei politici e il fenomeno del falli-mento del governo – l’incapacità del governo di conseguire il bene pubblico –trova una spiegazione» nella scarsa informazione di cui dispone lo Stato in meri-to alle reazioni del settore privato, nella limitata capacità di controllo dell’appa-rato burocratico, ovvero nei vincoli imposti dal processo politico (Gray, 1989, p.77). Come si vede, siamo in presenza di un a ffina mento epistemologico tuttointerno al filone di pensiero neoclassico-austriaco e non di un vero salto para-digmatico (sia pure nel paradigma).

***Stando così le cose, l’ultimo, ancorché controverso, tentativo di produrre unmutamento nel paradigma dell’analisi economica rimane quello, incompiuto, diPiero Sraffa8. Fatto curioso (e significativo) se si pensa che proprio all’economi-sta di Cambridge, già biografo intellettuale di David Ricardo, si deve la dimostra-zione della possibilità di coniugare in modo fecondo analisi economica strictosensu e ricerca d’archivio. A testimonianza del fatto che le «visite in soffitta» pos-sano rivelarsi assai profittevoli, anche sul piano della elaborazione teorica pura . Sempre all’eredità teorica di Sraffa è, del resto, riconducibile quel modo di fareSPE, al tempo stesso, attento «alle sue forme teorematiche» e alle «pressioni deimomenti storici» (Macchioro 2001, p. 525), diffusosi in Italia negli anni settanta,«quando studiare le opere di Keynes o di Ricardo non era considerato specializ-zarsi in SPE ma semplicemente fare buona teoria economica, prevalentemente,ma non sempre, alternativa alla ma instrea m economics» (Rosselli 2005, p. 9). Unmodo di fare SPE, o, meglio, storia dell’a na lisi economica, oggi messo in dis-cussione tanto dalla riforma universitaria, quanto dalle mode a zienda liste chenell’ultimo decennio sembrano aver contagiato studenti e atenei. Ma che anno-vera tra i suoi detrattori una parte non minoritaria degli stessi storici del pensie-ro economico, magari di prima o di seconda generazione. Per questi ultimi, la SPE dovrebbe tendere ad un affinamento degli strumenti diricerca storiografica propriamente detti, senza curarsi troppo degli aspetti squi-sitamente analitici. L’approccio di storia dell’a na lisi economica, specie se adot-tato e praticato da economisti, ancor più se eterodossi, sarebbe invece «troppo“whig”, troppo influenzato dalla necessità di dimostrare la validità di una teoriaeconomica a scapito di altre» (Rosselli 2005, p. 3). La SPE potrebbe allora abban-donare senza troppi rimpianti i dipartimenti di scienze economiche per trovareuna diversa, ma più consona, collocazione in quelli di storia, filosofia o giuri-sprudenza (Rosselli 2005, p. 3), sancendo formalmente il definitivo ritorno deglieconomisti-storici al grembo materno.E, in effetti, se è vero che con la riforma «del 3+2» gli storici del pensiero eco-nomico, come, del resto, gli economisti hanno quasi ovunque perso, «hannoperso ancora di più gli economisti eterodossi-storici» (Rosselli 2005, p. 10), datoche si sono ridotti gli spazi della SPE proprio come ambito di formazione deifuturi docenti e ricercatori di discipline economiche. Viene da chiedersi come si

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8 Dietro il cui apparenteformalismo matematico,si celano processi storicireali, economicamente epoliticamente significanti.Va, peraltro, rilevato chealla momentanea impassedella teoria economicaneoclassica prodotta dallacritica sraffiana (per le sueimplicazioni distributive,ma anche per l’emergeredel fenomeno del c.d.«ritorno delle tecniche»,che spezza il nesso tral’intensità capitalisticadella produzione ed ilrapporto tra saggio diinteresse e salario unita-rio), non ha fatto seguitoalcuna corrispondentenuova «situazione classi-ca», secondo la nota defi-nizione di Schumpeter.

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Marco Passarella Per una storia analitica dell’economia politica

possa diventare buoni economisti, sia pure economisti teorici, senza uno studioapprofondito delle diverse strade seguite dalla scienza economica (che, specienegli ultimi trent’anni, hanno portato a tentativi di sintesi alternativi, nessuno deiquali veramente egemone sul piano della teoria positiva ), della loro storia e deiloro presupposti ideologici (le Welta nscha uungen, direbbe Wilhem Dilthey).Né, d’altronde, pare possibile fare buona SPE senza un’adeguata padronanzadegli strumenti analitici (la «cassetta degli attrezzi» di cui parlavano la Robinsone Schumpeter) ed una chiara percezione dei fondamenti pre-analitici dell’eco-nomia teorica. Ma tant’è: prima di avere il tempo di porsi tali quesiti, lo studen-te di discipline economiche – verrebbe da dire, parafrasando un celebre passodi Joan Robinson – sarà «già diventato professore e così abiti mentali frusti sonotramandati da una generazione all’altra» (Harcourt 1973, p. 17).Il rischio è duplice: da un lato, quello di vedere ridotta la SPE a mero eserciziostoriografico, tanto più virtuoso, quanto più distaccato (e dunque quanto piùlontano nel tempo e nello spa zio) dall’«oggetto» d’indagine; dall’altro, che nellefacoltà di economia, accanto ai «famigerati» corsi di Management, trovino postosolo la Microeconomia manualistica, una Macroeconomia rigorosamente micro-fonda ta e l’Econometria. Discipline che contribuiscono «a dare alla scienza eco-nomica l’immagine di una scienza naturale, e non di una scienza sociale»(Longobardi-Lucarelli 2006, p. 5), politicamente significante. Né il fatto che glistudenti affollino i corsi aziendali mentre rifuggono da quelli di Teoria economi-ca (Rosselli 2005, p. 10), inducendo una riduzione nel grado di ma tema ticizza -zione della disciplina (connessa anche alla diminuzione nel numero delle relati-ve ore di insegnamento), può essere considerato di buon auspicio. Tale feno-meno, infatti, non potrà che portare ad un restringimento degli spazi, già angu-sti, riservati alla decostruzione critica di categorie e strumenti d’analisi dellascienza economica ufficiale. Con un ulteriore assottigliamento dei margini dis-ponibili per lo studio degli approcci teorici eterodossi, come il filone di analisineoricardiano o gli altri indirizzi di ricerca postkeynesiani (per non parlare del-l’approccio classico-marxista, già da tempo bandito dalle Facoltà di Economia).Invero, nella storia della scienza economica, a differenza di quanto accade in altriambiti di ricerca, non è possibile individuare uno sviluppo teorico unidireziona-le e progressivo, in cui l’ultimo anello della catena della Conoscenza contiene insé tutti i contributi precedenti. Detto in altri termini, la teoria economica cheassurga allo status di dottrina egemone nell’ambito della comunità accademicanon può considerarsi, per ciò stesso, anche la (o l’unica ) teoria «vera» o «giu-sta». Non pare, dunque, condivisibile la posizione di chi ritiene che approcci teo-rici alternativi a quello (ora) dominante debbano essere relegati nelle soffittedella scienza economica, archiviati come «irrilevanti» o «superati». Perché, se èvero che una teoria economica è sempre, in ultima istanza, una forma di a uto-ra ppresenta zione della società, quest’ultima non è un monolite, ma l’espressio-ne composita di gruppi o cla ssi di individui portatori di interessi pa rticola ri e,sovente, conflittua li.Tutto ciò non implica, ovviamente, che non si dia (o che non sia possibile indi-viduare) una qualche forma di progresso scientifico all’interno di una singolascuola o di un dato programma di ricerca; né, tanto meno, che si debba rinuncia-re alla verifica della robustezza e della coerenza logico-formale di ogni teoria eco-nomica (sia essa ortodossa o eterodossa, espressa in forma discorsiva o formaliz-zata, nuova o antica). Ma è, nondimeno, doveroso ricordare che la classe sociale

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di volta in volta dominante, benché giudice esigente della produzione scientifica,non è, in genere, anche un giudice imparziale. Che, insomma, benché in econo-mia consistenza e robustezza di un sistema teorico costituiscano ceteris pa ribusimportanti condizioni interne per la sua affermazione, più importante è la capa-cità del sistema di rispondere al desiderio di autorappresentazione del bloccosociale che lo ha adottato (condizioni esterne). Perché «quando la società ha biso-gno di una teoria generale organica e ortodossa, la trova. ... E quando il mercatonon offre un gran che, si prende quello che c’è anche al prezzo del sincretismo edella debolezza analitica» (Screpanti-Zamagni 2000, p. 30; anche p. 27).Malgrado ciò, lo spazio per l’analisi dei filoni di studi considerati eterodossi (cheda sempre accompagnano la storia della scienza economica, costituendo, talvol-ta, un’anticipazione dei suoi sviluppi futuri) subisce da tempo una progressivaerosione9 e con esso si riduce la possibilità di fare SPE come critica delle teorieeconomiche (passate e presenti) e, al contempo, come teoria economica criti-ca . Il che appare tanto più paradossale se si considera la crisi in cui versa, alme-no sul versante della teoria positiva, il tradizionale paradigma neoclassico. Ineffetti, se di ma instrea m economics si può ancora parlare, ciò è reso possibileunicamente dalla convergenza della grande maggioranza della comunità accade-mica sugli aspetti squisitamente norma tivi della teoria economica in chiave mer-ca tista (neoliberista , socia l-liberista o liberista tout court). È, in altri termini,l’adesione ad un, più o meno, temperato la issez fa ire in politica economica, l’u-nico vero collante di approcci teorici altrimenti assai differenti, quando non aper-tamente contrapposti. Basti pensare alla notevole distanza che si frappone, sulpiano dell’analisi positiva, fra «mostri sacri» dell’economica del Novecento qualiHayek, Friedman o Samuelson.Ma se questo è il quadro, assai poco incoraggiante, che storici ed economisti cri-tici si trovano a fronteggiare, si fa ancora più pressante l’esigenza di recuperareuno spazio adeguato per la SPE intesa come decostruzione critica e ricostru-zione dia cronica di forme a na litiche differenti, perché storica mente determi-na te, di uno stesso pa ra digma epistemologico10. Una storia analitica dell’econo-mia politica che eviti, al contempo, sia gli abbagli del continuismo a ssolutista ,magari nella forma del «precursorismo» per cui tutto è già stato detto e la storiaè ridotta ad eterno ritorno dell’identico11; sia le insidie, non meno perniciose,del relativismo o, meglio, dell’a na rchismo metodologico, che, al contrario,postula l’incommensura bilità di sistemi analitici elaborati in momenti storici dif-ferenti (Feyerabend [1975] 1991; per una posizione opposta, si veda Blaug[1968] 1970, pp. 20-21).È per questo che alla necessità di evitare chiusure settarie della disciplina – ritro-vando un dialogo aperto con la storia, la filosofia della scienza e le altre scienzesociali – deve corrispondere un a ffinamento della strumentazione logico-mate-matica dei suoi studiosi. Con l’avvertenza che si tratta pur sempre di storia dell’a-nalisi, in cui la ricostruzione rigorosa delle forme analitiche deve essere, infine,ricondotta alla determinazione dei processi rea li che ne hanno visto la nascita, ladiffusione, la caduta e, magari, la successiva riscoperta. Perché se lo studioso chesa di teoria può talvolta essere tentato di sostituire elenchi diligenti di nomi, datee titoli di opere, con riletture ana litiche, più o meno fedeli, di un pensiero altri-menti assai frammentato, compito precipuo dell’economista -storico è, nondime-no, quello di fornire «un senso e una direzione» al tutto (Fusco 1996).Solo così, la SPE – intesa, appunto, come storia analitica dell’economia politica

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9 Come dimostrano lepreoccupazioni manifesta-te di recente da Pasinettiin merito all’indagine con-dotta dal C.i.v.r. sullostato della ricerca italiana(cfr. VTR 2001-2003.Risultati delle valutazionidei Panel di Area, gennaio2006).

10 Il che non significa affat-to che l’esposizione dia-cronica agli studenti, persuccessive scuole di pen-siero, sia «il modo miglio-re o l’unico» di insegnareSPE. In effetti, sovente «èmolto utile e cattura l’at-tenzione prendere unproblema particolare (ladefinizione di disoccupa-zione, la teoria quantitati-va della moneta, il concet-to di equilibrio) e farvedere come un concetto,che è stato presentatocome self-evident, inveceab-bia alle spalle unalunga storia e molte con-troversie» (Rosselli 2005,p. 12).

11 Oppure nella forma del-l’incrementalismo, cheassimila il progressoscientifico «all’accresci-mento di una palla dineve che scorresse per lachina di un monte, racco-gliendo dell’altra neve edi cui la superficie rappre-senterebbe l’ignoto»(Pantaleoni 1910, p. 4).

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– può pensare di riguadagnare un ruolo di primo piano nell’ambito del mondoaccademico italiano. Ma, soprattutto, può tornare a rappresentare il terreno sulquale, per dirlo à la Schumpeter, possono essere svelati e sottoposti a critica ipresupposti ideologici delle teorie economiche. A partire, ovviamente, dall’a r-ché metafisico delle dottrine economiche di volta in volta dominanti.

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“Qua le chimera è dunque l’uomo? Qua le novità , qua le mostro, qua le caos,qua le soggetto di contraddizioni, qua le prodigio! Giudice di tutte le cose, stupi-do verme della terra ; deposita rio del vero, cloaca di incertezza e d’errore; glo-ria e feccia dell’universo. Chi sbroglierà questo ingarbugliamento?” (B. Pascal)

1. Riaprirsi all’interrogazione

Il più esplicito e profondo significato di un testo è racchiuso nella citazione scel-ta dall’autore all’inizio dell’epigrafe.Ed è con questa incisiva citazione di Blaise Pascal che Edgar Morin apre ilPrologo al I tomo del V volume de La Méthode, dal titolo L’identità uma na . Unpensiero articolato in una lunga e complessa doma nda rivolta all’uomo dall’uo-mo. Il carattere metafisico dell’interrogazione consente all’uomo-filosofo fran-cese di fare affermazioni che suonano come a ttribuzioni, creando una relazioneidentitaria tra Ente interrogante ed Ente interrogato. A colpire è la severità delgiudizio, così tagliente, ambiguo, sprezzante, irrevocabile dal quale emerge l’im-magine di un Ente soggetto-oggetto dai contorni sfocati, indefinibili e contrad-dittori, contemporaneamente denigrato ed esaltato, prima eretto a giudice ditutto e poi precipitato al rango di cloaca. Il linguaggio svela la polimorficità diun Ente che ha il carattere del mistero, della mostruosità e del prodigio insieme;del caos, dell’errore e della verità, della forza e della fragilità allo stesso tempo. Un’identità multipla efficacemente espressa che lascia inalterato nel tempo l’in-terrogativo antropo-filosofico e irrisolto il mistero della condizione uma na . Cosìcome permane la forza prorompente evocata dall’angosciante domanda: Chi,cioè quale uomo, sbroglierà questo inga rbuglia mento? Un interrogativo che ci pone di fronte ad una metariflessione critica sulla storiaevolutiva della nostra specie, sulle nostre narrazioni, sui modi di svelarci e diautorappresentarci. Interrogativo che ci impone di rimetterci in gioco, didestrutturarci e di ripensare la nostra attuale idea di uomo e di uma nità , percercare di creare nuove condizioni di pensabilità e soluzioni di vivibilità più per-tinenti. Nell’era dell’esplorazione dello spazio e del tempo profondi della nostraglobalizzazione, si avverte ineludibile e cogente il bisogno di reinterroga re que-sta antica o recente nozione di uomo inserendo la nostra evoluzione storica

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Santa De Siena

Cosmosofia

Borderline

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(siamo apparsi come umanità sul pianeta da appena un milione di anni) nella piùampia e complessa storia na tura le. La cui storia conosciuta copre pochemigliaia di anni, un intervallo di tempo molto trascurabile, rispetto al tempo pro-fondo della storia biologica della Terra.Per riesaminare, in modo altrettanto profondo, gli esiti, i prodigi, le mostruosi-

tà e gli errori che – nel bene e nel male – hanno segnato la nostra avventuracognitiva. Interrogandoci sulle scelte e creazioni che hanno reso possibile lamolteplicità di storie, evoluzioni, coevoluzioni e biforca zioni e che dentro lanostra storia si sono intessute e intrecciate con quelle degli altri esseri, per svi-luppare nuclei percettivi capaci di generare una molteplicità di eventi di tra -sforma zione attraverso i quali delineare nuove possibilità di scelta, nuove na r-ra zioni e nuove interpreta zioni. E scoprire anche se effettivamente la storia siaandata proprio come noi l’abbiamo narrata o se invece altre a noi sconosciutecontingenze, migrazioni e derive l’hanno segnata. Se la storia na tura le della glo-ba lizza zione della specie umana, iniziata da alcuni cespugli di “ominidi” e pro-seguita con una specie “esploratrice” chiamata Homo sa piens (Pievani 2002),1 sisia sviluppata proprio come la vulgata evoluzionista l’ha raccontata oppure se,invece, sia andata diversamente da come speravamo e abbiamo creduto chefosse. In un certo qual modo la storia umana è assimilabile alla storia del cosmo:un torrente tumultuoso di crea zioni e di distruzioni, in un miscuglio di ra zio-na lità organizza trice, di rumore e furore e di strabilianti atrocità e barbarie.Questa sublime e terribile identità è incisa in noi come in una sorta di memoria ere-dita ria , come se il cosmo ci avesse creati a sua immagine (Morin 2002, 433-435)2.Per cui più che una storia eroica di conquiste, sostiene Telmo Pievani, si potràscoprire che la nostra è un “tessuto di fili sottilissimi e multicolori, come unatra ma di interdipendenze ina spetta te, di rela zioni sconosciute, di ra diciintreccia te”. Una storia che sarà comunque incompiuta , come incompiuto è ildestino della nostra specie (Pievani 2002, 25)3. Un antico poeta persiano ha para-gonato la storia dell’universo ad un gra nde ma noscritto del quale la prima e l’ul-tima pagina sono andate perdute. Questa suggestiva ipotesi corrobora la tesi che la complessità non è un artificiointellettuale, ma una emergenza che nasce dallo sviluppo delle scienze evolu-zionistiche, della scienze della mente, della genetica e dalla microbiologia, i cuirisultati si intrecciano con le esplorazioni del tempo e dello spa zio profondi chela nuova cosmologia sta effettuando in modo interdisciplinare con l’ecologia,l’archeologia e la paleontologia. Sguardi inediti che impongono approcci nuoviallo studio della fisica, della biologia, delle scienze della vita ma che permettonodi scrutare e raccontare nuovi scenari di esistenze ignote o estinte, oppure pre-dittive di a ltre ancora possibili. La complessità delle problematiche esige la com-plessifica zione delle epistemologie e richiede l’abbandono delle consolanti logi-che di semplificazione e riduzione, come anche illusori piani armonici e leggi diuniformità che la tradizione classica ha proposto, per attivare, invece, procedureinvestigative capaci di crea re linguaggi, di rigenera re domande e di reinterro-ga re risposte, evitando come suggerisce Romain Gary, di ridurre l’uma no a ll’u-ma no. Pertanto, una prospettiva evoluzionistica che voglia essere veramente non ridu-zionista e non disgiuntiva ma multidimensiona le e complessa non può restrin-gersi alla sola dimensione umana, ma deve estendere il suo sguardo all’interola bora torio terrestre. A questo nostro pianeta, nostro nel senso proprio dell’ap-

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1 T. PIEVANI, Homosapiens ed altre catastrofi,Meltemi, Roma 2002.

2 E.MORIN, La Méthode5. L'Humanité del'Humanité. Tomo I:L'identité humaine,Editions du Seuil, Paris2001; trad.it.: L'identitàumana, Cortina, Milano2002, pp 433, 435.

3 T. PIEVANI, Homosapiens ed altre catastrofi,cit. p.25.

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partenenza e del possesso, di questo sterminato cantiere vivente dove si crea esi distrugge incessantemente la vita, nel quale nel tempo e nello spazio, si sonomanifestate le costa nti e le va rietà uma ne – individua li, cultura li, socia li. Dalquale pluriverso nessuna varietà può essere esclusa o subordinata in quantotutte le va rietà sono significa tive e tutte le costa nti sono fonda menta li. (Morin2022, 58-60)4.R. Rorty sostiene che la filosofia non è lo specchio della na tura , che cioè non cisia una necessaria corrispondenza tra logica e realtà. Non è infatti la specula ritàa tracciare la filosofia ecologica di Edgar Morin, quanto piuttosto il dia logo pos-sibile fra le forme della vita e le forme del pensiero. Soltanto la sua dia logica ,espressione di una razionalità complessa, evolutiva ed ecologica è in grado didelineare (non di definire) la portata creativa della diversità vivente. Gettando losguardo binocula re la prospettiva evoluzionistica offre pieno diritto di cittadi-nanza al plura lismo e alla diversità , e può mostrare, così, come la varietà, l’ete-rogeneità delle forme sia generativa sia della razionalità che della vita. E senzacedere a facili suggestioni, occorre comprendere come spesso l’una non sia ridu-cibile all’altra e viceversa. Si tratta di due storie complementari e parallele, quelledelle idee e dei saperi e quella della realtà fenomenica, entrambe ricche e affasci-nanti, che spesso si sono incontrate e intrecciate, costellate da significative corri-spondenze, rotture, discontinuità, contingenze, biforcazioni, derive e ibridazioni. Senza voler mettere sotto accusa le passate tradizioni o rifiutare l’innegabile pro-gresso che i differenti approcci delle diverse tradizioni del passato hanno elabo-rato, si può ragionevolmente ritenere che la tendenza a prediligere culturalmen-te lo schema che associa un modello matematico ad una verifica sperimentale ea far corrispondere l’universo alle forme di conoscenza elaborate dall’umanità, èstato predominante ed ha avuto storicamente la sua efficacia. Tuttavia è impor-tante sottolineare come molte prospettive si siano rivelate, di fronte alla com-plessità, estremamente riduzioniste e che oltre al formalismo matematico altrischemi sono logicamente possibili e utilizzabili (Ekeland 1991, 58-60)5. Cosìcome si può ormai assumere definitivamente l’idea che l’acquisizione delleconoscenze della specie umana non procede per accumulazioni, non è cioèa dditiva , come si è ritenuto fino a pochi decenni fa, ma è piuttosto moltiplica -tiva ; e che percepire la dimensione dell’incertezza nelle conoscenze non puòvoler dire accrescere il disagio o lo scoramento, ma sviluppare il nostro deside-rio di ri-pensa re e di ri-vivere l’esperienza cosmologica di disgregazione e fram-mentazione del cosmo che ha segnato la modernità. Anche se la nostra espe-rienza è resa ancora più drammatica e intensa dal fatto che oggi abbiamo sottogli occhi la tra iettoria di sviluppo, siamo cioè più consapevoli delle scelte, delleconquiste, e anche dei fallimenti pensati e prodotti dalle ricerche scientifiche edalle riflessioni filosofiche. Assumere l’idea che nuove biforca zioni e possibilità crea tive dell’umanità con-temporanea sono ancora possibili, ma che esse dipenderanno in modo decisivodalle nostre capacità di ascolto e dalla capacità di creare nuovi modelli che noncontrappongano più verità ed errore, mente e natura (Bateson 1984) 6, filosofiae scienza, mente e corpo, per percepirci, invece, in un’unica biosfera dinamica.

Si delinea la possibile emergenza di una nuova coerenza , di un nuovo sta todi sta bilità rela tiva della civiltà uma na : interconnesso a quelli a ntecedenti,ma non loro culmine e completa mento inevita bile e necessa rio. Dopo la sta -

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4 E. MORIN, La Methode5, Prologo, cit. p. XVIII.

5 Cfr. I. EKELAND, A caso.La sorte, la scienza e il

mondo, trad. it., BollatiBoringhieri, Torino 1991,

pp 58-60.

6 G. BATESON, in Mindand the Nature, A

Necessary Unity, 1979,(trad. it.: Mente e Natura,Adelphi, Milano 1984) ci

insegna che evoluzione eapprendimento sono due

sistemi profondamentesimili, che occorre esplo-rare congiuntamente perricomporre la frattura tra

Mente e Natura che lamodernità ha creato.

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bilità delle civiltà a rca iche rela tiva mente isola te e sepa ra te l’una da ll’a ltra ,dopo il furore provoca to da l conta tto e da l conflitto fra le civiltà storiche, sa ràpossibile l’emergere di una nuova civiltà pla neta ria in cui il bila ncio penda afa vore della plura lità piuttosto che della omogeneità , a fa vore della crea zionepiuttosto che a fa vore dell’elimina zione di ciò che è considera to <<supera -to>>, a fa vore della sperimenta zione e della diversifica zione piuttosto chedella sta nda rdizza zione? (Ceruti 1995, 86)7

Essere al plurale

È noto come già Heidegger si sia posto oltre il pensiero meta fisico oblia ntel’Essere, riproponendo l’interrogativo ontologico a partire dal punto in cui loaveva volutamente tralasciato Kant, ritenendolo un percorso impraticabile attra-verso la via metafisica. Il pensiero ecologico di Morin, a differenza di Heidegger,riprende il discorso scegliendo un sentiero che è contemporaneamente feno-menologico ed epistemologico, filosofico e poetico. Un itinerario inesplorato daKant, e da Hegel, e neppure da Marx ed Husserl, con il quale egli ridelinea, allaluce dei risultati dei nuovi saperi e delle rivoluzioni scientifiche contemporanee,una ri-organizzazione scientifico-filosofica ed ontologica del sapere, non soltan-to dell’Essere e del vivente, ma anche della metafisica e della razionalità umana,liberate dalla artificiosa polarità uma nistica e scientifica . Egli ha sottoposto arevisione critica la ra ziona lità nella molteplicità delle sue forme, comprese quel-le del delirio ra ziona lizza nte, per giungere non ad una sua nichilistica demo-lizione, ma al suo oltrepa ssa mento. Dove l’oltre non è inteso come il semplicesuperamento dialettico del ra ziona le e dell’irra ziona le, nell’ottica di una logi-ca superiorità progressiva ed infinita. Ma, al contrario, dove l’oltre è l’a ltro, cioèle differenti forme in cui la razionalità umana può manifestarsi; è la possibilità diesplorare le differenze di una ra gione multipla che le include in sé.Una ra ziona lità a perta che si lascia pervadere e contaminare dai dubbi e dalleincertezze senza lasciarsi sopraffare, ma che nel dubbio e con il dubbio, invece,si arricchisce, rafforza, rianima e rivitalizza e, nello stesso tempo, si rende piùcomplessa , incerta , preca ria , contingente (Morin 1983; 1984)8. Morin sferra ilcolpo di grazia ad una ragione, la cui integrità è stata compromessa nell’orgoglioe nella presunzione della sua unicità , a ssolutezza e universa lità (Gargani1979).9

Un processo già avvertito da Nietzsche e Heidegger e che con J. F. Lyotard ponele premesse di un post-modernismo aperto a nuove possibilità evolutive (Rorty1990)10. Proprio attivando il gioco delle decostruzioni e ri-costruzioni la ra gionea perta di Morin ha risemantizzato una nuova epistemologia di ricerca, ridise-gnato nuovi scenari di senso, imprimendo così una svolta ra dica le ad un antro-pocentrismo ed etnocentrismo ingenui, fondati sul modello gra dua lista che l’e-voluzionismo darwiniano, con la sua fiducia in un inarrestabile progresso, aveva-no prefigurato. Creando nuove meta fore evolutive basate sulla rela zione e sullareciprocità , ha messo in scacco le meta fore mecca nicistiche e riduzionistichebasate sulla sepa ra zione e sull’unicità dei sistemi, con le quali si è costruitaun’immagine sociale della natura dopo aver costruito un’immagine della societàcome macchina. Per Heidegger solo l’uomo è un ente singola re, che ha la possibilità di esserediverso da ciò che è, mentre gli altri enti, come gli animali, vegetali, cose, sono

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7 M. CERUTI, Evoluzionesenza fondamenti,Laterza, Bari-Roma, 1995,p. 86.

8 Cfr. E. MORIN, La ragio-ne eretica, in<<Quaderni razionali-sti>> 2/3, 1983; eE.MORIN, La ragione e leragioni, La ragione dera-zionalizzata, in <<Letterainternazionale>>1, 1984.

9 Cfr. AA.VV., La crisi dellaragione, a cura di A.Gargani, Einaudi, Torino1979.

10 Cfr. R. RORTY, La filoso-fia dopo la filosofia, trad.it., Laterza, Roma-Bari1990.

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sempre ta li a come sono. Oltre ad essere singola re e ad avere possibilità di pro-getta rsi il proprio modo di essere, l’uomo è anche sempre in gioco, ed ha l’op-portunità di giocare con se stesso e con il proprio destino. Potendo autopro-gettarsi, solo dell’uomo può dirsi che ha <<esistenza>>, che ex-siste ed è per-ciò esposto alla possibilità di realizzarsi a utentica mente o di perdersi nell’ina u-tenticità . Tutta la struttura fondamentale dell’Esserci è caratterizzata da questaesistenza assolutamente singolare data dal suo essere-nel-mondo. Solo l’uomo,che non è dentro il mondo, ma ex-siste, ha molti modi possibili di essere-nel-mondo. L’Essere heideggeriano si autoprogetta ed è dominato dalla Cura (conla C maiuscola), può estendere il suo orizzonte di vita e utilizza re ciò che incon-tra e, secondo la struttura dell’essere-nel-mondo, avere una duplice possibilità:quella di perdere ciò che ha di più proprio e cadere nell’anonimato, oppurea ver-cura di sé e degli a ltri, intendendo qui per altri gli a ltri uomini.Non c’è alcun dubbio circa la carica problematica nei confronti della soggettivitàespressa dal pensiero di Heidegger; come resta indiscusso il suo colpo di forzaermeneutica e la validità delineata dalla situa zione emotiva e dalla comprensio-ne con le quali si realizza l’Esser-ci umano. Prospettiva che ha aperto la strada almulticultura lismo e all’idea di una etnicità terrestre. È però possibile interrogarci sui limiti di una prospettiva esclusivamente a ntro-pocentrica per riavviare la macchina riflessiva proprio su ciò che appare piùscontato. Rivendicando proprio ciò che Heidegger ci ha insegnato ossia il dirittoall’interrogazione, intesa sia come ri-flessione, sia come media zione. Per esempio, siamo proprio certi che sia solo l’uomo ad esistere? Certamente èil solo che può porsi gli interrogativi sul suo destino e, trascendendo se stesso,autoprogettarsi. Ed è, per quanto sappiamo, il solo che può coniugare i verbi alfuturo, ma non il solo ad anticiparlo al presente. Nella temporaneità, infatti, ognisingolo si vive il proprio presente nella assoluta certezza dell’incertezza deldomani. Sappiamo però che in ogni essere vivente, dotato di sistema nervoso, sisviluppano strategie cognitive, volitive e comportamentali con le quali è costan-temente messo in gioco il proprio destino (Morin 1988, 41).11

È possibile domandarci, inoltre, quale sia stata, e quale è, la relazione tra il mododi essere-nel-mondo proprio dell’uomo e quello degli altri esseri o enti?Dall’ultimazione di Sein und Zeit nel 1927 a oggi è possibile riflettere sulle scel-te a nticipa trici della morte che l’angosciata umanità ha fatto nel corso di que-sto tempo? Possiamo ripensare se sia sempre e solo l’uomo a giocare con il pro-prio destino o se, con il suo agire egli non definisca i confini delle scelte anchedei e per gli altri sistemi viventi, mettendo in gioco lo stesso destino del mondo.Interrogandoci se davanti agli effetti provocati dall’impronta ecologica umana ealla portata catastrofica delle emergenze ambientali cui assistiamo sia sempremaiuscola la C della Cura che domina il nostro orizzonte di senso. E ancora,nella società delle interdipendenze sistemiche, dell’informazione e della comu-nicazione mediatizzata, del consumismo planetarizzato e della globalizzazioneeconomica, chiederci quale sia lo spazio della scelta e in che modo si possaancora pensare l’a utenticità .Domandarci se la comprensione emotiva mente situata possa generare a uto-comprensione o se nel frattempo non si sia totalmente smarrito il senso stessodel vivere, teso solo al hic et nunc di ciascuno e che ciò può accadere sia nelcuore delle grandi metropoli che nei ghetti delle periferie o delle bidonvilles; senon si riesca a dare conto dei perché di un unico e devastante modello di svi-

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11 E. MORIN,La MèthodeII, La vie de la vie,

Editions du Seuil, Paris1980; trad. it. Il pensieroecologico, (parte prima),Hopefulmonster, Firenze

1988, p. 41. Ogni voltache valuta una scelta, chesia quella della via di fuga,

della ricerca del cibo odella socialità, l’ente ani-male, sia esso un gatto ouna lepre, mette in atto

una strategia cognitiva didifesa o d’attacco ed

effettua un’attività di cogi-to/computo che compor-

ta in sé la possibilità divita o di morte. La più

semplice competizioneche si istituisce tra un

predatore e una predamette in gioco un sistemadi eco-comunicazione fra

individualità intelligenti inmodo tale da ottenere il

maggior numero di infor-mazioni relative al pro-

prio nemico, eliminandoil rumore, e nello stesso

tempo ingannandolo conazioni di distrazione e di

disturbo. Un doppiogioco antagonistico che

sviluppa intelligenza,astuzia, decifrazione,

decriptazione, investiga-zione, ipotesi e strategia.

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luppo e della necessità della crescita economica ad ogni costo; se il senso delnulla non sia proiettato ed esteso al tutto e, dentro questo tutto anch’esso nul-lifica to, l’individuo non riesca ad aprirsi un varco che non è più solo a pertura ,possibilità , ma spesso diventa soltanto vincolo, limita zione, condiziona mento. Pur volendo considerare questo il nostro destino, la nostra condizione ontolo-gica, che cosa accadrebbe se quel tutto indecifrabile, di cui non si possono nédire né pensare i confini, ma che si associa al principio di sopravvivenza del a dogni costo, si riducesse e fosse rapportato alla sola propria individuale egoisticatemporalità e, dunque, al breve spazio di vita di ciascuno? Se il rapporto con lamorte diventasse solo quello della mia morte e la mia contingenza mi impedis-se di aver cura degli a ltri? Heidegger giustamente riteneva che l’essere-per-la -morte aprisse all’autoproget-tazione, ma la complessità ci insegna l’ambivalenza cui ogni nozione si presta, leambiguità interpretative implicite nelle decisioni, ognuna delle quali sarà ritenu-ta per sé autentica. E ciò vale sia quando si ha l’ambizione di progettare unanuova arma letale o una nuova centrale nucleare, sia quando ci si batte per ladifesa dei diritti.E infine, fino a che punto la voce della coscienza può richiamarci alla moralità ealla decisione anticipatrice della morte se la morte in questione è la morte ter-mica ? Un sapere questo che apre a nuove consapevolezze e nel contempo anuovi conflitti etici. Perché è fuori di dubbio che se c’è morte nel cosmo, nonpossiamo sfuggire a questa morte e la morte non è solo “una fa ta lità del nostrodestino biologico, è a nche una fa ta lità ultima del nostro destino fisico” (Morin2002, 7).12

3. Essere è comunità

La modernità rappresenta per molti versi l’atto di nascita dell’individua lismo;storicamente è il momento nel quale l’individuo si è svincolato dal debito che lolegava agli uomini in un rapporto di reciprocità. Si è così rotta o interrotta l’am-bivalenza implicita nel concetto di munus che è sì dono, ma anche obbligo,beneficio, prestazione. È lo spazio sociale descritto e prescritto da Hobbes cheda un lato ha liberato, emancipato il singolo da ciò che ne minacciava l’identità,ma dall’altra lo ha separato, atomizzato, scindendolo dagli altri. Questa rotturanon lascia posto ad alcun debito di riconoscenza verso nessuno, neppure versola natura, tranne che nei confronti dello Stato, che di per sé ha il carattere del-l’astrattezza e della neutralità, ma che poco incide sull’etica comportamentaledell’individuo e delle sue possibilità. Da quel momento nessun argine pareopporsi alla mente onnipotente e alla ragione strumentale di quell’essere chesolo una piccola variazione del corredo genetico (Pievani, 1998, 88-89)13 ha resoegemone, che afferra e prende tutto ciò che ritiene utile attraverso l’estensionedelle sue capacità teoriche, applicando con sistematica precisione la sua etica dicontrollo e di dominio. Al contrario di quanto afferma l’etica cristiana, il prendere pa rte è inteso comeun a ppropria rsi, un fa r proprio. Non a caso Hobbes teorizza la società ca initi-ca nella quale ciò che gli uomini hanno in comune è soltanto la loro uccidibili-tà genera lizza ta , ossia la capacità di uccidere e di essere uccisi (Esposito 1998,XXV).14 Sostenendo che la communita s si porta dentro un dono di morte, il filo-sofo del Leviatano riteneva di poterla mettere in discussione contestandone i

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12 E. MORIN, La Methode5, cit., p. 7.

13 Cfr.T. PIEVANI, Lemolte nascite dell’umani-tà, in M. CALLARI-GALLI,M. CERUTI-T. PIEVANI,Pensare la diversità,Meltemi, Roma 1998, p.88-89.

14 Cfr. R. ESPOSITO,Communitas. Origine edestino della comunità,Einaudi, Torino 1998,p.XXV.

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fondamenti. Purtroppo, non soltanto in quello sta to di na tura l’essere umanoha generato a ltri destini di morte, ma anche in quello socia le, in quanto,ampliando le possibilità della vita ha anche ampliato le possibilità della morte, lecui cause non sono più legate a quelle originarie, ma sono il frutto delle scelte edelle interazioni sistemiche prodotte. Non risparmiando nessuna critica alla modernità, Vandana Shiva ritiene che biso-gna andare alle radici proprio di quel pensiero per capire l’ideologia che ha san-cito il saccheggio della natura e della Madre-Terra; rileggendo le pagine dellaNuova Atla ntide di F. Bacone, ad esempio, si possono scorgere le anticipazionidi quelle biotecnologie che stanno oggi sconvolgendo i naturali cicli biologici(Shiva 2002)15. L’idea di un comune destino di morte è da sempre presente nella coscienza e nelpensiero filosofico occidentale. Una volta na ti, affermava Eraclito, voglionovivere ed a vere destino di morte, e la scia no figli perché nuove morti si generi-no. (Eraclito, f. 22 B 20)16 Nel descrivere la condizione umana, più che conside-rare un male la nascita, il filosofo di Efeso, pare riferirsi alla tensione e all’unitàdegli opposti, di un destino umano che è di morte-riproduzione-morte degliindividui, la cui successione soltanto sancisce la permanenza della specie. Nella stessa cornice di morte-rinascita Morin parla di Comunità di destino nellaquale ciò che ci accomuna non è la salvezza, ma la perdizione. Un destino que-sto che per Heidegger sta davanti, di fronte a noi, e le modalità di vivere dipen-dono dalle nostre possibilità di scelta, mentre per Hobbes era una condizioneanteriore, dalla quale affrancarsi e immunizzarsi sciogliendo il legame originarioe istituendone un altro artificiale attraverso il contratto. Per la logica ricorsivadi Morin, invece, entrambe le condizioni coesistono e il nostro destino di esseriperduti è sì davanti a noi, ma anche dietro di noi, è la struttura ontologicadell’Essere. La sua filosofia di vita e di morte racconta che siamo nati dalla catastrofe, che lavita sul nostro pianeta nasce dalla morte, dalla deflagrazione e dalla disintegra-zione; organizzandosi la vita si nutre di morte e la morte si nutre di vita: vive ciòche si conserva attraverso la propria autodistruzione. Un destino che sembraimmerso in un tempo profondo, mentre il nostro sistema solare va ineluttabil-mente incontro alla morte, e forse si spegnerà o esploderà tra cinque miliardi dianni. È nella via di mezzo, tra questa fine termica annunciata e l’inizio della vitaplanetaria che si situa la nostra storia, iniziata con l’ominizza zione, ed ha lapossibilità di concludersi con la nostra uscita anticipata dalla storia . (Secondol’approccio evoluzionistico, infatti, la caratteristica della vita è data dall’attivitàprolungata del sistema biogeochimico e non dalle specie individuali che nasco-no, vivono e muoiono).17

Ma nonostante l’ineluttabile destino, permane la possibilità di scegliere di antici-pare o posticipare la sopravvivenza della nostra specie, rispetto alle a ltre storieevolutive (Rifkin 2000).18 Il destino di perdizione del quale parla Morin, dunquenon solo è davanti a noi, ma nello stesso tempo è anche dietro e dentro di noi,perché le attuali possibilità di sopravvivenza futura dipendono dal modo in cuia bitia mo e abbiamo a bita to questo pianeta. Dipende dalle scelte di vita e dimorte, dalle innumerevoli e fantastiche storie di coevoluzione naturale cheabbiamo fin qui contribuito a scrivere e da quelle che intendiamo, per ciò cheresta del nostro futuro cosmico e intergalattico, continuare a scrivere. Questo formida bile cosmo è lui stesso vota to a lla perdizione. È na to, dunque

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15 Cfr. V. SHIVA, TerraMadre, Sopravvivere allo

sviluppo, Utet, Torino2002.

16 ERACLITO, frammento22 B 20 (Diogene

Laerzio).

17 Secondo l’approccioevoluzionistico, infatti, lacaratteristica della vita è

data dall’attività prolunga-ta del sistema biogeochi-mico e non dalle specieindividuali che nascono,

vivono e muoiono.

18 Cfr. J. RIFKIN, Entropy.Into the Greenhouse

World, Penguin PutnamInc. 1989; trad. it.

Entropia, Baldini &Castoldi, Milano 2000.

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morta le. Si disperde a velocità folle, mentre gli a stri si ta mpona no, esplodono,implodono. Il nostro Sole, che succede a due a ltri solo defunti, si consumerà .Tutti i viventi sono getta ti nella vita senza a verlo chiesto, sono promessi a llamorte senza a verlo desidera to. Vivono fra nulla e nulla , il nulla prima , ilnulla dopo, circonda ti da l nulla dura nte. Non sono solta nto gli individui aessere perduti, ma presto o ta rdi, l’uma nità , e poi le ultime tra cce di vita , e piùta rdi la Terra . Anche il mondo va verso la morte, che sia per dispersione gene-ra lizza ta o per ritorno implosivo a ll’origine...Da lla morte di questo mondoforse na scerà un a ltro mondo, ma a llora il nostro sa rà irrimedia bilmentemorto. Il nostro mondo è vota to a lla perdizione. Sia mo tutti perduti (Morin1994, 173).19

Con questo Va ngelo della perdizione Morin afferma con forza l’idea che sia motutti perduti. Gli individui, le cose, gli animali, le piante. Ma con il suo tonoassertivo intende, forse, cedere alla tentazione di una ontologia negativa, o la suaè, soltanto, una metafora viva? Al di là dell’apparente paradosso due ipotesi sonopossibili. Da un lato c’è forse il bisogno, la necessità di “perdersi”, di vivere cioèl’esperienza dell’errore e dell’errare per ritrova rsi e della possibilità di ricono-scersi infine tutti fratelli. È una prospettiva gradualista che corrisponderebbe alloschema hegeliano della necessità del negativo nel processo dialettico del diveni-re. Dall’altra la visione non lineare ma circolare e radicale del tutto muore, l’uo-mo, la terra, la biosfera, il sole. Questa prospettiva implica però l’idea che dallamorte nasca la vita. Dalla distruzione del nostro pianeta rinascerà probabilmen-te, anche se altrove, la vita. C’è perciò la morte ma c’è anche la possibilità vir-tuale della rinascita. Inoltre, c’è l’idea che la morte come la vita non è solo fisica,biologica, chimica, è anche esistenziale, sociale, culturale. C’è dunque anche l’i-dea della trasformazione e della rigenerazione. Errare nel duplice senso di sba-gliare, di non cogliere la verità, ma anche di essere viandanti, di vagare, vaga-bondare alla ricerca di noi stessi e del nostro ra dica mento terrestre. La presa di coscienza della nostra perdizione, del nostro Da sein, dell’Essere-get-tati e dell’Essere-perduti ci fa assumere definitivamente la condizione dell’incer-tezza e dell’inquietudine, ma allo stesso tempo ci fa scoprire la rela zione poeti-ca con la Terra. Perchè è comunque in questo destino ambiguo, straordinario eangosciante, preludio forse di nuove aperture, che dobbiamo dibatterci.Si delinea così la prospettiva di un’estetica ecologica che apre ad un esistenzia -lismo ecologico che è anche un’etica, una religione terrena che possa, con il suoprecipitato assiologico, unificare le incertezze evolutive del sistema vivente conle incertezze cosmiche del pianeta terrestre, e offrire all’interrogazione filosoficasulla nostra comunità di destino, nuove opportunità e cha nces di vita. Un ruolo cruciale è dato dal recupero del con-essere, l’essere cum che la nozio-ne di comunità contiene e che la modernità ha spezzato, per ristabilire, ri-lega -re la re-la zione, cioè il legame non solo tra gli uomini che le leggi dello Statohanno reso immuni dal debito, dall’obbligo di riconoscenza verso il dono dellavita, ma anche tra tutti gli uomini e gli a ltri esseri viventi, senza i quali è impos-sibile concepire la vita del nostro sistema. Ciò è possibile a lterizza ndo la nostracomune condizione di destino, rendendola inclusiva delle altre specie e dellealtre organizzazioni viventi, in un’unica biosfera dinamica. Si tratta di preserva ree conserva re l’intero eco-sistema non nella logica del sa crificio, ma nella logicadel vivente, dello scambio, del munus, della reciprocità dell’Essere.

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19 E. MORIN, A. B. KERN,Terre-Patrie, Ed. Du Seuil,Parigi 1993; trad. it.Terra-Patria, Cortina Ed., Milano1994, p. 173.

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Condividere lo stesso destino di esseri perduti non significa ampliare il vuotora dica le dentro di noi e il vuoto cosmico fuori di noi, significa, per dirla con G.Bataille, non immunizza rsi dal dono della reciprocità immolando al sacrificio ilcum in nome di una sterile individualità, ma liberare quell’eccedenza di energiacatturata dentro l’ambivalenza della relazione comunitaria. La comunità planeta-ria non può essere intesa come un nuovo Leviatano esteso all’intero globo, isti-tutivo di un nuovo ordine o contratto aperto questa volta ai non-umani, ma èvivere nuovi orizzonti di senso, nella contingenza e nell’ambivalenza delle possi-bilità date, cioè dona te. È lasciarsi attraversare dal flusso di vita e di morte che cipossiede quando ci a lteria mo, nel senso che andiamo oltre noi stessi ed espe-riamo la nostra apertura entrando in rapporto con lo stesso impulso espropria-tivo nelle nostra relazione con gli altri. Quando percepiamo un’irresistibileimpressione di perderci e di ritrovarci allo stesso tempo. Dell’essere e del non-essere individuo nella relazione (Esposito 1998, XXXII)20.Accettare la coevoluzione oltre che la interdipendenza implica il riconoscimen-to e lo sviluppo di una prospettiva etica che accetti la reciprocità come condi-zione inevitabile per riscoprire, così, il munus che ci radica nuovamente allanostra Terra Ma dre (Shiva 2002).21 Nel mutuo scambio tra ecosistemi ciò che lanatura ci dà è influenzato da ciò che noi dia mo alla natura. Ed è del tutto evi-dente l’ineguaglianza di questo rapporto: lei ci offre cibo, noi le diamo rifiuti.Invece, ogni impegno per la vita deve consentire ai modi della vita di fiorire erifiorire nuovamente. La nozione di ricchezza è sinonimo di vitalità collettiva esi riduce a zero se non c’è circolarità, se non è occasione di scambio reciproco.Lo sca mbio è un regolatore importante della vita sociale ed economica di tuttele civiltà e di tutti i tempi, ma questo purtroppo non accade oggi nello scambiocon la Natura. In ogni relazione bisogna avere la capacità anche di da re oltre chedi a vere, e ricevere non è un atto materiale e banale, ma un processo di sedu-zione reciproca e di tra sforma zione intersoggettiva . Le civiltà del passato avevano un maggiore senso di responsabilità nei confrontidella natura; esse vivevano in rapporto di reciproca relazione con la foresta, conil mare, con la Terra di cui si aveva cura e si provava timore; l’uomo moderno hasviluppato, invece, il suo egoismo preda torio e strumentale su tutto. (Passmore,1986)22 L’uomo primitivo comprendeva che la vita è dono, è scambio ed anche ilrito e il sacrificio avevano questo significato di scambio simbolico di cui parlaJ.Baudrillard. L’uomo moderno ha aspirato al controllo, al potere, al dominio sul-l’ambiente. Razionalizzando ed economicizzando ogni rapporto con l’a ltro, con glia ltri, ha ignorato l’insuccesso, lo spreco, la ridondanza creativa che invece la poie-sis suppone; liberando il suo impulso possessivo egli ignora così il dono senza con-tropartita, senza reciprocità, lo scambio come principio di co-creazione.Per avere una cosciente percezione della natura perversa di questo rapporto èsufficiente interrogarsi su cosa prendiamo e cosa riceviamo come società umanaoggi dalla biosfera e cosa doniamo, invece, nello sca mbio ecologico con il pia-neta: soltanto rifiuti e inquinamento, doni velenosi.

Come ci ricorda qua lsia si libro di ecologia , la popola zione uma na ha bisognodi cibo, a cqua , a ria e sosta nze nutritive per crescere, per sostenere l’orga ni-smo e per riprodursi. I sistemi economici, industria li e tecnologici da noi crea -ti richiedono energia , a ria , a cqua e un’enorme va rietà di meta lli, sosta nzechimiche (molte delle qua li di origine industria le e quindi <<nuove>> per i

20 E. ESPOSITO,Communitas, cit., p.

XXXII.

21 Cfr. V. SHIVA, TerraMadre, Sopravvivere allo

sviluppo, cit.

22 Cfr. J. PASSMORE,Man’s responsability for

nature, GeraldDuckworth & Co.

Ltd.,London, 1984;trad.it., La responsabilitàper la natura, Feltrinelli,

Milano 1986.

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meta bolismi degli stessi sistemi na tura li) e biologiche che servono a produrrebeni e servizi. Secondo le fonda menta li leggi fisiche i ma teria li e l’energiaimpiega ti da lla popola zione non scompa iono; i ma teria li diventa no rifiuti einquina mento o vengono ricicla ti mentre l’energia viene dissipa ta come ca lo-re e diventa non più sfrutta bile. La popola zione tra e quindi ma terie prime ela ma ggiore pa rte dell’energia da lla Terra a lla qua le restituisce rifiuti e ca lo-re. Di fa tto si è crea to un flusso continuo che va da lle <<sorgenti>> di ma te-ria ed energia della terra a i <<serba toi>> della stessa , dove finiscono inqui-na mento e rifiuti (Lester Brown 2002, 13)23.

Ripensare questo rapporto non può più significare, perciò, riproporre la retori-ca dello sviluppo sostenibile che dinanzi all’inarrestabile declino ambientale ealle eco-crisi sconta il clamoroso fallimento dei suoi programmi e vertici cheavrebbero dovuto affrontare il problema non di come rendere “inerti” i rifiuti, madi come renderli “fecondi”, nello spirito del dono e dello scambio con l’ambien-te24- A fare emergere le questioni ambientali come un grande tema delle politi-che nazionali e internazionali e a cogliere per prima la sfida dell’ipotesi di unosviluppo sostenibile con carte, documentazioni e progettualità specifiche è statala Conferenza su Ambiente e Sviluppo (UNCED) svoltasi a Rio de Janeiro nel giu-gno del 1992, cui ha fatto seguito la Conferenza di Aa a lorg in Danimarca nel1994 con la quale ebbe inizio la Ca mpa gna Europea Città Sostenibili.Dopo la Conferenza di Rio non c’è stata, purtroppo, alcuna integrazione tra le

politiche economiche e gli stati nazionali hanno perduto di vista la prospettivaglobale. Mentre la società sostenibile implica una sfida culturale e politica ai piùalti livelli di complessità che non c’è stata (Bocchi-Ceruti, 1985)25.Eco-logia ed eco-nomia hanno la stessa radice: eco, ha bita t, ca sa . Governare lapropria casa in maniera proficua significa distribuire le proprie risorse con laprospettiva rivolta al futuro e nello stesso tempo distribuirle come impegno-per-la -vita . Una economia legata agli interessi del presente non solo non è una eco-nomia di qualità, ma è anche priva di eticità se non è retta dall’imperativo mora-le così espresso da Heinz von Foerster: a gisci in modo ta le da a mplia re le pos-sibilità di coloro che verra nno dopo di te (Von Foerster 1996)26.

4. Oltre l’ecocompatibilità

Per sostenibilità o Sviluppo sostenibile si è inteso un modello di sviluppo com-patibile tra l’insieme delle relazioni sistemiche determinate dalle attività umanee la biosfera , costituita dal complesso degli ambienti e delle relazioni tra i viven-ti in tutte le sue componenti e condizioni fisico-chimiche, biologiche ed ecolo-giche. Ormai da tempo si è giunti alla consapevolezza dei limiti delle risorsena tura li ed alla convinzione che il nostro modo di vivere, produrre, consuma-re, agire, decide nei fatti la velocità del degra do entropico, ossia la velocità concui si dissipano le risorse-energie non rinnovabili e, di conseguenza, i tempi divita della specie umana e la durata stessa della vita sul nostro pianeta. (Meadowset alii 1972)27. Dai numerosi rapporti sullo stato di salute del pianeta, apparsinegli anni Settanta, confrontati con i ritmi accelerati di crescita industriale edeconomica è emerso, con grande evidenza, che ciò che consentirà alla vitaumana di continuare ad essere, agli individui di soddisfare i loro bisogni, di rea-lizzare le proprie progettualità e alle diverse culture di svilupparsi, dipenderà

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23 LESTER R. BROWN,Eco-economy: Buildingan Economy for theEarth, Earth PolicyInstitute 2001; trad.it.:Eco-Economy. Una nuovaeconomia per la Terra,Editori Riuniti, Roma2002, p. 13.

24 A fare emergere le que-stioni ambientali come ungrande tema delle politi-che nazionali e interna-zionali e a cogliere perprima la sfida dell’ipotesidi uno sviluppo sostenibi-le con carte, documenta-zioni e progettualità spe-cifiche è stata laConferenza su Ambientee Sviluppo (UNCED) svol-tasi a Rio de Janeiro nelgiugno del 1992, cui hafatto seguito laConferenza di Aaalorg inDanimarca nel 1994 conla quale ebbe inizio laCampagna Europea CittàSostenibili.

25 Cfr. G. BOCCHI- M.CERUTI, (a cura di), Lasfida dellacomplessità,Feltrinelli,Milano 1985.

26 H. von FOERSTER,Attraverso gli occhi del-l'altro, Guerini, Milano1996.

27 Cfr. D. H. MEADOWS-D.L.MEADOWS- J.RAN-DERS-WW.BEHRENS, Ilimiti dello sviluppo,Mondadori, Milano 1972.

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dalla na tura delle rela zioni e intera zioni con l’ambiente, le quali dovrebberoessere tali da non compromettere irreversibilmente il futuro del contesto biofisi-co globale. Invece, se pensiamo a quante specie viventi esistenti sul pianeta sonostate conosciute nel corso dell’esplorazione umana (appena un terzo) e a quan-te ancora ne restano da conoscere, abbiamo una precisa percezione di quantoresta da esplorare dello spazio profondo planetario (Pievani 2002)28. Tuttavia il pa ra digma di dominio e di colonizza zione umana fondato sulladistruzione dei sistemi ecologici del pianeta continua ad essere prevalente. Adogni latitudine continuiamo a devastare gli ambienti e i loro ecosistemi senzaneppure conoscerne i suoi abitanti, animali, piante, organismi e nicchie ecolo-giche, esattamente come facevano i conquista dores, i pionieri delle esplorazionidel XV secolo quando sterminavano migliaia di popolazioni indigene senza nep-pure conoscere la loro lingua. Nei confronti degli a ltri esseri viventi permane lastessa strategia cognitiva e distruttiva volta al dominio che T. Todorov ha spie-gato con lo schema comprendere, prendere, distruggere (Todorov 1985)29. Ognitipo di colonizzazione spaziale, cognitiva, affettiva viene perciò compiuta innome di una presunta superiore capacità di conoscenze e valori che poi si tra-sforma in a ssimila zione e distruzione. Conoscere l’Altro, il diverso significa per-ciò vincerlo per poi a ssimila rlo, includerlo nella storia dell’Io, e infine distrug-gerlo (Semeraro 2002, 19-42)30. Di fronte alla crisi globa le (ambientale, energetica, economica e politica) chesconvolge tutto l’equilibrio biologico e fisico-termodinamico delle risorse terre-stri (ritenute a torto inesauribili), della natura (ritenuta a torto un sistema ingrado di riparare a lungo termine i danni) e dell’uomo (ritenuto capace di sub-ire indenne aggressioni di ogni tipo), si è euforicamente pensato che abilitàumane e tecnologie avrebbero dominato gli squilibri planetari (Tiezzi 1991, 13)31.L’idea guida dello sviluppo sostenibile era quella di un governo globale capacedi integrare gli obiettivi di tutela delle risorse e qualità ambientali con le politi-che e le strategie produttive. (Il ricorso al concetto integrato di sostenibilità sem-brava inaugurare una stagione di politiche di tipo preventivo che richiedevanonuovi strumenti conoscitivi, informativi, partecipativi ed economici. La filosofiaera quella di uno sviluppo che si proponeva di soddisfare le esigenze del pre-sente senza compromettere la possibilità delle generazioni future)32. Mentre la presa di coscienza dei limiti delle sviluppo ha condotto a privilegiareunilateralmente l’idea di un ambiente come sistema a perto, nell’ottica di unincremento lineare e indefinito, e allo stesso tempo l’idea, altrettanto unilatera-le, del sistema chiuso, ossia della ricerca dell’equilibrio e della conservazione del-l’esistente (Ceruti 1998)33. Oggi questa prospettiva dell’equilibrio sostenibileappare non più sostenibile e profondamente in crisi; un’idea nata nel quadrodelle politiche ecologiche d’emergenza e basata sul principio di a da tta mentodelle specie all’ambiente, secondo una logica della conserva zione che privilegiauna visione evoluzionista e sistemica il cui fine è quello di ricercare equilibrio estabilità, in altri termini sopra vvivenza . E solo dopo un decennio che ha vistoletteralmente impazzire il clima e soffocare d’inquinamento il pianeta Terra, conun aumento della temperatura di quasi mezzo grado, con un crescendo spropo-sitato, per intensità e numero, di eventi metereologici devastanti come inonda-zioni, uragani, impennate repentine di calore, con vaste aree di siccità che fannoipotizzare l’inizio dell’era dell’effetto serra , emergono chiaramente i limiti teori-ci e pratici di questa prospettiva. Evidenziandosi da qui la necessità di andare

31

28 Cfr.T. PIEVANI, Homosapiens e altre catastrofi,

cit.

29 T.TODOROV, La con-quista dell’America. Ilproblema dell’”altro”,

Einaudi, Torino, 1985.

30 Cfr. A. SEMERARO, AltreAurore, I Liberrimi, Lecce

2002, pp. 19-42

31 E. TIEZZI, Il capitombo-lo di Ulisse, Feltrinelli,

Milano 1991, p. 13.

32 Il ricorso al concettointegrato di sostenibilità

sembrava inaugurare unastagione di politiche di

tipo preventivo cherichiedevano nuovi stru-menti conoscitivi, infor-mativi, partecipativi ed

economici. La filosofia eraquella di uno sviluppo

che si proponeva di sod-disfare le esigenze del

presente senza compro-mettere la possibilità

delle generazioni future.

33 Cfr. M. CERUTI, Pensarela diversità, cit.

34 Cfr. M. CERUTI, Pensare

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oltre la concezione di una ecocompa tibilità semplice, intrinsecamente insuffi-ciente a risolvere la complessità dei problemi ecologici. Si tratta ormai di abban-donare la meta fora dell’equilibrio e la meta fora dell’a da tta mento (Ceruti,1998)34 ed effettuare una svolta culturale e paradigmatica che oltrepassi la visio-ne evoluzionista ed a ntropocentrica per andare verso una concezione coevolu-zionista ed eco-sistemica fondata concretamente su una logica del vivente(Morin 1988)35.Lo sviluppo di alcune particolari discipline dette Scienze del Ca mbia mento(Global Change Sciences)36 e le Scienze della Terra stanno ridisegnando una geo-gra fia del pa esa ggio na tura le del pianeta che permette di comprendere più inparticolare i processi che si generano nei diversi eco-sistemi, facendoci percepi-re una realtà biologica molto più dinamica e singolare di quanto supposto finoad ora, caratterizzata da ramificazioni, sovrapposizioni, evoluzioni e speciazioni.Più che una concezione a da ttiva , l’insieme delle intera zioni tra uomo e naturadovrebbe implicare l’idea di una reciprocità crea tiva capace di attivare proces-sua lità ricorsive tese a permettere alla vita e all’intero Sistema vivente o Oikosdi continuare ad evolversi. Si tratta di comprendere, osserva T. Pievani, che l’e-voluzione non è una inarrestabile ascesa verso la perfezione, ma è l’esito di unamolteplicità di eventi, di specia zione locali e che la nostra storia evolutiva non èdifferente, ma rispecchia quella di altre specie vissute sul pianeta. In uno scena-rio nel quale la stabilità e l’equilibrio non sono di casa, la contingenza assume lostesso ruolo cruciale nella vita evolutiva come nella nostra vita quotidiana(Pievani 2002)37. Contrariamente a quanto si è sostenuto fino ad ora la natura non è retta solo daun ordine fisico produttore di inva ria nza e ripetizione, ma è retta anche da undisordine vivente produttore di diversità e irregola rità . Dai più recenti studidelle scienze evoluzionistiche emerge che la ma cchina ecologica non è com-posta soltanto da atomi e particelle, ma da gruppi di diversità e di esseri viventiche sviluppano forme estreme di complessità che non escludono conflitti,distruzioni, predazioni, egocentrismi, come anche forme di cooperazione e com-plementarità (Ceruti 1995)38. Non c’è pertanto soltanto il determinismo geo-fisi-co e bio-chimico con i suoi programmi e i suoi vincoli, ma c’è anche tanta impre-vedibilità e spontaneità creativa. Ed è proprio dall’insieme sia dell’ordine che deldisordine, della coerenza e dell’instabilità, come della cooperazione e della con-correnza, degli egoismi e delle solidarietà, che si producono spontaneamente leeco-orga nizza zioni, dotate di qualità superiori o emergenti. Le cui finalità nonsono quelle di mantenere in una condizione stazionaria di equilibrio l’organizza-zione sistemica della natura, compreso nel saldo tra le nascite e le morti, quantoquella di produrre, di crea re da sé, nuove organizzazioni viventi, capaci di gene-rare quella che Morin definisce eco-evoluzione crea trice (Morin 1990).39

Sarebbe un po’ come applicare agli ecosistemi viventi l’a pproccio delle ca pa ci-tà che A. Sen ha teorizzato per l’economia dei sistemi sociali (Sen 2000)40. Ciòche va ricercato, infatti, non è la stabilità, sempre contingente e tempora nea ,dettata dai vincoli e dalle possibilità organizzative e sistemiche, ma anche laca pa cità di poter costruire nuove stabilità, la ca pa cità di reinventare nuoveriorganizzazioni in conseguenza di nuove disorganizzazioni e speciazioni. A dif-ferenza della concezione evoluzionista fisicalista dell’organizzazione biologica,l’eco-orga nizza zione non soltanto si evolve, ma è capace di evolvere e di rior-ganizzarsi anche in presenza di eventi perturbatori nuovi e imprevedibili dimo-

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la diversità, cit.

35 Cfr. E. MORIN, Il pensie-ro ecologico, cit.

36 Tra cui le teorie evolu-zionistiche, le scienzedella mente, la ciberneti-ca, la teoria dei sistemi, lateoria dei giochi, la nuovabiologia, la cosmologia, lateoria degli equilibri pun-teggiati, la teoria dellacomplessità del vivente,ecc..

37Cfr.T. PIEVANI, Homosapiens, cit.

38 Cfr. M. CERUTI,Evoluzione senza fonda-menti, cit.

39 E. MORIN, Il pensieroecologizzato, in<<OIKOS>> 1, 1990.

40 A. SEN, Development asFreedom, Alfred A.Knopf, 1999; trad. it.: Losviluppo è libertà, A.Mondadori, Milano 2000

41 E.MORIN, Il pensiero

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strando capacità di agire in contesti a mbienta li a loro volta evolutivi. Ed è pro-prio questa capacità co-evolutiva che “consente a lla vita non solta nto di sopra v-vivere, ma a nche di sviluppa rsi, o meglio di sviluppa rsi per sopra vvivere”(Morin 1990)41. In altri termini la relazione che si genera tra gli effetti perturba-tori causati dall’azione antropica e l’ambiente, è generalmente causa di disgre-gazione delle organizzazioni naturali e dei loro equilibri eco-sistemici tempora-neamente costituiti. Pertanto una prospettiva di continua crescita dello sviluppo,quale si è delineata fino ad ora, deve poter rendere possibili le ca pa cità evolu-tive oltre che rigenerative del sistema vivente non soltanto nel senso dellasopravvivenza, ma anche del suo a uto-sviluppo crea tivo.

5. L’apertura cosmica

Il nostro Pianeta ha un’origine cosmica, un complesso biofisico che si è costitui-to nel momento in cui si è sviluppata la biosfera; la Terra è perciò una tota litàcomplessa dominata da un’orga nizza zione vivente emergente da processi fisi-co-chimici complessi. (È l’idea della Terra come un orga nismo-a mbiente, cheAlfred Latka, padre dell’ecologia teorica, già nel ’25 aveva anticipato rispetto all’i-potesi Gaia di Lovelock, secondo cui ad evolversi non è il singolo organismo o lasingola specie, ma l’intero sistema: la specie e l’a mbiente simultaneamente, inun rapporto di inseparabile coevoluzione)42. In questo pa rticola re, singola re,unico sistema a uto-eco-ego-orga nizza tore è radicata la vita . La vita è, perMorin, una forza organizzatrice bio-fisica in azione nell’atmosfera, una emer-genza dalla storia della Terra, e l’uomo un’emergenza dalla storia della vita ter-restre. Il pianeta è perciò una organizzazione sponta nea , a utoregola ta , compo-sta da “cicli ricorsivi che sono cicli di vita ma a nche, nello stesso tempo, ciclidi morte.” (Morin 1990, 75)43.Ciascuno di noi a ppa rtiene alla terra che ci a ppa rtiene e questa consapevolez-za non può che farci giungere ad una molteplicità di prese di coscienza delnostro comune legame relazionale e del bisogno di civilizza re la Terra (Morin1994)44. Nel senso che l’apprendimento del doppio ra dica mento nel cosmo fisi-co e nella sfera vivente imporrebbe un ulteriore salto di civiltà, e l’attivazione diun nuovo processo evolutivo che è anche un duplice gioco: superare il paradig-ma a ntropocentrico che vede soltanto l’uomo assolutamente al centro dei pro-cessi viventi del pianeta e, nello stesso tempo, ra dica re l’uomo alla sua Terra, alsuo sistema di vita, dopo secoli di diaspora, alla sua eco-organizzazione vivente. La prospettiva ecologica moriniana muove da questa emergente percezione filo-sofica dell’esistenza; una percezione che rievoca la sensibilità dei primi pensato-ri greci di fronte alla Physis. Ciò che egli vede e chiama vita è “la tra sforma zio-ne di un ruscella mento fotonico na to da scintilla nti vortici sola ri”, neiquali“Noi, viventi, e di conseguenza uma ni, figli delle a cque, della terra e delSole, sia mo un fuscello se non un feto della dia spora cosmica , briciole dell’e-sistenza sola re, una minuta germoglia zione dell’esistenza terrena ”(Morin2002, 5)45. È come dire che l’attività biologica è ontologica, in quanto proprietàplanetaria.Come non sentire nel suo sguardo profondo una a pertura cosmica ed unainsopprimibile istanza poetica che è anche un inno alla vita? Sia nell’uso del noiche allarga la prospettiva di comprensione, accomunandoci agli altri sistemiviventi e alla stessa origine cosmica; sia nel riconoscimento della comune iden-

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ecologizzato, cit. p.37

42 È l’idea della Terracome un organismo-ambiente, che Alfred

Latka, padre dell’ecologiateorica, già nel ’25 aveva

anticipato rispetto all’ipo-tesi Gaia di Lovelock,

secondo cui ad evolversinon è il singolo organi-smo o la singola specie,

ma l’intero sistema: laspecie e l’ambiente simul-

taneamente, in un rap-porto di inseparabile

coevoluzione.

43 E. MORIN, Il pensieroecologizzato, cit. p.75

44 E. MORIN, Terra-Patria,cit.

45 E. MORIN, La Methode5, cit. p.5

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tità e appartenenza alla terra della nostra specie; il suo è un invito ad esplorarele meraviglie di uno spazio profondo per certi aspetti ancora incontaminato, pul-lulante di biodiversità e va rietà inedite perché sia possibile continuare la favo-losa avventura umana della conoscenza. Ma che in primo luogo ci deve permet-tere di recuperare l’unità spaziale della crosta terrestre e della sua atmosfera, diquella buccia d’arancia blu intorno alla quale si è sviluppata la vita.Pensa re ecologica mente significa, infatti, pensa re la diversità , concepire ognisistema fisico, biologico, sociale, culturale e noologico quasi come degli esseriviventi. Sistemi che sono dotati di una propria identità ed a utonomia e risul-tano capaci di intera gire, comunica re e a utoorga nizza rsi nelle possibilità diinterrelazione date con gli altri sistemi viventi e nelle relazioni di tutti con il loroambiente. Ogni manifestazione di vita, dalla più elementare alla più elaborata èresa possibile dalla comunica zione, dallo sca mbio e dalla reciprocità . Ciò che sin da Parmenide intendiamo per Essere non è altri che l’a uto-eco-orga -nizza zione, ossia l’insieme di tutte le orga nizza zioni di orga nizza zioni disistemi di sistemi (Morin, 1883)46. Nessuna forma di vita può essere pensatasenza queste specifiche condizioni di esistenza e di relazione né collocata al difuori di tali contesti ecologici. Nessun ente sopravviverebbe a se stesso senza lapossibilità di relazionarsi di volta in volta con proprie modalità organizzative, chesono sia di a pertura sia di chiusura , con gli altri ecosistemi. Contrariamente alsenso comune, all’interno della Natura non troviamo alcun principio gera rchicoche stabilisca la superiorità di un sistema sull’altro, e se si allarga lo sguardo pro-spettico all’intera biosfera emerge immediatamente la difficoltà di stabilire rela-zioni di supremazia tra i diversi sistemi o di ridurre la complessità del vivente sol-tanto ad alcuni di questi sistemi, per quanto significativi. L’intera tradizione del pensiero filosofico e scientifico occidentale, da Platone adHeidegger, ha invece privilegiato una visione a ntropocentrica con la quale si èteso a separare, e perciò ad escludere, l’esistenza delle altre specie viventi, masoprattutto si è volutamente ignorata e negata la funzione vita le e crea tiva del-l’ambiente. Tutte le filosofie uma nistiche sono state centrate esclusivamente sulproblema dell’esistenza e della sopravvivenza di una sola specie, quella uma na .È il loro linguaggio a svelarne il modello di dominio cognitivo sotteso nel signi-ficare, ad esempio, in modo univoco con il termine specie soltanto quella umana.In Mente e Na tura , Gregory Bateson sostiene che la visione antropocentrica siaa ntiecologica , sottolineando quanto sia grave epistemologicamente perdere ilsenso dell’unità estetica, quella che definisce la struttura che connette (Bateson1984)47.Sebbene le filosofie del soggetto di Nietzsche e Freud insieme a quelladell’Essere di Heidegger abbiano compiuto una svolta sul piano della metafisi-ca, le loro interrogazione partono dall’uomo e si riducono all’uomo. Mentre laprospettiva teoretica moriniana è centrata non solo ed esclusivamente sulla esi-stenza dell’uomo, quale sistema di a uto-orga nizza zione in contesti di relazione,prodotto-produttore di cultura e civiltà, ma amplia lo sguardo alla percezione edinclusione dell’intera a uto-eco-orga nizza zione del vivente, concependo tutti isistemi in un rapporto di reciproca co-produzione, co-genera zione e co-evolu-zione. Viene così riconosciuto il diritto a lla vita di ogni singola esistenza cosmi-ca , nell’intera organizzazione del vivente, nell’intero mondo della vita .Individuando in tre inscindibili componenti la relazione: uomo-na tura -società .È interessante sottolineare nella prospettiva ecologica moriniana, l’importanza

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46 Cfr. E.MORIN, LaMèthode. I. La nature dela nature, Editions duSeuil, Paris 1977; trad. it.:Il Metodo, Ordine, disor-dine organizzazione,Feltrinelli, Milano 1983;La Mèthode II, La vie dela vie, Editions du Seuil,Paris 1980; trad. it.: Ilpensiero ecologico,(parte prima),Hopefulmonster, Firenze1988; La vita della vita,(parte seconda)Feltrinelli, Milano 1987.

47 Cfr.: G. BATESON,Mente e Natura, cit.

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del “trattino” che stabilisce i legami, i nessi, che rilega i termini, che supera leseparazioni; connessione nel duplice senso del rilega re insieme rivelando laconnessione e del rileggere cioè del reinterpreta re. Superare il dualismo specie/individuo vuol dire, quindi, costruire relazioni dicomplessità che non sacrifichino l’individuo, ma guardare alla sopravvivenza edella specie e della società, intesa anche come ambiente, come biosfera .Ristabilire l’unione tra e nella riarticolazione delle scissioni, rende possibileritessere le reti della vita e dimostrare così che il vero network è proprio quellovivente. Si può così riattivare anche la riflessione non soltanto sui limiti dellosviluppo, ma anche sui limiti del conoscere, delle modalità e dell’organizzazio-ne delle conoscenze. Per riaprire il dibattito sul problema del dua lismo che, apartire da Kant, ha distinto le conoscenze e i saperi, e ribadire l’unità comples-sa e non più assoluta della razionalità scientifica e filosofica.Se Nietzsche per certi aspetti, e l’ultimo Heidegger hanno “smaghetizzato” lametafisica del soggetto, la filosofia di Morin opera una svolta ancora più ra dica -le, che va oltre quella compiuta o incompiuta da entrambi, riuscendo ad usciredalle secche di una logicità lineare e semplice, per istituire una logica evolutivae complessa . La sua a pertura all’a lterità ed alla comprensione dell’a ltro nonriguarda soltanto l’esistenza del diverso, degli a ltri popoli, culture, etnie e civil-tà, rese purtroppo dentro più dai processi economici omologanti della globaliz-zazione che da un’autentica e solidale comprensione. Il suo è un principio diinclusione che va oltre l’uma no, spostando l’interrogazione filosofica centratasulla condizione dell’Essere in quanto ex-sistenza , per aprirsi all’oikos, alla vitadella vita, alla vita delle idee, all’esistenza di tutte le specie, nella molteplicitàdella diversità e specificità sociali, culturali, logiche, dei diversi livelli e ordini direaltà emergenti.

Sia mo figli del cosmo, ma , a ca usa della nostra stessa uma nità , della nostracultura , della nostra mente, della nostra coscienza , della nostra a nima , sia modivenuti estra nei a questo cosmo da l qua le sia mo na ti e che tutta via ci rima -ne segreta mente intimo (...)Sia mo figli del mondo vivente e a nima le, e tutte le nostre mitologie ha nno sen-tito la pa rentela e la vicina nza con gli a ltri viventi. Gli uma ni ha nno spessovenera to degli dei a nima li, i ba mbini trova no del tutto na tura le che gli a ni-ma li delle fa vole, dei ra cconti e dei ca rtoni a nima ti pa rlino e sia no dota ti disentimenti uma ni. Ma la nostra identità a nima le è sta ta a lungo ma schera tada lla civiltà occidenta le, i cui progressi sono sta ti pa ga ti con una terribileregressione di coscienza , giungendo fino a considera re gli a nima li come ma c-chine e, peggio, come oggetti ma nipola bili a pia cere ... Abbia mo a sservito lana tura vegeta le e a nima le, a bbia mo pensa to di poter diventa re pa droni e pos-sessori della Terra , se non conquista tori del cosmo, e a bbia mo a ppena sco-perto il lega me ma tricia le con la biosfera , senza la qua le non potremmo vive-re, e dobbia mo riconoscere la nostra molto fisica e molto biologica identitàterrena . È solo ora che ricomincia mo a prendere coscienza della nostra iden-tità vivente (Morin 2002, 29)48.

Aprirsi al cosmo implica, perciò, l’andare oltre le radici umane per includeretutte le forme di vita, tutte le esistenze. Significa aprirsi mentalmente ed emoti-vamente alla comprensione non solo della diversità dell’Essere, ma anche della

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48 E. MORIN, La Methode,5, cit. p.29

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diversità degli a ltri esseri viventi. Una sensibilità evolutiva potrebbe farcicogliere, in un futuro non troppo lontano, un relazione di reciprocità anche conil non-vivente, con le macchine articificiali, i robot che invaderanno la nostra vitacome già hanno fatto i computer, i palmari e tutta la microtecnologia che inte-ragisce con le nostre esistenze. Significa comprendere le metamorfosi dei muta-mente antropogenici e apprendere la pluridimensiona lità dell’essere e dellarealtà nella quale siamo immersi e che ci immerge: l’a mbiente. Un ambiente cheè anche sempre più impregnato di ipertecnologia e che richiede lo sviluppo diuna ipercultura .Quella di Morin, a nostro giudizio, va intesa come una duplice apertura. Laprima apertura deriva dal concepire l’Essere umano trinitario, che include in sécontemporaneamente le istanze di individuo, società e specie; individuo altempo stesso singolare e plurale, inclusivo dell’unità e della diversità. (Non è,infatti, ormai più pensabile la sola dimensione fisica dell’Essere, senza anchequella genetica, biologica, psicologica, sociale, mitologica, culturale, simbolica,economica, sociale, storica, ecologica)49. La seconda apertura deriva dall’allarga-mento dell’orizzonte di significato agli altri enti, alle altre esistenze, alle altre sto-rie, agli altri viventi;, i cui vissuti e destini si intrecciano inestricabilmente conquello umano e con quello dell’ambiente dentro il comune destino della biosfe-ra e di questa nel cosmo. Secondo una visione ologrammatica che impone diguardare alla parte, l’umano, come inscritta, radicata in un tutto che è il piane-ta terrestre, ma anche di un tutto, l’intero sistema vivente, presente in noi, nellanostra come nelle altre specie.La prospettiva ecologica ci impone una nuova concezione evoluzionistica delcosmo, delle specie, della biosfera, della noosfera, dei sistemi biotici, comeanche una diversa idea di progresso che includa il regresso e di uno sviluppo chesia eco-sviluppo, prospettando nuovi orizzonti di senso che vanno effettiva-mente oltre la concezione riduttiva e antropocentrica della modernità. Il suoandare oltre, però, non segue un percorso semplicemente proiettato in avanti,ma implica anche un movimento all’indietro, seguendo una logica ricorsiva ecircola re che ci riporta alle origini. La sua è una cosmofilosofia che recupera lamigliore tradizione greca con la quale è pensabile l’Essere totalmente immersonella Physis, vivente in una rea ltà tutto dove tutto esiste, nasce muore e diviene.

6. Ecoetnicità ed ecoalterità

Tutto ciò naturalmente va inteso sul piano della conoscenza sempre compresanell’orizzonte dei significati accessibili all’uomo e che soltanto l’uomo può defi-nire, descrivere e narrare. Quasi a dire che ancora una volta il limite è nel lin-guaggio e pertanto il punto di vista umano, per quanto esercitato in modo plu-rale, resta comunque il solo punto di vista. Ciò sarebbe vero se non esistesse lapolifonicità di un concerto suonato a più mani che tocca le note delle differen-ti sensibilità, culture e conoscenze umane, che moltiplicano, specificano e diffe-renziano più punti di vista possibili sulla complessità del vivente. La natura el’uomo, osserva E. Tiezzi, sono entità in continuo e reciproco scambio di infor-mazioni; non essendo mai uguale a se stessa, la natura cambia e cambiandomanda flussi di informazione continui alla mente dell’uomo e questi collo-quia ndo modifica e si modifica (Tiezzi 1991, 37)50. La sfida della complessità pone, dunque, anche la sfida culturale di un’ermeneu-

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49 Non è, infatti, ormai piùpensabile la sola dimen-sione fisica dell’Essere,senza anche quella gene-tica, biologica, psicologi-ca, sociale, mitologica,culturale, simbolica, eco-nomica, sociale, storica,ecologica.

50 E. TIEZZI, Il capitombo-lo di Ulisse, cit., p.37.

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tica che si apra a ll’a scolto dell’a ltro e richiede l’evoluzione di sempre maggioricapacità interpretative per lasciarci attraversare dalla comunicazione e sviluppa-re l’a scolto dell’a scolto. L’ascolto, dunque, come luogo del riconoscimento del-l’altro nel quale si istituisce il suo diritto ad esistere e dal quale soltanto nasce lavera metacomunicazione. L’apertura a ll’a scolto dell’a scolto è tra sforma zionereciproca e al contempo innova zione linguistica, scoperta di sé e dell’a ltro,attenzione alle trasformazioni delle regole del gioco, evoluzione e genesi dinuove possibilità di dia logo. L’entità multipla che da questo nasce implica ilripensamento della nostra identità cultura le domina trice e della nostra secola-re tendenza all’appropriazione delle identità altrui. Ma implica, nello stessotempo, anche un profondo ripensamento dell’a lterità dell’a ltro, delle a ltreidentità , che ci permetta cioè di decidere della nostra a lterità ma anche dellapensabilità dell’altrui a ltruità . Abbandonare il punto di vista a ntropocentrico non per adottarne uno na tura -centrico ricadendo in un esasperato naturalismo che supporrebbe l’unità delpunto di vista, ma sviluppare un nuovo stile cognitivo ed etico capace di inter-relare le informazioni e spostare lo sguardo dalle entità biologiche alle loro rela -zioni. La conoscenza, infatti, non è soltanto quella del soggetto, ma è inscrittanel linguaggio delle relazioni e delle reti di informazioni che hanno preceduto lasua comparsa. La sostituzione della nostra visione monocula re fa emergere unanuova idea di soggetto che per Morin ha una base trinitaria, ossia genetica , fisio-logica e cerebra le, e comporta un doppio principio di esclusione e di inclusio-ne, che ci permette di comprendere sia l’egocentrismo, sia l’intersoggettività ,che l’a ltruismo (Morin 2002, 274)51.Occorre, perciò recuperare un altro principio, quello femminile fondato sull’in-clusività e sulla crea zione per oltrepa ssa re quello riduzionista maschile fon-dato sull’esclusione e sulla distruzione (Shiva 2002, 42)52. Ora, se quanto detto risulta pertinente, appare improbabile la sopravvivenzadella nostra sola specie senza la sopravvivenza delle altre. Allo stato attuale dellanostra planetarizzazione è, invece, necessario ecologizza re la nostra idea di ra di-ca mento terrestre di specie con le a ltre specie e con l’a mbiente e complessifi-care sia “il nostro pensiero rela tivo a lla na tura sia il nostro pensiero rela tivoa lla cultura ” (Morin 1988)53.Significa aprire alla possibilità di una a lterità che sia tutt’a ltra e tutt’oltre e con-siderare la natura nella sua complessità sistemica ed eco-(bio)—a ntropo-socio-logica e percepire l’oltre nelle sue molteplici accezioni e declinazioni: oltre-mondano, oltreumano, oltreumanità, per ritrovare l’unità generica ma tricia leche è insieme genetica e genera trice (Morin 2002, 279)54. Comunque donna, inquanto generatrice di vita.Dall’apertura cosmica all’oltreuma nità può emergere una nuova identità plura -le e polimorfa dell’umanità la cui ra ziona lità evolutiva e sistemica apre ad unra dica mento biologico, sociale e planetario del vivente, ed estende l’interroga-tivo ontologico all’Essere del vivente, all’Essere e al destino dell’Essere, al desti-no della biosfera, dell’Oikos, del Cosmo per apprendere a vivere i confini delca os (Morin 2002, 279)55.Se la modernità è stata svolta radicale e apertura all’a ntropos posto al centro delcosmo, avvio di un nuovo umanesimo, ricerca delle corrispondenze e perditairrimediabile del Dio pantocreatore, la post- modernità può essere intesa comeperdita della centralità terrestre, dell’unicità domina trice di una specie, perife-

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51 E. MORIN, La Methode5 , cit. p. 274

52 V. SHIVA, Terra-Madre,cit. p.42

53 E. MORIN, Il pensieroecologico, p.130

54 Cfr.: E. MORIN, LaMethode 5, cit.,p.279

55 Cfr.: E. MORIN, LaMethode 5, cit.

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rizzazione e apertura al vivente, consapevole coscienza della biodiversità .L’inizio di una umanità che restituisce il Cosmo al Cosmo....il sole che è così sma glia nte a lla vita , ca ldo ovunque, e i corpi che s’immer-gono eterei nel suo tepore e nella sua bia nca luce; poi la pioggia oscura e tesa ,che ovunque si distende, ma che genera a nch’essa da lla terra virgulti e a lberi.Dura nte il dominio dell’Odio, tutto è contorto e in contra sto, mentre qua ndo(sopra vviene) l’Amore gli elementi che costituiscono tutti gli esseri che furono,sono e sa ra nno si a ccosta no l’uno a ll’a ltro desidera ndosi, e così si genera noa lberi, uomini e donne, fiere ed uccelli, e i pesci che vivono nell’a cqua , i numieterni ed eccelsi.Solo quegli elementi esistono, infa tti, diventa ndo corpi di ogni genere, pa ssa n-do gli uni con gli a ltri; questo esiste e questo il mescola rsi tra sforma , comea vviene con i pittori che dipingono pa reti va riopinte, con competenza e intel-ligenza , prendendo tinture diverse, mescola ndole a rmoniosa mente in misurama ggiore o minore, foggia ndo con esse figure che somiglia no a tutto, costruen-do a lberi, uomini e donne, fiere ed uccelli, e con essi i pesci che vivono ina cqua ed i numi eterni ed eccelsi.Non inga nna rti, quindi, non pensa re che a ltra sia l’origine dei morta li chesono a te ma nifesti e che si riproducono a ll’infinito (Empedocle, Sulla na tu-ra )56.

Soltanto concependo l’amore cosmico della vita che si dona, la vita come munusè possibile superare l’a ssunto a ntiestetico che ci impedisce di vedere le meravi-glie dei colori con i quali la Natura partecipa all’unità dinamica del cosmo(Bateson 1984)57.L’homo delineato da Morin è, infatti, un individuo complexus, non soltanto unanimale isterico, posseduto dai suoi sogni onniscenti di sa piens-demens, e nep-pure soltanto fa ber, oeconomicus, prosa icus, ludens, consuma ns, è anchehomo poeticus. Affermando che la vera vita è poetica intende dire che la vita èpoiesis, crea zione che ha in sé il proprio fine. Perciò l’a nda re oltre l’Umanitàvuol significare anche irrigare poeticamente l’Essere nella sua globalità e nellasua totalità per vivere poetica mente che è vivere per vivere (Morin 2002, 124)58.Pensare l’uomo e il destino soltanto dell’uomo è fondamentale, ma riduttivo.Pensare l’Essere-degli-Esseri del cosmo implica complessificare l’idea stessa diuma nità e saper pensare la vita come evoluzione crea trice (Bergson). Sul pianodel diritto alla vita è la medesima cosa rivendicare il diritto alla sopravvivenza diun popolo come salvaguardare il Panda o riprodurre in laboratorio una piantaofficinale per salvarli dall’estinzione. Significa comprendere i nessi causali ecasuali che rendono possibile l’esistenza di ogni biodiversità. Implica compren-dere che l’uomo non è l’unico abitatore della terra e che non ha alcun diritto sullabiosfera, che egli non può decidere della morte e della vita di tutti. Può però sce-gliere di entrare nell’era oltre-uma na e post-uma na oppure di uscire definitiva-mente dalla storia. Giacché l’alternativa è soltanto tra rela zione o estinzione.Pensare la biodiversità significa, invece, combattere ogni riduzionismo sociale,economico, scientifico che distrugge le relazioni sistemiche e rafforza la coloniz-zazione, e mettere in discussione ogni forma di cecità selettiva . Assumere l’ideaecologica che l’uomo è na tura e che tutto ciò che noi conosciamo, amiamo,pensiamo della natura è umano, suggerisce l’idea dell’indispensabilità della natu-ra e l’impossibilità di sostituirne i processi coevolutivi che sostengono la vita.

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56 EMPEDOCLE, Sullanatura, in DK 31 B8,9,10,11 – DK 31 B 21,23.

57 Cfr. G. BATESON,Mente e Natura, cit.

58 E. MORIN, La Methode,5, cit., p. 124.

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Affermare che l’uomo è na tura consente di eliminare una artificiosa congiun-zione, una unila tera lità , che ha generato un rapporto gerarchico innaturale.Confidando in processi a da ttivi, che spezzano le realtà coevolutive, ha accre-sciuto la sua duplice e ambivalente natura, potenziando la tecnica ha esteso ilsuo dominio come un diritto di proprietà assoluta sulla biosfera. Un predominiosulla Terra -Ma dre esercitato all’insegna del mito del progresso che soltanto ladelicatezza e la sensibilità del linguaggio femminile sanno cogliere:

Il mito di recente crea zione propa ga to da l pensiero ma schile occidenta le siregge sul sa crificio della na tura , delle donne e del Terzo Mondo. La questionenon è solo l’impoverimento di queste ca tegorie di esclusi: è in gioco l’effettivasuperfluità della na tura e delle culture non industria li e non commercia li.Conta solo il prezzo di merca to; e poco importa se nel mondo odierno esso èdel tutto svincola to da l va lore rea le (Shiva 2002, 220-221) 59

7. L’uomo è natura

Non si tratta perciò, solo di individuare il limite oltre il quale lo sviluppo non èpiù sostenibile o di sopra vvivere a llo sviluppo come propone la Shiva. Ma direinterrogarci sul nostro concetto di sviluppo, sul suo limite e sullo sviluppo dellimite. Si tratta di essere molto più critici verso gli stili di vita e la cultura con-sumistica e rivedere ra dica lmente la relazione tra l’uomo e la na tura , metten-do in discussione le implicazioni e le retroazioni epistemologiche di un paradig-ma riduzionistico e semplicistico. Con questo paradigma la scienza ha da sempreconsiderato lo sviluppo come un processo ina rresta bile e linea re e la crescitaeconomica come un’avventura continua dalla quale necessariamente consegui-va il progresso sociale e culturale (Morin 1990)60. Ha inoltre prefigurato tutte lerisorse na tura li come illimita te, pertanto a ccessibili e inesa uribili. Gli esiti diquesta prospettiva evoluzionista ci pongono di fronte alla responsabilità di doverabbandonare la visione euforica di un progresso che non implica il regresso coni suoi due miti: il primo, quello di considerare la Na tura come un oggetto didominio e l’uomo come soggetto dell’universo. L’altro, quello di concepire il pro-gresso come una crescita esponenzia le che vede la scienza o la tecno-scienzaimpegnata in una avventura incontrollata verso l’autodistruzione. Dobbiamo avere perciò un’idea tra gica mente sottosviluppata dello sviluppoquando pensiamo ad un intervento genetico massiccio sul bios come è quello incorso; una manipolazione bio-tecnologica che J. Rifkin definisce una nuovama trice opera tiva : si sta attuando una straordinaria e gigantesca ricostruzionedella biosfera mediante una seconda genesi concepita in laboratorio. Attraversole tecniche del DNA ricombinante, i geni sono diventati ma teria prima e cometali possono essere comprati, venduti, manipolati e sfruttati per fini economici.La mappatura del genoma umano accanto alle nuove scoperte nel campo delloscreening genetico, i bio-chip, le terapie genetiche degli ovuli, degli spermato-zoi e delle cellule embrionali umane, stanno aprendo la strada “a lla tota le a lte-ra zione della specie uma na e a lla na scita di una civiltà eugenetica pilota tada l commercio” (Rifkin, 1998, 35)61. Quali conseguenze deriveranno dallo scon-volgimento dei programmi genetici non è dato immediatamente di sapere, né diprevedere. Sappiamo, però, che di fronte all’aggressione dei geni patogeni, ilcosiddetto assalto al sé biologico, il sistema immunitario attiva spontaneamente

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59 V. SHIVA, Terra-Madre,cit., p. 220-221.

60 Cfr.. E. MORIN, Il pen-siero ecologizzato, in<<Oikos>>, 1,1990,

Lubrina Editore,Bergamo.

61 J. RIFKIN, The Biotechcentury, Penguin Putnam

1998; trad. it.: Il secolobiotech, Il commercio

genetico e l’inizio di unanuova era, Baldini &

Castoldi, Milano 1998,p. 35.

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i meccanismi di difesa. Le scienze cognitive ormai riconoscono questa specificafunzione del sistema immunitario, le sue capacità cioè di a pprendimento ememoria ; capacità di natura cognitiva , appunto, e pertanto biologica . Ma per-ché ciò accada è necessario che ci sia il riconoscimento dei profili molecolaridegli invasori, attivato dai meccanismi di difesa del sè menta le. Senza tale rico-noscimento cerebrale o connessione neuronale non c’è alcuna difesa, e di con-seguenza non c’è attivazione del sistema immunitario. Si tratta allora di capirese l’organismo umano o animale o vegetale, in una parola vivente, sarà in gradodi sviluppare tali capacità di decodificazione di agenti “ignoti” modificati artifi-cialmente. Ci si chiede, inoltre, fino a che punto il sistema vivente è capace dia da tta rsi e di riattivare il proprio sistema di difesa in assenza del riconosci-mento, dell’apprendimento e della memoria? Scienziati come R. Thom e I.Prigogine da tempo sostengono che il modello della mutazione genetica alea-torio è muto di fronte alle innovazioni creatrici di soluzioni, di organi, di speciedi quelle straordinarie e incredibili proprietà emergenti e speciazioni nuoveprodotte dalla vita.La biologia, le scienze della Terra ci dicono che l’ambiente è costituito da siste-mi viventi a uto-eco-orga nizza tori ed a uto-eco-regola tori, ma i programmimessi in atto dai tecnocratici entrano nel cuore dei sistemi e “spezza no leretroa zioni regola trici, dila nia no e degra da no le eco-orga nizza zioni ta lvol-ta fino a lla morte” (Morin 1990, 98)62. È vero che il concetto di evoluzione rin-via a quello di coevoluzione, ma è pur vero che l’adattamento non è un’azionedell’ambiente sugli organismi, ma una risposta attiva dell’organismo all’internodi vincoli e le possibilità di cambiamento dipendono dalla varietà delle rispostee dagli accoppiamenti o interazioni tra sistemi, resi possibili dai vincoli stessi(Ceruti 1986)63. Perciò spezzare i legami evolutivi e creativi tra gli organismi e iloro ambienti può significare la fine di ogni risposta a ttiva o a da ttiva e di con-seguenza di ogni evoluzione. Ignorare ciò significa non valutare il rischio e leconseguenze e prevedere che oltre alle risorse anche le risposte adattive pos-sono non essere infinite. La vita non è retta da leggi atemporali e determinate,ma è immersa nel fluire del tempo. Invece le teorie economiche riduzionisteignorano questa categoria considerandolo un’esternalità e pertanto non partedella natura. Pensare non tenendo conto dell’irreversibilità del tempo significanon comprendere l’importanza cruciale delle connessioni tra noi e gli altri siste-mi, quali parti integranti dei processi coevolutivi (Prigogine-Stengers 1981)64.Il problema è perciò drammatico: intervenendo in modo massiccio con profon-de trasformazioni antropiche, noi mutiamo le condizioni che rendono possibilela stabilità dell’equilibrio ecosistemico; alterandone gli equilibri, sconvolgiamo lastabilità e non sappiamo quello che succederà. Siamo già entrati nello sconvol-gimento dei cicli delle stagioni, dei cicli climatici, dei cicli biologici. Una nuovaimmagine della storia della natura oggi mostra come non ci si possa inserire neicicli biologici della natura sconvolgendoli senza saper preservare la stabilità degliequilibri. L’evoluzione è un processo in cui si creano e si trasformano stati diequilibrio successivi, mai definitivi, ma sempre precari e in continuo cambia-mento, fra i mutamenti degli organismi dettati, da un lato, dalle condizioni sto-riche, fisiche e ambientali e dall’altro, dalle nuove stabilità dei cicli in cui questielementi vengono integrati. Ma questa unità e integrazione degli organismi nonderiva da una conformità ad un piano prodotto da un ingegnere onniscente, néprogrammabile in laboratorio; sostiene l’epistemologo Mauro Ceruti che può

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62 E. MORIN, Il pensieroecologico, op.cit.,p.98.

63 Cfr.: M. CERUTI, Il vin-colo e la possibilità,Feltrinelli, Milano, 1986.

64 Cfr.: I. PRIGOGINE, I.STENGERS, La NuovaAlleanza,Torino, Einaudi1981.

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solo essere paragonato all’opera di un bricoleur, certamente abile, ma pur sem-pre fallibile (Ceruti 1995, 38)65.

8. Sviluppare l’ecodiversità

Secondo Amarthya Sen, premio Nobel dell’economia, c’è un altro modo di inten-dere lo sviluppo, il quale non è soltanto espansione economica e crescita mate-riale, ma è soprattutto espansione e crescita delle libertà. Per cui lo sviluppodeve essere inteso come “sviluppo integra to di espa nsione di libertà sosta n-zia li interconnesse l’una con l’a ltra ” (Sen 2000, 24)66. L’idea proposta dalla suaanalisi è quella di miglioramento della qualità della vita per tutti gli esseri; disuperamento delle condizioni di privazione e di miseria, di emancipazione daicondizionamenti illiberali, ma soprattutto considerare che la libertà è un fine pri-mario, non un mezzo per lo sviluppo. In quanto sistema a utonomo e a uto-orga nizza to il mercato lo si può effettiva-mente supporre come in grado di riassorbire le depressioni, domare le reazioniincontrollate, bloccare o impedire le crisi. Ma oltre che auto-organizzato il siste-ma economico è anche interconnesso con altri sistemi, inserito cioè in un con-testo che è l’ambiente, nel gioco delle interdipendenze. Ciò che, invece, l’eco-nomia non sa appredere è proprio quello di dia loga re con gli altri sistemi, dimo-strandosi così un sistema chiuso e talvolta opposto all’ambiente, diventando unsistema incomunica nte e perdendo ogni contatto con il non-economico.Concependosi a utoreferente e non a uto-eco-sistemico l’economico ha istituitotutto un apparato di regole a utocentra te, perciò valide solo al suo funziona-mento interno. Così la crescita economica è diventata di fatto non soltanto ilmotore dell’economia, ma anche il suo strumento regolatore. Gli esiti della mer-cifica zione pla neta ria sono sotto gli occhi di tutti: disordine nel prezzo dellematerie prime; conflitti per il loro controllo e sfruttamento; carattere artificiale eprecario delle norme monetarie; incapacità a trovare regole ai problemi mone-tari come il debito enorme dei paesi in via di sviluppo; la piaga delle ecomafie;la fragilità e le perturbazioni non-economiche; concorrenze specializzate locali;rottura delle solidarietà. Un insieme di fattori che hanno innescato processimultiformi di degra da zione del pianeta, ma anche di sofferenza degli stessisistemi economici. Tutto ciò in assenza di regolamentazioni capaci di sottoporregli attuali processi di globalizzazione sfrenata, capricciosa al controllo politico ealla legge.Dinamiche che impongono una riflessione critica e una rivisitazione della nozio-ne di va lore economico oltre che la necessaria distinzione tra crescita e svilup-po (Lester-Brown 2002)67.Quando si parla di economia ecocompa tibile, perciò, non ci si può ridurre arisultati, indicatori e ottimizzatori di matrice economicistica, ma far dipendere lasostenibilità dalla disponibilità a improvvisare, creare e ad impegnarsi per la vita-lità e per il rispetto degli altri partners dello scambio sistemico. Si può così adot-tare il punto di vista della libertà ed essere per un eco-sviluppo che implichi lacooperazione evolutiva, essere per un’ecologica dell’economia che è ancheun’etica ecologica o etica della reciprocità . Scegliendo il punto di vista ecologi-co, cioè quello della vita e non quello della morte, si sceglie anche il punto divista vivente, antropologico, biologico, sociale, etico oltre che economico. Si puòcosì meglio comprendere la domanda affatto retorica del testo sancrito che reci-

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65 M. CERUTI, Evoluzionesenza fondamenti,

Laterza, Roma-Bari 1995,p.38.

66 A. SEN, Developmentas Freedom, Alfred A.

Knopf, 1999; trad. it.: Losviluppo è libertà, A.

Mondadori, Milano 2000,p.24.

67 Cfr. LESTER R. BROWN,Eco-economy: Building

an Economy for theEarth, cit.

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ta: “fino a che punto l’opulenza può a iuta rci a ottenere quello che voglia mo”? Un interrogativo che esprime molto bene il limite di una prospettiva che credenello sviluppo solo come crescita di un mondo materiale e guarda al successosociale come condizione umana. Non si tratta di rifiutare il mercato quale partedel processo di sviluppo, ma di prendere in esame anche le persistenti forme diprivazione tra i vari segmenti della comunità planetaria che ne restano esclusi.Perché, per dirla con Polany, l’economia non coincide con il merca to. Nè sitratta di riaprire la diatriba tra chi inquina e consuma di più e chi cresce demo-graficamente (Singer 2003)68. Sappiamo, infatti, con A. Sen, che l’illibertà econo-mica pone una persona preda di chi viola altre forme di libertà. Ed è innegabileche crescita , successo e ricchezza facciano coppia con merce, ca pita le, profitto.Se la competizione tende a ridurre i costi, le carni agli ormoni, lo sfruttamentodel lavoro minorile, il pollo alla diossina, gli OGM, i rifiuti ne sono il corollario. Ripensare la relazione ricchezza e successo significa ripensare l’economia classi-ca e andare oltre l’idea del semplice accumulo e depauperamento delle risorse,e concepire, invece, con Aristotele che la ricchezza non è il fine ultimo dell’uo-mo. L’utile, allora, non consisterebbe più in ciò che possediamo, ma in ciò checi permette di fa re, nella qualità della vita e nelle libertà sostanziali che ci aiuta-no a conseguire (Sen 2000, 20)69. Ne consegue che la principale preoccupazione non sarebbe più quella di assicu-rare un “progresso” ad ogni costo, o una “equità” misurabile, quanto quella disviluppare una incessa nte reciprocità intersistemica . Il piacere è dato anche daciò che si riesce a da re, dona re alla vita e non soltanto a prendere. Un cambia-mento d’approccio consiste nel rendere prioritarie le esigenze biologiche anzi-ché quelle storiche ed economiche. È questa la sfida ecologica dell’a utonomiae della crea zione: un rimetterci in gioco che pone al centro il principio di gene-rosità e a ltruismo che il nostro pensiero non è educato a riconoscere. Non c’ècertamente alcuna forma di altruismo, nei confronti del mare e dei suoi pesci,crostacei, molluschi o degli abitanti, nelle immagini della nave Prestige davantialle coste della Galizia. Né vengono mai calcolati i costi invisibili delle defore-stazioni, del degrado ambientale o le deviazioni dell’acqua dai loro corsi natura-li. La diversità degli ecosistemi, la vita degli oceani, la purezza dell’aria, la vitali-tà delle specie: tutto questo è anche l’a ltro, cui guardare nella rappresentazionefilosofica dell’esistenza. Perché l’evoluzione è singolare e diversa e perciò occorre apprendere l’arte disaper spostare lo sguardo e di comprendere che l’a ltro, la biodiversità , la vita ,sono ricchezza : le vere risorse del pia neta . Nella possibilità di trascendere poe-ticamente tutto questo consiste la vera sfida dell’umanità che voglia superare sestessa e apprendere ad abitare poetica mente la terra in modo che vivere edessere possa poter significare, come sostiene Mc Harg, sa per disegna re con laNa tura .L’ecologia ci insegna la qua lità e il tempo, ed è il tempo a modellare le forme ele energie delle cose viventi; è il tempo che scrive con le sue leggi e priorità lastoria dell’evoluzione e inscrive la selezione estetica nella selezione biologica(Tiezzi 2001)70. Siamo, invece, costretti a credere che la drastica perdita di biodi-versità, che i comportamenti della nostra specie stanno determinando, minacciatutte le altre. Gli scienziati la definiscono la “sesta estinzione di massa”. Ma men-tre le precedenti ondate di estinzione note nella lunga storia del pianeta Terraerano state causate da eventi esterni naturali, quella che si sta preparando è cau-

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68 Cfr. P. SINGER, OnWorld. The Ethics ofGlobalization. Trad. it.:One World. L’etica dellaglobalizzazione, Einaudi,Torino 2003.

69 A. SEN, Sviluppo elibertà, cit, p.20.

70 Cfr. E. TIEZZI, Tempistorici. Tempi biologici,Donzelli, Roma 2001.

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sata soprattutto da un’altra specie vivente, una sola: quella umana. Secondo l’ul-timo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) circa11mila specie di piante e animali oggi viventi sul pianeta potrebbero scomparireentro i prossimi trent’anni. Di cui 1.130 sono mammiferi e 1.183 specie sono diuccelli (il 12% di quelle note), e oltre 5.600 specie di piante. E' una perdita di biodiversità impressionante, massiccia. Il rapporto Geo-3, com-missionato dall'Unep ritiene che tra le diverse minacce ambientali, dalla distru-zione delle foreste all'inquinamento dell'acqua e dell’aria, allo sfruttamentoeccessivo di risorse naturali, il cambiamento globale del clima che trasforma gliecosistemi, quella della perdita di diversità delle specie viventi (biodiversità)come la minaccia più grave, quella che le somma tutte. La velocità con cui oggile specie viventi scompaiono da 1.000 a 10 mila volte più in fretta del normaleritmo di estinzione naturale, non può che compromettere irreparabilmente,aggravandone ulteriormente la distruzione, gli habitat naturali, favorendo l'in-troduzione di specie invasive da una parte all'altra del mondo. C’è, inoltre, unostretto rapporto tra la conservazione della diversità dei viventi e la crescentepovertà.71. Pertanto, anche una visione del progresso più limita to, capace di ridurne l’im-patto ambientale, è insufficiente perché sempre fondata su un rapporto econo-mico strumenta le e non crea tivo nell’interazione con l’ambiente. Comunquebasata su un paradigma che guarda alla natura in modo predatorio per essereespropriata delle sue risorse, irrimediabilmente devastata e compromessa neisuoi equilibri eco-sistemici, nel suo bios. È sempre più difficile concepire culturalmente che le ricchezze della na turanon sono risorse spendibili e che la capacità di attivare risposte a utonome daparte di ogni sistema vivente può voler dire che possono non necessariamenteessere conformi ai parametri stabiliti per calcolo e perciò imprevedibili; che cisono risposte retroa ttive che comportano effetti disastrosi a catena come l’effet-to serra o le piogge acide; ed anche risposte non a da tta tive, che implicano cioèprocessi di stagnazione e regresso: processi che possono andare dall’entropiafino alla morte. Sappiamo dalle scienze evolutive che il tempo biologico è untempo entropico, riducendo tutto al tempo storico rischiamo di trasformare ilnostro in un destino di competizione verso la catastrofe. Allo stato attuale l’ef-fetto serra e il riscaldamento globale del pianeta hanno un andamento che nonsi potrà invertire in tempi brevi. Il fattore tempo è dunque decisivo e, guada-gnare anche solo pochi decenni di tempo prezioso, significa poter ancora coglie-re un’alternativa, quella tra “sopra vvivenza ed estinzione per buona pa rte dellavita e della civiltà ” (Rifkin 2000, 299)72.Compreso che non esistendo rimedi tecnologici agli effetti sponta nei della bio-sfera, la sola soluzione può essere soltanto quella di intervenire da subito nelrimuovere le cause che innescano i processi entropici. Nè c’è da aspettarsi moltodal mercato che ha già dimostrato come gli econocra ti non sono capaci di adat-tare il progresso tecnico agli uomini, ma preferiscono piuttosto adattare gliuomini al progresso tecnico (Morin 1994)73. Tant’è che nei ultimi due secoli si èrealizzata una vera e propria inversione a da tta tiva . Secondo questa ipotesi nonè più l’uomo ad adattarsi all’ambiente per sopravvivere, ma è l’ambiente a dover-si adattare all’attività culturale evolutiva dell’uomo. Nel primo principio era l’uo-mo ad essersi dovuto adattare all’ambiente; nel secondo vediamo come sia l’am-biente ad adattarsi all’uomo a cercare le proprie risposte comportamentali.

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71 Gli scienziati la defini-scono la “sesta estinzione

di massa”. Ma mentre leprecedenti ondate diestinzione note nella

lunga storia del pianetaTerra erano state causateda eventi esterni naturali,

quella che si sta preparan-do è causata soprattutto

da un'altra specie vivente,una sola: quella umana.

Secondo l'ultimo rappor-to del Programma delleNazioni unite per l'am-biente (Unep) circa11

mila specie di piante eanimali oggi viventi sul

pianeta potrebbero scom-parire entro i prossimitrent'anni Di cui 1.130

sono mammiferi e 1.183specie sono di uccelli (il

12% di quelle note), eoltre 5.600 specie di pian-te. E' una perdita di biodi-

versità impressionante,minaccie ambientali, dalla

distruzione delle foresteall'inquinamento dell'ac-

qua, allo sfruttamentoeccessivo di risorse natu-rali considera quella sullaperdita di diversità delle

specie viventi (biodiversi-tà) come la minaccia più

grave, che le sommatutte. C’è, inoltre unostretto rapporto tra la

conservazione della diver-sità dei viventi e la cre-

scente povertà. La veloci-tà con cui oggi le specie

viventi scompaionoda1.000 a 10 mila voltepimassiccia. Il rapportoGeo-3, commissionato

dall'Unep ritiene che trale diverse mù in fretta delnormale ritmo di estinzio-ne naturale, non può checompromettere aggravan-

do ulteriormente ladistruzione degli habitatnaturali e l'introduzione

di specie invasive da unaparte all'altra del mondo,oltre all'inquinamento, il

sovrasfruttamento di

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Possiamo ora osare ipotizzare un terzo principio, quello dell’a da tta mento reci-proco e della coevoluzione intersistemica .Bisogna allora lanciare una vera sfida ecologica scoprendo innanzitutto il valoredella coesistenza e non inseguendo i limiti dello sviluppo, ma lo sviluppo dellimite. Si tratta, in altri termini, di apprendere ad a bita re il limite, ricercandola giusta proporzione tra a ntroposfera e biosfera , ma ciò è possibile solo sce-gliendo di sviluppare una prospettiva etica che accetti la reciprocità . Senza lasalvaguardia della biodiversità e senza ampliare la sfera dei diritti all’intero pia-neta e senza un cambiamento culturale ra dica le, non è possibile assicurare nep-pure la sopravvivenza per una sola specie. Non è possibile dare un’impronta disostenibilità a un mondo in cui rischia di dissolversi ogni forma di coopera tivegloba l community con un’economia regolata solo dalla ma no invisibile del mer-cato. Più che all’inizio di un ciclo virtuoso sembriamo, infatti, osserva EdgarMorin, coinvolti in una corsa inferna le fra la degradazione ecologica che produ-ce la nostra degradazione e le soluzioni tecnologiche che si preoccupano “deglieffetti di questi ma li continua ndo però a sviluppa re le loro ca use” (Morin 1988,100)74.Senza un radicale ripensamento ecologico dell’economia e senza un migliora-mento nella gestione e nella tutela delle risorse naturali lo stesso futuro dell’u-manità e delle altre specie ne sarà seriamente compromesso. Il traguardo è quel-lo di una nuova solida rietà orga nizza tiva come ipotesi gestionale del nostrooikos. Pensare cioè la terra come “luogo geometrico della complessità e del-l’entropia nega tiva ” (Tiezzi 1991, 90)75, sapendo che la geometria della naturaè caotica e non può corrispondere al modello euclideo. Le coste, i cristalli, legalassie, le nuvole non fanno che mostrarci che per entrare nel caos occorre lageometria dei frattali (Mandelbrot 1987)76.

9. Coevoluzioni

Nel raccontare il suo sogno di un mondo migliore, Rigoberta Menchù osservache il mondo ha assistito alla globa lizza zione dei ca pita li e delle comunicazio-ni, ma non alla globa lizza zione della giustizia , della solida rietà , del rispetto edella tollera nza , come non ha saputo universalizzare i valori, il rispetto dell’am-biente e della vita. Accade così che “ma ggiore è il benessere e l’opulenza dia lcuni, ma ggiore è a nche l’insa zia bile vora cità per le risorse che dovrebberoservire a ga ra ntire a tutti un minimo” (Menchù 2003)77. È evidente come i conflitti sociali e le controversie ambientali siano destinati adaumentare con l’evolversi delle conoscenze e con lo sviluppo globale dei mer-cati. Una relazione complessa unisce, infatti, i tre sistemi: culturale, economico eambientale, ma se non si governano i processi dominati dal neo-liberismo e nonsi limita la dittatura tecnocratica, ad essere sconfitta sarà l’umanità intera.L’ultimo decennio del secolo ventesimo ha rappresentato una svolta epocale cheha visto l’affermazione e la reiterazione su scala planetaria del modello di svilup-po occidentale fondato, come abbiamo detto, sull’idea acritica della capacitàadattiva e autorigenerativa dell’ambiente, che nel suo traslato socio-economicodiventa capacità di adattamento e di autoregolamentazione del mercato e dellesue distorsioni all’interno delle società umane. Una sorta di neoevoluzionismosociale cui non sfugge neppure chi propone un modello ecocompatibile o eco-sostenibile che non tenga conto dell’ambivalenza e della complessità dei pro-

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risorse, il cambiamentoglobale del clima che tra-sforma gli ecosistemi.

72 J. RIFKIN, Entropy. Intothe Greenhouse World,Penguin Putnam Inc.1989; trad. it.: Entropia,Baldini & Castoldi, Milano2000, p.299.

73 Cfr.E. MORIN, Terra-Patria, cit.

74 E. MORIN, Il pensieroecologico, HopefulMonster, Firenze 1988, p.100.

75 E. TIEZZI, Il capitombo-lo di Ulisse, cit., p.90.

76 Cfr. B. MANDELBROT,Gli oggetti frattali,Einaudi, Torino 1987.

77 R.MENCHU’, Il miosogno di un mondo piùumano, in <<LaRepubblica>>, 23 gen-naio 2003.

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cessi, delle azioni e delle retroazioni che si determinano. Le contraddizioni intrinseche a questo modello di sviluppo politico-economicosono ormai troppo evidenti per non porre l’urgenza della discussione ra dica ledel paradigma di progresso inaugurato con l’industrializzazione e direttamenteconnesso alle origini stesse della modernità, con la scoperta dell’a ltro e con l’e-spropriazione delle sue risorse, alla formazione dell’economia-mondo dellasocietà-mondo, non sarà sufficiente tentare di aggredire il problema. Si tratta diripensarlo nella sua logica antiecologica. Perché i sacerdoti delle banche e delleistituzioni finanziarie del Nord del pianeta hanno potuto vivere alla grande uti-lizzando “la ricchezza presa in prestito o ruba ta ” ai popoli del Sud del pianeta,applicando una forma di capitalismo molto atipica e singolare che considera ”lerisorse na tura li e i poveri elementi non indispensa bili degli ecosistemi” (Shiva2002, 222).78

L’ecofilosofia elaborata dal norvegese Arne Naess ha individuato due approccipossibili alle questioni ambientali e allo sviluppo, uno da lui definito superficia -le, l’altro profondo. Con il primo, quello superficiale, ci si può limitare a ridurrel’inquinamento e a conservarne le risorse; con quello profondo, si deve allarga-re lo sguardo non solo a ciò che accade nei paesi ricchi, ma anche alle altre aree,soprattutto a quelle selvagge, che più di ogni altro dovrebbero essere protette,preservate e valorizzate. Fare questo significa apprendere l’arte di spostare losguardo e non è necessario fondare una nuova etica, secondo J. Passmore, sem-mai di riscoprire e va lorizza re tutte quelle tradizioni del pianeta che sono stateaccantonate, che sono state occultate e rese ingiustamente minoritarie, per dareforza ai principi morali già esistenti (Passmore 1986)79. Occorre sviluppare nuovicomportamenti e inventare nuove pratiche di vita che richiedono lo sforzo diconfrontarci con i problemi etici pur sapendo che ogni sviluppo crea tivo portacon sé necessariamente una distruzione, e che ogni organizzazione è sempredisorga nizza trice/riorga nizza trice. Così come ogni innova zione trasformatri-ce è pur sempre una devia nza che da un lato rompe le regolazioni ma, dall’al-tro, le ricostituisce. Perchè ciò accada occorrono principi, norme e regole peroperare la “deregola zione che permette l’innova zione e sta bilire la regola zio-ne che ma ntiene la tra sforma zione” (Morin 1994, 148)80.Sarebbe, infatti, mortale continuare a destrutturare senza attivare processi capa-ci di sviluppare dinamiche aggregatrici. Ciò è possibile soltanto con lo sviluppodi politiche planetarie coordinate da un potere planetario in grado di regolare leforze economiche e di affrontare efficacemente i problemi complessi che pro-prio tali forze, finché resteranno prive di regolamentazione, creano. Di regoleparla anche Z. Bauman, sostenendo che è possibile cambiare questo sviluppo,solo affrontando di petto la sfida principale del nostro tempo ossia, il bisognourgente di sottoporre gli attuali sfrenati, erratici, capricciosi processi di globaliz-zazione al controllo politico e alla legge (Bauman 2002)81. Ma soprattutto bisognaessere capaci di sviluppare una coscienza pla neta ria per apprendere ad a bita -re e a civilizza re la Terra e sviluppare così un senso di a ppa rtenenza alla nostraTerra-Patria. Se veramente siamo macchine non-banali possiamo apprendere amoltiplicare i punti di vista, spostare le domande ed ampliare i contesti e anchese siamo certamente destinati all’erranza, non per questo siamo “inelutta bil-mente conda nna ti a ll’errore, a ll’illusione, a lla fa lsa coscienza ” (Morin 2002,270)82.

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78 V. SHIVA, Terra-Madre,cit., p. 222.

79 J. PASSMORE, La nostraresponsabilità per la natu-

ra, cit.

80 E. MORIN,.Terra-Patria,cit., p.148.

81 Z. BAUMAN, L'umanitàsegregata in una discarica,in <<Il Manifesto>>, 10

ottobre 2002.

82 E. MORIN, La Méthode5. L'Humanité de

l'Humanité. Tomo I:L'identité humaine,

Editions du Seuil, Paris2001; trad.it.: L'identitàumana, Cortina, Milano

2002, p. 270.

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10. L’Essere-per-la-morte e L’Essere-per-la-vita

È nel secolo appena concluso che l’uomo ha percepito pienamente che la tragi-cità della propria condizione dipende quasi interamente da se stesso, dalla suacrea tività distruttiva . Jean Luc Nancy, ha proposto una tripartizione, teorica estorica, della nozione di ma le. Dei tre sensi in cui parliamo del male, come sven-tura , come ma la ttia e come ma le puro e semplice, il primo è quello fatale,caratteristico dell’antichità; il secondo è quello razionale più specifico del pen-siero moderno. Ma oggi si può ormai parlare di male solo in un senso più totalee ra dica le: i campi di sterminio nazisti non sono né la disgrazia di Edipo, né unaccidente che turba l’ordine razionale del mondo. Sono in molti sensi il maleassoluto, hanno una portata metafisica; sono essi che ci inducono a ripensare almale sostantivo, e riparlare di una tragicità essenziale della condizione umana.Pertanto il pessimismo tragico che serpeggia nella nostra cultura ha anche moti-vazioni più recenti e giustificazioni più attuali dove, divenuta impraticabile laspiegazione marxiana, tutto sembra dipendere dal modo in cui ha avuto inizioquesta storia con l’ominizzazione; una storia dominata da una specie, quale con-seguenza inevitabile – secondo alcuni – della hybris, della tracotanza, caratteri-stica della tecnica (anzi della Tecnica).Ed è in questo ta rdo pomeriggio ontologico nel quale “l’inventiva tecnocra ticarisponde a ll’a ppello del disuma no, o rima ne neutra le” (Steiner 2003, 10)83 checi poniamo dinanzi alla duplice e angosciante coscienza dell’essere-per-la -mortee dell’essere-per-la -vita . Una consapevolezza che può generare due atteggiamenti opposti. Da un lato ladistra zione, la rassegnazione, la fuga, intesa come disimpegno, come mortedella coscienza, sorda al dolore del mondo e ubriacata dai ritmi mediatici, com-pletamente “immersa” e nello stesso tempo “estranea” ai destini del mondo; unacoscienza dissipata nella nullificazione delle merci, che ama perdersi nella deie-zione dei consumi. Dove regna l’accettazione della morte quale condizione onto-logica dell’Essere, per vivere in un eterno presente che annulla ogni possibilitàdi coniugare il futuro. Un’umanità che, dimenticata la grammatica, sia incapacedi fare uso del congiuntivo e delle subordinate ipotetiche. Vivendosi un presen-te sempre più dilatato, infinito, senza progetto, in cui l’oggi è l’unica prospettivasenza tempo, senza passato e senza futuro. Dall’altra la possibilità di abbandonare ogni visione riduzionistica e riattivare l’in-terrogazione a partire dal vivente, dall’Essere degli Esser-Ci e al destinodell’Essere e del Vivente, con il quale l’uomo con-divide e con-vive e concorre-re alla vita dell’Essere-per-la-vita, in un processo di coevoluzione permanente.Una prospettiva che può ben definirsi Cosmosofica , quale a more per il cosmo,che estende il suo abbraccio all’ oikos, alla Physis in una coriginale strutturaontologica dell’Essere-degli-Esser-ci.Platone nel Timeo stabiliva un nesso tra bellezza e natura, e narrava che il cosmofosse la cosa più bella di tutte. Egli riteneva che la creazione a partire dal ca oscorrispondesse alla causalità più efficiente, il cui scopo non poteva non essere labellezza perfetta. Stabiliva così un incontro tra morale e logica, tra morale edestetica. Kosmos viene, infatti, da kosmeo, termine dal quale deriviamo il con-cetto di cosmetico, di unico, di bellezza. I filosofi greci, infatti, odiavano il nulla , provavano orrore del vuoto, per questonarravano quelle fiabe della ragione che erano le cosmogonie, che, secondo G.

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83 G. STEINER, Grammarsof Creation. Trad.it.:Grammatiche della crea-zione, Garzanti, Milano2003, p.10.

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Steiner, erano risposte erotiche alle domande: perché non c’è il niente? Perchénon c’è il ca os? La semantica greca non possedeva i termini per definire il non-nato, l’ex-nihilo, il nulla. Mentre la filosofia moderna concependo soltanto ilpieno, l’esistente, con la sua grammatica ha reso innaturale la radicale negativitàesistenziale. Ma la domanda amara: perché non c’è il niente? ritorna prepoten-temente come è ritornato nuovamente presente il caos con i progressi dellematematiche. E l’interrogativo ontologico acquista una nuova urgenza metafisi-ca e morale, perché investe la natura dell’essere, dell’Essere come dono, quindicome crea zione (Steiner 2003, 41)84. Ma dinanzi a noi esseri globalizzati incapaci di provare ex-sta si, stupore, c’è ormaila prospettiva della fine; siamo sempre più lontani dagli enigmi delle origini. Lamorte a cca de, è di tutti, è condizione ontologica ineludibile. Le nostre mentiabilitate a pensare per scenari ci mostrano un futuro prossimo di paesaggi luna-ri, spettrali, desertici. Fiction e fantascienza creano proiezioni e anticipazioniinquietanti che dimostrano quanto la nostra fantasia sia ossessionata non più dalmito della genesi, dalle cosmogonie, quanto dal mito della morte, dellecosmo(a )gonie.Dinanzi a nuove possibili biforcazioni, ad eventi accidentali, discontinuità, deri-ve ed ibridazioni solo la presa di coscienza della comune condizione terrestre edel comune duplice radicamento può farci evolvere verso una oltre-uma nità .Se la modernità ha sacrificato il cum della relazione tra gli uomini della commu-nita s, istituendo una sorta di immunita s al fine di assicurare la propria soprav-vivenza, al prezzo della dissociazione di ogni legame, Morin nel riproporre l’ideadi una Comunità di destino non solo ristabilisce il legame del con-essere chepermette all’umanità di uscire dal vuoto ra dica le nel quale si è venuta a trovare,ma ad uscire anche dal vuoto cosmico, nel quale si è immersa.Ponendo al centro il nulla , Morin evoca il suo contrario: la vita . Condizione bio-logica questa che non appartiene solo all’uomo. Non solo l’uomo, dunque, alcentro della riflessione ontologica dell’esistenza. Non si tratta solo di porre l’in-terrogativo sul chi è dell’uomo, ma di interrogarsi sulla condizione fondamenta-le dell’essere-per-la -vita e dell’essere-per-la -morte. È lo spazio per un esistenzia-lismo cosmico cora ggioso, evolutivo, crea tivo, poietico che ristabilisce il sensodella comunità proprio come la intendeva Hobbes, ossia nel comune rischio diuna comune uccidibilità , fine, declino, estinzione. In cui pur nella consapevo-lezza della morte cosmica la comunità è assunta come eccedenza energeticache rinsalda la relazione individuo/società /specie. Nella coscienza della univer-sa le singola re diversità e nella singolare ambivalenza di vita e di morte, per svi-luppare così nuove qua lità emergenti capaci di aprire a nuovi giochi evolutivi. Questo interrogarsi dell’Ente sull’intero mondo della vita rompe definitivamen-te con la ra ziona lità a ntropofilosofica . L’apertura di Heidegger muove dall’uo-mo e riconduce l’a lterità all’umano, senza interrogare la nozione di diversità nelsenso del bios, e guarda agli esiti anche nichilisti in termini di “possibilità” e di“alternativa” sempre per l’uomo e non già per-gli-a ltri esseri viventi. Che è stataun’innegabile apertura al multiculturalismo, a l plura lismo evolutivo. Ma come èaltrettanto innegabile che oggi è la stessa macchina discorsiva a produrre lo ste-reotipo della differenza , a garantire questa prospettiva di superiorità cognitivache i sociologi chiamano di othering e che sta generando i cosiddetti equivocidel multicultura lismo. Questo si sta trasformando, infatti, in una delle tanteretoriche possibili nelle quali spesso l’a ltro si muove sempre all’interno di rap-

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84 G. STEINER,Grammatiche della crea-

zione, cit., p. 41.

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presentazioni omologanti dell’a lterità . In altre parole dell’a ltro si danno solorappresentazioni a partire dal proprio paradigma culturale dominante e con ilquale si producono storie e na rra zioni. Mentre sappiamo, invece, che ciò chedecide effettivamente la differenza possono essere soltanto le pratiche e le poli-tiche di comunicazione istituite da lle e nelle relazioni. Invece, si immaginanoaperture degli spazi discorsivi volti a decostruire, a svelare con il linguaggio unavolontà dialogante che finisce per tradursi in una incorpora zione dell’alterità, inun gesto che decide chi decostruisce e chi attiva il procedimento pratico. Per questo un vero procedimento di decostruzione che non sia di dominio madi partecipazione (Montuori-Conti 1997), (tra cui le teorie evoluzionistiche, lescienze della mente, la cibernetica, la teoria dei sistemi, la teoria dei giochi, lanuova biologia, la cosmologia, la teoria degli equilibri punteggiati, la teoria dellacomplessità del vivente, ecc.)85 passa non attraverso lo svelamento dell’altro manella comprensione autentica dell’a ltro come tutt’a ltro. Una comprensione checome sostengono sia Levinas, sia Derrida, solo la rela zione può istituire e chenasce dall’incontro con l’altro; un incontro nel quale a bolire la parola per lascia-re spazio all’a scolto. Abolire il dominio della parola e a scolta re l’a scolto è unprocesso di decostruzione e quindi di creazione differente dal paradigma teolo-gico dell’ermeneutica e che potrebbe essere definito post-decostruttivista , pro-prio perché rende chiara la consapevolezza di un paradosso: dell’a lterità ra di-ca le dell’a ltro.Pertanto se è stato cruciale aver compreso l’oblio dell’Essere cui la svolta meta -fisica ha messo capo ora occorre comprendere l’oblio dell’Altro-esser-ci e dareinizio ad una svolta ecologica . Scoprire e comprendere i molteplici e simultaneilivelli di esistenze presenti nel nostro pluriverso e multiverso e spostare losguardo pia no della specie a quello rotondo della specie e delle specie, per con-cepire non soltanto un’a ntropo-biosfera , ma anche una bio-eco-a ntropo-biosfe-ra . Provare l’emozione piena dell’Esser-ci, sentendoci con gli altri. Il sentire cheha la sua radice nel provare sentimento e amare, sofia appunto, nei confronti delsa pere cosmico. Perché non esiste alcun senso della realtà senza amore, e pro-prio questo legame, per Simon Weil, è alla radice del bello.Morin interrogando la nozione di eco apre all’oikos alla ca sa comune del viven-te, ad una Cosmofilosofia . Una prospettiva pla neta ria che implica l’idea delmunus, della reciprocità nei confronti di tutti coloro che ci donano la vita .Ponendoci dinanzi all’essere-per-la -morte e all’essere-per-la -vita egli rimette ingioco l’a ngoscia e la spera nza . Mostrandoci il nostro essere singola re-plura le ciapre alla nostra costitutiva a lterità nei confronti di noi stessi, ad una nuova strut-tura ontologica del con-Essere. Ci insegna a trascendere l’Essere per essere-con-gli-altri-viventi. Ma questa responsabilità ci obbliga ad una nuova crea zione versogli altri, a dare un valore in più al mondo. La sua utopia è una poiesis, e come lapoesia di tutti i tempi ci costringe a progredire. La sola capace di crea re, che cirende vivi e desiderosi di rivelazioni.

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85 Cfr.A. MONTUORI, I.CONTI, From Power toPartnership. Creating theFuture of Love, Work,and Community. (Trad.It.: Dal dominio alla par-tecipazione, Etas Libri,Mialno 1997)

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Questo testo è la rela zione letta a l Semina rioita lo-bra silia no che si è tenuto a Ma rghera (VegaLybra ) il 31 ma ggio 2007, su: “Ripensa re Gra msci.Scuola a ttiva , forma zione politecnica e ca pita lesocia le nel primo Novecento”. Il Semina rio è sta topromosso da l Dottora to in scienze dellaCognizione e della forma zione in colla bora zionecon la Ssis e con il Centro di Eccellenza per laRicerca Dida ttica e la Forma zione Ava nza ta , esotto la direzione del prof. Umberto Ma rgiottadell'Università Cà Fosca ri di Venezia . SulSemina rio ritorneremo nel prossimo numero.

Nella letteratura gramsciana si cita spesso il giudi-zio che Gramsci diede del pragmatismo italiano:“Mi pare di poter dire che la concezione del lin-guaggio del Vailati e di altri pragmatisti non siaaccettabile: tuttavia pare che essi abbiano sentitodelle esigenze reali e che le abbiano “descritte”con esattezza approssimativa, anche se non sonoriusciti a impostare i problemi e a darne una solu-zione” (Gramsci 1975, p. 1330).La citazione apparentemente chiude la questioneintorno alla considerazione che Gramsci ebbe delpragmatismo. Ma, cosa conosceva Gramsci delpragmatismo? Il curatore dell’edizione Einaudi deiQua derni da l ca rcere asserisce che Gramsciconosceva Il pra gma tismo, di Giovanni Vailati eMario Calderoni (Vailati - Calderoni s.d. [1915]).Viene richiamato anche (ma, dicono i curatori,forse da fonte indiretta) Il lingua ggio come osta -colo a lla elimina zione dei contra sti illusori(Vailati 1987, p. 111-115), ripubblicato negli Scritti

del filosofo cremasco editi nel 1911, ma cheGramsci poteva aver letto nella rivista“Rinnovamento” nel 1908. Non risulta che abbiaavuto sottomano l’edizione degli Scritti di cuiparla, e che fa intendere di voler “rivedere”(Gramsci 1975, p. 1330). Il termine può lasciareintendere che Gramsci prima del carcere abbiaconsultato gli Scritti. Tra i testi di GiuseppePrezzolini quello sicuramente conosciuto è Il lin-gua ggio come ca usa di errore, edito nel 1904.Questi i testi e questi i due principali pragmatistiche egli conosceva.Ci sono però riferimenti e citazioni sparsi, e, anchese l’elenco delle ricorrenze non è lungo, esse con-sentono un raffronto almeno tematico, se nonpuntualmente condotto sui testi, tra il pensiero diGiovanni Vailati e Antonio Gramsci. Inoltre, con-sente di sfumare l’accezione negativa del giudiziogramsciano sul pragmatismo e i pragmatisti.Gramsci parla “di altri pragmatisti”. Chi erano? NeiQua derni si nominano Prezzolini e Papini, maquest’ultimo non ricorre nei contesti in cuiGramsci parla di pragmatismo. Resta quindiPrezzolini. L’accostamento Prezzolini-Vailati, poi, anoi contemporanei non pare affatto pacifico. Èdato acquisito dalla critica che Vailati fosse conMario Calderoni esponente del pragmatismo logi-co, in contrapposizione con Giuseppe Prezzolini eGiovanni Papini. Oltretutto Prezzolini rinnegò ilsuo pragmatismo nel 1908, di qualunque speciefosse stato, e, forte del suo nuovo crocianesimo,rinnegò anche il defunto Vailati nel 1910(Prezzolini s.d., p. 101); negli anni successivi,

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Giovanni Vailati e Antonio Gramsci: una “quistione di parole”

Borderline

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quando si accorse che qualcuno ritornava a Vailaticon ammirazione, rinnegò anche il suo stesso rin-negamento. Ma negli anni ‘30 stava appena perarrivare il primo dei tanti momenti di rivalutazionedi Vailati, e Gramsci sapeva di lui solo quello che latradizione gli aveva consegnato, ovvero moltopoco. Non è questa la sede per illustrare le ragioniper cui Vailati fu dimenticato e bandito dal pano-rama culturale italiano, ma il suo resta uno dei casipiù strani del Novecento. Laureato in ingegneriaed in matematica, era uno dei pochissimi intellet-tuali italiani ad unire solide conoscenze scientifi-che ad una profonda cultura filosofica. Parlavaquattro lingue ed aveva rapporti intensi con lacomunità scientifica internazionale. Vailati era forse l’unico che avrebbe potuto concognizione di causa portare avanti il progettovagheggiato dai positivisti, i quali, in realtà, parlan-do di scienza senza conoscerla “determinarono lasfiducia degli scienziati più avveduti e le critichedei filosofi più accorti” e “contribuirono così a queldivorzio fra scienza e filosofia tanto dannoso per lanostra cultura” (Garin 1997, p. 8).La sua critica al positivismo si accompagnò a quel-la all’idealismo, che allora si stava irrobustendo, etrovò un palcoscenico nel Leona rdo, testata fon-data appunto da Papini e Prezzolini con l’intento dicriticare e scuotere la fiacca attività culturale italia-na. La produzione culturale di Vailati è vastissima.L’articolo citato da Gramsci, Il lingua ggio comeosta colo a lla elimina zione di contra sti illusori, èun buon punto di partenza per illustrare la conce-zione vailatiana del linguaggio, nonché per illustra-re l’importanza della massima pragmatica ai fini diun confronto, seppure molto parziale, tra i dueautori.

La massima pragmatica

Il solo fatto di parlare una lingua, dice Vailati, impo-ne al parlante di accettare una grande quantità diclassificazioni e distinzioni di cui non saprebbeindicare l’origine e il fondamento, dato che essesono nate in circostanze differenti da quelle in cuiegli vive. Tali distinzioni e classificazioni condizio-nano però i nostri tentativi di pensare e parlare conoriginalità. La storia delle scienze è ricca di esempiin tal senso. Basti pensare al ruolo che giocò ladistinzione, irriducibile, tra corpi pesanti e corpi

leggeri, “i primi tendenti verso il “basso” e gli altritendenti verso l’“alto””, che “fu tra i maggiori osta-coli che si opposero alla scoperta e al riconosci-mento delle analogie sussistenti tra il comporta-mento dei corpi sotto l’azione della pressioneatmosferica e quello dei corpi immersi o galleg-gianti in un liquido” (Vailati 1987, vol. I, p. 112). Mase dalle ricerche fisiche si passa ad esaminare quel-le che hanno per oggetto l’uomo, allora diventaancora più lampante l’”incompatibilità tra le classi-ficazioni, imposte dal linguaggio comune, e quelleche man mano vengono a essere riconosciute, daisingoli investigatori, come meglio rispondenti aifatti, o più conformi alle esigenze della ricerca o delleapplicazioni pratiche” (Vailati 1987, vol. I, p. 112).Socrate e i suoi interlocutori nel Teeteto non fannoaltro che sottoporre a critica le distinzioni e leidentificazioni implicitamente accettate dal lin-guaggio comune in nome del “diritto di far dipen-dere la propria adesione ad esse dai risultati diun’indagine pregiudiziale sul loro grado di coeren-za e sui motivi adducibili a giustificazione di esse”(Vailati 1987, vol. I, p. 112). La scienza e la filosofiadovrebbero quindi essere ripensate ad ogni suc-cessiva generazione, data la resistenza che le asso-ciazioni verbali tradizionalmente accettate e dateacriticamente per buone oppongono alla loro revi-sione. Uno dei dilemmi classici frutto appuntodella difficoltà di un approccio critico al linguaggioè quello classico che oppone il “credere” al “sape-re”, come, dice Vailati, se “ciò che “sappiamo” noncostituisse, in ogni modo, una parte di ciò che“crediamo” (Vailati 1987, vol. I, p. 115). L’analisi linguistica appare quindi propedeuticaalla determinazione dei criteri di credenza e con-dotta. L’ “epurazione” linguistica non è cioè merachiarificazione di ciò che si intende con un datotermine o con un altro. O meglio, non solo. È rin-venimento dei processi che hanno condotto aquelle distinzioni e a quei concetti: tale rinveni-mento ci conduce alla libertà di accettare o rifiuta-re le distinzioni cui hanno dato luogo, nel caso checi paiano inopportuni e non adeguati agli scopiche noi possiamo avere in vista in una determina-ta circostanza. Non si tratta di ripensare il linguag-gio in vista dei nostri fini immediati, in una pro-spettiva meramente utilitaristica. Anzi.Per restare solo ai testi che con ogni probabilitàGramsci aveva conosciuto, si pensi al testo Il pra g-

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ma tismo. L’opera si apre con l’esposizione dellaregola metodica di Ch. S. Peirce, che, ripresa daVailati, si configura come la “cifra” del pragmati-smo logico. Tale regola è sintetizzata così:“Il solo mezzo di determinare e chiarire il senso diuna asserzione consiste nell’indicare quali espe-rienze particolari si intende con essa affermare chesi produrranno, o si produrrebbero, date certe cir-costanze” (Vailati – Calderoni s.d. [1915], p. 20).A monte, sia detto per inciso, c’è la riflessione diBerkley, per il quale, termini come “realtà”,“sostanza”, “materia” non indicano altro che la“possibilità di sensazioni”, indicano cioè quelloche noi proveremmo in determinate circostanze.L’essere o l’esistere non è insomma che il “poteressere” di determinate circostanze.L’asserzione di Peirce, dicono Vailati e Calderoni, èstata talvolta proposta da lui nella seguente varian-te: “Il significato di una concezione consiste nellesue conseguenze pratiche” e questo ha dato luogoad equivoci, come quello di concepire il pragmati-smo come una specie di “utilitarismo” applicatoalla logica; nel vedere in esso, cioè, una dottrinaassumente a criterio della verità o falsità delle cre-denze, le loro conseguenze più o meno utili, o gra-devoli” (Vailati – Calderoni s.d. [1915], p. 21).La regola metodica di Peirce è lontanissima da taleprospettiva. Nelle parole di Vailati e Calderoni“essa non è in sostanza che un invito a tradurre lenostre affermazioni in una forma nella quale adesse possano venire più direttamente e agevol-mente applicati, appunto quei criteri di verità e fal-sità che sono più ‘oggettivi’, meno dipendenti,cioè da ogni impressione o preferenza individuale;in una forma, cioè, atta a segnalare nel modo piùchiaro, quali sarebbero gli esperimenti, o le con-statazioni, alle quali noi, od altri, potremmo edovremmo ricorrere per decidere se, e fino a chepunto, esse siano vere” (Vailati – Calderoni s.d.[1915], p. 21). L’unica accezione nella quale è accettabile che ilpragmatismo sia tacciato di avere un carattere “uti-litario” è quella per cui può essere convenienteapplicare la massima pragmatica perché aiuta ascartare questioni inutili o fumose. La questionenon è solo di stabilire quello che si vuole dire, conuna determinata affermazione, ma anche di“discernere, nelle nostre affermazioni, quella parteche, implicando delle previsioni, è suscettibile di

venire confermata o infirmata da ulteriori espe-rienze, da quell’altra parte che, riferendosi invecea qualche nostro stato attuale di coscienza (sensa-zioni, gusti, apprezzamenti) non può dar luogo acontroversie risolubili con appello a nuovi fatti”(Vailati – Calderoni s.d. [1915], p. 25). È il non tener conto di una “norma metodica”tanto elementare che porta spesso i filosofi “aimpegnarsi in controversie che, in mancanzaappunto di qualunque chiara determinazione dellatesi cui si riferiscono, non possono che prolungar-si indefinitamente ed apparire insolubili o trascen-denti la capacità della mente umana (Vailati –Calderoni s.d. [1915], p. 26). Ma, per tornare alla massima pragmatica, l’esem-pio illustre di degenerazione della massima stessain un forma di utilitarismo applicato alla logica cheVailati e Calderoni avevano in mente, era HenryJames, il nome del quale godeva di grande noto-rietà per il suo Principii di psicologia e la sua par-ticolare varietà di pragmatismo. Di questa forma dipragmatismo Gramsci parla esplicitamente, con-dannandola. A proposito del pragmatismo americano e nellafattispecie riferendosi a Dewey e James afferma:“Questa tendenza a concepire la vita come fattotecnico, spiega la filosofia americana medesima. Ilpragmatismo esce per l’appunto da questa menta-lità che non afferra e non pregia l’astratto”(Gramsci 1975, p. 516 ), che vuole cioè far presaimmediata sulla realtà piegandola ai proprii fini. AGramsci questa pretesa pare volgare, esattamentecome a Vailati e a Calderoni, ma questo non ci con-sente di segnare un punto di concordanza tra filo-sofia della prassi e pragmatismo. Il rinvenimento dei processi che danno luogo alledistinzioni e alle classificazioni che noi utilizziamonon è che un caso specifico dell’applicazione dellaregola metodica. Il perno attorno alla quale ruotala regola è il concetto di previsione. La peculiaritàdel pragmatismo vailatiano poggia sulla consisten-za della massima pragmatica, senza la quale non siavrebbe previsione fondata, né discorso e condot-ta coerenti. Ed è la previsione uno dei cardini ditale filosofia, il concetto attorno al quale ruota l’in-tera produzione vailatiana e calderoniana. È la pre-visione a saldare linguaggio e condotta.

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Storia e previsione

Ed è utilizzando tale metodica che gli scienziatiprocedono periodicamente ad una “riaffilatura”(Vailati 1997, vol. II, p. 91) dei propri ferri delmestiere, ad un’analisi critica dei mezzi di rappre-sentazione che utilizzano e dei processi di prova edi ricerca seguiti. Secondo Vailati la più utile formadi queste discussioni sarebbe quella che consistenel determinare analogie e differenze tra le diversescienze, e soprattutto nell’esaminare se e fino ache punto tali analogie e differenze trovino giusti-ficazione nella natura della materia trattata. Adesempio, ha reale motivazione d’esistere la distin-zione tra le scienze che hanno come oggetto l’uo-mo e le scienze cosiddette fisiche o naturali? PerVailati non ha alcun senso. Si discute, dice Vailatinel saggio Sull’a pplica bilità dei concetti di ca usaed effetto nelle scienze storiche, intorno alla possi-bilità o meno dell’esistenza di leggi storiche, nellostesso senso nel quale si parla di leggi fisiche o chi-miche. Ebbene, “una gran parte dei dispareri sem-bra […] dipendere, più che da altro, dalla man-canza di un concetto sufficientemente chiaro di ciòche si intende per legge nelle scienze fisiche e mate-matiche e dalla tendenza ad attribuire alle leggi, daqueste considerate, dei caratteri che esse sono lon-tane dal possedere (Vailati 1997, vol. II, p. 91).È un luogo comune contrapporre le regolarità e leanalogie presentate dall’osservazione dei fattisociali con le leggi del mondo fisico. Invece è faci-le dimostrare che anche le cosiddette leggi fisichesono soggette ad eccezioni, né più né meno deifenomeni sociali. “Quando si dice che l’acqua con-gela a 0 gradi, si afferma qualche cosa che puòessere vera o falsa a seconda della pressione cuil’acqua di cui si parla è soggetta. Se anche si faentrare questa restrizione nell’enunciazione dellalegge, e si dice che l’acqua, alla pressione di 760mm, congela a 0 gradi, si è ancora lontani dal poterdire d’aver formulata una legge che non soffraeccezioni, poiché, (anche senza tener conto dellacircostanza che il punto di solidificazione dell’ac-qua può variare a seconda delle sostanze che essacontenga in soluzione) è noto come, con certeprecauzioni, si riesca a portare dell’acqua, anchechimicamente pura, al di sotto di 0 gradi, alla pres-sione di 760 mm, senza che essa congeli (Vailati1997, vol. II, p. 91).

Quindi a che cosa si riduce tale legge se non a direche, date tali o altre, condizioni, si verifica, trannei casi in cui ve ne siano altre che non siamo ingrado di determinare con esattezza? Qual è la dif-ferenza con le analogie e le regolarità osservate neifatti naturali? In secondo luogo, non è nemmenochiaro che si intenda con il dire che esse sononecessarie, a meno che non si pensi che devonoessere vere come lo sono le conclusioni che si pos-sono trarre da premesse vere. In tal caso però nonci si sottrae alla verifica di quelle premesse che nonpossono essere dedotte da altre. La riluttanza adammettere che si potrebbe parlare di leggi stori-che sta nel fatto che molti pensano che dare allaregolarità dei fatti sociali il nome di legge implichila svalutazione della volontà umana e della suapossibilità di modificare il corso degli eventi. Mapoi in realtà essi, pur ammettendo che vi sonoleggi naturali che impedirebbero in via teorica l’a-zione umana, non vedono nessuna incompatibilitàtra le leggi dell’idrostatica e il fatto che si possadeviare il corso di un fiume. Ciò che una legge asserisce non è che il tale fattoavverrà o non avverrà, bensì “quali siano i fatti dacui è accompagnato quando avviene o da cui ver-rebbe accompagnato nel caso che avvenisse”(Vailati 1997, vol. II, p. 95). Ma nei Qua derni il concetto di previsione è forte-mente diverso. Gramsci non cita Vailati, ma dice:“La posizione del problema come una ricerca dileggi, di linee costanti, regolari, uniformi è legata auna esigenza, concepita in modo un po’ puerile eingenuo, di risolvere perentoriamente il problemapratico della prevedibilità degli accadimenti storici.Poiché ‘pare’, per uno strano capovolgimentodelle prospettive, che le scienze naturali diano lacapacità di prevedere l’evoluzione dei processinaturali, la metodologia storica è stata concepita‘scientifica’ solo se e in quanto abilita astrattamen-te a “prevedere” l’avvenire della società.[…] Inrealtà si può prevedere scientificamente solo lalotta, ma non i momenti concreti di essa.Realmente si ‘prevede’ nella misura in cui si opera,in cui si applica uno sforzo volontario e quindi sicontribuisce concretamente a creare il risultato‘preveduto’” (Gramsci 1975, p. 1439).La previsione, continua poi Gramsci, non è un attodi conoscenza. E come potrebbe mai esserlo? “Siconosce ciò che è stato o è, non ciò che sarà, che

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è un ‘non esistente’ e quindi inconoscibile perdefinizione. Il prevedere è quindi solo un atto pra-tico […] È necessario impostare esattamente ilproblema della prevedibilità degli accadimenti sto-rici per essere in grado di criticare esaurientemen-te la concezione del causalismo meccanico, persvuotarla di ogni prestigio scientifico e ridurla apuro mito” (Gramsci 1975, p. 1404).Vailati non solo sostiene la possibilità di parlare dileggi storiche, ma nega con forza che questo impli-chi la “causalità meccanica” di cui parla Gramsci. Laconcezione materialistica della storia secondoVailati presenta in modo volgare il pregiudizio percui i soli fattori efficaci dello sviluppo e delle tra-sformazioni sociali sono quelli economici, che fun-gerebbero come causa, mentre “l’ammettere l’in-fluenza preponderante dei rapporti economici,nella formazione e nello sviluppo delle singolespecie di attività cui dà luogo la convivenza umananon implica che queste ultime non possano a lorovolta agire come cause modificatrici della strutturae della vita stessa economica della società in cui simanifestano” (Vailati 1997, vol. II, p. 96).L’errore, dice anche Gramsci, sta nel “concettostesso di scienza”, preso di sana pianta dalle scien-ze naturali. “Se le verità scientifiche fossero defini-tive, la scienza avrebbe cessato di esistere cometale, come ricerca, come nuovi esperimenti e l’atti-vità scientifica si ridurrebbe a una divulgazione delgià scoperto. […] Ma se le verità scientifiche nonsono neanche esse definitive e perentorie, anchela scienza è una categoria storica” (Gramsci 1975,p. 1456). Gramsci e Vailati quindi non si accordano sullaprevisione, entrambi vogliono evitare il pericolodel determinismo meccanico e concordano sullanon assolutezza (in senso etimologico) delle scien-ze, ma Vailati estende il concetto di legge anchealle leggi storiche, dato che neanche le leggi natu-rali possono essere considerate leggi nel sensocomune del termine, mentre Gramsci, data la sto-ricità delle scienze, nega la possibilità di concepireleggi storiche. Sono due punti di vista radicalmen-te differenti. Entrambi restituiscono il profilo dellescienze come sapere storico, frutto dell’attivitàumana che procede costantemente rimettendosiin discussione, ma Vailati intende in tal modo riba-dire il carattere scientifico di ogni attività umana,mentre Gramsci, del sapere scientifico, esalta la

dimensione storica.Anche gli esiti pedagogici di tale distinzione sonodiversi. Gramsci pensa ad una rivista che promuo-va la storia della scienza e della tecnica come basedell’educazione formativa-storica nella nuovascuola. Vailati, invece, nel suo saggioSull’importa nza delle ricerche rela tive a lla storiadelle scienze, sottolinea l’importanza del cosiddet-to metodo euristico, “[…] quel metodo cioè d’e-sposizione e insegnamento nel quale l’allievo o illettore arriva a impossessarsi delle cognizioni checostituiscono un dato ramo di scienza passandoattraverso alle considerazioni che hanno guidatoquelli che sono giunti ad esse per la prima volta.[…] A nessuno che abbia avuto occasione di trat-tare in iscuola, davanti a dei giovani, qualunquesoggetto che si riferisca alle parti astratte e teori-che della matematica, può essere sfuggito il rapi-do cambiamento di tono che subisce l’attenzione[…] ogniqualvolta l’esposizione lascia luogo adelle considerazioni d’indole storica” (Vailati 1997,vol. II, p. 10).

Il linguaggio metaforico e la storicità del lin-guaggio

Sul rapporto tra Gramsci e i pragmatisti italiani èda vedere il notevole saggio di Derek Boothman(2004), al quale chi scrive si dichiara in debito. Quisi cercherà solamente di indicare la possibilità diun approfondimento dei temi toccati daBoothman nel contesto della produzione vailatia-na. Importante, perché mette a confronto Vailati eGramsci, è anche lo scritto di Aqueci (1998).Ma la meditazione vailatiana sulla storia della scien-za non manca di tornare sulle “quistioni di parole”,che sono fra le cause costanti degli errori scientifi-ci e filosofici. È importante, dice Vailati, il modo incui una dottrina è espressa. Oltre agli inganni lin-guistici di cui qui si è già parlato,” […] il linguag-gio tecnico scientifico non meno del linguaggiovolgare è pieno di frasi ed espressioni metaforiche,che pur avendo cessato, pel lungo uso, di richia-mare l’immagine che suggerivano originariamente,non hanno perduto la capacità di indurci ad attri-buire ai fatti che esse descrivono tutte le proprietà(corsivo mio) dell’immagine cui si riferiscono”(Vailati 1997, vol. II, p. 70). La cautela nell’utilizza-re le metafore ci riporta quindi alla necessità, di cui

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si è già parlato, di rivedere costantemente i termi-ni che entrano a far parte del linguaggio che utiliz-ziamo, pena l’attribuzione arbitraria di proprietàinadeguate ai fatti indagati. Sul carattere metaforico del linguaggio torna a piùriprese anche Gramsci. Particolarmente significati-va questa affermazione: “Il linguaggio, intanto, èsempre metaforico. Se non si può dire esattamen-te che ogni discorso è metaforico per rispetto allacosa od oggetto materiale e sensibile indicati, […]si può però dire che il linguaggio attuale è metafo-rico per rispetto ai significati e al contenuti ideolo-gico che le parole hanno avuto nei precedentiperiodi di civiltà. Un trattato di semantica, quellodi Michel Bréal per esempio, può dare un catalogostoricamente e criticamente ricostruito delle muta-zioni semantiche di determinati gruppi di parole.Dal non tener conto di tale fatto, e cioè dal nonavere un concetto critico e storicista del fenomenolinguistico, derivano molti errori sia nel campodella scienza che nel campo pratico: 1) Un erroredi carattere estetico […] è quello di ritenere‘belle’ in sé certe espressioni a differenza di altre inquanto sono metafore cristallizzate; 2) un errorepratico che ha molti seguaci è quello delle linguefisse o universali; 3) una tendenza arbitraria al neo-lalismo, che nasce dalla quistione posta dal Paretodel “linguaggio come causa di errore”. Il Pareto,come i pragmatisti, in quanto credono di aver ori-ginato una nuova concezione del mondo […] sitrovano di fronte al fatto che le parole, nell’usocomune ma anche nell’uso della classe colta e per-fino nell’uso di quella sezione di specialisti chetrattano la stessa scienza, continuano a mantenereil vecchio significato nonostante l’innovazione ereagiscono. Si reagisce: il Pareto crea un suo dizio-nario […]; i pragmatisti teorizzano astrattamentesul linguaggio come causa di errore (vedi librettodi G. Prezzolini)” (Gramsci 1975, p. 1428).I tre errori che si rischia di commettere quandonon si tenga conto della natura storica del linguag-gio sono strettamente correlati.Pareto aveva citato in Les systemes socia listes unoscritto di Vailati (Sulla porta ta logica della cla ssi-fica zione dei fa tti menta li proposta da l Prof.Fra nz Brenta no) e il suo monito a fare un usoaccorto del linguaggio comune a causa della suaambiguità. Se tra “i pragmatisti” accanto a ParetoGramsci annovera anche Vailati, allora tra l’atteg-

giamento di Vailati e Pareto sembra esservi solouna differente reazione al medesimo tipo di disil-lusione di fronte alla pervicacia delle parole a nonmutare di significato né nel linguaggio dei dotti néin quello degli incolti. Ma Vailati, se è anche di luiche Gramsci parla, nello scritto Il lingua ggio comeosta colo a ll’elimina zione dei contra sti illusoriera proprio partito da questo assunto, e la suariflessione non era che la dimostrazione dellanecessità di procedere ad una verifica preliminareall’uso automatico ed inconsapevole del linguag-gio. Vailati non propone un dizionario nuovo toutcourt, ma invita alla revisione continua di quellovecchio, che può sempre indurci a commettereerrori. Senza contare che Vailati, nella sua recen-sione a Les systemes socia listes, insinuava che lostesso Pareto non “fosse immune affatto dai sofi-smi e dagli equivoci verbali da lui rimproverati adaltri. (Vailati 1971, p. 85)”.Pare quindi plausibile pensare che Gramsci con l’e-spressione “i pragmatisti” avesse piuttosto inmente Prezzolini, che poi cita esplicitamente. Illingua ggio come ca usa d’errore esce nel 1904: sitratta di un libretto che contiene tutti i temi fin quicitati: il linguaggio come causa di errore, le “paro-le gravide di associazioni multiple” e di metafore,le difficoltà insormontabili che certi problemi filo-sofici sollevano” e che potrebbero derivare da tra-nelli delle parole”. Se da un lato vi si trovano innuce alcuni temi che verranno poi sviluppati nelcorso degli anni del “Leonardo”, è evidente chemanca del tutto l’impronta che la regola metodicadella massima pragmatica doveva in futuro confe-rire alle meditazioni dei pragmatisti sul linguaggio.Tuttavia lo scritto di Prezzolini ci consente di fareuna importante precisazione. È vero che il linguaggio può indurci ad errare, masia Gramsci che Vailati propongono un correttivo aquesta sua caratteristica. Gramsci lo indica nellapresa di coscienza della storicità del linguaggio, cuiè impossibile sottrarsi ma che, come si vedrà, èpossibile controllare e addirittura convogliareverso nuovi fini. Vailati dal canto suo propone dismontare il meccanismo che anima la metafora econvertire tale procedura in buona pratica per l’ac-quisizione futura di conoscenza scientifica. È veroche il linguaggio può indurci ad errare, ma con lacostante e vigile applicazione pragmatica noi pos-siamo riuscire a dire anche il vero, il vero che ci è

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possibile dire. Il primo errore citato da Gramsci, quello estetico,consiste nel considerare il linguaggio come crea-zione artistica del singolo anziché dell’individuocome elemento storico. Il linguaggio ha le sueradici nell’intera comunità sociale. Non è questa lasede per insistere sulla portata eversiva di tale con-cezione al tempo di Gramsci.Il riferimento a Bréal ci consente anzi di aggiunge-re un’altra elemento al quadro. Vailati aveva pub-blicato una recensione proprio a Bréal, intitolataLa psicologia di un diziona rio, dove non soloteneva conto del fatto fondamentale che le parolevivono nel tempo le mutazioni semantiche citateda Gramsci, ma aggiungeva che sarebbe statoopportuno utilizzare tale opera nelle scuole, “peraffinare in essi [negli alunni] l’attitudine a ricono-scere, nella storia e nelle variazioni di significatodelle parole, la traccia delle idee, dei costumi, e deimodi di pensare e di agire, propri alle generazionipassate e alle fasi di civiltà da cui la nostra deriva”(Vailati 1997, vol. III, p. 327). A ciò sembra fare eco,in perfetta consonanza, questa affermazione diGramsci: “Lo studio dell’origine linguistico-cultu-rale di una metafora impiegata per indicare unconcetto o un rapporto nuovamente scoperto,può aiutare a comprendere meglio il concetto stes-so, in quanto esso viene riportato al mondo cultu-rale storicamente determinato, in cui è sorto, cosìcome è utile per precisare il limite della metaforastessa, cioè a impedire che essa si materializzi e simeccanicizzi” (Gramsci 1975, p. 1474).Gramsci difende in primo luogo la facoltà di pro-durre nuove ed efficaci metafore in vista dei finiche la filosofia della prassi si propone, ovvero quel-lo di “riformare intellettualmente e moralmentestrati sociali culturalmente arretrati” e per far que-sto ammette il ricorso anche a metafore talvolta“grossolane e violente” nella loro popolarità”(Gramsci 1975, p. 1474): qui è evidente che aGramsci interessano le metafore per il loro finepratico.In secondo luogo a Gramsci interessa chiarire l’usometaforico di alcuni termini chiave della sua filo-sofia, termini che gli sono stati consegnati dalla tra-dizione e del cui significato si sente chiamato arispondere. È il caso, ad esempio, del termine“immanenza” (Boothman 2004, p. 93). Ma è possibile togliere al linguaggio il suo caratte-

re metaforico? si chiede Gramsci. Impossibile. Illinguaggio “assume metaforicamente le paroledelle civiltà e culture precedenti”. Gramsci difendela metafora e ne dà una ragione in termini lingui-stico-storici perché deve lavorare con il repertoriolinguistico che gli è stato consegnato e che deveutilizzare per la definizione e messa a punto dellafilosofia della prassi. E dall’altro fa della metaforauno dei cardini su cui ruota la sua “riforma moralee intellettuale”. Gramsci e Vailati sembrano qui concordare, nelribadire una concezione critica e storicista del lin-guaggio, ma è interessante notare come tale con-cordanza ci riporti, di nuovo, ad una diversità difondo. In Vailati la riflessione sulla lingua e sullasua storicità non esclude affatto l’ipotesi dellacostruzione, artificiale, di una lingua internazionale. L’attenzione per le complesse stratificazioni inter-ne alla lingua, l’attenzione per le metafore, ladichiarata volontà di svelare i processi che ancora-no il linguaggio al sistema di credenze e aspettati-ve in relazione alle quali il linguaggio stesso sistruttura in distinzioni e classificazioni, non impe-discono a Vailati di dire: “[…] Sarebbe semprepraticamente utile e anzi indispensabile l’avere, inuno schema teorico di lingua internazionale, unaspecie di “piano regolatore” ideale per guidare eaccelerare le diverse fasi che ciascuna lingua civiletende ad attraversare per giungere a una gradualeeliminazione delle differenze che sussistono traessa e le altre più affini. […] Dovrebbe essereriguardata come una delle funzioni più importantidella scuola quella di propagare e apprendere lacapacità a distinguere, nella lingua che in un paesevi si parla, le parti che essa ha in comune con lealtre lingue civili, dalle parti che sono invece esclu-sivamente appartenenti ad essa” (Vailati 1997, vol.III, p. 413).Vailati nota che sempre più ci “domina ‘l’interna-zionalità’”, i figli parlano una lingua che, sia pure dipoco, è più internazionale di quella parlata daipadri. “La conoscenza di ciò che si potrebbe chia-mare la ‘distribuzione geografica’ di ogni parola edi ogni famiglia di parole della lingua materna,dovrebbe essere considerata come una parteessenziale dell’educazione liberale. Si dovrebbeprovocare nelle classi colte di ogni paese, la forma-zione di una “coscienza filologica” delle imperfe-zioni e deficienze, lessicali o grammaticali, della lin-

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gua ivi parlata, delle direzioni nelle quali essa avreb-be bisogno di essere corretta o migliorata. […], esoprattutto della possibilità di tali correzioni emiglioramenti per azione delle iniziative degli indi-vidui e dei gruppi sociali più interessati […]Occorrerebbe reagire contro ogni specie di ‘puri-smo’ e contro il pregiudizio che le lingue, pel fattodi essere degli ‘organismi naturali’ non possanoessere modificate artificialmente. Come se le stessepiante coltivate dall’uomo non ci fornissero appun-to esempi di organismi che l’Uomo ha saputomodificare per adattarli ai suoi bisogni” (Vailati1997, vol. III, p. 414). Una lingua costruita artificialmente per Vailati noncontrasta affatto con la sua “naturalità”: è anzi lanozione di “naturalità” che andrebbe ridiscussa.Difficile non pensare qui ai progetti di costruzionedi lingue universali, “come le lingue internazionalia posteriori del XIX secolo” (Eco 1993, p. 8) e aitentativi di Peano di fornire agli studiosi non unanuova lingua, ma un La tino sine flexione che ser-visse quantomeno agli studiosi per i loro “rapportiscientifici internazionali” (Eco 1993, p. 347).Gramsci però, oltre al “secondo errore praticodelle lingue fisse o universali” di cui parla nell’am-pia citazione, scocca nei Qua derni un’altra freccia-ta ai fautori delle lingue internazionali, quandoparla della creazione di una lingua comune nazio-nale, ostacolata dalla resistenza delle masse a“[…] spogliarsi delle abitudini e psicologie parti-colaristiche. Resistenza stupida determinata daifautori fanatici delle lingue internazionali”(Gramsci 1975, p. 2344). Gramsci sembra quindi avere delle riserve sullacostruzione di una lingua internazionale, se nonaltro perché i suoi fautori ostacolano quella di unalingua nazionale. Questo è in effetti uno dei nodipiù importanti della riflessione gramsciana, e nonè questa la sede per insistervi. Qui il problema dellinguaggio metaforico si congiunge con il proble-ma, di cui è parte, della traduzione da una linguaall’altra e della traduzione tra diversi linguaggi teo-rici all’interno di una disciplina, di cui si è occupa-to brillantemente Boothman nel testo già citato. Concordiamo qui con il giudizio di Boothman, ilquale sfuma notevolmente la connotazione negati-va del giudizio di Gramsci sul pragmatismo e i

pragmatisti: nonostante le riserve nutrite dal pen-satore sardo, “sembra che in Gramsci rimangaqualcosa del loro approccio alla lingua e in parti-colare sembra che abbia trovato interessanti le teo-rie di Vailati, altrimenti sarebbe difficile spiegarecome certi suoi passaggi si riflettono nel livello lin-guistico” (Boothman 2004, 96).Boothman allude qui alla progressiva scomparsa dialcuni termini dal lessico gramsciano, conseguentead una pulizia linguistica consona con le racco-mandazioni dei pragmatisti. Importa sottolineare come il tema del pragmati-smo ricorra in contesti ove compare la trattazionedella metafora e del linguaggio, la discussioneintorno ai quali ci ha consentito di aprire nuovicampi di confronto tra i due pensatori e di rilevarealcune differenze di pensiero nonostante l’appa-rente e pacifica concordanza su un tema quale l’i-nammissibilità della concezione materialisticomeccanica della storia e di portare alla luce la que-stione dei differenti esiti cui i due pensatori per-vengono una volta riconosciuta la storicità del lin-guaggio.

Riferimenti bibliografici

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Umberto Vincenti

Natura, diritto e territorio ne “La crisi“di Silvio Trentin

Focus: Silvio Trentin

Le ragioni della traduzione italiana de Lacr isi del Dir i tto e dello Sta to

Perché Giuseppe Gangemi ha ostinatamente volu-to questa traduzione? La risposta sta scritta (dallostesso Gangemi) in due successivi articoli apparsinella Rivista interna ziona le di filosofia del dirit-to, il primo nel 2004 (Silvio Trentin, il diritto na tu-ra le e la libertà come a utonomia ), il secondo nel2005 (Silvio Trentin e Giuseppe Ca pogra ssi: simi-litudini e differenze).Attraverso il pensiero del giurista di San DonàGangemi vorrebbe avviare un’operazione culturaleambiziosa, però necessaria (da ‘tentare’ indubbia-mente) e, pertanto, meritoria; difficile prevedernegli esiti e, in certo senso, il pessimismo è d’obbligo(anche perché non infondato considerato il conte-sto, dato da certi limiti del pensiero trentiniano edalle difficoltà in cui si dibatte il pensiero giuspoli-tico italiano). Vediamo un poco.Nell’articolo del 2004 Gangemi dichiara che occor-re un’azione volta alla riappropriazione, da partedella cultura giuspolitica italiana, della sua grandetradizione: «è colpa - egli scrive - [anche] degliintellettuali italiani che, negli ultimi sessanta anni,hanno proceduto per cancellazioni della tradizio-ne di studi politici precedenti […] e hanno chia-mato questo intervento – che ha indebolito lanostra cultura in quanto ha disperso i tesori di cul-tura che si erano accumulati nel passato – spro-vincializzazione, quando è esattamente il suo con-

trario». L’interesse per Trentin nasce così da un’e-sigenza, diciamo, di tutela della nostra cultura. Inparticolare, la lettura de La crisi farebbe balenare,nel (nostro) tempo di crisi della rappresentativitàpolitico-democratica, nuovi, e attualissimi, para-digmi di libertà: la libertà come non dominio deglialtri e la libertà come dominio di sé stessi.Nell’articolo del 2005 Gangemi precisa questalinea: La crisi contiene, riallacciandosi a quella tra-dizione, «l’invito all’uso pubblico della ragionecome strumento indispensabile alla costruzionedel federalismo e della democrazia», della demo-crazia, occorre aggiungere, locale «la cui pratica[…] è parallela, se non sostitutiva, della democra-zia rappresentativa», una «pratica precedente eindipendente dalla rivoluzione francese». Il riferi-mento è qui al paradigma della democrazia delibe-rativa.Silvio Trentin ci è presentato come un apparte-nente alla scuola del federalismo antropologicoveneto che vuole lo sviluppo della democrazialocale: una pratica di autogoverno, di governo dalbasso, di autonomie decisionali organizzate in fun-zione della coesistenza e coordinamento reciproci.Egli aveva nella mente l’esperienza dei consorzi dibonifica del Veneto orientale alla cui organizzazio-ne normativa aveva contribuito da giovane, qualegiurista e avvocato. Il paradigma fondante è quello di un contrattuali-smo piuttosto municipale, fondato su una conven-zione non di tipo immutabile, di stampo hobbesia-

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no, ma modellata da un diritto naturale in fieri,mutante a secondo dello stadio di evoluzione degliuomini e dei loro ordini associativi. In questa prospettiva risulta determinante la diadenatura-diritto e così l’interazione tra diritto positi-vo (dimensione irrinunciabile per qualsiasi attivitàdi organizzazione) e diritto naturale. Si sostieneche ne La crisi Trentin avrebbe appunto fornito alfederalismo antropologico l’anima spirituale delgiusnaturalismo: nessuna organizzazione deveessere funzionale o strumentale, secondo questogiurista, alla soddisfazione degli appetiti materiali(economici) che l’uomo avverte, ma al perfeziona-mento del suo spirito (che deve vincere la materiae governare l’azione del progresso, a questo puntospiccatamente spirituale). Ma a quale giusnaturali-smo fa riferimento Silvio Trentin? Per cercare di dare una risposta occorre analizzareattentamente un capitolo de La crisi, a torto svalu-tato da Norberto Bobbio, il quinto, significativa-mente intitolato Diritto positivo e Diritto na tura le.

Fonti e significato del giusnaturalismo tren-tiniano

Trentin qualifica “diritto di fatto” quello positiva-mente in vigore nello stato, scritto nelle sue leggie applicato dai suoi giudici. Questo diritto, che ciorganizza la vita in societa te, deve avere un fonda-mento etico, pena la sua crisi e la sua decadenza(fino a ridursi a “un fantasma”). Un fondamentoetico che, secondo Trentin, è da individuarsi nellanatura umana o, più precisamente, nella naturaragionevole dell’uomo. Esiste, dunque, un dirittonaturale-razionale sotteso al diritto positivo di cuiil primo dovrebbe valere da fonte ispiratrice dinorme rette e, inoltre, da criterio di riscontro dellarettitudine delle norme effettivamente in vigore. Euna norma non è retta quando non rispetta l’uo-mo, la sua natura, i suoi diritti innati; quando violala pari dignità di tutti i conviventi. Così il vero dirit-to rappresenta l’esito di una ricerca continua dellamigliore organizzazione possibile che gli uominisperimentano nel corso della storia guidati dal «filosacro della ragione» (Trentin 2006, p. 231). A que-sto proposito Trentin avverte i cultori del dogma-tismo giuridico che, se il diritto non può prescin-dere dai concetti rappresentativi dei frammentidella realtà sociale postulanti l’ordine imposto

dalle norme, questi concetti, però, non sono eter-ni, ma debbono evolversi in adeguazione al muta-mento dei fatti.Non c’è dubbio che, per Trentin, il Diritto (che egliappella sempre con la maiuscola) è uno e coincidecon il diritto naturale che, si potrebbe dire, è l’ordi-namento della normativa conforme, adeguata,rispettosa, protettiva, promotrice della personaumana secondo quella che è la sua natura piùautentica (perché migliore), la quale attinge allo spi-rito. Sul punto Trentin si ripete tante (troppe) volte,certamente perché sottesa vi è una preoccupazione,anzi un’angoscia che più di qualche volta finisce conl’impadronirsi della sua costruzione, in certo senso,squilibrandola. Significativa (anche) della matriceclassica di questa opzione metodologica è, anche seun poco scontata, la citazione (Trentin 2006, p. 240)dall’Antigone di Sofocle ove si evocano «le leggi nonscritte ed infallibili degli dei».L’esistenza del diritto naturale è provata, avverteTrentin, dalla circostanza che solo in grazia di que-st’ordine normativo è possibile valutare finalistica-mente il diritto positivo o “di fatto” deviato dalsolco naturalistico (che si impone, quale verodover essere, innanzi tutto ai facitori di norme,quelle in concreto vigenti in quanto coattive). Ilche, all’evidenza, sposta l’asse della normativitàdalla forma (una regola è tale se creata in modiproceduralmente corretti) alla sostanza, cioè aicontenuti (una regola è tale, è diritto, se giusta).Non è poco se si pensa che il formalismo giuridicoera in auge ai tempi di Trentin e lo sarà ancora alungo nel (secondo) dopoguerra. Incidentalmentesi può così notare come l’accostamento di Trentina Capograssi sia (o possa essere) fecondo, alla stes-sa stregua di quel che Gangemi addita in riferi-mento al campo della democrazia locale diretta:infatti, sul terreno, vorrei dire, metodologicamen-te più importante delle fonti, l’incontro tra Trentine Capograssi si rinnova nel sostenerne la pluralitàdi contro al monismo kelseniano (la legge statua-le). Appunto a p. 275 e s. (dell’edizione curata daGangemi) il sandonatese elenca, nell’ordine, lalegge, la consuetudine, il costume, la pratica giudi-ziaria, la pratica dell’amministrazione pubblica,l’autorità della dottrina, i precedenti, al limite unprecedente se particolarmente significativo: è all’e-videnza il diritto come esperienza giuridica di cuiCapograssi è stato, in Italia, il teorico massimo.

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Se innumerevoli sono, dunque, «i centri generato-ri del diritto», è da dire che questa è, in certosenso, una premessa (o una conseguenza) neces-saria della concezione trentiniana – che più orainteressa – della società come composizione coor-dinata (dal Diritto) delle molteplici autonomie oOrdini in cui si articola la società stessa e devealtrettanto articolarsi il potere decisionale a tutti ilivelli: le autonomie sono tutte fonti di produzionenormativa e l’ordinamento generale, a cui sonoaffidate la libertà e il progresso, deve tutelarle noninvasivamente. Rispetto a questo contesto moni-smo e formalismo giuridico restano incompatibilie vanno pertanto combattuti sul piano innanzitutto metodologico.Conseguentemente, Trentin è fortemente criticoverso giuristi come Romano e Kelsen, perché temeil neutralismo formalistico indifferente a qualun-que contenuto (come il diritto puro di Kelsen). Maegli, con qualche contraddizione però, è altrettan-to critico verso Savigny perché ha paura dell’ab-bandonarsi del diritto allo spirito del popolo (ilVolksgeist savigniano). Coerentemente a questeopzioni culturali, Trentin non ama l’Ottocento eguarda più al Sei-Settecento: sembra orientatosoprattutto da Rousseau e da Grozio. Da Rousseau: scrive Trentin che la strutturazionedello Stato rousseauiana consente «quella regola-mentazione dei rapporti sociali che, essa sola, puòsoddisfa re le esigenze della natura morale dell’uo-mo così come ci vengono rivelate dalla ragione»(Trentin 2006, p. 228). A Trentin dovevano piace-re, del ginevrino, la fondazione della libertà sull’i-dea di autonomia, la visione dell’uomo comepadrone del proprio destino e, appunto, delloStato come lo strumento di cura e tutela dell’indi-viduo e come spazio per lo sviluppo del perfezio-namento umano (Rousseau introduce appunto “lacapacità di perfezionarsi” all’interno e per virtù delcorpo politico).Da Grozio: Trentin ne apprezza la valorizzazione diuna verità elementare, «cioè che i doveri e i dirittidegli uomini non sono rinchiusi nei limiti dellalegge positiva o della rivelazione, ma poggiano sudeterminati attributi universali della personaumana» (Trentin 2006, p. 246). La natura grozianaè tutt’altro che quella biologica di un Ulpiano (= ildiritto naturale è ciò che la natura ha insegnato atutti gli animali): essa si manifesta attraverso la

facoltà più umana di tutte, la ragione, che fonda ildiritto naturale. Trentin traduce quasi Grozio (ildiritto naturale è dicta men recta e ra tionis) quan-do afferma che il diritto naturale è il «diritto che siriallaccia alla natura ragionevole dell’uomo»(Trentin 2006, p. 239).Il diritto naturale di Trentin non è sovraordinatoalla storia, ma in questa vi resta incarnato: «il dirit-to naturale – egli scrive – non comporta che unsubstrato a carattere universale ed immutabile, cheun nocciolo di principi che stabiliscono le condi-zioni secondo le quali può operarsi quel giudiziodi valore implicito in ogni norma di Diritto.Pertanto l’assunzione di questi principi non sioppone in nessun modo alla varietà inesauribiledelle esigenze che dipendono dal cambiamentoincessante, secondo l’epoca ed il paese, delle con-dizioni nelle quali evolve l’ambiente sociale»(Trentin 2006, p. 257). Ciò pone innanzi tutto la questione dell’identifica-zione di questo nocciolo di principi eternamentevalidi. Si può dire che, per Trentin, il diritto natu-rale sia funzionale alla tutela della persona umananel suo svolgimento storico, nella sua progressio-ne morale attraverso la storia: appunto «il dirittonaturale non può essere la legge della naturaumana che in quanto è la legge del suo indefinitoperfezionamento, dell’evoluzione costante dellesue facoltà creatrici» (Trentin 2006, p. 256). Si capi-sce di più l’ammirazione per Rousseau che soste-neva che la natura non “nascit” ex nihilo, essendo,invece, destinata, non già da Dio ma dal soggettopolitico che vuole costituire l’ordine come quelluogo in cui ogni individuo trova collocazione ade-guata alla sua propria natura: l’itinerario è quellodel perfezionamento progressivo in sintonia conuno dei principali attributi dell’umano, quellodella perfettibilità (l’altro è la libertà). Se Rousseau è una delle fonti del naturalismo tren-tiniano, questo è un naturalismo singolarmenteconforme all’idea di Vico, di un diritto naturalecome «un diritto eterno che corre in tempo»: citan-do Giorgio Del Vecchio, Trentin ricorda così che«l’uomo ha già in sé predeterminato il fine, al qualedeve tendere nel suo sviluppo; ed è necessarionell’esperienza un processo, per il quale egli rag-giunga la sua natura e la ‘celebri’, per dirla col Vico,ossia diventi apparentemente quello che in sestesso già è» (Trentin 2006, p. 239).

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Gli Ordini naturali di aggregazione degliuomini liberi

Il naturalismo di Vico, e (sembrerebbe doversipensare) anche quello di Rousseau, non soddisfa-no tuttavia Trentin quanto ai loro, rispettivi, esiti.Su Vico disponiamo la testimonianza diretta diTrentin, il quale valuta che l’auspicio del filosofo,della costituzione di uno Stato-nazione, auspicio,in certo senso, necessitato considerata l’epocavichiana, «suggella il tramonto delle dottrine plura-listiche e il sorgere e il diffondersi, anche in Italia,sotto il coperto di un sincero patriottismo, delletendenze più pericolosamente statolatriche»(Trentin 1987, p. 98).Circa Rousseau, occorre ricordare che questi, seammette le “società particolari”, le guarda peròcon un certo sospetto giacchè esiste la possibilitàconcreta di frequenti conflitti con la società politi-ca (generale): infatti, Rousseau nel Contra ttosocia le (2.1), scrive che «la volontà particolaretende per sua natura alle preferenze, e la volontàgenerale all’uguaglianza». Il che importa la necessi-tà di limitare l’esercizio della “socialità” che siesprima attraverso le formazioni intermedie, con ilconseguente sacrificio del grado di partecipazionepolitica: il pluralismo politico resta così irrimedia-bilmente fuori dagli orizzonti del ginevrino.Silvio Trentin ha una visione alquanto diversa, cer-tamente condizionata dalla sua personale espe-rienza e dall’appropriazione dello Stato da partedel fascismo. Egli pensa che uno stato a strutturacentralistica più facilmente possa espropriare l’in-dividuo di sé stesso, cioè della sua libertà; e, d’al-tronde, lo stato centralistico liberal-borghese,unico interlocutore (e controllore) del cittadinointraprendente e concorrenziale, finiva, comeavrebbe dimostrato la vicenda storica, con il forni-re semplicemente un usbergo a tutto vantaggio deipiù dotati o dei più fortunati, con ciò perpetuandole diseguaglianze tra gli uomini a cominciare dalloro (inevitabilmente diverso) livello economico. Ildiritto naturale, id est la naturale aspirazione del-l’uomo a realizzarsi liberamente in societa te, tra glialtri e con gli altri, esige che il singolo non opericome una monade isolata, ma in cooperazione vir-tuosa con i suoi simili attraverso la costituzione diistituzioni o Ordini autonomi, di cui i singoli sianodirettamente partecipi e non meri deleganti.

Tramite queste autonomie è assicurato l’obiettivodella disarticolazione del potere e, dunque, la mas-sima libertà possibile in un sistema giuridico che,riconosce Trentin, inevitabilmente pone dei vinco-li all’azione umana: così gli individui e i gruppi ven-gono ad essere titolari in pa rtibus del potere e loesercitano come naturalmente compete all’uomoche è padrone di sé stesso, della sua persona, dellasua libertà. Questi uomini liberi in tal guisa coope-ranti e cooperativi, esplicando il potere che loroappartiene, giungono essi stessi alla meta dell’au-tonomia, «di stabilire positivamente le condizioniper la costruzione, per la realizzazione del Diritto»(Trentin 2006, p. 218).

La territorialità degli Ordini

Infine, della questione, nel pensiero giuspolitico diSilvio Trentin, del legame tra democrazia e territo-rio ovvero tra libertà e territorio ovvero tra dirittoe territorio. L’opzione metodologico-giuridica infavore del pluralismo delle fonti del diritto (allaCapograssi, per intendersi) è preparatoria (dun-que, congrua) rispetto all’idea fondante che i «cen-tri di vita collettiva generati dalla collaborazionespontanea delle attività individuali», gli Ordini oautonomie anche minime, siano in pa rtibus titola-ri del potere decisionale e così fonti di produzionegiuridica: poteri, decisioni, diritto assolutamentecondivisi (si direbbe oggi) in quanto «l’originedelle competenze giuridiche» si colloca «non nellaforza legittimata dal suo uso, ma nel libero con-senso, nell’accordo delle volontà» (Trentin 2006,p. 219).Ora è evidente che l’auspicata partecipazione diqualunque cittadino alle istituzioni si può conse-guire realisticamente (e pure proficuamente) alivello locale, cioè sul territorio o sui territori: ildiritto che ne scaturisce, espressione diretta dellanatura sociale dell’uomo, è autentico diritto natu-rale, secondo Trentin, il quale anche attraversoquesto suo insistere sulla spontaneità della parte-cipazione agli Ordini e della loro incessante pro-duzione normativa adeguatrice (alla progressivaliberazione o, se si vuole, al progressivo perfezio-namento dell’individuo) si dimostra fautore di ungiusnaturalismo che si fa nella storia (indubbia-mente secondo la prospettiva vichiana). Le radici della democrazia occidentale, che radica-

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Umberto Vincenti Natura, diritto e territorio ne “La crisi“ di Silvio Trentin

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no, a loro volta, nella tradizione le autonomie tren-tiniane, stanno appunto in quel «regime inventatoduemila anni fa dalle piccole società cittadine dellaGrecia» (Trentin 2006, p. 445) a cui si è ispirato(oltre le sue dichiarazioni) Silvio Trentin: «è pro-prio dello spirito latino,» - scrive appunto ne Lacrisi (Trentin 2006, p. 303) - «le cui leggi derivanodalla incomparabile eredità greco-romana, fondarela conoscenza sulla ragione, tendere incessante-mente a trarre, dal mondo empirico delle attivitàcoscienti, dei valori per quanto possibile fermi edimmutabili, essere portato a collocare nella naturaumana la fonte di ogni legge sociale, a garantirealla persona individuale, anche nel mezzo dei flut-ti più tumultuosi della vita collettiva, gli attributiinviolabili dell’essere libero e ad organizzare ilpotere politico come strumento votato a favorirnel’indefinito perfezionamento».Il legame con il territorio emerge con maggiorechiarezza e incisività in Libera re e Federa re ove lostato di domani appare consegnato soprattutto allavitalità ‘naturale’ di quelle «collettività territoriali» -costituite nelle relazioni «tra le persone che coabi-tano il territorio ch’esse circoscrivono» - che la ter-ritorialità stessa ha condotto, nei secoli, «a diffe-renziarsi nelle manifestazioni delle loro abitualiattività e nella disciplina dei rapporti sociali relativial soddisfacimento dei loro più immediati ecostanti bisogni» (Trentin 1987, p. 284).Questa inevitabile (perché necessitata) territoriali-tà delle autonomie trentiniane, questo attacca-mento, questo radicamento al territorio manifesta-ti da Silvio Trentin lo pongono in contraddizionecon quanto egli (incidentalmente) scrive ne Lacrisi (Trentin 2006, p. 250 e s.) scagliandosi contro«quei profeti» che esaltano «la rivincita delle forzeterrene, delle forze telluriche»? Forse no, perché ladimensione terranea qui esecrata ha matrice ideo-logica antitetica a quella di Trentin. Ma è pur veroche il legame tra territorio, confine e diritto è stato(magnificamente) teorizzato da un giurista comeCarl Schmitt, ne Il nomos della terra (pubblicatonel 1950, ma la Dottrina della costituzione è del1928). Ed è ancora vero che, ne La crisi, Trentindescrive reiteratamente la forma-diritto come trac-ciata da un limite, da un confine appunto, circo-scrivente un territorio etico e giuridico intriso dipoliticità umana (e in ciò non è poi così lontano daSchmitt). Per esempio (Trentin 2006, p. 155 e s.)

egli scrive: «La regola di diritto, in effetti, conside-ra sempre la condotta di un soggetto in rapportoad altri soggetti. Essa si definisce come una delimi-tazione delle competenze individuali. Se il limiteche definisce venisse infranto, ne risulterebbeun’invasione della sfera di libertà da essa ricono-sciuta ad ogni soggetto; il potere, di cui il soggettoè investito per il fatto che la sfera di libertà gliappartiene, cesserebbe di esistere come poteregiuridico se non comportasse la possibilità direspingere la trasgressione». Passaggi interessantimetodicamente, che postulano un’interpretazioneche li chiarisca. Come pure sarebbe da chiarirequell’affermazione per cui «il legame territorialenon può più essere sufficiente a qualificare i rap-porti tra gli uomini né a differenziare l’eserciziodelle prerogative della loro natura comune»(Trentin 2006, p. 456): è abbastanza evidente lacontraddizione con l’assoluto rilievo che Trentinattribuisce agli Ordini autonomi che altro non pos-sono essere se non territoriali.

L’uomo del territorio

In sintesi: lo stato nazionale moderno, secondo ilmodello risalente a Hobbes, è per definizionenegatore dell’autonomia dell’individuo e dei suoiordini naturali di aggregazione spontaneamenteinsorgenti sul territorio; ed esso dovrà pertantoessere superato disarticolandone il potere mono-polisticamente detenuto.Penso che non sia azzardato concludere sostenen-do che (anche) per Trentin il nuovo ordine (o l’e-voluzione del vecchio?), certamente la salvezza,restano affidati all’’uomo del territorio’ che, sipotrebbe aggiungere, avrà la missione di sconfig-gere l’’uomo globale’ (o, secondo la potente meta-fora schmittiana, l’’uomo del mare’): siamo cosìcatapultati nel dramma della (nostra) modernità. La crisi di Trentin, di questo professore veneto diuna Regia Università, può, anzi deve, essere tenutapresente nel laboratorio del pensiero giuspoliticoper quanto si è fin qui osservato, e per quant’altrosi sarebbe potuto osservare e che altri osserverà;soprattutto, pare a me, perché questo giurista hacapito che non si possono pensare davvero nuoviparadigmi giuridici e politici se non vi sia perfettapadronanza (e rimeditazione) della grande tradi-zione che ci precede (anche se vi sono delle omis-

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sioni importanti come per l’opera eccelsa di unaltro veneto, Marsilio da Padova). Trentin se deveessere accorto negli anni della sofferenza in quan-to questo dialogo, questo confronto con la tradi-zione è del tutto assente nel suo Corso di istitu-zioni di diritto pubblico degli anni 1923-1926. Taleè dunque il messaggio di maggior spessore che civiene da Silvio Trentin e, traverso di lui, daGiuseppe Gangemi.

Riferimenti bibliografici

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Umberto Vincenti è professore ordinario di istitu-zioni di diritto romano all’Università di Padova.Coordina il laboratorio di metodologia giuridicaLa w a nd Argumenta tion.

Sito Web: lawargumentation.giuri.unipd.it

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La “conver sione” a l feder a li smo

È comprensibile che Oliviero Zuccarini, il federali-sta fondatore già nel 1921 de “La Critica politica”,davanti al volume “Stato – Nazione - Federalismo”abbia definito il passaggio e l’evoluzione di SilvioTrentin al federalismo avvenuto negli anni Trenta,una “conversione vera e propria”. Zuccarini citònel suo articolo dell’agosto-settembre 1947 dellarinata rivista le parole pesanti che Trentin avevausato, nel suo discorso inaugurale “Autonomia –Autarchia – Decentramento” pronunciato nelnovembre 1924 a Ca’ Foscari, contro il regionali-smo e il federalismo. Proprio contro Zuccarini,Silvio Trentin aveva accademicamente affermato“l’inoppugnabile concetto della indivisibilità delpotere sovrano dello Stato”. Ed aveva contempora-neamente respinto le tesi relative allo Stato diLouis Duguit, un giurista francese con le cui teorieavrebbe fatto poi i conti durante il suo lungo e sof-ferto esilio francese (Zuccarini 1947, pp. 280-285). Per la verità se proprio di conversione di Trentin alfederalismo si vuole parlare, sarebbe opportunoricordare che alla conversione, avvenuta negli anniTrenta, Trentin arrivò con dei precedenti autono-mistici di teoria e pratica del principio della sussi-diarietà piuttosto robusti costituiti dai suoi studisulla autonomia comunale, sui consorzi di bonifi-ca, dalla elaborazione dello statuto dell’Istitutoautonomo per la lotta contro la malaria e dalla suaattività parlamentare e professionale per lo svilup-

po delle piccole e medie industrie, dalla collabora-zione con l’Istituto federale di credito per il risor-gimento delle Venezie “esempio tipico di selfgovernment regionale”, dalla creazione dell’Entedi ricostruzione e rinascita agraria delle province diVenezia e di Treviso (Trentin 1984, pp. 346).A parte i precedenti decentratori, autonomistici ecomunalistici, la conversione al federalismo diTrentin fu certamente stimolata non soltanto daquanto stata accadendo agli inizi degli anni Trentanelle repubbliche parlamentari europee ma anchedal dibattito fra le forze politiche dell’emigrazioneantifascista in Francia proprio in materia di federa-lismo.Nell’aprile del 1931 il Partito comunista d’Italianelle sue “Tesi e risoluzioni” aveva indicato comesuo obbiettivo quello della Federazione dellaRepubbliche Socialiste e Soviettiste d’Italia, costi-tuita da quattro repubbliche: del Nord, delMezzogiorno d’Italia, della Sicilia e della Sardegnaassicurando alle minoranze nazionali “il diritto didisporre di sé stesse fino alla separazione” (Il IVcongresso del Partito comunista 1931, pp. 32-33).Bisogna però ricordare anche che PalmiroTogliatti, con il suo rapporto al V congresso nazio-nale del PCI del 29 dicembre 1945, ha completa-mente rimosso le dichiarazioni federaliste del con-gresso precedente dichiarando: ”Non siamo fede-ralisti; siamo contro il federalismo”. Ed aggiungen-do: ”Il nostro regionalismo però, e lo diciamoapertamente, ha dei limiti” (Togliatti 1945, p. 54).

Elio Franzin

Giusnaturalismo e federalismo nella “Crisi delDiritto e dello Stato” di Silvio Trentin

Focus: Silvio Trentin

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Questa affermazione di Togliatti, abbastanza sor-prendente in un sedicente leninista legatoall’URSS, uno Stato che si dichiarava federalista,deve essere inquadrata nell’ambito della difesadelle frontiere dello Stato italiano che fu l’obbietti-vo di tutti i governi di unità nazionale antifascista.Vi era inoltre una seria preoccupazione che il fede-ralismo potesse giustificare il separatismo sicilianoe sardo di ispirazione reazionaria. Togliatti tuttaviasi dichiarò per l’abolizione dei prefetti e per la lorosostituzione con funzionari eletti su scala provin-ciale o regionale.Nel gennaio 1933 l’organizzazione “Giustizia elibertà” pubblicò il suo programma nel quale siaffermava, fra l’altro: ”L’organizzazione del nuovoStato dovrà basarsi sulle più ampie autonomie. Lefunzioni del governo centrale dovranno limitarsialle sole materie che interessano la vita nazionale.Il principio dell’autonomia è uno dei principi diret-tivi del movimento rivoluzionario Giustizia eLibertà” (Quaderni di Giustizia e libertà, 1933).Emilio Lussu dedicò al federalismo di tipo regiona-lista ma nettamente antiseparatista un saggio sui“Quaderni di Giustizia e libertà” del marzo 1933.Nel luglio dello stesso anno Ruggero Grieco, unautorevole dirigente del Partito comunista d’Italia,motivò, in un suo articolo apparso su “Lo Statooperaio”, il federalismo dei comunisti con “loscopo di allargare al massimo la base del poterefuturo degli operai e dei contadini” (Grieco 1966,pp. 392-401).Il lungo soggiorno di Lussu ad Auch, una località dicura per le malattie polmonari, dove Trentin lavo-rava in una tipografia, ebbe luogo appunto nell’in-verno 1933-34. Trentin stava scrivendo l’opera teo-rica della conversione o della svolta “La crisi delDiritto e dello Stato”, completata nel 1935 quandoegli aveva 50 anni (Fiori 1985)Nella prima fase del suo esilio nel sud della FranciaTrentin si era dedicato all’azione politica antifasci-sta ed alla pubblicazione di opere in cui aveva svi-luppato la sua analisi dei caratteri dello Stato italia-no prefascista e del fascismo.Pubblica cinque opere: “L’avventura italiana.Leggende e realtà” (1928); “Le trasformazionirecenti del diritto italiano. Dalla Carta di CarloAlberto alla creazione dello Stato fascista” (1929);“L’antidemocrazia” (1930); “Alle origini del fasci-smo” (1931); “Il fascismo a Ginevra” (1932).

È ancora sostanzialmente un liberale illuminato,ma certo non liberista, passato su posizioni repub-blicane.La svolta si manifesta nel 1933 con la pubblicazio-ne delle sue “Riflessioni sulla crisi e sulla rivoluzio-ne”, un saggio politico-programmatico.“La crisi del Diritto e dello Stato” è un’opera che sicolloca invece sul piano della filosofia del diritto. Èrivolta ai giuristi e non ai militanti politici. Marisponde anche alla consapevolezza della insuffi-cienza di un programma politico non motivato esostenuto sul piano filosofico.Nelle conclusioni de “La crisi del Diritto e delloStato” Trentin si pone come l’interprete dell’auto-nomia, già affermata come principio direttivo nelprogramma di “Giustizia e libertà”. Trentin accet-ta il programma di “Giustizia e libertà” ma lo svi-luppa e lo definisce in modo molto originale.L’autonomia si realizza, sul piano collettivo,mediante il federalismo delle basi istituzionalidello Stato nazionale (Trentin, 2006, 463).Negli anni successivi, nel suo “Abbozzo” di unpiano di Costituzione, Trentin ha indicato le basiistituzionali dello Stato federale nei consigli deicentri di vita collettiva (le opere, le imprese, leaziende, i Comuni, le Regioni). Trentin nel capitolo settimo de “La crisi” esponeanche la sua nuova interpretazione del capitalismofondata sulle categorie del capitale finanziario, delmonopolio, del capitalismo di Stato, dell’econo-mia diretta o programmata. Egli era stato un osservatore attento dell’interven-to dello Stato nella crisi economica tedesca ma lasua attenzione è diretta anche alle vicende delfascismo italiano che nel gennaio 1933 fonda l’IRIaffidandone la direzione al Alberto Beneduce, per-sonalità a lui ben nota anche come partecipante alcongresso regionale delle bonifiche di San Donà diPiave del marzo 1922. Con la creazione dell’IRI loStato italiano, mediante un grandioso piano di sal-vataggio delle grandi imprese, assunse sostanzial-mente la direzione della vita economica del paese(Grifone 1971, pp. 104-105).Con l’opera “La crisi del Diritto e dello Stato”Trentin affronta il problema dei fondamenti e dellanatura del diritto, dei caratteri dello Stato dacostruire dopo la caduta del fascismo. Ma, nel capi-tolo settimo, dedicato ad “Alcuni aspetti della crisidel Diritto e dello Stato” riespone la sua interpre-

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tazione delle contraddizioni della società capitali-stica e del rapporto fra i monopoli e lo Stato giàcontenuta nelle “Riflessioni”, aggiorna la sua ana-lisi del fascismo dopo la fondazione dell’IRI alquale dedica anche una lunga nota. L’attenzione diTrentin è rivolta al discorso di Mussolini del 26maggio 1934 in cui il dittatore aveva dichiarato diessere in condizione di introdurre in Italia il capi-talismo di Stato, come in effetti stava facendo.Ai fini della comprensione della nuova fase delfascismo Trentin, pur non essendo affatto un mar-xista e neanche un materialista, aderisce ad alcuneanalisi e tesi di carattere economico di Lenin con-tenute nelle opere “L’imperialismo fase supremadel capitalismo”, di cui sottolinea la profondità,“Lo sviluppo del capitalismo in Russia”, il“Contenuto economico del populismo”.Lenin ha sostenuto la tesi, sulla base di numeroseopere di studiosi tedeschi e inglesi, che dopo il1870 si è aperta in Europa una nuova fase della sto-ria del capitalismo caratterizzata dal dominio delcapitale finanziario, dalla formazione dei monopo-li e dall’abbandono della libera concorrenza. Trentin nel saggio della sua svolta politica del 1933“Riflessioni sulla crisi e sulla rivoluzione” dimostradi conoscere molto bene le opere sulla economiaprogrammata e in particolare si serve dell’opera diOtto Ruhle, l’unico socialdemocratico tedesco cheil 20 marzo 1915, assieme a Karl Liebknecht, havotato contro il bilancio di guerra.Ruhle era un marxista eterodosso rispetto ai parti-ti della sinistra tedesca, nel 1932, con lo pseudoni-mo di Carl Steuermann pubblicò “La crisi mondia-le o verso il capitalismo di Stato” (Steuermann1932). Ruhle aggiorna le tesi di Lenin sulla nuovafase della storia del capitalismo sulla base dei suoisviluppi in Germania (Liebknecht e Luxemburg1967, p. XXIII; Ruhle 1972).Trentin ne accetta sostanzialmente le tesi sullecause e sui meccanismi della crisi. Inoltre egli con-divide anche l’affermazione di Ruhle sull’esistenzadi vari tipi di passaggio al capitalismo di Stato ma sidifferenzia nella descrizione della tipologia dei pas-saggi. Egli individua tre tipi di capitalismo di Stato,quello sovietico, quello nazifascista, e un terzo tiporispettoso dell’autonomia delle istituzioni di baseche sarà quello della rivoluzione antifascista italia-na e verso il quale potrebbe evolversi l’URSS.Trentin non era un economista. Le sue posizioni in

materia economica dal 1933 fino al 1942, l’anno incui scrive “Liberare e federare”, rimangono sostan-zialmente immutate. I tre autori a cui fa riferimen-to sono, fra gli altri, Marx, Lenin, Ruhle. Agli inizi de “La crisi del Diritto e dello Stato”,stampata nel 1935 ma con l’ introduzione scritta daFrancois Geny già nel 1934, Trentin si pone orgo-gliosamente davanti alla crisi internazionale delDiritto e dello Stato affermando che essa ha coin-volto il mondo dei giuristi caratterizzato sia da unaforte anarchia e diversità dei linguaggi sia dallaincomprensione dei cambiamenti le quali perònon hanno turbato i fondamenti immanenti delDiritto. Secondo Trentin, esiste, oltre la crisi, unprocesso di accelerazione del movimento demo-cratico che tende a far emergere, anche dal puntodi vista legislativo, l’autonomia dei centri unitari dicoscienza collettiva.L’autonomia, che è il potere di dare le leggi a sestessi ed il valore essenziale al quale si richiamal’individualismo, pone sotto la sua influenza stratisempre più vasti della vita sociale.Vi è una notevole diversità fra la valutazione inizia-le, da parte di Trentin, della crisi contenuta nelprimo capitolo e quella finale espressa nell’ultimocapitolo, l’ottavo. Si potrebbe perfino parlare didue valutazioni diverse, sia pure non contradditto-rie, della crisi. La diversità è dovuta in parte al fattoche Trentin, nella fase iniziale dell’opera, minimiz-za polemicamente l’importanza della crisi riaffer-mando orgogliosamente davanti ad essa la validitàdelle sue posizioni sulle fonti del diritto, sullanozione di esso, sullo Stato, sul diritto sociale equello individuale (quelle di un filone del giusna-turalismo che ha come suoi esponenti HugoGrotius, Kant, Rousseau ed infine anche FrancoisGeny), criticando le posizioni espresse da altretendenze filosofiche, e in particolare quella delpositivismo e del formalismo giuridico rappresen-tata da H. Kelsen.Trentin nel primo capitolo afferma che la crisitocca soltanto le superfetazioni arbitrarie dell’ordi-namento giuridico.È innegabile che nel settimo capitolo, nei paragra-fi settimo ed ottavo, della “Crisi” Trentin sposti lasua analisi dal campo degli orientamenti filosoficidei giuristi, cioè dalle conseguenze soggettivedella crisi, a quello delle cause oggettive della crisie cioè al capitalismo finanziario e di Stato che gli

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appare come dominante sia i regimi totalitari eautoritari di massa sia le grandi democrazie parla-mentari.Trentin sottolinea nel capitolo settimo de “La crisi”la profondità delle osservazioni di Lenin nel suo“Saggio popolare”, “L’imperialismo come fasesuprema del capitalismo”, un’opera nella qualeLenin dimostra che dopo il 1873 si è aperta unanuova fase della storia del capitalismo. L’anticocapitalismo della libera concorrenza si è trasforma-to nel capitalismo monopolistico e finanziario.Lenin si serve anche di dati statistici e di pubblica-zioni sulla Germania, un paese verso il quale l’at-tenzione di Trentin era molto alta per varie ragio-ni, i suoi pregiudizi di interventista, i suoi studi giu-ridici, la vittoria del nazismo ecc. È certo che nellaevoluzione dalla prima alla seconda analisi e nellavalutazione della crisi hanno avuto un ruoloimportante gli avvenimenti politici ed economiciverificatisi a livello internazionale durante la com-posizione dell’opera: la crisi degli USA, la repres-sione antioperaia a Vienna, la nomina di Hitler acancelliere in Germania il 30 gennaio 1933, le agi-tazioni della destra francese, le difficoltà economi-che del fascismo italiano.L’obbiettivo principale de “La crisi del Diritto edello Stato” non è ancora l’esposizione del sistemafederalista, che sarà l’oggetto di opere successive,ma piuttosto la motivazione del fondamento, delpresupposto del federalismo: l’affermazione dellavalidità della teoria dell’autonomia delle persone,dei gruppi sociali e degli enti territoriali sulla basedel giusnaturalismo.Trentin è consapevole che senza la motivazione,senza il fondamento giusnaturalistico il principiodell’autonomia è troppo debole davanti allo Statomonocentrico, accentratore e autoritario.

Il pr incipio dell’a utonomia

Già nel 1933, nel capitolo diciottesimo del suo sag-gio “Riflessioni sulla crisi e sulla rivoluzione”, chesegna la sua svolta politica, Trentin afferma che ilnuovo ordinamento statale deve essere subordina-to al principio dell’autonomia: ”Autonomia del cit-tadino; autonomia dell’imprenditore; autonomiadell’azienda; autonomia del sindacato; autonomiadelle collettività territoriali” (Trentin, 1985, p. 212).Ne “La crisi” la posizione politica è la stessa del sag-

gio del 1933 e viene riconfermata, con una citazio-ne molto lunga del capitolo diciottesimo delle“Riflessioni”, nelle conclusioni contenute nel capi-tolo finale. Lo stesso brano viene citato nella con-clusione d’opera successiva “Stato, Nazione,Federalismo” (1942).Trentin vuole evidentemente sottolineare lacoerenza e la continuità delle sue posizioni politi-che dal 1933 in poi. Quello della sua coerenza è unproblema al quale egli si mostra molto sensibileprobabilmente in relazione alla notevole modificadelle posizioni che aveva espresso, negli anni pre-cedenti all’esilio, di esaltazione del ruolo deiComuni ma di rifiuto netto delle Regioni.Nella “Crisi” Trentin ha l’obbiettivo di porre la pre-messa fondativa del federalismo che è l’afferma-zione dell’autonomia quale unica ed esclusivafonte del diritto.Il federalismo come posizione politica ha bisognodi un fondamento e di un sostegno filosofico. Èprobabile che Trentin si rendesse conto dell’isola-mento sostanziale nel quale si trovava il federali-smo sia nel campo delle forze politiche dell’emi-grazione antifascista italiana sia nella vita politica eparlamentare della Francia.L’autonomia, che è il valore essenziale al quale sirichiama l’individualismo, pone sotto la suainfluenza strati sempre più vasti della vita sociale.L’autonomia da attributo esclusivo della personaindividuale tende incessantemente a mutarsi inattributo di ogni essere sociale giunto a realizzareuna propria individualità organica.Questo allargamento del campo di applicazionedell’autonomia può essere visto come una granderivoluzione che non infrange mai il diritto il qualeha come scopo la realizzazione della giustizia.Per questa rivoluzione dell’autonomia che è inatto, Trentin elabora anche un programma econo-mico e sociale il quale è subordinato, strumentalerispetto alla realizzazione del principio dell’auto-nomia. Trentin non è né un positivista né un eco-nomicista.A proposito dell’URSS, Trentin, pur facendo pro-prie e riproponendo anche per l’Italia le paroled’ordine della Rivoluzione d’ottobre, afferma nelle“Riflessioni” che è impossibile transigere con ilmetodo della libertà: “perché le esigenze di questosono e restano categoriche ed irreduttibili”(Trentin, 1985, p. 126).

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Nella “Crisi” aggiunge che: ”a Lenin doveva essereriservato il compito di fondare lo Stato più rigida-mente monocentrico, il più autoritario che mail’Europa civilizzata abbia conosciuto” (Trentin2006, p. 185).Trentin è perfettamente consapevole delle con-traddizioni emerse fra gli obbiettivi dellaRivoluzione d’ottobre e lo Stato sovietico.Quali sono le fonti del diritto? Il fondamento deldiritto è la natura dell’essere umano il quale è unessere autonomo che ha dentro di sé la legge mora-le, postulato della ragione, la quale, secondo Kant,è il fondamento di ogni legislazione possibile. Lanatura umana è un principio. L’esercizio dellaragione da parte dell’essere umano implica l’auto-nomia cioè il potere di dare le leggi a se stessi.L’uomo è un essere sociale. La natura umanaimpone la riunione degli uomini in società. Questoè il significato della teoria del contratto sociale ela-borata da Rousseau e da Kant.Secondo Trentin, lo Stato di Rousseau è l’ordina-mento esemplare, conforme alla natura ragionevo-le dell’uomo, in rapporto al quale si deve giudica-re ogni ordinamento storico concreto, positivo.Rousseau si è dibattuto nelle contraddizioni piùaperte ma con la sua opera l’individuo fu elevatonell’ambiente sociale come una unità che, per suanatura, rivendica l’autonomia.Rousseau e Kant sono dunque indicati da Trentincome i due teorici dell’autonomia, oltre a Grotiusil quale, grazie alla visione profonda, ha individua-to alcuni attributi universali della persona umanaed ha così consentito di concepire il gruppoumano, la totalità, non come trascendente macome immanente rispetto ai suoi membri.Grotius e i giusnaturalisti del XVII secolo hannoaffermato che i doveri e i diritti degli uomini nonsono rinchiusi nei limiti della legge positiva o dellarivelazione ma sono fondati su determinati attribu-ti universali della persona umana, sulla naturaumana e cioè sull’immanenza dell’essere e quindihanno distrutto i fondamenti dell’ordine delloStato nazionale.Il diritto non è soltanto un fatto sociale. Esso è larealizzazione dell’imperativo supremo che regola ildestino sociale, l’imperativo che obbliga gli uomi-ni a entrare in rapporto fra di loro adeguandosi alleloro esigenze di natura spirituale.Le norme mediante le quali il diritto si realizza sto-

ricamente dovrebbero essere caratterizzate dall’e-lemento essenziale della instaurazione di un regi-me sociale che è un regime di diritto solo in quan-to consacra e garantisce contro qualsiasi attentatoil valore della persona e l’equivalenza dei soggetti.Come scrive Kant, l’uomo non può essere destina-to all’ineguaglianza giuridica poiché è dotato, persua natura, di libertà e di ragione.Ma l’uomo arriva molto lentamente a prenderecoscienza della sua natura ragionevole. A fianco del Diritto vero qualsiasi norma obbliga-toria di fatto si pone come norma di Diritto vero. Il“Diritto di fatto“, il cosiddetto diritto positivo è sol-tanto un insieme dei sistemi delle norme sociali invigore, in un dato momento storico. Ma il dirittopositivo non ha mai potuto sottrarsi al dominio delDiritto “vero”, quello rispondente alla natura del-l’uomo.Secondo Trentin, i fattori economici, cioè la pro-prietà privata, hanno avuto un ruolo nefasto nel-l’organizzazione della vita sociale.Non può esservi mai opposizione o contraddizionefra la morale e il Diritto. Il fondamento della moralee del diritto è lo stesso. Il Diritto è altrettanto asso-luto e immutabile della morale quando è visto comeessa nella sua ragion d’essere immanente. Il Dirittoinstaura la giustizia. La giustizia è il principio dirazionalizzazione dell’imperativo etico che è il prin-cipio interente al Diritto. È attraverso l’idea dellagiustizia che l’uomo raggiunge la nozione delDiritto. La nozione di uguaglianza nel suo significa-to generale è alla base del principio della giustizia.Dal punto di vista della giustizia la società non è diper sé una realtà morale suscettibile di costituirsicome principio e di definirsi come fine autonomo.Questa visione del rapporto fra la giustizia e lasocietà è il presupposto e il fondamento delleriforme radicali: la terra ai contadini, le fabbricheagli operai, le banche e il commercio allo Stato, lelimitazioni della proprietà privata, indicate daTrentin come obbiettivi della rivoluzione antifasci-sta italiana nelle sue “Riflessioni” del 1933.La realtà giuridica è una realtà metafisica. Poiché ilvalore ha un carattere extratemporale di imma-nenza, esso si oppone alla realtà empirica. PerTrentin il concetto di Diritto va stabilito riallac-ciandolo al dato etico fondamentale grazie al qualesi stabilisce il valore immanente della naturaumana in quanto natura ragionevole.

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Il Diritto è sostenuto nella vita sociale dall’Ordineche la cui proiezione nella realtà è lo Stato. Trentinafferma la necessità dello Stato inteso come:”l’Ordine degli ordini, l’organizzazione completa,finita, chiusa, che abbraccia sia gli ordini esistentisia quelli che potrebbero esistere, l’autonomiasuprema alla quale si rifanno tutte le autonomieindividuali o collettive” (Trentin 2006, p. 178)E rifiuta le teorie della società senza Stato ritenen-do che l’esigenza dello Stato emerga anche negliscritti di Marx, Engels, Lenin malgrado le loro ripe-tute affermazioni a favore dell’estinzione delloStato.Trentin definisce lo Stato anche ordine delle auto-nomie (Trentin 2006, p. 198).

Lo Sta to monocentr ico, a ccentr a tor e, a uto-r i ta r io

È molto significativo che lo Stato “monocentrico,accentratore, autoritario”, appena accennato nella“Crisi”, che è, nelle opere successive, individuatocome la negazione assoluta dello Stato federalista,emerga in relazione all’URSS vista come Statodell’“esercizio autoritario di un potere puramentepolitico” (Trentin 2006, p. 187).Trentin riconosce che certi aspetti fissi e storicidello Stato borghese sono caduchi come anche lastruttura dello Stato sovietico ma afferma che loStato come “sintesi delle esigenze che condiziona-no l’esistenza di ogni collettività storica” è eterno. Lo Stato come tentativo di realizzazione del Dirittopuò esistere solo nell’ambito e per la Società. Equindi esso per non rendersi completamenteestraneo alla Società deve sempre più organizzarsicome un “ordine delle autonomie”: l’autonomiacollettiva, come l’autonomia individuale, non èantitesi o negazione dello Stato. Le comunità sog-giacenti sono in fondo autonomie istituzionali lacui esistenza rimane subordinata alla loro integra-zione nello Stato. L’autonomia istituzionale è l’ele-mento costitutivo dello Stato, un ordine da inte-grare. La ragion d’essere dello Stato si colloca nelcoordinamento di tutti gli ordini mediante ilDiritto e nel Diritto. Se lo Stato cessa di essere l’or-dine supremo di integrazione, allora si imponel’ordine imposto dalla forza che finisce per piegarealle sue esigenze l’organizzazione statale. SecondoTrentin, questa è la situazione paradossale dello

Stato capitalista “in cui precisamente i poteri giuri-dici si identificano con i poteri conferiti della dis-uguaglianza nell’usufruire dei beni economici”(Trentin 2006, p. 200).Lo Stato non potrà mai costituirsi come “un veroordine di integrazione” finché la disuguaglianza eco-nomica resterà la base dei rapporti intersoggettivi.La crisi del dopoguerra è la crisi dello Stato capita-lista dovuta al fatto che il problema dello Stato nonpuò essere risolto con la sua subordinazione alleforze sociali dominanti.Per Trentin “Lo Stato non può essere concepitoche come il regime delle autonomie, cioè come unregime che, pur conservando circa la sua ragioned’essere una carattere rigidamente monista, rima-ne nello stesso tempo essenzialmente pluralistacirca la sua struttura, la sua costituzione organica”(Trentin 2006, pp. 202-203).L’organizzazione positiva dello Stato ha come prin-cipio ispiratore la democrazia.Trentin non è un apologeta acritico della democra-zia politica parlamentare. Ne vede tutta l’incomple-tezza e le enormi e costanti contraddizioni.Egli afferma che ”lo Stato democratico è ben lonta-no dall’aver realizzato la sua espressione positiva”.Ogni sforzo di realizzazione integrale dell’ordinedemocratico: ”sarà fatalmente votato alla sconfitta,come è sempre accaduto finora, finché l’integra-zione da parte dell’ordine dello Stato della piùgrande misura di giustizia egualitaria non si opere-rà sul piano sociale altrettanto che su quello politi-co, finché l’uomo non sarà liberato prima di tuttoda ogni potere di dominio economico, da ognisituazione che permetta l’asservimento di una clas-se da parte delle altre” (Trentin 2006, p. 223).La democrazia deve essere completa e quindi poli-tica ma anche sociale.Il programma di riforme economiche di Trentinrealizza la democrazia economica e sociale.

Il giusna tur a li smo come fonda mento delfeder a li smo

Nel capitolo quinto Trentin affronta finalmente, inmodo organico, la questione del diritto naturaleche è centrale ne “La crisi”. La dottrina del contrat-to sociale di Rousseau rimane indistruttibile nellasua portata essenziale. Lo Stato è la sola istituzioneche può soddisfare le esigenze della natura morale

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dell’uomo come vengono rivelate dalla ragione. LoStato, secondo Rousseau, non sarà mai razional-mente legittimo se non si organizzerà come sefosse scaturito da un contratto. Il Diritto è la leggenaturale dell’uomo. La ragion d’essere del Diritto ècollocata proprio nella caratteristica della personaumana di essere depositaria di un valore assoluto.La ragione del Diritto è al di sopra della ragionedelle leggi. Il fenomeno del Diritto rimane scono-sciuto al di fuori del Diritto naturale. “Il dirittonaturale è il Diritto puro e semplice, la legge dellavita sociale che ha la sua fonte nel carattere asso-luto del valore che appartiene, per la sua stessanatura, alla persona umana” (Trentin 2006, p. 238)Trentin critica gli antichi giusnaturalisti che hannoconfuso la natura metafisica dell’uomo, la suanatura immanente e ragionevole, con quella fisica.Il Diritto naturale affiora alla superficie del Dirittopositivo molto lentamente e molto confusamente.“Lo studio della storia, ben lungi dal dimostrarel’inconsistenza del Diritto naturale, conduce indi-scutibilmente alla constatazione che solo il Dirittonaturale permette di comprendere e di qualificareil Diritto positivo” (Trentin 2006, p. 244).Senza il punto di riferimento costituito dal Dirittonaturale non può essere formulato nessun giudiziosulla giustizia delle leggi umane, sulla loro legitti-mità. È dai principi del Diritto naturale che si sonodedotte direttamente le regole classiche del dirittointernazionale e le garanzie costituzionali dellalibertà politica. Al di là dei loro limiti, Grotius e igiusnaturalisti hanno dimostrato che per valutare iregimi delle società umane bisogna paragonarli conregole eterne ed immutabili che sono conformi allaragione ed alla natura dell’uomo. La persona è ilvalore supremo. Ogni diritto positivo postula ildiritto naturale. Trentin, ammiratore di BenedettoCroce, ne respinge tuttavia l’ironia sul Diritto natu-rale la cui realizzazione, secondo il filosofo napole-tano, comporterebbe la fine della storia. Il Dirittonaturale è la legge del perfezionamento indefinito,dell’evoluzione costante dell’umanità. Il dirittonaturale comporta: ”un nocciolo di principi che sta-biliscono le condizioni secondo le quali può ope-rarsi quel giudizio di valore implicito in ogni normadi Diritto” (Trentin 2006, p. 257).Il feticismo della legge, del diritto positivo è statoun riflesso del feticismo dello Stato monocentrico,accentratore.

Giuseppe Ga ngemi e i due modelli di fede-r a li smo

“La crisi del Diritto e dello Stato” è stata pubblica-ta in italiano soltanto nel 2006 a cura di GiuseppeGangemi, il quale è autore anche di una serie dimonografie sui federalisti di alcune importantiregioni italiane quali, la Sardegna, la Lombardia, ilVeneto, la Sicilia.Abbiamo già rilevato come “La crisi” sia statasostanzialmente esclusa dalle “Opere scelte” diTrentin precedentemente pubblicate da una com-missione di studiosi diretti da Norberto Bobbio,notissimo ed autorevole sostenitore del pensierogiuridico di Kelsen molto criticato da Trentin(Quaranta 2005, p. 77).È utile ricostruire sommariamente il percorso cul-turale mediante il quale Gangemi è arrivato fino allascoperta e poi alla adesione alla teoria del federali-smo di Trentin. Nel gennaio 1996 è sorto, in modomolto contrastato, il Centro studi sui federalismiSilvio Trentin di Padova ma la svolta “separatista”dell’autunno successivo di Umberto Bossi e poi lasua ombra hanno ostacolato, per anni, tutte le ini-ziative del Centro padovano. Può essere interes-sante ricordare come l’on. U. Bossi, uno dei nume-rosi aderenti al Centro studi, abbia espresso subitola sua contrarietà alla denominazione del Centroper il riferimento alla pluralità dei federalismi.Nel 1994 Gangemi pubblica “La questione federali-sta Zanardelli, Cattaneo e i cattolici bresciani”. Egliindividua due tipi di federalismo sulla base dei qualiclassifica i teorici del federalismo, quello politico-istituzionale, giuridico (che potremmo definire dal-l’alto o della superbia) e quello antropologico (chepotremmo definire dal basso o dell’umiltà). Il fede-ralismo antropologico si propone di realizzare unaforma di democrazia decentrata che ha comeobbiettivo centrale lo sviluppo economico locale.Nella valutazione dei due diversi e contrappostifederalismi, è necessario ricordare sempre che essi simanifestarono sotto il dominio della legge 20 marzo1865, n. 2248 che, con i suoi sei decreti allegati, èuna vera e propria legge di fondazione o di rifonda-zione dello Stato italiano come Stato accentrato.Nei decenni postunitari i sostenitori del federali-smo politico-istituzionale-giuridico sostanzialmen-te si dedicarono all’agitazione ed alla propagandapolitica mentre invece i sostenitori del federalismo

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antropologico organizzarono a livello locale ban-che, cooperative ed altri servizi autofinanziati.Carlo Cattaneo si colloca fra i federalisti politico-istituzionali il cui ultimo esponente, se vogliamo, èstato Gianfranco Miglio, l’ispiratore del separati-smo bossiano. Il suo federalismo, prima dellainsurrezione del 1848, aveva avuto coma obbietti-vo l’unificazione di stati non importa se apparte-nenti alla stessa nazionalità.Prima del libro di Gangemi, la collocazione diCattaneo fra i moderati o meglio la sua subalterni-tà nei confronti del blocco moderato non era maistata né affermata con tanta ricchezza di argomen-tazione da parte di nessun interprete (Gangemi1994, p. 135). La concezione dell’uomo dei federa-listi antropologici ha origine nel pensiero diGiambattista Vico il cui insegnamento è stato ripre-so da Giandomenico Romagnosi maestro sia diCarlo Cattaneo che di Andrea Zambelli, un docen-te universitario di Pavia. Per Gangemi, Cattaneo, anche se è ritenuto gene-ralmente un radicale, concorda sostanzialmente, aparte la questione del decentramento, con le altreposizioni fondamentali dei moderati monarchicisia sulla ricostruzione della storia d’Italia sia sullapolitica economica che ha avuto come obbiettivol’industrializzazione del triangolo Torino-Milano-Genova sostenuta dalle risorse di tutto il paese. Ilsuo federalismo è fondato su una apologia dellaborghesia urbana della Lombardia del periodocomunale che esclude un ruolo autonomo deicomuni non-urbani e delle masse popolari dellecampagne. Cattaneo attribuisce alla borghesia ditutte le regioni italiane, anche quelle del Sud, lostesso ruolo di quella lombarda e non affronta ilruolo della borghesia delle varie città durante isecoli della crisi italiana dopo la spedizione diCarlo VIII e quindi ignora Machiavelli. Zanardelliinvece si colloca fra i federalisti antropologici per iquali il federalismo è una costruzione autonomadal basso dei contadini e degli artigiani che devo-no contare principalmente sulle loro forze.

Alle or igini del feder a li smo a ntr opologiconel Veneto

Gangemi ha individuato in un allievo di DomenicoRomagnosi, Andrea Zambelli dell’Università diPavia, il maestro comune di Zanardelli e di Angelo

Messedaglia, veronese, docente all’Università diPadova, che è stato, a sua volta, il maestro deiveneti Emilio Morpurgo, Fedele Lampertico, LuigiLuzzatti. Per una rappresentazione dei rapporti fraMessedaglia e Luzzatti, si rinvia a Catalano (1965) ePecorari (1983).La collocazione di Luzzatti fra i federalisti antropo-logici è un contributo originale che Gangemi hadato alla interpretazione della figura e del pensie-ro dell’uomo politico veneziano. Per una com-prensione dell’opera di Luzzatti, si rinvia allaBiblioteca luzzattiana edita dall’Istituto veneto discienze, lettere ed arti dove si trovano: a cura diP.L. Ballini e P. Pecorari, “Luigi Luzzatti e il suotempo”; a cura di D. Calabi, “La politica della casaall’inizio del Novecento”; a cura di P. Pecorari, “Ladiffusione del credito e le banche popolari”. Luzzatti, deputato del collegio di Oderzo(Treviso), più volte ministro e Capo del governonel 1911-12, ha esercitato un’influenza decisiva suTrentin, come è testimoniato anche dai suoi amicie come si ricava dai suoi scritti del periodo prece-dente all’esilio ed anche dalla fitta corrispondenza(Ronchi 1975, p. 20)Alcune pubblicazioni di Luzzatti erano presentinella biblioteca di Trentin donata dagli eredi allaBiblioteca del Dipartimento di studi giuridici di Ca’Foscari ed andata, purtroppo, largamente disper-sa. La bibliotecaria S. Franzoso segnala che attual-mente sono presenti nella biblioteca citata soltan-to 72 volumi della biblioteca di Trentin. Tre sono i problemi rispetto ai quali Trentin sipone esplicitamente come il continuatore diLuzzatti: l’istituzione della cassa nazionale per lebonifiche, le case popolari, l’Ente di ricostruzionee rinascita agraria delle province di Venezia e diTreviso. A questi si aggiunge la lotta contro la mala-ria. Luzzatti fondò anche l‘Istituto autonomo per lalotta antimalarica nelle Venezie il cui statuto fu ela-borato da Trentin (1984, pp. 50 e nn. 107-108, 119,128, 176, 263 e 269)Trentin esalta in Parlamento l’apostolato “geniale efervido” di Luzzatti svolto per far approvare lalegge del 1903 sulle cooperative edilizie popolari,per creare un ente antimalarico all’infuori di ognistimolo ufficiale. Gli dedica il saggio molto impe-gnativo sull’Istituto federale di credito per il risor-gimento delle Venezie.Giustamente Luzzatti affermava di vedere in

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Trentin il suo successore.È molto significativa la prima lettera della fitta cor-rispondenza fra i due uomini politici veneti.Trentin chiede aiuto per difendere il Consorzioper l’esercizio del credito agrario come organoesclusivo delle casse di risparmio e delle banchepopolari contro i tentativi di infiltrazione delle ban-che speculative come ad esempio il Credito vene-to, espressione di ambienti clericali romani e vene-ti (Piva 1977, pp. 58, 86-87, 231, 242)Trentin in tutta la sua corrispondenza, che dura dalsettembre 1920 fino al 18 luglio 1926, con il “mae-stro” Luzzatti, manifesta i suoi sentimenti filiali didiscepolo fedele (nell’Istituto veneto di scienze,lettere ed arti, Archivio L. Luzzatti, la cartellaTrentin contiene 85 fra lettere e telegrammi).Le iniziative di Trentin come parlamentare venetoe come professionista negli anni Venti, prima del-l’esilio, si collocano decisamente nell’ambito delfederalismo antropologico.Con la svolta degli anni Trenta, il pensiero di Trentinfa un salto di qualità, il suo federalismo antropolo-gico diventa teorico e politico. Egli supera i limiti delfederalismo antropologico schiacciato dal centrali-smo dello Stato italiano strutturato dalla legge 20marzo 1865, n. 2248 perché si rende conto che, allacaduta del fascismo, si porrà il problema della rico-struzione di un nuovo Stato italiano.Contrariamente alle sue previsioni, in realtà allacaduta del fascismo si è mantenuto intatto il cen-tralismo del vecchio Stato sabaudo prima e fascistadopo a parte alcuni cambiamenti marginali.La conoscenza del pensiero di Vico, di Romagnosie dei loro seguaci sia lombardi che veneti, ha con-sentito a Gangemi di capire l’importanza straordi-naria dell’opera di Trentin “La crisi del Diritto edello Stato”, di invocarne già nel 1997 la pubblica-zione integrale, di denunciare la grave lacuna dellapur meritoria edizione delle Opere scelte(Gangemi 2000b, pp. 98-100; 2004, pp. 465- 483;2005, pp. 377-401).È utile ricordare i giudizi contrastanti o contraddit-tori pronunciati su “La crisi” prima della decisarivalutazione operata da Gangemi.Nel 1954 N. Bobbio nella sua commemorazione diTrentin definisce “grandioso” il disegno de “Lacrisi” (Bobbio 1954, p. 711)Nel 1974 ritiene che essa sia una delle opere piùimportanti anche se la meno nota, data la sua irre-

peribilità nelle biblioteche italiane (Bobbio 1974,118-119).Nel 1987 la definisce ”opera teorica maggiore” edaggiunge che in essa il pensiero federalista diTrentin esce, nella conclusione, “tutto spiegato”(Bobbio 1987, p. XXVI)Ma questa ultima affermazione è del tutto infonda-ta. Le tesi fondamentali de “La crisi” sono tre: lavalidità del giusnaturalismo come pensiero dell’au-tonomia della persona, la trasformazione del capi-talismo concorrenziale in capitalismo finanziario emonopolistico, il federalismo come modo di rea-lizzazione sul piano collettivo del principio dell’au-tonomia.Ma Trentin non vi enuncia affatto la sua concezio-ne del federalismo. Egli affronta, in modo organi-co, il problema del federalismo soltanto nell’operasuccessiva “Stato, nazione, federalismo” (1940).Bobbio afferma che: ”l’originalità del pensierofederalistico di Trentin, o, se vogliamo, la sua carat-teristica sta nel muoversi nella direzione del fede-ralismo interno molto più che nel federalismoesterno” (Bobbio 1987, p.XIII)Si tratta di una interpretazione molto riduttiva. Icaratteri specifici del federalismo di Trentin devo-no essere visti nel suo fondamento giusnaturalisti-co, nella interpretazione del capitalismo comecapitalismo finanziario e monopolistico, nel fede-ralismo come organizzazione che ha come istitu-zione statale di base il Comune, nella individuazio-ne della contraddizione esistente fra la democraziaparlamentare e la disuguaglianza economica.Fino al 1974 il pensiero giuridico e politico diTrentin è stato quasi completamente ignorato. Equesto è molto significativo per capire il distaccooriginario fra Trentin e i membri dell’autodisciol-tosi Partito d’azione. Il centro studi e ricerca SilvioTrentin è nato nel 1974 per l’appassionata iniziati-va personale dell’assessore comunale di Jesolo,Raffaello Zannoner, un personaggio meritevole mamarginale rispetto alla vita politica e culturalenazionale. L’ubicazione stessa del centro, cheancora oggi ha la sua sede a Jesolo, è geografica-mente decentrata non soltanto rispetto a Veneziao a Padova, città universitarie, ma perfino rispettoa San Donà di Piave luogo di nascita di Trentin.Moreno Guerrato ha ricostruito, in modo esem-plare, le origini del centro nel 1974 (Guerrato2004, pp. 29-33).

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Con la scomparsa del secessionismo bossiano, nonè difficile prevedere che la pubblicazione de “Lacrisi del Diritto e dello Stato”, a cura di GiuseppeGangemi, potrebbe aprire in Italia una nuova fasenon solo della storia della conoscenza e della dif-fusione del pensiero di Silvio Trentin ma anche delfederalismo.

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Silvio Trentin, nato a San Donà di Piave, nel 1885,e morto prematuramente a Monastier nel 1944, èstato uno dei primi fuoriusciti del ventennio (lascial’Italia nel 1925) ed un importante oratore, anchein lingua francese, impegnato nella lotta politicacontro i fascismi europei. Fu anche un grande intellettuale che scrisse libriimportanti. Nel 1935, pubblicò il più importante ditutti (La crisi del Diritto e dello Stato) che è statorecentemente edito, in lingua italiana. Altri testi giànoti al pubblico italiano, perché contenuti nellasua opera omnia, edita per i tipi della Marsilio,Libera re e Federa re; Le tra sforma zioni recentidel diritto pubblico ita lia no; Sta to Na zioneFedera lismo (quest’ultima un’opera che merite-rebbe di essere stampata, come opera autonoma,con una nuova presentazione e delle note di com-mento ai passi più interessanti) e altre. Fu tra i fondatori, insieme ai fratelli Rosselli, diGiustizia e Libertà, dove rappresentò, ben presto,l’ala più radicale e di sinistra. Dal 1936, fu tra gliorganizzatori degli aiuti internazionali alla guerradel governo spagnolo repubblicano nella lotta con-tro i fascisti e i generali ribelli. Varie volte si recò inSpagna dove avrebbe voluto rimanere per svolgereun ruolo più attivo nella guerra.Con l’invasione tedesca della Francia fu tra gliorganizzatori della resistenza francese attraversoun movimento che, nel nome, aveva anche il suo

programma: Libérer et fédérer (da cui anche unarivista clandestina e il titolo del suo importantelibro). Poco prima dell’8 settembre del 1943, tornò inVeneto dove, sempre l’arrivo dei tedeschi locostrinse alla clandestinità. Fu tra gli organizzatoridella resistenza in Veneto. Fu, però, fortuitamentearrestato dai fascisti e i maltrattamenti subiti neminarono a tal punto la salute che dalla prigioneuscì solo per finire i suoi giorni in ospedale.Morì il 12 marzo del 1944. La sua morte privò laCostituente italiana di un importante apportointellettuale e politico. Fu un federalista. Un grande federalista. Talmentegrande che non ho remore a definirlo più grandedel più noto e magnificato Carlo Cattaneo. La suagrandezza consiste nel non avere cercato l’affer-mazione del federalismo attraverso una costituzio-ne formale, ma attraverso la costituzione nellasocietà e nella vita quotidiana delle basi reali del-l’autonomia. L’autonomia di un popolo, ci suggerisce infattiTrentin, è basata sulla capacità di disporre delleproprie risorse che sono risorse finanziarie, maanche morali e intellettuali. IL che vuol dire chel’autonomia di un popolo comincia, ma non siesaurisce, con l’autonomia del prelievo fiscale (edè, quindi, anche federalismo fiscale). Continua,infatti, anche con la capacità di raccogliere il rispar-

Giuseppe Gangemi

Ricordo di Silvio Trentin

Focus: Silvio Trentin

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mio e utilizzarlo per i fini e gli interessi di chi loproduce, sia esso un territorio o un’associazione inrete, con la capacità di produrre strategie politichedi sviluppo sia economico che politico.Il federalismo di Trentin è un federalismo costrui-to anche sulle banche, che devono essere bancheche finanziano i progetti che nascono dalle intelli-genze nel territorio o in rete, e sulla cooperazione(cioè sui consorzi, sulle associazioni di volontari,sulla capacità dei politici di costruire consensofinalizzato allo sviluppo e non al vantaggio dipochi) e sulla negoziazione (cioè sulla capacità diindividuare, attraverso la logica, l’etica e il diritto, ilpunto di equilibrio, la regola pratica che acconten-ta il maggior numero di persone, se non puòaccontentare tutti).L’autonomia di un popolo è costruita sull’autono-mia delle sue associazioni, delle sue comunità edelle sue reti. “Padroni in casa propria” vuol dire,quindi, che in ciascuno dei livelli delle autonomie(da quello dei piccoli Comuni e dei quartieri dellegrandi città a quello delle Regioni) il popolo ochiunque chiede di poter partecipare deve riceve-re la possibilità di farlo attraverso l’istituzionalizza-zione (per ciascuna decisione da prendere) di spe-cifiche pratiche di democrazia diretta. “Padroni incasa propria” significa che nessuno deve togliere aicittadini di Vicenza il diritto di decidere del futurodella loro città e che questo non deve passaresopra la testa dei cittadini attraverso accordi inter-nazionali o tra partiti nazionali. “Padroni in casapropria” vuol dire che a tutti i cittadini vicentinideve essere fornita la possibilità di esprimere laloro posizione sul futuro del Dal Molin (e nonsolo, ovviamente, scendendo in piazza). “Padroniin casa propria” vuol dire che, una volta raggiunta,tra i vicentini, la chiarezza della posizione da tene-re, questi negoziano direttamente con il governoitaliano (ma anche con il comando americano, senecessario) per ottenere, in prima istanza, che labase non si faccia a Vicenza e, se proprio questonon è possibile, per ottenere che l’impattoambientale temuto sia ridotto al minimo e che icosti sociali di questo impatto sia pagato da chiprende la decisione di fare la base e non dai citta-dini che non la volevano. “Padroni in casa propria”vuol dire padroni di decidere del proprio ambien-te (per la parte che non danneggia l’ambiente dialtri) e di non farsi espropriare dei diritti sul pro-

prio territorio dalla classe politica nazionale e nem-meno da quella locale. Quest’ultima, infatti, appli-cando a livello locale il metodo accentratore dellaclasse politica nazionale, tende troppo spesso adecidere senza consultare i cittadini su tematicheche toccano la vita o gli interessi dei cittadini.“Padroni in casa propria” vuol dire che la casa è deicittadini tutti e non dei soli politici, né di quellinazionali, né di quelli locali che, spesso, hannoarroganza e tendenze alla prevaricazione simili, senon identiche, a quella nazionale.Da tutto questo si evincono due cose: FEDERALISMO non è SECESSIONE perché FEDE-RALISMO è NEGOZIAZIONE;Nel senso che la secessione è tra le possibilità, nonlo si nega, ma è il risultato del fallimento del fede-ralismo, non tutto il federalismo e la negoziazioneva concepita a tutto campo. In tutte le direzioni:verso il livello superiore di più popoli che condivi-dono identici problemi (per esempio, l’acqua e iproblemi che crea un grande fiume come il Po; lamontagna e chi ci sta oltre quella montagna; ilmare e le potenzialità di sviluppo che crea unimportante mare come l’Adriatico soprattuttoquando gli scavi in corso nel Canale di Suez per-metteranno alle più grandi navi del mondo di arri-vare dalla Cina e dall’India dentro il Mediterraneo;etc.) e verso i livelli inferiori delle comunità checostituiscono il popolo Veneto e le reti che loinnervano (per esempio, la Regione deve negozia-re con i Comuni e le Province, secondo i principidella sussidiarietà verticale, ma anche con i cittadi-ni e le loro associazioni, le imprese, le associazioniprofessionali, etc., secondo i principi della sussi-diarietà orizzontale);FEDERALISMO è un DIVERSO MODO DI GOVER-NARE;Federalismo non è sostituzione di una classe diri-gente, magari incapace di o non disponibile anegoziare, con un’altra che governa allo stessomodo, ma ha solo il vantaggio di essere più vicinaai cittadini. Federalismo è un diverso modo digovernare attraverso la partecipazione di tutti, ditutti quelli che desiderano di farlo. Ed è un mododi governare a cui bisogna prepararsi e che occor-re costruire giorno per giorno. Federalismo non èil modo di governare dei moderni Dogi chiusi neiloro palazzi, a contatto solo con i loro amici e coni loro consulenti che emanano editti alla cui elabo-

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Giuseppe Gangemi Ricordo di Silvio Trentin

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razione non è stato invitato nessuno della cosid-detta società civile. Federalismo è convinzioneprofonda della maturità del cittadino, dei gruppiche costituisce, delle sue associazioni delle profes-sionalità che ha saputo costruire nel territorio. FEDERALISMO è ASCOLTO, DIALOGO e PARTE-CIPAZIONE. Federalismo è, per sintetizzare tuttequeste cose in una, con il linguaggio geniale diSilvio Trentin, AUTONOMIA DELLE AUTONOMIE.Autonomie che cominciano dal livello delle perso-ne, la cui professionalità va rispettata e ascoltata,continuano con il livello appena superiore dellereti di relazione cui ogni persona aderisce (reti chesono legati alle professioni, allo svago o alle tradi-zioni). Autonomie che si trasformano in un supe-riore livello di autonomia (in una autonomia delleautonomie) quando individuano il punto di equili-brio che, rispettando logica, etica e diritto, si isti-tuzionalizza in un contratto formale o anche sol-tanto in un accordo implicito. Resta fermo il prin-cipio che così come ogni persona può appartene-re a varie reti e a vari gruppi, allo stesso modo ogniautonomia (e persino ogni popolo) può unirsi adaltri popoli in tante autonomie più ampie (laPadania di cui tanto si parla ma che non esisteancora nemmeno nei suoi confini che sono moltopiù grandi dell’area del Po, cui il Veneto federalistacrede di appartenere anche se i suoi fiumi non sfo-ciano nel Po e che comprendono popoli che nellaPadania non si riconoscono, vedi i popoli dellacosiddetta Padania inferiore; vedi anche l’eurore-

gione Adria che interessa popoli al di qua e al di làdelle Alpi; vedi l’euroregione Adriatica che interes-sa i popoli sulle rive dell’Adriatico; vedi tanti altrepossibili autonomie).Se Federalismo è Autonomia delle Autonomie,come ci insegna Silvio Trentin, Federalismo non èSecessione, perché l’autonomia ha senso se èlibertà di scegliersi le proprie alleanze in modopragmatico e non precostituito. L’autonomia di unpopolo è libertà di esprimersi verso Ovest comeverso Est, verso Nord come verso Sud, secondo leproprie convenienze immediate o strategiche esecondo i propri interessi. FEDERALISMO è LIBERTA’ di costruirsi non unasola superiore autonomia, ma tante autonomie intante direzioni perché nessuno di noi va in unasola direzione senza mai voltarsi indietro e senzaformare per poi muoversi verso altre direzionisempre seguendo il proprio interesse o i propridesideri o le proprie utopie. FEDERALISMO è AUTONOMIA che non consistenel chiudersi in casa dichiarando di non averebisogno di nessuno, ma è capacità di costruire retiche, seguendo ogni possibile direzione, diano adognuno (persona, persona in rete o popolo) quel-la forza di affrontare le sfide che ci pone il futuroverso cui abbiamo scelto di andare e gli altri chepotranno intralciare o favorire il nostro percorso.

San Donà di Piave, Domenica 11 marzo 2007

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Introduzione

È la scomparsa violenta di un’antica unità cultura-le? È il naturale affermarsi di identità nazionali fino-ra represse? O la fine forzata di una lingua e cultu-ra comune? L’omogeneizzazione culturale ha le proprie origininell’assimilazione linguistica e la lingua rappresentalo spazio identificativo del gruppo di primariaimportanza. Pavle Ivić, il più importante studiosodei dialetti e della fonologia degli slavi del sud, a talproposito, scrisse nella Storia della cultura serba :la lingua è un prodotto della storia nazionale e lostrumento essenziale della cultura di ogni popolo;essa risulta essere il mezzo più economico, diversi-ficato ed appropriato che l’individuo ha a disposi-zione per partecipare alla vita della sua comunità,diventando un membro attivo, ricevendone il baga-glio culturale del proprio popolo e modificandolosecondo le proprie esigenze, in un interscambioprofondo fra sé e il gruppo di appartenenza. Una disamina del percorso storico della lingua let-teraria serba indica che i cambiamenti fondamen-tali nell’orientamento della cultura serba sonoriflessi non solo nel suo vocabolario e nella sua sin-tassi, ma anche attraverso gli aspetti morfologici efonologici del linguaggio utilizzato dal popolo. Lediversità che si crearono nella lingua denotano,oltre all’orientamento verso il mondo occidentaleo orientale, la posizione assunta nelle singole areedel Paese nel settore religioso o profano, nell’am-

bito delle attività spirituali o intellettuali e nellequestioni politiche internazionali; le varianti lingui-stiche rendono visibili le influenze del mondobizantino contro quelle dell’Impero russo, delmondo germanico contro quello francese o quelloanglosassone, oppure la prevaricazione dei senti-menti aristocratici piuttosto che quelli democraticie populistici.Per comprendere la complessa situazionelinguistica dei Balcani è di grande rilevanza il libroLingue di Ranko Bugarski. Egli in principio precisache “nonostante il quadro linguistico descrittoappartenga sotto numerosi aspetti al passato, glieventi del presente e le prospettive per il futuronon possono essere compresi senza l’analisi delpassato linguistico dei territori della ex Jugoslavia.Quante lingue si parlavano in questa Jugoslavia? Aqualcuno potrebbe sembrare che almeno questodato sia conosciuto ed incontestabile; tuttavia nonè così: se si contano soltanto le lingue standard,esse sono 14, ma se vogliamo aggiungere anche gliidomi parlati della lingua non standardizzata, que-sto numero raddopia. Il numero massimo delle lin-gue autoctone, nel senso che esistono e sono rap-presentate su questo territorio già da circa 100anni, potrebbe essere 27” (Bugarski 2005, 92-93).Nella Tabella sottostante sono elencate le prime 15lingue, con il riferimento al numero dei loro par-lanti in base al censimento effettuato nel 1981, l’ul-timo prima della dissoluzione della Federazionejugoslava.

Ana Živkovic

Il serbo-croato: da una lingua che univa a unalingua che divide

Il Sestante

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1. serbo-croato 16.400.0002. sloveno 1.760.0003. albanese 1.750.0004. macedone 1.370.0005. ungherese 410.0006. rom 140.0007. vlacco 135.0008. turco 82.0009. slovacco 74.00010. rumeno 60.00011. bulgaro 37.00012. russino 19.00013. italiano 19.00014. cecco 16.00015. ucraino 7.000

“Dal punto di vista geo-linguistico, il serbo-croatooccupa larga parte dell’area centrale dellaJugoslavia, mentre le altre lingue circondano talearea o rappresentano le enclavi all’interno di que-sto territorio. Dal punto di vista geo-politico, dauna parte esistono il serbo-croato, lo sloveno e ilmacedone, quali lingue domestiche, ‘lingue deipopoli jugoslavi’, mentre tutte le altre lingue si rap-portano ad esse in una posizione confinante o inuna situazione di diaspora” (Bugarski 2005, 97).Relativamente alle espressioni derivanti dalla lin-gua turca, Ranko Bugarski, ribadendo la sua tesiprincipale, ossia che le lingue jugoslave si influen-zano l’una con l’altra in diversi modi e con diverseestensioni, precisa quanto segue: “La Lega lingui-stica balcanica ha comportato lo sviluppo dellelinee grammaticali uguali. A parte questo si potreb-be aggiungere l’esposizione alle stesse influenzedall’esterno: la formazione degli stessi tratti socia-li, derivanti dalla civilizzazione turca, nei determi-nati segmenti dei dizionari di tutti i popoli balcani-ci. I ‘turchismi’ hanno avvicinato le lingue non-ostante le loro differenziazioni e hanno reso possi-bile la reciproca comprensione culturale tra coloroche utilizzano le singole lingue balcaniche”(Bugarski 2005, 98).Le caratteristiche geografiche della lingua si espri-mono spesso con la differente formulazione del-l’interrogazione “cosa?”. Nell’area di Zagabria siusa il ‘kaj’, da cui la denominazione del dialetto‘kajkavo’; in larga parte della costa croata si usa il‘ča’, da cui la denominazione di ‘čakavo’. Infine inSerbia, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro e in una

parte della Croazia prevale lo ‘što’, da cui la deno-minazione di ‘štokavo’, che è il dialetto più diffuso.Inoltre, bisogna notare che i dialetti popolari, a dif-ferenza delle lingue standard, presentano differen-ze notevoli. Il dialetto ‘kajkavo’ di Zagabria e dellaCroazia nord-occidentale, con una strutturaalquanto vicina alla lingua slovena, svolgeva finoall’inizio del XIX secolo un ruolo di lingua semi-ufficiale. Ancora oggi il ‘kajkavo’ è parlato da moltiCroati nelle città di Zagabria, Varaždin, Koprivnica,Sisak, Karlovac, e nei loro dintorni, come in altrivillaggi della Croazia nord-orientale. Il secondoconglomerato dialettale, il ‘čakavo’, parlatonell’Istria e nelle regioni vicine, sulle isole, e nellezone litorali della Dalmazia centrale, è probabil-mente il relitto di un diasistema medievale, che indialettologia, è la rappresentazione unitaria dellecaratteristiche accomunanti due o più sistemi lin-guistici geneticamente affini e che prima delleinvasioni turche copriva la maggior parte dellaCroazia meridionale. L’espansione dello ‘štokavo’è legata ai processi di assimilazione linguisticadurante il dominio ottomano, quando i dialetticentrali del diasistema sud slavo, entrati in contat-to tra di loro all’intero dell’Impero turco, hannocreato una certa affinità ‘folcloristica’. Fuoridall’Impero ottomano, il ‘kajkavo’ ed il ‘čakavo’riuscirono a sopravvivere in quelle parti dellaCroazia che non sono mai cadute in mano ai tur-chi. A causa degli avvenimenti storici, la regione‘štokava’ è diventata relativamente omogenea.Tuttavia, perfino nel caso ‘štokavo’ bisogna tenereconto del fatto che, si tratta di un insieme di dia-letti variabili, parlati su un territorio molto vasto. Illessico basilare ‘štokavo’ è abbastanza unito, ma ifonemi - specialmente il famoso suono paleoslavo‘jat’ - e il sistema di accentuazione, sono mutevoli.La scelta deliberata dello ‘štokavo’, come base delleloro lingue standard, da parte dei serbi e dei croati,ebbe come risultato l’accostamento delle loro lin-gue standard e rispondeva ad una strana conver-genza delle politiche culturali dei croati e serbi.Oltre ad alcune finezze della grammatica e dellasintassi, le differenze strettamente linguistiche simanifestano soprattutto nel lessico tecnico-scienti-fico, nei neologismi, nei prestiti stranieri, nei rifles-si di certi fonemi e in particolare, all’interno dello‘štokavo’, si individuano tre modi diversi nel riflet-tere la “jat”, vocale chiave della distinzione

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dialettale slava, ossia la trentaduesima lettera dellaversione antica dell’alfabeto cirillico. La jatrappresenta una vocale lunga originale dello slavocomune. Generalmente si crede cherappresentasse il suono /æ:/, che era un riflesso diun precedente /e:/, /oj/, o /aj/ e trascritto in varimodi come /�/, /ê/, e /ä/. In varie lingue slavemoderne, la jat ha dato origine a diverse vocali enei dialetti del continuum serbo-croato, la jat si èdistinta in tre diverse forme: e, (i)je e i, e questo èdiventato uno dei criteri di differenziazione, da cuideriva la denominazione di ‘varianti linguisticheekava, ikava, ijekava’, che spesso viene spiegatacon ‘la divisione dei fratelli in base al latte’ – mlije-ko, mliko e mleko. L’uso dell’alfabeto latino preva-lentemente, anche se non esclusivamente, inCroazia, o del cirillico prevalentemente in Serbia ein Montenegro, è piuttosto una vestura esternache influisce solo sull’aspetto visuale, e non sullasostanza lessico-grammaticale della lingua ufficiale.Relativamente a ciò risulta interessante la constata-zione di Kovačević: “L’alfabeto serbo è quello ciril-lico, mentre quello latino non è un alfabeto serbo,bensì l’alfabeto della lingua serba, perché questalingua è oggi scritta, non solo dai serbi, ma anchedai croati, musulmani e montenegrini, con l’alfa-beto latino” (Kovačević 1999, 381). “Nello stesso modo in cui non può esistere,precisa Ranko Bugarski, un’obbligatoria coinciden-za tra l’alfabeto e la nazionalità, così non dovrebbeneanche esistere la corrispondenza di una linguaad un alfabeto. A sostegno di questa mia afferma-zione sta il fatto che nel mondo il numero delle lin-gue non corrisponde al numero degli alfabeti. Aquesto punto, se risulta possibile scrivere diverselingue con lo stesso alfabeto perché non dovrebbevalere anche il contrario, che una lingua può utliz-zare più alfabeti” (R. Bugarski 1996, 110).

Inquadramento storico

Come i popoli neolatini, anche i popoli e le lingueslave hanno radici comuni. Nel IX e X secolo ledifferenze tra le varie lingue parlate slave eranopressoché minime, tanto che dal Nord della Russiafino alle sponde del Mediterraneo si utilizzavanogli stessi libri liturgici. Dai territori dell’odiernaRussia meridionale, dove gli Slavi erano sottopostial dominio dei Goti, sotto la pressione delle tribù

unne, che determinarono il crollo del dominiogotico, iniziarono i grandi movimenti degli slavidalle sedi originarie verso la linea dell’Elba e, a sud,verso la penisola balcanica, lungo le valli dei gran-di fiumi quali il Danubio, la Sava e il Vardar. Talimigrazioni furono concluse verso il VI-VII secolo e,in quel periodo, furono già individuabili i tre gran-di principali gruppi di lingue slave: l’orientale, l’oc-cidentale e il meridionale. Oggi si distinguono: loslavo orientale che comprende il russo, l’ucraino eil bielorusso e si scrivono con l’alfabeto cirillico;l’occidentale comprende il polacco, il ceco e lo slo-vacco che si scrivono con l’alfabeto latino e sonoparlati da popolazioni prevalentemente cattolicheanche se con minoranze protestanti; il meridiona-le comprende il bulgaro, il macedone, il serbo, lelingue dei Paesi ortodossi e quindi scritte preva-lentemente col cirillico; i croati e gli sloveni, catto-lici, usano, invece, l’alfabeto latino.La storia della lingua serbo-croata può esseredistinta in due periodi: un primo dominato da unaproduzione letteraria prevalentemente religiosacon la traduzione di testi sacri, scritti ora incaratteri glagolitici, derivati probabilmente dagrafemi del corsivo medievale greco, a cui vennedato un disegno ornamentale e appartanenetiall’alfabeto slavo creato dal missionario san Cirillo,insieme a suo fratello san Metodio, intorno all’862-863 per tradurre la Bibbia e altri testi sacri in anticoslavo ecclesiastico, ora in quelli cirillici, chegiunge, grosso modo, fino al XII secolo. Il secondoperiodo inizia dopo il XIII secolo, quandocominciano ad apparire testi di carattere profano egiuridico sia in Croazia che in Serbia.Lo slavo ecclesiastico (o crkvenoslovenski jezik inserbo) è considerato lingua letteraria e liturgicacomune degli slavi ortodossi, ossia la lingua litur-gica della Chiese ortodosse nazionali bulgara,macedone, russa e serba, oltre ad altre Chieseortodosse dell’area slava. Storicamente questa lin-gua deriva dall’antico slavo ecclesiastico, adattan-done la pronuncia e l’ortografia e rimpiazzandoalcune parole od espressioni antiquate e di signifi-cato oscuro con le loro controparti vernacolari. Loslavo ecclesiastico, a differenza di quello antico,cominciò a distanziarsi dalle costruzioni linguisti-che proprie della sintassi greca e ad adottare rego-le slavo-orientali adattandosi alle varianti dialettalilocali seguendo per di più le differenze fonologi-

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che delle diverse aree. Oltre a queste due lingue,di cui è possibile trovare testimonianze nella formadei testi scritti, bisogna menzionare il paleoslavo,ossia l’ipotetica lingua comune appartenente allafamiglia indoeuropea che ha dato originesuccessivamente alle moderne lingue slave;quest’ultima non è una lingua attestata e nonpossiede nessun corpus letterario, nè si ha adisposizione una minima traccia scritta, bensì futotalmente ricostruita attraverso gli studi slavisticicomparativi.Lo slavo ecclesiatico antico così come è stato tra-mandato dalle antiche traduzioni dei testi sacri,che furono compiute a partire dal IX secolo con ilprocesso di evangelizzazione e di culturizzazionedel mondo slavo, fu scritto dapprima in caratteriglagolitici, inventati dai due apostoli tessalonicen-si, Cirillo e Metodio, nel loro dialetto slavo-bulgarodi Salonicco, prendendo a modello il greco, maintroducendovi anche caratteri armeni ed ebraicie, successivamente, in caratteri derivati dall’alfabe-to greco e detti ‘cirillici’ dal nome di uno dei due.Attraverso i secoli, la loro antica lingua comunepaleoslava, scritta con un complicato alfabeto diorigine religiosa - il glagolitico - gradualmentecominciò a diversificarsi. Pur non rimanendo estra-neo alle classi sociali che non lo usavano abitual-mente, lo slavo ecclesiastico non riuscì ad imporsiin tutti i settori. Esistevano, infatti, delle aree dove,per l’alfabetizzazione, veniva largamente usato ildialetto: i documenti ufficiali dei sovrani e deimagnati, oltre ad altri documenti legali, quali icodici di legge, furono tutti scritti in dialetto.L’obiettivo fu semplicemente quello di avere leggichiare a tutti ed evitare qualsiasi ragione di discus-sione riguardo alla loro interpretazione. La comune lingua letteraria e la condivisione dellostesso alfabeto da parte dei diversi popoli slavi hafacilitato lo scambio dei lavori letterari e accademi-ci tra questi ambienti sociali, consolidando la par-tecipazione all’ambiente sociale e culturaledell’Ortodossia come insieme, che rimase sempreaperta all’influenza proveniente dalla Grecia(Storia della cultura serba ).Molti testi furono, infatti, tradotti dal greco e unavolta tradotti circolavano in tutto il mondo slavo-ortodosso. La comunità di monaci slava sul monteAthos era tra i centri di traduzione più noti. Ilmonastero serbo Hilandar su Athos fu fondato da

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Stefan Nemanja, il padre fondatore della dinastiaserba più importante del medioevo. Queste tradu-zioni hanno continuamente arricchito la Chiesaserba dal punto di vista letterario e culturale ingenerale. Relativamente a ciò, in alcuni studi siriprese a scrivere quello che fu l’ultimo messaggiodel sovrano serbo Stefan Nemanja al figlioRastko–Sveti Sava, che dovette trasmettere leparole del padre al proprio popolo. ‘È meglioperdere tutte le battaglie e tutte le guerre cheperdere la propria lingua’. Nei Balcani, questomessaggio non ha perso di attualità nemmenoall’epoca moderna.“Cos’è un popolo se perde la lingua, la terra,l’anima? Non prendete nella vostra bocca le paroledegli altri – se prendi le parole degli altri, questonon significa che hai conquistato un popolo, mahai sottomesso il tuo popolo agli altri. È meglioperdere la città più grande della tua terra che nonla parola più piccola del tuo vocabolario.Riccordati che il nemico ti ha conquistato tantoquanto è riuscito ad importi le sue parole e atoglierti le tue. Il popolo che perde le proprieparole smette di esistere come popolo. Leinfezioni della tua lingua si verificano ai confini delpopolo, nei punti di contatto con un altro popolo,dove due lingue cominciano a graffiarsi l’un l’altra.Due popoli possono combattere e possono fare lapace. Due lingue non potranno mai fare la pace.Due popoli possono vivere nell’armonia immensa,ma le loro lingue continueranno sempre a com-battere. Dopo la perdita di una battaglia o di unaguerra il popolo sopravvive; dopo la perdita dellalingua il popolo si estingue. L’uomo impara la lin-gua materna in un’anno e non la dimentica pertutta la vita; il popolo non la dimentica finché esi-ste. Quando il nemico distruggerà tutte le fortezzee penetrerà in tutte le città, non disperarti; ascoltacosa succede con la lingua; se essa rimane intocca-ta, non aver paura. Lì dove risuonano le nostreparole, lì esiste ancora il nostro Stato, indipenden-temente da chi lo governi. I sovrani cambiano, gliStati periscono, ma la lingua e il popolorimangono; le terre conquistate in tal modo ungiorno torneranno alla loro ‘madrepatrialinguistica’. Il popolo è più duraturo di ogni Stato;prima o poi, quando l’acqua, rappresentata dallanostra lingua, supererà le dighe che la dividono, ilpopolo si riunirà” (Medić 2001, 86-94).

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Sveti Sava, seguendo le parole del padre, realizzòl’indipendenza della Chiesa serba, permettendo intal modo la comparsa della parola serba. A SvetiSava i serbi attribuiscono la genesi della loro indi-pendenza spirituale, culturale ed accademica. Per avere la descrizione esaustiva del quadro stori-co-linguistico dei Balcani, è necessario menzionarel’influenza russa. Il governo austriaco utilizzò ilpopolo serbo per organizzare l’esercito e spessourgeva l’accettazione serba dell’unificazione con laChiesa di Roma. La gerarchia ecclesiastica serbacercò di fare resistenza a questo tipo di pressionee questa rimase pressoché l’unica forma di lea-dership che il governo austriaco tollerava. Tuttavia,la Chiesa ortodossa fu limitata nelle sue attività acausa della mancanza di libri necessari per le litur-gie e la preparazione educativa del proprio clero.Le istituzioni governative austriache hanno inten-zionalmente proibito la pubblicazione dei libri inserbo, ma ben presto questo si rivelò essere statoper loro un grave errore. La Russia decise, infatti,di assumersi il ruolo di difensore dell’Ortodossiaserba. Dalla Russia furono importati numerosi librie, a partire dal 1726, cominciarono ad arrivare inSerbia gli accademici russi con il preciso compitodi insegnare al giovane clero serbo la lingua slavautilizzata dalla Chiesa russa; essa divenne lavariante linguistica ufficiale, mettendo in ombra lalingua ecclesiastica serba. Ma cambiare la linguasignificava trasformare anche la politica culturaledel Paese: le tendenze principali della culturaserba continuarono ad essere definite dalla Chiesae presero un marcato orientamento verso laRussia. Indipendentemente dalla volontà e dalleintenzioni delle autorità ecclesiatiche serbe, nellaseconda metà del XVIII secolo, furono cosìintrodotte dalla Russia questioni non appartenentistrettamente al campo religioso: il Paese russo,aperto nei confronti della cultura europeadell’Occidente, diventò il principale mediatoredella penetrazione di tradizioni culturalioccidentali nell’ambiente sociale delle classi mediedella Serbia. Entrambe le parlate slavo-ecclesiastiche, serba erussa, furono, tuttavia, presto rimosse dalla linguaparlata del popolo serbo e lo sviluppo si orientòinarrestabilmente nella direzione della creazionedi una lingua letteraria più vicina al linguaggiopopolare. Nel 1768 un poeta serbo, Zaharija

Orfelin, introdusse nella lingua letteraria serba unamescolanza del linguaggio religioso e di quello dia-lettale, conservando uno spazio per i termini di deri-vazione russa. Questa lingua, denominata lo slavo-serbo, risultò molto più familiare alla società serba,ma ciò nonostante, fu rimossa a causa della suacaoticità e mancanza di precise regole grammaticali. In seguito, siccome cominciava a diminuire lapressione per l’unificazione delle Chiese, i motividi disprezzo delle culture degli europei nonortodossi diminuivano; la classe media iniziava acrescere, la società e la cultura serba nei territoriaustriaci cominciava ad essere secolarizzata. Alposto del Paese russo, l’Europa diventò il nuovomodello da seguire (Storia della cultura serba ).Nel 1783, Dositej Obradović, la figura centraledella letteratura serba del XVIII secolo, iniziò apropugnare un nuovo programma linguistico.Ispirato dalle idee del Illuminismo europeo, seguìl’approccio utilitaristico nei confronti della lingualetteraria, che dovette diventare comprensibileinnanzitutto ai lettori. Cercando di impedire chenella letteratura diminuisse l’uso del dialetto, egliha eliminato i termini dello slavo-russo e di quelloecclesiastico ancora rimasti in uso, che nonavevano un’espressione equivalente nel dialettoserbo. Così, agli inizi del XIX secolo, rimasero inSerbia solo due varianti linguistiche: la mescolanzaslavo-serba di Orfelin e il dialetto di Obradović. L’intera area del serbo-croato fu caratterizzata,dunque, da una serie di mutamenti linguistici cheottennero una standardizzazione letteraria solo ametà del XIX secolo, quando l’unificazione lingui-stica fu portata al compimento con il progetto,definito la ‘riforma di Vuk Karadžić’, e con l’impo-sizione, tramite una Dicharazione del 1861 delParlamento croato, della lingua serba e più preci-samente del dialetto ‘štokavo’ di Erzegovina orien-tale come lingua ufficiale in Croazia.La Serbia, in cui Vuk Karadžić, il riformatore dellalingua e dell’ortografia serba, nacque, faceva parteancora dell’Impero Ottomano. Nel 1807 egli parte-cipò alla prima insurrezione serba, ma il suo falli-mento lo costrinse ad emigrare nel 1813 a Vienna,dove grazie all’aiuto del celebre filologo slovenoJernej Kopitar, censore imperiale dei libri slavi eneoellenici e di Josip Dobrovsky, il ceco fondatoredella filologia slava, iniziò le sue ricerche linguisti-che. Dichiarando guerra agli elementi ecclesiatici

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della lingua slava, nel 1814, egli avviò la riformadella lingua serba sulla base della lingua popolare.Karadžić ridusse, le lettere serbe da 46 a 29 e tentòdi fissare le regole della declinazione e della coniu-gazione, propugnando la necessità di adottarecome lingua letteraria il dialetto ‘štokavo’. Neglianni seguenti Karadžić viaggiò in Russia, inGermania, e per quasi tutte le terre slave del sudnelle quali raccolse materiali per il suo futuroVocabolario serbo. Più tardi, nel 1850, un gruppo di letterati croati eserbi, o meglio jugoslavi, perché così essi si defini-vano, tra cui Kukuljević, Demeter, Mažuranić eDaničić, insieme allo sloveno Miklošič e allo stessoKaradžić, si incontrò a Vienna e firmò un manifestocontenente l’invito a tutti gli slavi del sud ad accet-tare il cosiddetto dialetto meridionale - la varianteijekava dello štokavo come loro lingua letteraria.Una breve analisi di questo documento, denomi-nata La Casa Viennese Serbocroata, è stata svoltada Sinan Gudžević.Significativo fu il fatto che, al momento della firmadell’Accordo di Vienna, che fu elaborato in quellaoccasione, i partecipanti erano tutti cittadini dellaMonarchia d’Austria, essendo nati sul suo territo-rio, tutti tranne Karadžić, mentre come base dellalingua letteraria suggerirono un dialetto che veni-va parlato prevalentemente al di fuori del territoriodella Monarchia.Il documento riporta anche le ragioni per cui que-gli uomini suggerirono “che sarebbe più correttoaccettare lo štokavo meridionale quale loro lingualetteraria: a) perché la maggior parte della popo-lazione parla in questo modo, b) perché si avvicinadi più allo slavo antico e quindi anche alle altre lin-gue slave, c) perché la poesia popolare è scritta ecantata quasi interamente in tale dialetto, d) per-ché tale idioma è usato nell’antica letteratura dellaRepubblica di Dubrovnik, e) perché la maggioran-za dei letterati, di confessione orientale ed occi-dentale, scrive in tale maniera”.“All’adozione generalizzata di una lingua comuneper tutti i popoli di Croazia, Bosnia, Serbia eMontenegro contribuirono attivamente vescovi,scrittori, professori di tutte le nazionalità in vistadel progresso civile e culturale dell’area” (La CasaViennese Serbocroata).L’Accordo ebbe, tuttavia, un effetto limitato. Glisloveni, seguendo l’esempio del loro poeta France

Prešeren (1800-1849), non vollero affatto abban-donare la loro lingua; cosa abbastanza logica, datal’importanza della lingua slovena nella coscienzaetnica del popolo sloveno. Poco dopo anche lamaggior parte dei serbi lasciò perdere l’accordo. Alposto del dialetto di Vuk, nella seconda metàdell’Ottocento, il dialetto di Belgrado e dellaSerbia centrale trionfò nello Stato serbo. La ‘riforma di Vuk’ agitò i circoli conservativi inSerbia, e soprattutto la Chiesa che si impegnava amantenere come lingua ufficiale il serbo-slavo, unalingua letteraria ibrida modellata sulla lingualiturgica tradizionale e sulla parlata colta delle fasceurbane, cosiché le sue modifiche furono accettatedal governo serbo solo nel 1868, cioè quattro annidopo la morte del riformatore serbo. Fino a quel momento nella lingua letteraria hapredominato il dialetto ‘štokavo-ekavo’, apparte-nente alle zone nord-orientali di Serbia, anche peril fatto che i centri culturali, politici ed economicipiù importanti si trovavano in quelle regioni.Nonostante ciò Karadžić scrisse nella sua linguamaterna, ossia nella variante ‘ijekava’, che coprivale aree della Serbia occidentale, della Bosnia edErzegovina, di Montenegro ed era largamenteutilizzata tra i serbi di Croazia, Slavonia e Dalmazia. In un certo senso la riforma non fu completa. Granparte della Serbia e l’intera Vojvodina, con le lorotradizioni solidamente radicate, non furono prepa-rate a interscambiare le caratteristiche di ‘ekavo eijekavo’, mentre nelle aree dove era parlato ‘ijeka-vo’ le riforme furono accettate in modo inalterato.Inoltre, Karadžić, seguendo il principio dello ‘scri-vi come parli’ - un grafema per ogni fonema - misefuori uso le lettere cirilliche della vecchia linguaslava, quelle vocali che per uno svilluppodifferenziato creavano dei contrasti tra lo ekavo eijekavo. Tuttavia, nel fare ciò, egli rese impossibilela preservazione della forma grafica unificata equesto spiega la formazione e la coesistenza di dueversioni della lingua letteraria serba, da cui traeorigine una serie di problemi sia culturali siapolitici, fra i quali una consistente parte deriva dalfatto che i croati adottarono gradualmente lavariante ijekava di Karadžić come loro lingua lette-raria. La lingua che utilizzavano fu, infatti, moltopiù vicina a quella della riforma che non alla varian-te ‘kajkava’, che mantenne a Zagabria lo status dilingua letteraria croata fino al 1830.

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La riforma di Vuk è servita come esempio e model-lo, attraverso cui l’Illirismo di Ljudevit Gaj raccolseintorno a sé quasi tutti gli intellettuali croati perrealizzare l’unità letterario-linguistica del popolocroato, che precedentemente utilizzava una molte-plicità di lingue letterarie regionali. Nello stessomomento, diventò possibile la loro auto-determi-nazione nazionale anche in quelle regioni, dovel’auto-definizione della popolazione seguiva solol’appartenenza alle unità regionali del Paese(Storia della cultura serba )In uno studio del 1967, Pro e contro Vuk, lo scrit-tore bosniaco, Meša Selimović, decise di soffer-marsi sull’importanza della riforma di Karadžić,analizzando anche gli aspetti non puramente lin-guistici. I motivi per cui si accettava o respingeva lalingua popolare appartenente alla culturacontadina, prevista dalla riforma di Vuk, sono neidiversi momenti storici differenti, dimostrandoche il conflitto riguradante la lingua nazionale furinvigorito ogniqualvolta ci si trovava davanti aisignificativi cambiamenti nella nostra vita sociale:nei primi decenni del XIX secolo l’accettazione o ilrifiuto fanno parte della lotta per la formazionedella nazione e dello Stato indipendente serbo; nelperiodo della europeizzazione e di unaurbanizzazione intensificata della Serbia le tesi diVuk furono discusse in realzione alla necessità diemancipazione della sfera linguistica; nei tempinostri, la riforma di Vuk è interpretata in base alleesperienze spirituali e culturali accumulatesi neltempo e in relazione all’indispensabilità diraggiungere il livello europeo e mondiale, cherichedono una lingua più ricca e dotata dielasticità, capace di esprimere l’interezza della vitae del mondo.Tuttavia, tra coloro che criticarono la variantelinguistica di Vuk, c’è chi, come Jovan Skerlić, nellostudio intitolato Gioventù e la sua letteratura,attacca in modo manifesto il dogmatismo di VukKaradžić, accusandolo di essere rimasto troppolontano dal pensiero occidentale; nel nostro pas-sato culturale Skerlić individua due modi di pensa-re contrapposti: quello di Vuk e quello di DositejObradović, esprimendosi apertamente a favore diquest’ultimo. Egli, infatti, afferma che a partire dal1870, quando cominciarono a diffondersi le ideerazionalistiche, gli spiriti serbi iniziarono a ritorna-re verso il pensiero di Dositej; ancora oggi l’intera

area culturale si suddivide secondo due linee lin-guistiche: coloro che seguono l’impostazione diDositej Obradović si avvicinano alle idee razionali-stiche proprie dell’Occidente, mentre quelli chepreferiscono Vuk Karadžić sostengono idee tradi-zionaliste proprie del Romanticismo. E ancoraoggi, Obradović sembra più moderno e più vicinoalla nostra realtà.“L’imporre la lingua popolare quale lingua lettera-ria, aveva come scopo inevitabile quello di portarealla rovina lo slavo ecclesiastico, definito quale l’o-stacolo nello sviluppo della cultura nazionale,quale l’intralcio al compimento della formazionedella nazione” (Selimović 2002, 4). Tuttavia, ciòesprimeva anche la posizione sociale di Vuk, quellacontadino-democratica, comprensibile se si consi-dera che nel periodo storico in cui egli operava, lemasse contadine, specialmente in Serbia, furono leportatrici delle tendenze liberatrici contro qualsia-si occupazione o repressione in vista di ottenere ildiritto e il riconoscimento di tutto ciò che distin-gue la nazione – lingua, caratteristiche morali edetiche, letteratura. Cosiché sul fronte sociale, poli-tico ed economico, ‘pro o contro Vuk’ rappresen-tava il confrontarsi tra coloro che detenevanopotere e coloro che volevano ottenerlo. La conservazione ostinata dello slavo-serbo e del-l’antica ortografia ecclesiastica, come d’altronde laconnessione alquanto stretta con la Russia orto-dossa, furono una parte importante della politicanazionale, che di fronte alla costante minaccia del-l’espansione austro-ungarica difendeva la fedenella Russia protettrice dello slavismo, l’organizza-zione rigidamente feudale della Chiesa e una lin-gua artificiale. In tal modo la questione della linguae dell’ortografia ebbe un significato politico e fufortemente collegata con il destino della nazionali-tà serba, dove qualsiasi tentativo di rovesciamentoo cambiamento della tradizione fu visto comeun’azione antinazionale e antiortodossa. Allora sicomprende perché la lotta linguistica fu così auda-ce: per il semplice fatto che la lingua ebbe un ruoloimportante nella conservazione o rivoluzione del-l’organismo della società (Pro e contro Vuk).

Il serbo-croato nello Stato di Jugoslavia e lapoliticizzazione della questione linguistica

La Costituzione jugoslava garantiva a tutti i popoli

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il diritto di parlare e scrivere nella propria lingua.In realtà, la lingua predominante del partito e delloStato, e soprattutto dell’esercito, è stata quella piùdiffusa, il serbo-croato (croato-serbo).L’ex Jugoslavia, uno Stato multietnico, è stata perlungo, anche se in un modo incompleto, unanazione in senso funzionale. La sua lunga perma-nenza nel XX secolo lo doveva anche al fatto chealmeno il 75% della popolazione usava la stessa lin-gua standard. Era usata come ‘second mother ton-gue’ anche dalla maggior parte degli sloveni e deimacedoni. Questo Stato non aveva una sola linguaufficiale, ne aveva quattro: serbo, croato, sloveno emacedone, ma in qualche modo ha sentito diavere in realtà un’unica lingua e ha cercato didarne evidenza nel momento in cui ha cercato piùcoesione (Bogdanić L.: Serbo, croa to o serbo-croa -to? L’uso geopolitico della lingua ). Nell’exJugoslavia il serbo-croato, il macedone e lo slovenoavevano ufficialmente pari dignità. In ogni istitu-zione federale documenti e scritte erano in tuttequeste lingue e versioni e negli uffici governativiogni documento veniva tradotto anche in albane-se, e persino nella variante bosniaca del serbo-croato. L’unica istituzione federale ad usare solo ilserbo era l’esercito. Quindi, almeno formalmente, c’era un granderispetto per le varie espressioni linguistiche. Perquanto riguarda lo status costituzionale della lin-gua jugoslava, essa fu regolata al livello delle comu-nità etniche e al livello delle stesse lingue. NellaCostituzione jugoslava del 1974 si legge: l’art. 264al comma 1 garantisce l’equiparazione di linguedei popoli e quelle delle nazionalità, nonché deiloro alfabeti. “La legislatura jugoslava riconoscevatre categorie di comunità: popoli, nazioni e gruppietnici. Quindi furono considerate le lingue delpopolo jugoslavo – serbo-croato, sloveno, mace-done -, delle nazionalità - albanese, ungherese,turco, slovacco, romeno, bulgaro, italiano, ceco eucraino -, e le lingue dei gruppi etnici. InJugoslavia, dunque, non esisteva una lingua ufficia-le o statale, ma si proclamava la politica dell’equi-parazione linguistica, realizzata e regolata tramitela gerarchia dell’uso ufficiale della lingua”(Bugarski 2005, 100-101). “Il distacco tra le dichia-razioni di appartenenza linguistica e quelle dinazionalità risulta significativo: più di 500.000 citta-dini della Jugoslavia non hanno dichiarato la lingua

materna che uno si aspeterebbe in base alla loroappartenenza nazionale” (Bugarski 2005, 95).Sin dall’inizio, la situazione politica dei Balcaniebbe un’influenza determinante sull’uso e sulruolo della lingua: subito dopo il crollodell’Impero asburgico, gli sloveni e i croati siunirono alla Serbia, dando vita al SHS - Regno deiSerbi, Croati e Sloveni, divenuto nel 1928 lo Statodi Jugoslavia.Nello Stato jugoslavo, il rapportarsi dei serbi e deicroati nei confronti della lingua letteraria cambiò.Nel XIX secolo furono i croati quelli cheinsistettero sull’idea di unità linguistica, ma nonappena l’unificazione fu raggiunta, si rivelò chiaroche l’abbiano voluta solamente per risolvere unaserie di problemi che al tempo avevano nel settoredella politica. Essi non avevano intenzione dicostruire e sviluppare uno Stato unitario; il loroobiettivo era, al contrario, quello di procedere allasecessione, una volta ottenuta l’unificazione lin-guistica croata. Ben presto, infatti, i linguisti croatiiniziarono a mettere in evidenza piuttosto le diffe-renze che non le similitudini linguistiche con ilpopolo serbo. Durante l’intero XX secolo la questione linguisticaè stata politicizzata in maniera esasperante; primadall’ideologia unitaria della Monarchia che volevauna Jugoslavia come un’unica tribù con una linguacondivisa da tutti o dalla maggioranza, e poi con lafase di conflittualità linguistica, con periodi diconcessioni autonomistiche alle quattro lingueformalmente riconosciute. Il risultato è che unalingua come il serbo-croato ha cambiato l’etichettadella propria denominazione a ogni svolta politica,alternando fasi di serbo, croato, serbo-croato, ecc.,anche se nell’ultimo secolo le lingue usate daisingoli gruppi etnici del popolo sono rimastesostanzialmente le stesse. A tal proposito, si giunsealla constatazione che per il popolo serbo fuproprio il periodo jugoslavo del regime comunistaquello più disastroso: si scriveva con l’alfabetolatino e si parlava il serbo-croato. In nome dellafratellanza si cambiarono le parole, si permisel’infezione.Uno dei compiti più significativi assunti dai singoligoverni e altre autorità nazionali fu quello diinstaurare ed istituzionalizzare differenzepermanenti tra questi popoli. In mancaza didiversità nella lingua, fu la religione ad essere il

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primo fattore di differenziazione sociale; ma dal-l’altra parte furono le stesse comunità religiose inCroazia, Serbia e Bosnia-Erzegovina che chieserouna lingua purificata dagli elementi dei vicininemici. Nasce perciò il desiderio di avere a che faresolo con i concittadini ‘omogenei linguisticamen-te’, considerando amici solo coloro che hanno lastessa pronuncia e lo stesso accento, perché solocosì è ritenuto possibile creare per i singoli unatranquillità di tipo psicologico individuale. Si trattadi un’omogeneità che deve essere solidale e cheporta all’estremo limite le proprie peculiarità perstabilire definitivamente una netta differenziazionedalle lingue degli altri. È sicuramente significativosottolineare che la situazione linguistica separati-sta attuale nasce dalla variazione regionale dellamedesima lingua in seguito allo sforzo dei poteriamministrativi nazionali di rendere più marcate ledifferenze tra un dialetto e l’altro, coniando termi-ni ipoteticamente più puri etnicamente e quindirivelatori della vicinanza con l’etnia croata o quellaserba, giustificando a posteriori una scelta essen-zialmente politica (Bogdanić L., Serbo, croa to oserbo-croa to? L’uso geopolitico della lingua ).Uno dei presupposti dello Stato jugoslavo, l’idealeunitario di tutti i popoli slavi del sud, fu propriol’unicità della lingua dei serbi e dei croati.L’assenza di uno Stato che potesse assicurare unospazio, dove le questioni politiche relative al ruolodello Stato nella creazione di un’identità nazionalepotessero essere discusse, ha fatto sì che non siformasse una cultura politica uniforme e che lequestioni culturali, tra cui quelle linguistiche, dive-nissero il luogo privilegiato del confronto politico;discutere della lingua dei croati e dei serbi nonsignifica “affrontare una questione accademica omeramente culturale, ma intervenire in un proble-ma politico e geopolitico di primo ordine”(Bogdanović 2003, 230).Nella rivista Republika (01-02/2001) SnježanaKordić ha pubblicato l’articolo Rigua rdo a lladenomina zione della lingua da l punto di vistascientifico, in cui cerca di esaminare i motivi percui numerosi linguisti stranieri continuano ad uti-lizzare la denominazione ‘serbo-croato’. “La lingui-stica nel mondo non può, a causa dei conflittinazionali e politici sud-slavi, cambiare il criterio inbase al quale si decide l’esistenza di un’unica o duediverse lingue. Kordić definisce il concetto ‘lingua’

in base alla regola seguita già nel XIX secolo: “ilsistema di valutazione determinante per affermareche sulle basi linguistiche si può parlare di un’uni-ca lingua è la reciproca comprensione: coloro cheparlano diverse varianti della stessa lingua sicura-mente non necessitano di un interprete. Questocriterio rimane allora l’unico conforme alle regoledella linguistica: se capisco quello che dici, alloratu parli la mia lingua, se non capisco, allora parliuna lingua straniera (criterio scritto nel XIX secoloda Georg von der Gabelentz, DieSprachwissenschaft 1891, 55), concludendo che laregola della comprensione sia al di sopra di quelladella nazionalità” (Kordić 2001, 237).Seguendo tale logica Snježana Kordić analizza dun-que la problematica della denominazione affer-mando che: “dopo la disintegrazione dellaJugoslavia ciascuno dei tre Stati nuovi, formatisidalle Repubbliche jugoslave in cui si parlava il‘serbo-croato’, chiama la propria lingua in base allapropria identità etnica” (Kordić 1997, 3), richia-mando all’attenzione “il tentativo compiuto dallaCroazia di rendere la lingua della parte occidenta-le della ‘società linguistica serbo-croata’ il più pos-sibile diversa di quella utilizzata nella parte orien-tale” (Kordić 1997, 18).La questione della lingua, ovviamente, non è e nonè mai stato soltanto un problema linguistico. Èstato più volte sottolineato che durante i numero-si conflitti e litigi, perpetrati tra i popoli deiBalcani, la lingua fu sempre rappresentata comeuna fra le pietre più dure da superare. ‘I conflittiriguardanti la lingua non durano da ieri, ma quasida due secoli.’ La questione linguistica fu resa pro-blematica perché si basava sulla teoria che valutavasoprattutto le similitudini fra due popoli - i serbi ei croati, e durante il percorso storico cercava diignorare qualsiasi differenziazzione. L’unificazionedelle lingue sud slave sembrò necessaria per assi-curare il successo del progetto ‘jugoslavo’. Essonacque dalla convinzione, di matrice illuminista,che, data l’affinità del loro lessico, sarebbero basta-te una lingua letteraria e una cultura comune perfar scoprire ai popoli jugoslavi la loro parentela,fondendoli in uno solo.Nel 1991, a processo di disgregazione ormai avvia-to, le domande sulla nazionalità, la lingua e la reli-gione avevano acquistato una valenza politica taleda diventare lo strumento con cui si intendeva

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misurare i rapporti di forza tra i diversi gruppi. Laviolenza nei confronti della lingua, motivata inmodo dominante dalle ragioni politiche e dal det-tato di essere diversi a qualsiasi prezzo, iniziò arappresentare in realtà un atto di “culturicidio”. È vero che storicamente i croati hanno semprecercato di evidenziare le specificità della lorolingua, ma è solo in questi ultimi anni, conl’indipendenza della Croazia e la guerra nell’exJugoslavia, che queste caratterizzazioni hannoassunto toni così marcati da sconfinare talvolta nelridicolo. Nel 1955 sono le parole di Juraj Krnjević,politico croato (1895-1988), a testimoniare inmodo adatto quelle che furono le conseguenzedella purificazione della lingua croata: “Agli inizidello Stato indipendente i croati cominciaronocon la ‘purificazione’ delle parole, soprattutto dalserbo e dai termini internazionali. Quando adotta-rono la lingua serba, i croati cercarono sistematica-mente di abbrutirla e degradarla. È nota l’anticatendenza smodata dei croati di cambiare le parolestraniere con quelle ‘croate’. In questo processonon solo tendono a formare delle parole inappro-priate, ma anche con significati del tutto inadatti esconosciuti al popolo” (Kostić 1964, 77). “Anche sesi sono impadroniti della lingua serba – del dialet-to ‘štokavo-ijekavo’ -, i croati non sono mai riuscitia ‘collegarsi’ con essa; non hanno mai compreso lospirito di questa lingua e non ne hanno mai coltola vera sostanza. A parte questo, forse per la loroavversione verso tutto quello che è straniero, nonhanno creato altro che una versione deformatadella lingua serba, rendendola corrotta e incom-prensibile al proprio popolo” (Kostić 1964, 88).Chi ne dibatteva erano gli intellettuali; la gentecomune non si preoccupava seriamente di questediscussioni. Solo negli ultimi anni la questionedella lingua è diventata un fatto politico,fomentato come un elemento di identificazionenazionale. Sul piano della comunicazionequotidiana la gente è sempre stata in grado dicapirsi, perchè le distanze che intercorrono traserbo, croato e bosniaco sono più o meno quelleesistenti tra l’inglese britannico e quelloamericano. Però con il prevalere della funzionepolitica della lingua, intesa come strumento diidentificazione nazionale e di rafforzamento delloStato, si rende molto più pesante e difficile il climaculturale in cui la gente vive.

Lingua e nazionalismo

Uno degli ideali da perseguire nel nazionalismomoderno è sicuramente la purità della lingua. Tral’altro, è proprio sulle rivendicazioni di caratterelinguistico che si sono basati molti movimentiindipendentisti e secessionisti ritornati in voga conil revival etnico contemporaneo. Senza dubbio, lalingua rappresenta un elemento che sprigiona inmodo alquanto pronunciato i sentimenti diappartenenza nazionale, fungendo così da potenteamplificatore delle rivendicazioni nazionalistiche;ma affinché diventi un elemento costitutivo edeterminante, essa deve essere accompagnata dauna cultura e da un patrimonio culturale nazionalemolto solido. Il compito primario di ogninazionalismo separatista era, ed è, provare che sitratta di due lingue diverse. La ex Jugoslavia è solo un esempio di come le varielingue nazionali o forse i dialetti regionali di unastessa lingua abbiano favorito la formazione dellediverse cause dei nazionalismi.All’inizio degli anni ’90, nello spazio jugoslavo, sidiffonde la convinzione che: “alcuni fabbricanodelle parole per utilizzarle come coltelli, altri fab-bricano dei coltelli per utilizzarli al posto di paro-le” (Uglešić 1996, 56). Dubravka Uglešić, la scrittri-ce croata alla quale l’opinione pubblica attribuì l’e-tichetta di ‘traditrice nazionale’, scrive che: “È ini-ziato tutto dalle parole e con parole tutto finirà.L’intervallo di tempo – segnato da migliaia dimorti, di profughi e di cacciati, da case, vilaggi ecittà distrutte - un giorno sarà coperto da questestesse parole, che formerano solo un’interpreta-zione di questa tragedia, intrepretazione storica,politologica, strategica o culturale, senza rendersiconto che esse hanno partecipato alla creazione ditutte queste disgrazie” (Uglešić 1996, 67).L’area della ex Jugoslavia è caratterizzata da unaspecie di nazionalismo linguistico, dovuta allo spe-cifico contesto storico che ha determinato i rap-porti tra diversi gruppi etnici. Il consolidamentodelle identità nazionali è avvenuto, quindi, ancheper mezzo della lingua, qualificata come un’impor-tante caratteristica etnica e fattore di identitàcollettive. L’appartenenza linguistica e la relativaconnessione con una determinata area geograficaha dato visibilità alle rivendicazioni territoriali; illinguaggio e l’accento diventarono, dunque, uno

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tra i più rilevanti fattori di identificazione, in nomedel quale si deve essere disposti a morire e auccidere.Božidar Jakšić, in uno dei suoi studi,Na ziona lismo e lingua : un’esperienza ba lca ni-ca , cerca di analizzare la correlazione tra la disinte-grazione del Paese e quella della lingua unificanteserbo-croata o croato-serba. Egli afferma che l’in-crementata divulgazione delle differenze linguisti-che, talvolta portate all’esagerazione, è stata unadelle strategie prestabilite per la dissoluzione delloStato comune. A differenza dei numerosi Paesi europei, dove lalingua ha rappresentato la base della costituzionedella nazione quale comunità politica, nei Balcani,popolati da una mescolanza confusa e disordinatadi serbi, croati e bošnjaki, è stata l’appartenenzaalle diverse religioni e confessioni che ha determi-nato la suddivisione nazionale. In un secondo scritto, Jakšić analizza il processo ditransizione dal totalitarismo jugoslavo titoistaverso i totalitarismi sciovinisti degli Stati formatisidopo la dissoluzione (La stra da della Jugosla via :da l tota lita rismo titoista verso il tota lita rismosciovinista ), dove la lotta delle diverse etnie perottenere una lingua nazionale particolare ha avutoun significato molto accentuato, in quanto ha datol’opportunità ai numerosi linguisti, e non solo, diemergere, lasciando isolati quelli che, pur rischian-do di essere impopolari, come Dubravko Škiljan diZagabria, Ranko Bugarski e Ljubiša Rajić diBelgrado, sono riusciti a resistere all’ondata delnazionalismo linguistico. La lingua, il mezzo piùimportante per relazionarsi con gli altri, era diven-tata, come ben notato da Rajić, uno strumento diidentificazione nazionale, trasformandosi progres-sivemante in un simbolo della nazione, in un limi-te di divisione. La lingua, trasformata in un lin-guaggio di guerra, serviva alla preparazione delconflitto e alla propaganda bellica e il tessuto lin-guistico unificante della lingua serbo-croata o croa-to-serba veniva sistematicamente disintegrato.Con un decreto del governo Tuđman, si iniziò conl’assoluta purificazione della lingua croata, attra-verso la rimozione di tutti i termini stranieri. “Lacontinua invenzione delle parole che nonesistevano o non venivano più usate da decenninel croato corrente prima del 1991, e dunque ilcontinuo ricorrere a locuzioni che distinguessero il

croato dal serbo e venissero trasmesse al popolotramite la televisione e la stampa, è indubbiamenteil particolare più marcante della politica culturaledella presidenza di Franjo Tuđman, presidentedella Croazia dalle libere elezioni del 1990”(Bogdanić 2003, 233-234). La Croazia haaccentuato le specificità del croato, ripulendolo daserbismi e influenze turche, presenti soprattutto inBosnia, ma diffuse anche altrove; altrettanto hafatto la Serbia, puntando ad una lingua simbolo di‘compattezza nazionale’. Non di meno hanno fattoi bosniaco-musulmani, che parlano oramai di una‘lingua bosniaca’ a sé stante. In Croazia fu rivitaliz-zato anche il lessico militare, appartenente alperiodo del NDH – Nezavisna Država Hrvatska -Stato indipendente di Croazia (1941-1945); tutta-via, ad un certo punto, qualcuno si accorse diessersi allontanati troppo dal fondamento organi-co della lingua. A parte questo, se la purificazionefosse stata portata agli estremi, i linguisti croaticoncordavano che questo avrebbe comportato ilrischio di cadere nella finzione; ma se bisogna‘pulire’ un territorio o una popolazione daglielementi estranei, la prima a dover essere liberatadai termini del nemico, dalle parole straniere, èproprio la lingua. La storia della civiltà confermache il purismo, non solo nel settore linguistico, èdi regola collegato a ideologie e movimenti retro-gradativi. Ciò nonostante la lingua croata ufficialefu inondata da termini arcaici, evitando i serbismie internazionalismi, e soprattutto coniando dei ter-mini mai utilizzati prima dal popolo. La maggiorparte dei cittadini croati si rapportava con ironia econ un evidente disinteresse verso questa tenden-za. L’esame per indovinare quale fra le parole fosse-ro di origine serba e quali croata non sarebbe statosuperato nemmeno da nazionalisti più audaci.Nell’aspirazione di ogni etnia di ottenere il proprioStato e di parlare la propria lingua, che doveva atutti i costi differenziarsi dalle altre, a distinguersidalla lingua del nemico, le vittime più segnatediventarono i popoli, in nome dei quali questi ten-tativi furono compiuti. Vera Bojić in uno dei suoi studi, La lingua serba :la ba se della conserva zione di una na zione:Sosta nza spiritua le, argomenta che tutti gli antichipopoli culturali – tra cui rientrano sicuramente iserbi – si sono svilluppati dalle collettività legateda vincoli linguistici che, fungendo da potente tes-

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suto collegante, li hanno resi uniti e li hanno con-servati durante il percorso storico, nonostante gliavvenimenti politici, le divisioni e i continui muta-menti dei confini. Quasi in tutti gli antichi popolieuropei – tranne che nei serbi – esiste una fortecoscienza riguardo alla propria appartenenza lin-guistica, che rappresentasse la base della nascita edella soppravvivenza della nazione e che quindisimboleggia un valore nazionale supremo. VukStefanović Karadžić riteneva che ogni lingua rap-presenta l’insieme di pensieri di un popolo, non-ché la consapevolezza di sé stesso e del mondo cir-costante; perciò la lingua raffigura le vedute di unpopolo sul mondo e dal modo di percepire ilmondo, sia quello materiale sia quello spirituale,dipende anche quella che viene definita la menta-lità, ossia le particolarità di un popolo rispetto atutti gli altri popoli. L’uomo non può pensaresenza la lingua e quindi il suo pensiero e il suomodo di esprimersi viene predefinito e guidatodalla lingua che usa. Molte persone, soprattutto gliinterpreti e i traduttori, spesso hanno notato lanon corrispondenza delle parole di due lingue equesto deriva dalla diversa percezione del mondoe dalla non corrispondenza dei concetti che questeparole definiscono. Tali dissomiglianze tra due lin-gue non sono casuali e costituiscono un aspettoimportante dell’identità nazionale. La linguamaterna, che Bojić definisce come patrimonio spi-rituale di un popolo, non è altro che il vincolomorale o sentimentale che ci lega ai nostri conna-zionali, indipendentemente da dove essi si trovino.Non è difficile comprendere che curare la proprialingua significa curare la propria identità e che que-sto obiettivo rientra, per questo, tra i compiti pri-mari dello Stato e delle sue istituzioni. E così acca-de per tutti gli antichi popoli culturali; sfortunata-mente i serbi non hanno seguito la stessa strada. Vera Bojić si chiede a questo punto: si tratta dinoncuranza, ignoranza o intenzionalità? Siamotestimoni, non solo dell’indifferenza nei confrontidella nostra lingua, ma anche di un’organizzataazione di offesa altrui molto furba contro quasitutti i nostri valori nazionali. Bisogna chiedersi per-ché il popolo serbo non ha sviluppato la consape-volezza linguistica, quale sostanza di conservazio-ne dell’identità e della sopravvivenza? Il motivo èche la Serbia rimane ancora una ‘Jugoslavia inpiccolo’, con molte minoranze alloglotte,

tradizionalmente molto aperta verso le altre linguema contemporaneamente piuttosto indifferenteverso la propria. Lo studio della grammatica dellalingua materna solo nelle scuole elementari, illinguaggio caotico utilizzato dai media e lamancanza di un pratico dizionario monolinguedella lingua nazionale per adesso non permettonodi intravvedere una soluzione alla questionelinguistica serba (“La lingua serba : la ba se dellaconserva zione di una na zione: Sosta nza spiri-tua le”).È ormai ben noto, e nessuna persona seria potreb-be assumere una posizione contrastante, che, allametà del XIX secolo, il popolo croato accettò lalingua serba, denominandola serbo o croato,restando fedele alla forma riformata egrammaticalmente elaborata, che Vuk Karadžićpreparò per il proprio popolo serbo. È meno conosciuto il fatto, perché non palese eforse occultato, che i linguisti più noti di quelperiodo, Dobrovsky, Šafarik, Kopitar, Miklošić e inparticolar modo Vuk Karadžić, partendo dalpresupposto dell’unitarietà linguistica, qualefattore di unificazione degli antichi popoli europei,ritenessero serbi tutti coloro che appartenevanoalla lingua ‘štokava’, mentre definivano croaticoloro che utilizzavano la lingua ‘čakava’ o‘kajkava’. Il noto slavista, Pavle Josif Šafarik, neisuoi studi sulla linguistica attestava che la linguaserba era parlata in Serbia, Montenegro, Bosnia edErzegovina, Slavonia e in Dalmazia: “Anche percostui, soltanto le provincie della Croazia, dove erautilizzato il dialetto ‘kajkavo’ erano indubbiamentecroate. Tuttavia, esiste la tesi di Jernej Kopitar, ilquale riteneva che i croati ‘kajkavi’ erano dei purisloveni, mentre veri croati rimanevano solo i croati‘čakavi’ delle aree costiere. Anch’egli definì tutti gli‘štokavi’ quali membri del popolo serbo e affermò:l’area del dialetto serbo si estende dall’Istria,attraverso la Dalmazia, Krajina croata, Bosnia eSerbia fino alla Bulgaria e al territoro di Slavonia eUngheria meridionale” (Kostić 1964, 7). LazoKostić (1897-1979), uno storico serbo, si è servitopiù volte, nel suo libro Il furto della lingua serba ,di una serie di affermazioni degli autori del XVII-XVIII secolo, che segnano le linee di separazionegeografica dei tre dialetti principali. Esse identifi-cano la lingua croata esclusivamente con il dialetto‘čakavo’, localizzandolo nella Dalmazia meridiona-

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le e nelle zone croate a nord della Dalmazia. “Il dia-letto ‘čakavo’ è lingua croata, mentre quello ‘što-kavo’ lingua serba. Il dialetto ‘kajkavo’ rappresentasolo un dialetto della lingua slava come tale”(Kostić 1964, 15). Il dialetto ‘štokavo’ veniva utiliz-zato in Dalmazia settentrionale e in Bosnia e sicco-me durante il periodo della dominazione ottoma-na, l’odierna regione croata di Slavonija accolseun’ondata di ‘nuova’ popolazione, che arrivò dal-l’altra parte del fiume Sava e utilizzava lo ‘štokavo’,il dialetto ‘kajkavo’ risultava limitato alla partenord-occidentale della Croazia. Tuttavia, “la linguadella Dalmazia e della Bosnia, escluse le città diDubrovnik e Boka, fu successivamente, per motivireligiosi, denominata ‘croato’, in modo da distin-guerla dalle lingue dell’Ortodossia orientale, imembri della quale sono chiamati serbi” (Kostić1964, 10-11). Kostić riporta anche che gli elementimorfologici, sintattici e lessicali della Bosnia, dellaSlavonia e di Dubrovnik si distinguono in modoinequivocabile dal ‘čakavo’ e si identificano con lalingua serba. Kostić riporta anche gli scritti diMatija Petar Katančić, professore all’Università diBudim e prete cattolico, oltre che poeta e archeo-logo, il quale alla fine del XVIII secolo scrisse: “Imontenegrini, i serbi e i bošnjaki parlano la stessalingua dei dalmati, che si differenzia da quellausata dal resto dei croati” (Kostić 1964, 108).L’adozione della variante ‘štokava’ da una parteconsistente del popolo croato, differenziandosisolo in un secondo momento in base all’identitàreligiosa, fu il primo passo nella realizzazione dellaloro programmata politica linguistica, quale mezzodi espansione nazionale e territoriale; questa lin-gua comune ‘serba o croata’ fu il modo più adattoper oscurare i confini etnici tra i due popoli e percongiungere alla Croazia quelle parti della popola-zione serba che si convertirono al cattolicesimo. Losviluppo successivo della questione linguistica haregistrato un infinito numero di tentativi dallaparte croata di dividere la lingua serba di Vuk;prima introducendo le varianti croato-serbo eserbo-croato, successivamente quelle occidentale-ijekava e orientale-ekava. Questa versione occi-dentale, che comprendeva, oltre la Croazia, Bosniaed Erzegovina, Montenegro e Serbia occidentale,quindi una parte consistente del popolo serbo, fuequiparata alla variante croata e contrassegnatacome territorio linguistico croato. Questo esempio

mostra un drastico abuso della lingua per fininazional-politici.L’espansione del territorio linguistico e nazionalecroato, quale fine del programma filologico croato,fu dunque compiuto a danno del popolo serbo.Un simile abuso linguistico non è possibile regi-strare nel percorso storico di nessun altro popoloe di nessun’altra lingua. Ma cosa hanno fatto i lin-guisti serbi per evitare l’appropriazione in modoillecito e la ridefinizione della lingua serba? (BojićV., La lingua serba : la ba se della conserva zionedi una na zione: Sosta nza spiritua le).Nel mondo accademico serbo la denominazione‘serbo-croato’ della lingua serba fu introdottadopo la Seconda Guerra mondiale. I linguisti serbidi spicco, accettando la divisione della lingua serbanelle varianti sopra menzionate e accontentandosempre di più le richieste dei letterati croati, inparte per il loro compito, in parte per le convin-zioni comuniste e internazionaliste, hanno contri-buito alla realizzazione del programma linguisticocroato. L’esempio più eclatante dell’azione anti-nazionale della linguistica serba ufficiale fu l’accet-tazione indiscussa della proclamazione della linguabosniaca a Dayton. Infatti, gli Accordi di Daytonsono scritti in quattro diverse lingue: inglese, croa-to-ijekavo e con l’alfabeto latino, bosniaco-ijekavoe con l’alfabeto latino e serbo – limitato in questocaso alla sola variante ekava e al solo alfabeto ciril-lico. Invece di dichiarare apertamente la propriaopposizione o disapprovazione e impedire agliimperialisti politici internazionali di appropriarsidella competenza di decidere la questione lingui-stica dei Balcani, i linguisti serbi rimasero in silen-zio e accettarono, prima di tutti gli altri centri lin-guistici slavi, l’esistenza non solo della lingua croa-ta ma anche di quella bosniaca.Da questa breve analisi, risulta evidente che le isti-tuzioni accademiche e scientifiche serbe siano gui-date da persone senza una coscienza nazionale.Per questo sono necessarie immediate trasforma-zioni nel settore accademico del nostro Paese.Tuttavia, la situazione odierna difficilmentepotrebbe comportare dei cambiamenti positivi: incima alla scala sociale si sono insediate personeche in base alle proprie sbagliate orientazioni pro-occidentali agiscono sempre di più in modo dadannegiare gli interessi e l’identità del nostropopolo. Mentre i Paesi europei curano con dili-

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genza la propria cultura e lingua nazionale, inSerbia si agisce in modo opposto: l’alfabeto nazio-nale serbo, il cirillico, è quasi del tutto fuori uso,nonostante la contrarietà delle leggi; l’inondazionedi espressioni inglesi e di traduzioni assurde èormai un fatto comune sia nella quotidianità, sianei mass media sia nei discorsi dei nostri politici.

L’arena socio-linguistica serbo-croata

Il fatto che distingue immediatamente il serbo e ilcroato è che il primo è scritto oltre che in alfabetolatino anche in cirillico; d’altra parte anche i croatinel corso del medioevo scrivevano in glagolitico,variante più complessa del cirillico antico. In realtàserbo e croato sono la stessa lingua orale trascrittain due alfabeti. “Se il serbo-croato sia una o duelingue è rimasta fino ad oggi una questione politicafra le più dibattute. L’ideale unitario dei popolislavi del Sud, la Jugoslavia, poggia sul presuppostoche la lingua dei serbi e dei croati sia una sola.Nella Dichiarazione sul linguaggio e sull’ortografiadel 1954, più nota come Gli Accordi di Novi Sad,promossa dagli intellettuali e letterati sia serbi checroati, si afferma che la lingua popolare dei serbi,croati e montenegrini è un’unica lingua. Per talemotivo anche la lingua letteraria che si è sviluppatabasandosi sul comune fondamento linguistico,intorno ai due centri maggiori, Belgrado eZagabria, è un’unica lingua con due diversepronunce, la ekava e la ijekava. Per conseguenza, ilcompito primario di ogni nazionalismo separatistaera ed è provare che si tratta di due linguediversissime” (Bogdanić 2003, 233-234). Se in Croazia troviamo un’ampia e dettagliata argo-mentazione demagogica, anche di data alquantorecente, che spesso riprende lo stile del tradizio-nale ‘alibismo’ croato, dall’altra parte, in Serbia, acausa del liberalismo, noncuranza, insofferenza efastidio verso ciò che accade al di là del confine, laquestione della linguistica dei Balcani rimane cir-coscritta entro ambiti accademici ristretti e spessonon noti al pubblico più largo. È necessaria unagrande precisione nell’esprimersi, perché coloroche desiderano discreditare qualsiasi sforzo acca-demico sincero, che non coincide con le loro tesi,hanno già da tempo elaborato degli schemi percontrastare quegli argomenti dell’arena socio-lin-guistica serbo-croata con cui si dimostra la veridi-

cità e l’attendibilità della teoria, secondo la quale ilserbo e il croato siano un’unica lingua – la linguaserba.Gli avvenimenti dell’arena socio-linguistica serbo-croata possono essere seguiti a partire dal momen-to della comparsa dei croati come nazione; tutta-via, si potrebbe facilmente constatare che la for-mazione di questa nazione si protrae tuttora grazieall’assimilazione, spesso dei serbi, e che tale pro-gramma, portato avanti dal complesso degli appar-tenenti all’ordine sacerdotale croato, raggiunseall’inizio del XX secolo in modo definitivo una con-dizione equilibrata e duratura. Infatti, il XIX secolo- il periodo della liberazione dei Balcani occidenta-li dall’Islam dell’Impero turco, fu visto dal Vaticanocome momento opportuno per l’unificazione deicristiani serbo-ortodossi neo-liberati con la Chiesaromano-cattolica. Nello stesso tempo, Vienna siprefisse lo stesso fine – includere la Serbia liberatadall’oppressione ottomana nei territori austriaci; ilculmine di queste tendenze austriache si sarebbeverificato con la Prima Guerra mondiale, che iniziòcon l’annuncio di guerra di Austria alla Serbia. Perquesto, sia da parte del Vaticano, attraversoStrossmayer e la sua idea di ‘jugoslavismo’ con ilcentro culturale di Zagabria, sia da parte di Vienna,attraverso le idee di Jernej Kopitar e di VukKaradžić, fu sostenuto il modello di un unicopopolo – ‘serbo-croati’; “stesso popolo che deveavere la stessa lingua” (“Accordo di Vienna 1850”).Bisogna mettere in evidenza che tra i croati pro-vinciali–‘kajkavi’, esisteva un reale desiderioriguardante gli ideali romantici di un unico Paeseslavo (Illiria o Jugoslavia); nell’ambito di quest’ideaebbe origine il cosiddetto movimento illirico, notoprincipalmente per i suoi esperti di linguistica, chefurono talmente dominanti, da far coincidere i duetermini illiristi e linguisti. In base a questo puòessere percepito anche che il fine preminentedegli illiristi fu quello dell’unificazione linguisticacon la Serbia, ossia l’adozione della lingua serbacome lingua ufficiale nella provincia austriaca diCroazia, che fino a quel momento utilizzava lalingua tedesca o latina (“In nome della difesa dellalingua serba”). La discussione sul problema linguistico dei Balcanidi Lazo Kostić, intitolata Il furto della lingua serbae pubblicata nel 1964, a Baden in Svizzera, iniziacon la crudele constatazione che i croati siano l’u-

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nica nazione nel mondo a non avere una proprialingua. A tal proposito Kostić richiama l’attenzionesugli studi etnografici, L’etnogra fia della Turchiaeuropea , dove si riporta che non esistono dueesperti di slavistica le cui opinioni combacinoriguardo alla questione della composizione delpopolo croato, della sua lingua e della sua distri-buzione geografica. “Prima del rinascimento illirico, lo ‘štokavo’ serbonon era parlato da nessun croato, ma solo dai serbicattolici. Coloro che si erano posti come guide del-l’illirismo, non volevano definire, per motivipolitici, la lingua come serba, ma nello stessotempo sembrò inappropriato anche di presentarlacome croata; quindi, adottarono un assurdometodo di mascheramento, rappresentando sestessi come membri di un popolo balcanicoscompraso – gli illiri. A loro sembrava opportunoincludere nel fenomeno dell’Illirismo sia croati cheserbi, con la pretesa di dividere in modo definitivoi serbi cattolici dalla madrepatria” (Kostić 1964, 45). “Fino al periodo del rinascimento illirico, i croatinon possedevano alcuna lingua letteraria propria enon era molto chiaro cosa fosse realmente la‘lingua croata’. Nessun autore slavo giudicava lo‘štokavo’ come dialetto croato, ma esclusivamenteserbo. I documenti storici testimoniano che, finoal XVII secolo, tutti gli ‘štokavi’ si definivano serbi,mentre unicamente i ‘čakavi’ si distinguevanocome croati. Solo nel XVIII secolo, gli autoricattolici decisero di tentare di offuscare la sostanzadella lingua serba denominandola ‘lingua illirica oslava’. Dall’altra parte, nel XIX secolo, quando ilrinascimento illirico divenne un sentimentodiffuso, un numero notevole di slavisti europeicominciò a considerare la lingua croata quale unotra i dialetti della lingua serba.Questa spiegazionesembra quasi del tutto coincidere con laspiegazione breve e precisa che si trova alla voce‘lingua serba’ nel Vocabolario italiano di NicoloTommaseo: ‘la lingua serba è uno dei quattroidiomi, non dialetti dei popoli slavi... si parla inBosnia ed Erzegovina, in Dalmazia di Zagorje e inSerbia. Il dialetto croato, come anche la loro razza,non sono altro che una degenerazione’” (Kostić1964, 27). Parlando di Illirismo, è utile rivedere lastoria della popolazione croata e ricordare che “lasituazione linguistica dal 1420 fino a 1797 fu inDalmazia completamente trascurata e abbandona-

ta a sé stessa”; non esisteva neanche un istitutoscolastico che insegnasse nella lingua nazionale. ‘Sivolete Dalmati fedeli tenete li ignoranti’, dicevanoi conquistatori. Tuttavia, durante l’era diNapoleone, in soli 8 anni, nell’intera Dalmaziafurono disseminate più di 50 scuole superiori, matale progresso fu successivamente interotto dal-l’arrivo in Dalmazia delle autorità austriache.Alcune fonti rivelano che ancora nel 1870, la regio-ne registrava intorno all’80% di analfabeti (FranoIvanišević, Na rodni Preporod u Da lma ciji, tr.it Ilrina scimento na ziona le nella Da lma zia , Split1932). Nel 1825, furono gli ungheresi ad imporre alpopolo croato la lingua magiara quale linguaamministrativa ufficiale, costringendoli nel 1835 adaccettarla anche nelle scuole, con lo scopo benpreciso di trasformare la Croazia in una provinciaungherese, mentre gli stessi croati pensavano soloalla preservazione dell’alfabeto latino, senza preoc-cuparsi di salvaguardare la loro lingua popolare. Difronte al pericolo di una totale estinzione, comin-ciò a svilupparsi il rinascimento croato (Dučić2001, 3-4). “Ljudevit Gaj cominciò a dispiacersi perla situazione miserevole in cui si trovava il linguag-gio popolare dei villaggi croati. Scaturì in lui l’ideadella necessità di adottare la lingua letteraria serba,in quanto una comune lingua parlata avrebberiunito le parti della Croazia, perché se nelle isolesi usava il dialetto čakavo e in Zagorje quello kaj-kavo, il dialetto dei serbi - štokavo fu già in uso sianella Dalmazia sia nella Slavonija, entrambe abitatedalla popolazione serba per secoli. Siccome l’inte-ra letteratura della Dalmazia fu scritta nel dialettoštokavo serbo, l’adozione di quest’ultimo avrebbesignificato l’annessione della Dalmazia a Croazia,eludendo la sua unione con lo Stato di Serbia”.(Dučić 2001, 3).“Né l’illirismo di Ljudevit Gaj né lo jugoslavismorappresentavano un sentimento scaturito da unasolidarietà nazionale o da un movimento irredenti-stico croato simile a quello serbo e montenegrinoin vista di un futuro Stato da condividere sulle rovi-ne dell’Impero asburgico. Si trattava, al contrario,della politica di Vienna e di Vaticano, camuffata daidealismo romantico e nazionale; gli illiri hannopreso la lingua serba, prima per poter appropriarsidella letteratura di Dubrovnik, interamente scrittanello tosavo, e successivamente per impadronirsidelle canzoni popolari della Bosnia, anch’esse in

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štokavo, e pubblicarle a Zagabria senza alcunpudore quale poesia popolare croata” (Dučić2001, 9).Dallo studio politologico di Jovan Dučić, intitolatoL’ideologia jugosla va : la verità sullo ‘jugosla vi-smo’, si intuisce che i croati non hanno mai attri-buito grande importanza allo ‘slavismo’ né hannomai espresso fiducia nei confronti dello ‘jugoslavi-smo’; “essi hanno identificato il primo conl’Ortodossia russa e il secondo con ‘balcanismo eorientalismo’, considerando entrambi incompati-bili con l’idea croata della cultura, che secondoloro è l’unica vera cultura, più affine a quella occi-dentale e di maggioranza cattolica. Nello stessomodo né lo slavismo né lo jugoslavismo potevanoessere tollerati dal popolo croato che nutriva ildesiderio di rimanere su un ‘continente morale’separato dalla cultura orientale legata alla Chiesaorientale” (Dučić 2001, 1).Per costruire lo Stato jugoslavo, era indispensabilecreare un popolo jugoslavo e dunque fabbricareuna lingua jugoslava, ma i croati rimanevano dalpunto di vista nazionale sempre molto esclusivisti.Se prendiamo in considerazione i secolari recipro-cisentimenti di avversione, la differenza di religio-ne e la diversa mentalità culturale, allora si capisceche un tale amalgamarsi era impossibile in vista diun’unione statale (Dučić 2001, 13).Tra le due guerre mondiali, il politico croato, MilanBanić scrisse: “i serbi penetrando nelle aree piùoccidentali della Croazia e arrecando alla Croaziadel sangue fresco, apportarono alla mentalitàcroata un po’ della durezza e dell’attivismo dellaserbitù e liberarono la loro anima nazionaleattraverso l’introduzione della lingua parlata edella canzone popolare serba” (Kostić 1964, 18).Guidati dal sentimento di ‘unitarietà jugoslava’, ipiù importanti intellettuali e scrittori croati, tra iquali l’illustre Miroslav Krleža, introdussero nellinguaggio vari ‘serbismi’, simboleggiando con ciòun più forte legame tra i due popoli; esperienzache però si limitò solo alla fase iniziale dellacostituzione del nuovo Stato, perchè ben presto leautorità croate, attente alla tutela della propriaidentità ed autonomia, cominciarono a far notare ilproprio scontento e gli intellettuali, influenzatilargamente dalla situazione politica, riadottarono,in segno di protesta, la variante più tipicamenteoccidentale del croato-serbo.

All’inizio degli anni ’60, soprattutto nei circoli let-terari croati, si iniziò con l’aperta e dichiarata nega-zione dell’esistenza delle due varianti. Con unasempre maggiore convinzione si difendeva la tesidi due distinte lingue letterarie. Così, a fianco delledichiarazioni ufficiali di ‘una lingua, con duevarianti’, sorgevano dei tentativi di riaffermare lecaratteristiche specifiche del croato come linguadiversa dal serbo. In uno dei suoi libri, Božo Ćorić elencò alcuniprincipi che i linguisti croati utilizzarono perdimostrare la distinzione tra le due lingue: 1)dissoluzione di una coppia lessicale di sinonimidella lingua serba, attribuendo la primaespressione allo standard linguistico croato; 2)dissoluzione di una coppia lessicale della linguaserba, composta dall’espressione attuale neutralee da una arcaica, attribuendo la prima alla linguacroata; 3) dissoluzione di una coppia lessicale,composta da una parola domestica e da unastraniera, attribuendo la prima alla lingua croata; 4)attribuzione della forma linguistica standard di unaparola al croato, mentre la sua variante locale ocolloquiale veniva attribuita al serbo. Lo stesso Krleža, già nel 1967, propose di farriconoscere dalla Costituzione l’esistenza dellalingua specificamente croata, intesa come a séstante. Dopo la Dichia ra zione sulla denomina -zione e la posizione della lingua lettera ria croa -ta , sottoscritta dallo stesso Krleža, nel 1969, lostesso affermava, nel tentativo di ricondurre allacalma gli animi che il croato e il serbo sono un’u-nica lingua, che i croati chiamano croata, mentre iserbi la chiamano serba. Erano passati molti annida quel 1924, quando Krleža dichiarava con unasottile ironia, sul giornale Književna republika ,che l’unica differenza tra il serbo e il croato era l’ac-cento, che “un orecchio non serbo-croato difficil-mente può distinguere” (Krleža 1924, 4). Uno deidiscepoli di Krleža, Predrag Matvejević, come d’al-tronde tanti altri intellettuali croati, mise in evi-denza che le questioni linguistiche sono una mate-ria politica che richiede tatto e prudenza e chenelle società multinazionali, quale era quella jugos-lava, “la tolleranza linguistica dipendeva dalla natu-ra dei rapporti interpersonali; più quest’ultimimiglioravano, meno venivano enfatizzate le diffe-renze (Matvejević 1984, 109).Božidar Jakšić seguì la logica opposta: ogniqualvol-

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ta i rapporti peggioravano le differenze linguisti-che venivano accentuate fino all’asurdità.Nel 1986, all’interno dell’Accademia di Serbia delleScienze e delle Arti (SANU), si è svolto il dibattitoriguardo alla corruzione della lingua serba da partedi elementi non serbi e riguardo alle precisepolitiche aggressive intraprese contro di essa. IlMemora ndum, documento diffuso in via ufficiosadall’Accademia, denuncia che “in Croazia ilpatrimonio culturale serbo è stato oggetto dialienazione, usurpazione, noncuranza e disprezzo;l’uso della lingua soppresso e l’alfabeto cirillicosempre meno valorizzato da sofisticate ed efficacipolitiche di assimilazione che minano i vincoliculturali tra i serbo-croati e il resto dei serbi.Nessun’altra nazione jugoslava è stata privata inmodo così brutale della sua integrità culturale espirituale” (Memorandum SANU 1986).Contemporaneamente, anche gli altri popoli dellaex Jugoslavia esprimevano il risentimento per lacontaminazione della propria lingua. Una pubbli-cazione del HDZ – Hrvatska DemokratskaZajednica: ‘Unione Democratica Croata’, partitopolitico fondato nel 1989 da alcuni nazionalistidissidenti, guidati dal primo Presidente dellaCroazia indipendente, Franjo Tuđman, riportò,infatti, una lista di parole accompagnate da un’a-nalisi, in seguito alla quale questi termini furonodefiniti stranieri (in quanto serbi) e ne venne alle-gato un equivalente croato.Avvertendo che stava per verificarsi uno di queimomenti storici, in cui a causa della questionelinguistica viene a spezzarsi il destino di un interopopolo, nel 1994 Pavle Ivić pubblicò un articolointitolato Vuk ha commesso un gra ve errore. Inquell’occasione egli scrisse: “la comune lingua let-teraria – ijekava - ha favorevolmente contribuitoall’unificazione dei cattolici nella nazione croata;ha migliorato, inoltre, le possibilità politiche deicroati nelle aree in cui i loro interessi venivano ascontrarsi con quelli serbi: in Bosnia e aDubrovnik. A parte questo, l’adozione di una lin-gua letteraria familiare a quei serbi che vivevano inCroazia, ha allontanato il pericolo per cui quest’ul-timi potessero costituire, in base alla loro specifici-tà linguistica, una qualsiasi autonomia culturale. Intal modo, si formò un’insolita asimmetria, pur-troppo sfavorevole per il popolo serbo: la lingualetteraria ijekava dei croati, musulmani e della

parte occidentale del popolo serbo e la lingua let-teraria ekava nella parte rimanente dei serbi.Questo offriva ai nazionalisti croati l’opportunità diaffermare che lo ‘ijekavo’ sia croato” (VečernjeNovosti11/4). Per le tesi croate, basta l’affermazio-ne di Sandra Šare che, nel suo libro Come scrivereper un giorna le, puntualizza: “Lo ‘ijekavo’ non èl’indicatore di un’identità nazionale, perché comu-ne a tutte le nazioni, che fino alla guerra jugoslavautilizzavano come lingua standard il serbo-croato:risulta essere, dunque anche un’autentico dialettostandard serbo” (Šare 2004, 225).Miloš Kovačević, professore universitario e notolinguista serbo, ha cercato di seguire la questionedella lingua serbo-croata, analizzando quali sianole conseguenze dell’attribuzione di una denomina-zione problematica quale il ‘serbo-croato’. Egli hapubblicato il libro La lingua serba e le lingueserbe, occupandosi in modo completo della pro-blematica dell’adozione di un determinato nomedella lingua letteraria serba e della ridefinizione ditale nome nei Paesi nati dopo la dissoluzione delloStato di Jugoslavia. Kovačević afferma che il terri-torio linguistico serbo si divide in una serie di lin-gue parlate popolar-nazionali più o meno differen-ti, ma tutte appartenenti al dialetto ‘štokavo’, ori-ginariamente serbo, dimostrando che tutti i serbisono ‘štokavi’, anche in base alla lingua non lette-raria, e che non esistono serbi ‘čakavi’ o ‘kajkavi’.Dopo l’avvio della cattolicizzazione e dell’islamiz-zazione, una parte della popolazione ‘štokava’ èrimasta priva del senso di appartenenza al popoloserbo e alla relativa collettività linguistica serba.Costoro si sono congiunti all’ethnicum croato.Un’altra parte dei serbi, invece, si è allontanata dal-l’etnicità serba per avvicinarsi a quella bosnjaka.Per quanto riguarda la denominazione della lingua,Kovačević spiega che la lingua letteraria serbaodierna ha due sottovarianti, quella ‘zagabrese’ equella ‘sarajevica’, che, a causa di una serie diragioni socio-linguistiche, modificarono in modoingiustificato la struttura linguistica di base, adot-tando le denominazioni croata e bosniaca. Egliritiene che nemmeno la denominazione ‘serbo-croato’, pur essendo stata a lungo quella ufficiale,può essere scientificamente giustificabile, in quan-to avrebbe dovuto comprendere una mescolanzadei linguaggi, delle espressioni e degli accenti ‘što-kavi’ e ‘kajkavo-čakavi’, ma siccome essa ha sem-

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pre avuto come base esclusivamente il dialetto‘štokavo’ non fu nient’altro che la pura linguaserba (La lingua serba e le lingue serbe).I testi di Branislav Brborić, nei libri Sulla rovinadella lingua e Da una lingua a d un’a ltra lingua ,risultano paradigmatici nel senso che dimostranola determinatezza di una nazione, quella croata, diuscire, a qualsiasi prezzo, da uno Stato ‘non desi-derato’ e la capacità difensiva dell’altra nazione,quella serba, la cui posizione, sia interna sia inter-nazionale, risultava da ogni punto di vista moltodifficoltosa. Nel mondo slavo non fu un caso che due popoliusassero un’unica lingua, la stessa lingua letterariae la stessa lingua standard. La decisione di creareuna sola lingua per due popoli, in quanto del terzoe del quarto popolo con la stessa lingua ai tempinon si poteva ancora parlare, non è stata presa daiserbi, ma dai croati, che hanno accettato il modellofondato da Vuk. Un ruolo importante in questadecisione ha avuto l’anno 1878 e il congresso diBerlino; fu l’anno in cui Bosnia ed Erzegovinaentrarono a far parte dell’Impero austro-ungaricoe quando diventò evidente che il modello di Vukpoteva soddisfare la tendenza croata di espanderela propria influenza e coscienza nazionale nellaBosnia, estendendo le ambizioni degli strateghipolitici croati di fare della Croazia un Paese guidanella riorganizzazione della futura Monarchia; 40anni dopo, quando l’Impero austro-ungarico fudistrutto e quando fu creato il primo Stato comunedegli slavi del sud, prima con la denominazionedella SHS – Regno dei serbi, croati e sloveni -,sull’ordine del giorno della politica nazionalecroata fu subito messa la questione dellasecessione da questo Stato, ossia la suadissoluzione, con un evidente malcontento neiconfronti dell’unità linguistico-letteraria serbo-croata, che faceva del nuovo Stato una ‘comunitàcomunicativa’. I politici croati erano convinti chenel caso della dissoluzione dello Stato jugoslavosarebbero stati seguiti da tutte quelle aree che nelfrattempo erano state conquistate grazie all’azionedella Chiesa cattolica romana e guidate con sag-gezza dalla politica linguistica croata. Assieme allaseparazione politica doveva verificarsi anche ladisintegrazione linguistica e la lotta contro laproblematica unità linguistica fu una delle formemigliori di lotta contro l’unità politica. Le stesse

tendenze politiche rimasero, in modo latente opubblico, anche dopo il 1945, nella nuovaJugoslavia, rinnovata sotto la guida del partitocomunista, e a partire dal 1939, governata dalcomunista croato Josip Broz Tito (Da una linguaa d un’a ltra lingua ). “Colui che si difende, accusa-to per quello che ha fatto o meno, si ritrovacomunque in una posizione peggiore di colui cheattacca. E colui che nel 1967 – attraverso la linguae la politica linguistica – ha dato un duro colpo allebasi dello Stato comune, ha avuto in realtà le spal-le protette dai vertici dello Stato, come le ha avutenel rendere impossibile qualsiasi autodetermina-zione culturale dei serbi in Croazia. Riferendosi aTito, Brborić commenta: per ben 35 anni, ai verticidello Stato si trovava la persona che poteva farepraticamente tutto. Egli aveva due capitali: una aBelgrado, l’altra nei Brioni, l’isola dell’Adriaticosettentrionale. Sembra abbia preferito la seconda”(Sulla rovina della lingua ).Un momento importante nel processo del separa-tismo linguistico croato fu, secondo Brborić, laDichia ra zione sulla denomina zione e posizionedella lingua lettera ria croa ta dell’Associazionedei letterati della Croazia. Il principio della sovra-nità nazionale e della totale equiparazione deidiritti comprende anche il diritto di ciascuno deipopoli della ex Jugoslavia di conservare gli attribu-ti della propria esistenza nazionale e di svilupparein sommo grado, non solo la propria sfera econo-mica, ma anche tutte le attività della sfera cultura-le. Tra questi attributi gioca un ruolo importante ladenominazione della lingua nazionale di cui siserve il popolo croato, in quanto questo risultaessere un diritto inalienabile di ogni popolo, indi-pendentemente dal fatto che si tratti di una baselinguistica che, nella sua variante speciale linguisti-ca o anche nella sua totalità, appartiene ad un altropopolo, quello serbo. La Dichia ra zione fu natural-mente un documento eminentemente politico,malgrado nessun organo politico abbia mai decisodi sostenerla apertemente. Fu valutata come un’a-zione intenzionalmente nazionalistica, ma senzavedersi attribuita l’etichetta di sciovinistica. Cheessa rappresentasse l’annuncio di un’impostazionediversa dello Stato e non soltanto una chiarifica-zione dei rapporti politici, sarebbe stato dimostra-to dai successivi emendamenti su tutte le cartecostituzionali dello Stato federale jugoslavo e dalla

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nascita del movimento nazionalistico di massa,denominato MASPOKOM; nel 1972 laDichia ra zione fu inserita nella Costituzione: lalingua letteraria croata diventò l’idioma ufficialedella Croazia. La reazione più significativa a questaDichia ra zione si trova nel documento intitolato‘Proposte per pensare’, dietro il quale stavano ipensieri di una quarantina di scrittori serbi, mem-bri dell’Associazione dei letterati di Serbia; essoperò non riuscì a produrre alcun effetto nella sferadella politica linguistica serba, l’importanza dellaquale rimase in Serbia sottovalutata, forse ancheperché si contava troppo sull’eternità dellaJugoslavia multinazionale, nella quale i serbi erano,a dire il vero, sparsi e male rappresentati – soprat-tutto quelli in Croazia furono una vittima costantedella politica linguistica croata che ammetteva lafamiliarità della loro lingua con quella serba, maciò nonostante non poteva né chiamarsi né rite-nersi serbo.Per complicare ulteriormente la scena linguistica,etnografica e politica del sud slavo del XX secolo,l’etnologia di impronta comunista ha ritenutodoveroso riconoscere i montenegrini quale ilterzo, e nella sua fase più matura anche i musul-mani, quale il quarto popolo costitutivo della SFRJ– Stato Federale Socialista jugoslavo, creando unanuova fonte di problematiche linguistiche. InBosnia ed Erzegovina, prima della dissoluzionedello Stato unitario, la lingua utilizzata fuindistintamente denominata come serbo-croato efu previsto l’utilizzo di entrambi gli alfabeti cirillicoe latino. Negli anni successivi al conflitto, si sonoandate definendo tre differenti varianti del lin-guaggio, portando con sé una netta divisione tracoloro che rimasero fedeli all’alfabeto latino (croa-to-bosnjaki e bošnjaki) e coloro che utilizzano l’al-fabeto cirillico (serbo-bošnjaki). Scaturisce la tendenza di radicare l’odierna identitàdei bošnjak nelle tradizioni dell’Oriente edell’Islam. Essa si esprime in diverse strategie,come, per esempio, quella della reintroduzione diespressioni turche e arabe non solo nel linguaggioquotidiano colloquiale, parlato tradizionalmenteda una parte della popolazione, ma anche inquello ufficiale. In una situazione alquanto specifica si trovarono ibošnjaki-musulmani. Hanno desiderato

confermare la loro identità nazionale anche con ladenominazione specifica della loro lingua –bosniaco. Senahid Halilović, il linguistamusulmano, scrive: “Se i serbi e i croati hannorinunciato alla denominazione unica della lorolingua, risultava arduo aspettarsi che i musulmanimantenessero una denominazione in cui non erapresente il nome della loro etnia”. Il letterato AlijaIsaković evidenzia che il bosniaco si differenzia dalserbo e dal croato nella stessa misura in cui gliultimi due si differenziano tra di loro. Il problemasorge dal fatto che il serbo e il croato siano dalpunto di vista linguistico un’unica lingua; taleproblema sarà risolto con l’esagerato uso dei‘turchismi’ e degli arcaismi. Le differenze devonoessere messe in evidenza. Così, i cittadini di unoStato, Bosnia ed Erzegovina, sono divisi in dueentità politiche, Federazione bosniaco-croata eRepubblica Srpska, ma costretti a parlare trelingue, anche se parlano tutti la stessa lingua,utilizzata in Bosnia anche prima del conflitto.Queste tre lingue di nuova formazione comunqueconfluiscono nella propaganda in una sola lingua –quella dell’odio.Ranko Bugarski, con i libri Lingua da lla pa ce a llaguerra del 1994 e Lingua nella crisi socia le del1997, in cui ha spesso dedicato attenzione agliaspetti politici, non ha mai lasciato da parte la lin-guistica, anche se la maggior parte dei suoi lavoridegli ultimi anni sono dedicati al ruolo che la lin-gua ha svolto nella dissoluzione della Jugoslavia enell’ascesa del nazionalismo, nei conflitti intra-nazionali e sociali. Bugarski cerca di dimostrareche la lingua non sia la fondamentale base dell’et-nicità. Egli non supporta la comune convinzioneche esista la relazione ‘una lingua–un’etnia–unanazione?, perché è convinto che tale formulazioneidealizzata e schematica esista molto raramentenelle realtà statali moderne. Sul tentativo di sepa-ratismo linguistico montenegrino dalla linguaserba, Bugarski dice che, per la sua realizzazione,manchi del tutto una base linguistica, perché gli‘ingegneri’ della potenziale lingua montenegrinacercano di basarsi sugli arcaismi e sui localismi, for-mando una lingua che non sarebbe altro che la lin-gua serba con specificità dialettali montenegrine.La questione della lingua montenegrina rappre-senta solo il culmine del processo. Tutte leargomentazioni a favore di una ‘lingua

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montenegrina’ sono esclusivamente politiche eprive di fondamento scientifico. Si tratta più di unaserie di anomalie linguistiche che non di vere eproprie differenze. Significherebbe quasi che qual-siasi regione della Serbia o della Croazia potrebbereclamare l’esistenza di una propria lingua. È ovvioche i dialetti locali differiscono dalla lingua lettera-ria, ma questo non risulta sufficiente per la procla-mazione di una nuova lingua, nemmeno tenendoconto della componente nazionale di un tale pro-cesso di costruzione. La lingua è una delle compo-nenti della nazionalità, ma non sicuramente neces-saria e ancor meno unica. I serbi, i croati, i musul-mani e i montenegrini hanno sicuramente unaserie di altre componenti importanti con cuipotranno distinguersi – cultura, territorio, storiacomune (La questione linguistica ).Si delinenano, dunque, due tesi intrecciate, tra cuila prima stabilisce che: “La differenziazione quali-tativa segue l’appartenenza alla confessione reli-giosa, simbolizzata anche dai diversi alfabeti e soloparzialmente dalle cornici statali. Il serbo-croato ègeneticamente e strutturalmente un’unica lingua euna parte di coloro che la utilizzano la valorizzanocome tale, mentre il resto dei parlanti del serbo-croato lo vivono psicologicamente come due o piùlingue, con forti correlazioni etniche, religiose eculturali” (Bugarski 2005, 13). Si tratta di un’unicalingua, che ha assunto diverse denominazioni acausa dell’esistenza nei Balcani di tre confessionireligiose: serbi–ortodossi, croati–cattolici ebosniacchi–musulmani. L’insieme di cittadini deitre relativi Stati parlano la stessa lingua, il cui fon-damento organico è rappresentato dalla lingua deiserbi dell’Erzegovina orientale, che fu adottataquale lingua letteraria da Vuk Stefanović Karadžić.Quest’ultima risulta essere anche la lingua, attra-verso la quale si è realizzata l’assimilazione dellacittà di Dubrovnik latina - l’Erzegovina orientale èla regione retrostante a Dubrovnik, sulla quale persecoli gravitò economicamente, e nella quale fuscritta la letteratura rinascimentale di questa città.Attraverso gli abitanti di Dubrovnik, dichiaratisicattolici, i croati all’inizio del XX secolo, comincia-no a pretendere di chiamare questa lingua il croato.La suddivisione religiosa: i croati cattolici, i serbiortodossi, e la diversa storia politica: il nordaustriaco, il sud prima greco e poi turco, la costaromana e veneziana, oltre ai particolarismi locali,

ha determinato la formazione di due diverse tradi-zioni di lingua scritta. Le differenze più significati-ve rimasero nel lessico: latinismi e germanismi nelcroato; grecismi e turchismi nel serbo. Meno note-voli sono le differenze fonetiche e morfologiche: ilserbo documenta maggiori balcanismi, costruzionilinguistiche simili a quelle che si ritrovano nellediverse lingue dell’area e documentano uncomune substrato balcanico. I serbi, collocati neiterritori più orientali, subirono gli influssi diCostantinopoli e dell’attuale Bulgaria, eadottarono infine l’alfabeto cirillico. I croati,insediati a Ovest, subirono invece l’influsso latino,adottandone vari riferimenti culturali e l’alfabetocon alcune varianti fonetiche. “Le differenze tra ilserbo e il croato non sono maggiori di quelle tradialetti di una medesima lingua. Si tratta didiversità dovute al differente sviluppo storico chela lingua ha avuto in differenti regioni. La linguaserba è piena di parole di origine turca. Il modo diparlare dei serbi, croati e musulmani in Bosnia,specialmente in quelle regioni dove le trepopolazioni vivevano insieme fino a ieri, è uguale.È dunque impossibile distinguerli in base allinguaggio. L’unico modo per determinare se sitratta di serbi, croati o musulmani è classificarli inbase alla religione” (Bogdanić 2003, 232).La seconda tesi è quella più tipicamente linguisti-ca: ogni lingua ha un fondamento organico, for-mato da un substrato etnico, dal cui dialetto siforma gradualmente una lingua standard. Qual è ilsubstrato etnico che ha dato origine al dialetto dacui si sono formate la lingua standard serba, la lin-gua standard croata e le altre lingue standard deiBalcani? È il dialetto serbo ‘štokavo’dell’Erzegovina orientale. Dimostrare che il serboe il croato siano la stessa lingua è allo stesso modofacile e difficile. È difficile perché i linguisti croati,come Brozović, Babić, Grčević, Nataša Bašić eRadoslav Katičić hanno ideato una dottrina lingui-stica propagandistico-demagogica, che si basa suun’insieme di elementi stilistici artficiosi, creati alfine di dimostrare la differenziazione del fonda-mento organico della lingua croata da quello dellalingua serba.L’analisi più esaustiva della situazione linguisticapost-conflittuale della ex Jugoslavia è data dalladispensa di studi Lingua e democratizzazione, checontiene i testi delle ricerche dei linguisti prove-

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nienti dai territori dell’intero spazio linguisticoserbo-croato, presentate nel 2001, in occasionedella Conferenza internazionale tenutasi a Neum,in Bosnia ed Erzegovina, e organizzata dall’Istitutodi Lingua di Sarajevo e l’Istituto di studi est-euro-pei e orientali di Oslo (Norvegia).Nella parte introduttiva del fascicolo gli organizza-tori della Conferenza hanno constatato con soddi-sfazione che “i fini della stessa furono tutti realiz-zati”, mettendo in evidenza come sia “di grandeimportanza il ristabilirsi dei rapporti interrotti tra ilinguisti e le istituzioni linguistiche della exJugoslavia e appurando che gli avvenimenti quali laConferenza possono mostrare come il rispetto deiprincipi della democratizzazione rappresentanoun modo efficace nella soluzione di numerosi pro-blemi ed incertezze nel campo linguistico, senzaviolare i diritti di qualsiasi nazione”. Di seguito sono riportate alcune delle osservazionipiù significative dei vari linguisti, di cui i primi cer-carono di fissare la propria attenzione sulla que-stione della denominazione delle lingue neiBalcani e sul ruolo che a riguardo ha avuto la poli-tica, anche in considerazione del fatto che in altreregioni del mondo si assiste al comune e pacificoutilizzo, da parte di più popoli, di varianti di unastessa lingua anche molto diverse tra loro,chiamate tutte nello stesso modo (vedi l’inglese olo spagnolo). La denominazione diventa dunqueun modo per appoggiare, almeno in apparenza,l’ipotesi dell’esistenza di lingue separate.Dalibor Brozović, nel suo studio intitolato Le deno-mina zioni linguistiche nell’a rea centro-sud-sla va , ha esposto le motivazioni per cui le qualifi-cazioni ‘lingua serbo-croata’ e ‘lingua standardserbo-croata’ oggi non sono più accettabili, propo-nendo di conseguenza due nomi nuovi: ‘linguacentro-sud-slava’ per la lingua parlata dai bošnjaki,montenegrini, croati e serbi e per la loro comunearea linguistica, mentre già nel 1970, al posto di‘lingua standard serbo-croata’, egli indicò comepiù appropriata la denominazione ‘il neo-štokavostandard’, che però funge da modello astratto, lecui reali concretizzazioni sono rappresentate dagli“idiomi utilizzati da ciascuna delle quattro nazioni”(Brozović 2001, 27). Come motivo diinadeguatez-za della denominazione doppia come ‘serbo-croa-to o croato-serbo’ egli indica tre argomenti: 1) talinomi sono derivati dagli appellativi delle due sole

nazionalità e perciò risultano trattati con scarsoriguardo i bošnjaki e i montenegrini; 2) tali nomipossono avere più chiavi d’interpretazione: serbo-croato potrebbe significare ‘lingua croata in modoserbo’ e croato-serbo ‘lingua serba in modo croa-to’; 3) “tutte queste denominazioni sono compro-messe in modo irreversibile dalla politica linguisti-ca di entrambi i periodi jugoslavi, quello dellaMonarchia dei serbi, croati e sloveni (SHS) e quel-lo del jugoslavismo comunista” (Brozović 2001,26), caratterizzati entrambi da sforzi perl’unificazione linguistica. Al di là della discussionesui termini da utilizzare o meno, Brozović implici-tamente mette in rilievo il suo costrutto teorico‘unica lingua comune alle quattro nazioni – diffe-renti standard linguistici nazionali’; in base a que-sto presupposto e seguendo la classificazionegenetico-linguistica, sembra che egli presuppongal’esistenza di un’unica lingua sud-slava, mentre inbase alla classificazione socio-linguistica si manife-stano più lingue standard specifiche. Sostenendo l’esistenza di una serie di criteri di dif-ferenziazione degli idiomi linguistici e appoggian-dosi al pensiero di Ranko Bugarski, MilošKovačević, nella ricerca Una lingua o tre lingue haconcluso che: “non c’è alcun dilemma: si tratta diuna lingua dal punto di vista linguistico, ma di trelingue politiche” (Kovačević 2001, 33). “È facil-mente dimostrabile che quello che fino a ieri erachiamato ‘serbo-croato’ non era altro che unadenominazione della lingua serba”, scelta per finipolitici. “E se il ‘serbo-croato’ indicava la denomi-nazione del serbo nel contesto jugoslavo, allora inbase alle regole della deduzione scientifica anchele odierne denominazioni della lingua ‘croata’ o‘bošnjaka’ non sono altro che un’ulteriore modo dichiamare la lingua serba” (Kovačević 2001, 39). Lacreazione dei nuovi standard e nuovi nomi ufficialinon vuol dire che siano nate lingue nuove.Branislav Brborić ha in sostanza esaminato lo stes-so tema dei due precedenti partecipanti dellaConferenza; tuttavia a differenza loro, nella suaricerca Trilinguismo e/o bilinguismo, egli haseguito un’argomentazione sociolinguistica,osservando quanto segue: “è vero che continua adesistere il monolinguismo standard, ma è un fattopuramente sociolinguistico che la nostra lingua[serba] è stata scomposta in tre varianti nazionali,portate al livello di lingue nazionali, e ciò ha pro-

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vocato spesso dei giudizi contrastanti relativi allaquestione se si tratti di una o più lingue, sfortuna-tamente supportati anche dal conflitto armato eproducendo non poca sfiducia reciproca nei par-lanti delle tre ‘nuove lingue’” (Brborić 2001, 58). Le ricerche successive della Dispensa Lingua edemocra tizza zione si sono, invece, concentratesul concetto del ‘nazionalismo linguistico’ e sulbisogno di sottolineare le differenze tra le varianti,di ‘inventare le proprie tradizioni’, politicizzandonaturalmente le scelte linguisticheÈ utile partire dalla considerazione di Josip Lisac,professore di Zara, contenuta nella ricerca intitola-ta Il na ziona le negli idiomi sud-sla vi, dove egli haanalizzato le potenzialità dell’orientamento nazio-nale nel campo linguistico e le conseguenti divi-sioni della lingua parlata popolare, da egli definita‘centro-sud-slava’, giungendo alla conclusione che:“non raramente si è dimostrato che non esistonocaratteristiche linguistiche che appartengono aduna sola nazione. Sicuramente esistono alcunequalità proprie dell’idioma di una sola nazionalità,ma abitualmente tali qualità non sono presenti intutti i dialetti della nazione o nell’intero territorionazionale, potendo essere invece facilmente trova-te nel linguaggio di un’altra nazionalità” (Lisac2001, 97). Milorad Radovanović, nello studio Lingua sta n-da rd, le sue va ria nti, sotto-va ria nti e rea lizza zio-ni urba no-regiona li spiega: “nella teoria linguisti-ca generale è ben noto che le lingue standard pos-sono essere ramificate e scomposte in base ad unasuddivisione territoriale in varianti e quest’ultimein un’insieme di sotto-varianti. Inoltre, è noto chenella prassi comunicativa privata e pubblica e nellarealizzazine regionale di una lingua standard, risul-tano come più importanti gli elementi in base aiquali si individuano e costruiscono le differenze especificità di una lingua. Seguendo questo quadroteorico, e avendo in mente l’esempio della ex lin-gua standard ‘serbo-croata’, nonché le sue nume-rose varianti regionali, può essere spiegato ancheil fenomeno di disintegrazione di una lingua stan-dard in una serie di varianti e i derivanti processiglotopolitici di promozione di queste varianti alivello di una serie di lingue standard diversificate”(Radovanović 2001, 149). Senza dubbio, risulta molto utile l’impegno diRadovanović nel distinguere i diversi aspetti e livel-

li nelle discussioni linguistiche: a) gli aspetti gene-tico-storici, b) gli aspetti linguistici e quelli socio-linguistici e c) gli aspetti di comunicazione e quel-li simbolici. Nello stesso modo bisogna distinguere“la linguistica e la glotopolitica, la pianificazionedella lingua e la politica linguistica” (Radovanović2001, 170). Tuttavia, dal punto di vista socio-lin-guistico, si potrebbe affermare che, nonostante lebuone basi teoriche, la debolezza del suo discorsosi ritrova nel fatto di non aver preso in considera-zione, in modo concreto nell’esempio jugoslavo,le forze sociali centrifughe che hanno causato ladivisione nazionale della preesistente lingua stan-dard comune. Al contrario, Dubravko Škiljan, nella ricerca intito-lata Le vecchie leggi linguistiche e le nuove mino-ra nze, ha constatato che “già precedentementealla dissoluzione statale, specialmente nei membriistruiti di una determinata comunità linguistica, fupresente la tendenza a ritenere la lingua una dellefondamentali identificazioni dell’identità collettivanazionale ... cosiché le questioni linguistiche sonostate nei Balcani problemi eminentemente politici”(Škiljan 2001, 181). Anche nella situazione post-conflittuale la politica continuava ad avere il ruolopredominante. Come conseguenza della guerra“nella maggior parte dei casi, i cambiamenti demo-grafici hanno comportato l’uniformazione etnicadei territori” (Škiljan 2001, 180), e “in seguito atutte le trasformazioni si creò la necessità di cam-biare anche la condizione delle minoranze lingui-stiche, soprattutto dopo che le nuove politiche lin-guistiche hanno introdotto delle novità nelle rela-zioni tra le società linguistiche maggioritarie equelle minoritarie” (Škiljan 2001, 182). Il stabilirsidelle nuove società linguistiche maggioritarie eminoritarie fu nel nostro caso alquanto particolare,perché “determinare chi può ritenersi membro diuna minoranza linguistica nel caso croato-serbo sidoveva per forza confrontare con il problema del-l’esistenza di un idioma non sufficientementediversificato o, secondo alcuni, un idioma doveaddirittura non esiste alcuna differenziazione”(Škiljan 2001, 187).Škiljan ha concluso la propria ricerca con laseguente constatazione: “parlando di minoranzelinguistiche all’interno dell’area croato-serba, tuttii processi furono indirizzati verso una loro nettadivisione; i membri di tali nuove minoranze lingui-

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stiche si ritrovarono in una situazione schizofreni-ca segnata dalle attuali costellazioni politiche edideologiche, la cui consegenza finale potrebbeessere la messa a repentaglio della loro identitàcollettiva ed individuale” (Škiljan 2001, 188).Anche Milorad Pupovac all’inizio dello studio Duea spetti della situa zione post-moderna della sta n-da rdizza zione linguistica , mette in evidenzaquanto la politica e il nazionalismo hanno incisosulle numerose suddivisioni territoriali, politiche oetniche della lingua. “Al centro dell’interesse delpensiero modernistico si trovano il garantire dellalibertà d’espressione, l’esistere di un mezzo adattodi comunicazione, lo sviluppo dei canali comuni-cativi pubblici e la formazione dei soggetti e istitu-zioni che offrono un efficace meccanismo di rego-lazione e controllo”. Partendo dalla tesi che “lastandardizzazione di una lingua si realizza attraver-so quello che Pupovac definisce “il discorso dellanazione - prassi discorsiva” (Pupovac 2001, 195),egli distingue nettamente il discorso della nazionee la lingua dello Stato, affermando che “negli ulti-mi dieci anni, nell’area della ex Jugoslavia, i pro-cessi di standardizzazine hanno permesso la realiz-zazione e la prevalenza del ‘discorso della nazione’sulla ‘lingua dello Stato’”, (Pupovac 2001, 196); lalingua diventò così un simbolo della nazione e nonsimbolo dello Stato. Lo studio di Josip Baotić s’intitola La lingua nelprocesso di integra zione e disintegra zione dellacomunità socia le. Appoggiandosi alle tesi di V.Gak, che “pose l’attenzione sul fatto che, neglispazi dell’America come anche in quelli europei,nonostante i processi di globalizzazione, caratteriz-zati dalle tendenze integralistiche economiche epolitiche, si manifestano in modo sempre più evi-dente le tendenze di diversificazione linguistico-culturale”, Baotić afferma: “la dissoluzione dellostandard linguistico dei bošnjaki, montenegrini,croati e serbi sarebbe accaduta anche senza la dis-gregazione della loro unità statale. I processidemocratici nei nostri territori hanno permessotale evoluzione, causando in una società multina-zionale, quale era la nostra, che aveva le basi lin-guitsiche in un diasistema, la estinzione dellacomune lingua standard” (Baotić 2001, 203).“Secondo me”, prosegue Baotić “la gran partedelle nostre problematiche linguistiche, comeanche i malintesi e l’allontanamento tra le nazioni,

hanno le proprie origini nel nazionalismo linguisti-co, fortemente radicato soprattutto negli studi enegli scritti delle nuove generazioni degli espertidi grammatica, che affermarono con insistenza chela lingua rappresenta un’emanazione dello spiritodel popolo, spiegato attraverso la formula sempli-ficata: lingua = popolo, ossia popolo = lingua. Diconseguenza questo ha avuto diverse interpreta-zioni, di cui la più significativa risulta quella secon-do la quale solamente partendo da una lingua puoirisalire all’identità nazionale; un popolo o unanazione sono tali se riescono a mostrare o provarela propria specificità linguistica” (Baotić 2001,207). Il processo di affermazione nazionale è stato,dunque, accompagnato da un imponente sforzonormativo, finalizzato non solo a descrivere enormalizzare ciascuno standard ma anche adaffermarne e a potenziarne le differenze rispettoagli altri standard successori del serbo-croato.Baotić prosegue dicendo che negli ultimi anni il‘nazionalismo linguistico’ dei Balcani diventò un‘nazionalismo della lingua’, che aveva come com-pito primario quello di convincere gli individui“non come dovrebbero scrivere e parlare, macome devono scrivere e parlare se sono serbi,croati o bošnjaki, a chi di loro sia proibito parlarela lingua serba, croata o bošnjaka, e quali novitàinaugurate dalle rispettive nuove norme linguisti-che devono essere introdotte e incorportte nelproprio idioletto decidendo anche quali paroledelle parlate altrui devono essere riggettate”(Baotić 2001, 211). Non è un caso che il conflittosia stato preparato da un decennio di ‘guerra delleparole’ per conquistare l’omogeneità nazionale nellinguaggio ufficiale e pubblico, nei giornali, nellestazioni televisive e nelle scuole, per poter poipassare alla guerra vera.Nello scritto intitolato Le società democra tichea fferma no la diversità , Ljiljana Stančić ha messoin rilievo in che modo la democratizzazione puòservire a superare le problematiche rilevate daglialtri autori: “bisogna accettare la diversità linguisti-ca, affermare il diritto alla diversità e alla libertàindividuale, perché soltanto le società democrati-che e gli individui liberi possono diventare i porta-tori di una coscienza che non vuole alcuna supre-mazia di qualsiasi formula culturologica o etnica”(Stančić 2001, 215). In tale contesto “le lingue stan-dard, quali simboli e l’incontro delle diversità

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dovrebbero essere definite in modo oggettivo, permezzo di misure linguistiche e sociolinguistiche,tenendo sempre presente che un idioma standardha due funzioni principali, quello comunicativo equello simbolico. Questo, tuttavia, significa che lalingua standard quale valore comunicativo bisognasia definita in base alle misurazioni linguistiche,mentre la sua essenza potrebbe essere trovata inuna dimensione simbolica; in altre parole dalpunto di vista sociolinguistico la lingua deve esse-re valutata in base all’identità dei suoi utenti, gra-zie ai quali esiste e grazie ai quali riesce ad essereuna componente dinamica” (Stančić 2001, 215).Esaminare le motivazioni che, dopo quasi duesecoli di sforzi per l’unificazione linguistica, hannocondotto al prevalere delle forze centrifughe neiPaesi slavi meridionali con comune lingua stan-dard neo-štokava significa che, pur partendo dalfatto che in Jugoslavia, il termine ‘serbo-croato’indicava più di una semplice comunanza linguisti-ca, è necessario porsi nella mutata realtà politico-culturale e sociolinguistica degli Stati successoridella ex Jugoslavia e cercare di confrontare dueposizioni radicalmente contrapposte: la negazionedi qualsiasi comunanza linguistica sia nell’attualitàsia in prospettiva storica e l’affermazione dell’esi-stenza di una unica lingua standard serbocroatarealizzata in diverse varianti nazionali. Tra questidue estremi, si colloca una serie di varie posizionicon un atteggiamento più cauto, che rivelano laconsapevolezza della complessità della situazionesocio-lingistica attuale senza proporre delle solu-zioni ‘rigide’ alla questione linguistica dei Balcani. La maggior parte dei linguisti, indipendentementedalla loro nazionalità, concordano nel riconoscereuna forte funzione simbolica della lingua, soprat-tutto nell’affermazione dell’identità nazionale oetnica. Va osservato che molti di loro parlano di unsolo standard monolingistico con diversi centri direalizzazione concreta e dell’esistenza di una seriedi varianti nazionali, mentre altrettanti si sofferma-no sulla strumentalizzazione politica e sulla mani-polazione della lingua in vista dell’attuazione deifini politici unionisti o separatisti.Accanto alla forte contrapposizione delle posizioniestreme, emerge una maggioranza preoccupata,che di fronte alla problematicità formale esostanziale della situazione linguistica ex jugoslavasi dichiara consapevole della necessità di dialogo e

di riavvicinamento culturale-politico tra coloro,che pur non volendo più essere confusi con ipropri vicini, non possono negare la quasi totalecomprensibilità reciproca.

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Giuseppe Gangemi

La libertà come non interferenza arbitraria:libertà dal dominio e dalla corruzione -Pettit, Philip, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertàe del governo, (Milano, Feltrinelli 2000)

Il Sestante

Quello che vado a presentare viene considerato ilterzo grande libro del neorepubblicanesimo. I pre-cedenti, già presentati in questa rivista, sono: JohnPocock, Il momento ma chia vellia no. Il pensieropolitico fiorentino e la tra dizione repubblica naa nglosa ssone (in due voll.: Il pensiero politico fio-rentino; La “Repubblica ” nel pensiero politicoa nglosa ssone), prima edizione 1975; QuentinSkinner, Le origini del pensiero politico moderno(in due voll.: Il Rina scimento; L’età dellaRiforma ), prima edizione 1978. La prima edizionedi questo volume di Pettit è del 1997.I due scritti di Pocock e Skinner sono due ricerchestoriografiche sulla letteratura e presentano iltaglio tipico della ricerca storica; lo scritto di Pettitè diverso in quanto si presenta soprattutto comeuna riflessione teorica. Per questo, qua e là, risultameno convincente. Ma vediamo di che cosa esatta-mente ci parla Pettit. Egli comincia con il confrontarsi con la definizionedel concetto di libertà; un concetto che intendecome lo strumento attraverso cui conciliare l’indivi-duo come valore intrinsecamente sociale e l’indivi-duo come valore istintivamente soggettivo. Eglipensa che, per meglio definire la libertà, occorradistinguere tra l’interferenza per conseguire unbene comune e l’interferenza arbitraria (pp. 3-4).Una distinzione di questo genere gli permette diarrivare alla definizione di libertà come non domi-nio, cioè ad una condizione nella quale sia possibileguardare l’autorità diritto negli occhi, faccia a faccia.

Mi si permetta di sostenere che questa definizionedi libertà come non dominio ha origine nel primogrande libro della cultura occidentale, la Bibbia. Inquesto libro, che Pettit non cita mai nel suo volu-me, gli incontri di Mosé con l’Onnipotente sonodescritti come incontri faccia a faccia. Mosè, silegge nella Bibbia, incontra il Creatore faccia a fac-cia e ci ragiona, argomentando anche in modo taleche finisce per convincere il Creatore a cambiarepropositi. L’argomento definitivo di Mosé è chenon è giusto che l’Onnipotente rompa il patto conla stirpe di Abramo solo perché una minoranzadella stirpe di Abramo, alle pendici del monteSinai, lo ha rinnegato come Dio e si è costruito unidolo d’oro.Più concretamente, il punto di partenza del con-cetti di libertà come non dominio, Pettit lo indivi-dua nel linguaggio legato al rifiuto di essere domi-nati che si afferma a Roma nel primo secolo avantiCristo (cioè dodici secoli dopo Mosé). Pettit asso-cia il concetto a una tradizione politica che comin-cia con Cicerone e Sallustio, viene ripresa nellaFirenze del Rinascimento da Machiavelli e vienerilanciata nel mondo anglosassone da JamesHarrington. Pettit ci tiene, inoltre, a sottolineareche questo concetto di libertà come non interfe-renza arbitraria (dove la semplice interferenza nonsi configura come dominio, ma solo l’interferenzaarbitraria) non è presente solo in questi grandiautori, che ci sarebbero arrivati per la loro gran-dezza e per la specificità del loro punto di vista;

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Giuseppe Gangemi La libertà come non interferenza arbitraria

questa concezione della libertà esisterebbe e sisarebbe affermata in tutte le società in cui proble-matico è sia il rapporto padrone-servo (o schiavo),sia il rapporto uomo-donna, sia il rapporto padre-figlio. Ecco perché, mi permetto di aggiungerequalcosa che Pettit non considera: questa conce-zione della libertà viene elaborata da Mosé e pro-posta alla società dei figli di Israele in fugadall’Egitto. Quella società è, infatti, una società dischiavi che si sono liberati da un padrone che siconcepiva anche come la divinità suprema vivente.Non stupisce, quindi, che gli Ebrei impostino ilrapporto tra Dio e il Suo primo profeta come unrapporto di non dominio, come l’esigenza profon-da di una società di individui che non voglionoavere più alcun padrone, di donne che non voglio-no più farsi picchiare, di debitori che non voglionoche la loro vita dipenda dalla volontà del creditore,etc. E si può persino arrivare a ipotizzare che laconcezione della libertà come non dominio siacongeniale anche a una società in cui i cittadininon vogliono venirsi a trovare a dipendere daun’assistenza sociale che un burocrate può, arbi-trariamente, decidere di negare.Ma, se questo è vero, se questa è la caratteristica diquesta concezione della libertà, perché sta ritor-nando di moda proprio adesso, nell’ultimo quartodel secolo XX, esattamente dopo i “trenta anni glo-riosi”? Perché, inoltre, questa vecchia concezione,apparentemente superata dalla storia, riappareproprio nelle maggiori democrazie occidentali? Lamia spiegazione è che, a parte la breve parentesidei “trenta gloriosi”, il secolo XX è caratterizzatoda un valore eccessivo dato al problema dell’iden-tità collettiva; un problema a cui è stata data, neiprimi venti anni del secolo (fino alla disgregazionedell’impero austro-ungarico), una provvisoria solu-zione attraverso la sicurezza garantita dai confini ditante nuove nazioni omogenee sul piano etnico osul piano culturale. Il XX secolo è caratterizzatodalla crisi di tutte le soluzioni “austro-ungariche”adottate in Europa (vedi, per esempio, il caso dellaJugoslavia sgretolatosi tra mille violenze e violazio-ni dei diritti umani a partire dalla morte di Tito).Sotto l’onda della globalizzazione, i confini si stan-no facendo più fragili verso l’esterno, mentre altrifattori culturali stanno rendendo sempre meno

sicure le garanzie di sicurezza interne ai singoliPaesi. Si sta sviluppando, attraverso lo sviluppo delconvenzionalismo logico e del decisionismo, chescioglie i vincoli del diritto naturale e della tradi-zione in nome del nulla normativo, un pensierototalizzante che trova alimento nella scienza dellasocietà (del resto John Stuart Mill avvertiva di que-sto pericolo, nel saggio On Liberty, proprio conriferimento al pensiero dello scienziato socialepositivista Auguste Comte). Vi è, più evidente in Comte, ma presente anche inmolti scienziati sociali neopositivisti, una dimen-sione totalizzante sotterranea che si manifestanella forma di disconoscimento del valore degliargomenti degli avversari. Questo disconoscimen-to deriva dal fatto che la classificazione, nella con-cezione neopositivista, è generalizzazione delladimensione empirica e statistica senza filtri, cioèsenza riduzioni. Un neopositivista deve portarsinelle classificazioni che adotta tutto ciò che avvie-ne e tutto considerarlo rilevante. E quando è pale-se che un nuovo fenomeno non si riesce a inseriredentro le vecchie classificazioni (perché questofenomeno manifesta qualche accidentalità che nonsi riscontra nei fenomeni già classificati), deve pro-durre dei nuovi concetti per differenza o antitesi aiprecedenti. Solo per fare un esempio, mi riferirei al caso dialcune opere di studiosi italiani di scienza politica(Tarchi, L’Ita lia populista . Da l qua lunquismo a igirotondi, Roma-Bari, Laterza 2003; MastropaoloA., Antipolitica . All’origine della crisi ita lia na ,Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2000;Mastropaolo A., La mucca pa zza della democra -zia . Nuove destre, populismo, a ntipolitica ,Torino, Bollati Boringhieri, 2005). Il primo, Tarchi,tratta il tema del populismo e accusa di populismovari attori politici che hanno concorso al manife-starsi di fenomeni nuovi (a cominciare dai movi-menti collettivi per arrivare a Silvio Berlusconi),mentre il secondo definisce espressione di antipo-litica gli attori implicati nella stessa serie di feno-meni nuovi. Sia il concetto di populismo che ilconcetto di antipolitica vengono utilizzati per spie-gare ogni nuovo fenomeno che non sia assimilabi-le alle categorie convenzionalmente concordate econdivise dalla standard view empirista.

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Quello che i due studiosi, ma anche altri che con-dividono la stessa impostazione empirista, risolvo-no con delle attribuzioni di responsabilità agliavversari, o a una parte politica, andrebbe inveceaffrontato in termini più generali, riconoscendoche vi è, speculare al pensiero totalizzante sotter-raneo veicolato dalla cultura del XX secolo, unrifiuto di alcune identità collettive di diventareminoranze di altre maggioranze. Una tendenza chesi è manifestata in modo esplosivo nei Balcani, mache si sta presentando anche (a partire dalla finedella Prima Repubblica, dove ancora il PCI avevaaccettato di essere minoranza della maggioranzaDC o di centrosinistra) in Paesi come l’Italia. Loprova la difficoltà della sinistra di riconoscere la vit-toria delle destre italiane guidate da SilvioBerlusconi, nel 1994, e nel 2001; e lo prova anchela difficoltà della destra di riconoscere la vittoriadella sinistra nel 1996 e, soprattutto, nel 2006. Dichi la responsabilità? Della destra populista(Tarchi) ed espressione di antipolitica(Mastropaolo)? Sì, è vero, non si può dimenticarefacilmente il “Non faremo prigionieri!” proferito daCesare Previti nel 1994! Ma è anche vero che nonsi può facilmente dimenticare nemmeno il linciag-gio morale del primo ministro in carica, SilvioBerlusconi, per un problema di conflitto di inte-ressi dal quale la sinistra non è senza peccato.Insomma, Pettit ci viene a dire che, in un contestocome quello italiano, dove le opposizioni sempremeno accettano di essere minoranze di altrui mag-gioranze, e dove il conflitto di interessi e la corru-zione sembra sempre di più essere prassi costantedi governo, non si può fare a meno di ricorrere aun vecchio concetto di libertà: la libertà come noninterferenza arbitraria, la libertà come non domi-nio. Pettit, infatti, ci ricorda che, nei confronti delcarattere della legge, il principale vincolo daimporre all’oligarchia che viene posta al comandoè la coltivazione della virtù e l’astensione dalla cor-ruzione, perché la corruzione è sempre dominio.È per questo collegamento tra corruzione (man-canza di onestà e virtù) e dominio che questa con-cezione della libertà si posiziona in modo privile-giato nella dimensione verticale della politica, cioènella dimensione del rapporto capo/gregari. Inquesta dimensione, la libertà come non dominio

viene garantita dalla costante e assidua vigilanza ache la classe dirigente si mantenga onesta, facciaun ricorso limitato e rispettoso all’uso legittimodella forza, eviti i conflitti di interessi e, soprattut-to, adempia alle condizioni più radicali del princi-pio della certezza del diritto (una posizione radica-le che è simile, se non identica, a quella teorizzatada Bruno Leoni in Freedom a nd the La w). Infatti, nella concezione di Pettit, la libertà comenon dominio presuppone che si privilegi - e quiricorro a una terminologia proposta da BrunoLeoni, anche se il concetto di regolazione viene daPettit assunto dal volume Responsive regula tion diI. Ayres e J. Braithwaite, (N. Y., Oxford UniversityPress, 1992) - la dimensione regolativa (dove perregolativo si intende che la regola viene stabilitanella società e fissata nella costituzione così comeè raccolta) alla dimensione costitutiva-regolativa(dove la regola viene costituita ex novo, indipen-dentemente dai precedenti e in base a un disegnoideologico di chi ha il potere di deciderla). La dimensione regolativa sarebbe più presentenella Costituzione degli Stati Uniti, mentre ladimensione costituitiva-regolativa sarebbe più pre-sente nella Costituzione francese. Questo perchéquesta seconda Costituzione, come ha insegnatoDaniel J. Elazar, era espressione di un GrandeDisegno (da ciò il costitutivo-regolativo), quel tipodi disegno che, quando basato sulla scienza, sichiama illuministico, e quando si basa sulla forza,viene definito giacobino; invece, la CostituzioneU.S.A. è stata ed è solo uno strumento che tuttihanno potuto proficuamente bistrattare, cercandodi portarla in tutte le direzioni proprio per utiliz-zarla a proprio vantaggio, a causa della sua mag-giore flessibilità. Ne è seguita una serie di effettiimprevisti che, sia attraverso la stesura degli arti-coli della Costituzione, sia attraverso l’implemen-tazione che ne è seguita, ha fatto dellaCostituzione U.S.A. uno dei migliori e più stabilistrumenti di garanzia e di democrazia.Questo malgrado le rivoluzioni francese e america-na, come riconosce anche Michel Foucault, sianostate, agli inizi, identiche nelle intenzioni, in quan-to le rivoluzioni sono sempre rivolte di condotta,cioè rivolte contro la condotta della classe dirigen-te ed abbiano avuto, come suggerisce Pettit,

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entrambe la stessa aspirazione: ottenere la libertàcome non dominio. In entrambe le nazioni, con-clude Pettit, quest’aspirazione era stata più omeno tradita, anche se è stata più tradita in Franciache in U.S.A. Più precisamente, spiega Pettit, la prima e maggio-re crisi della libertà come non dominio è comin-ciata verso la fine del XVIII secolo, quando si ècominciato a pensare alla libertà in modo menoesigente perché si è pensato che non si potesseconcedere la libertà come non dominio ai servito-ri e alle donne (ciò è successo sia negli Stati Unitiche in Francia, subito dopo le relative rivoluzioni).Solo che, in Francia, il tradimento è stato moltomaggiore che negli U.S.A., dove nella concezionedella Costituzione e nella prassi di governo, è rima-sto qualcosa della concezione prerivoluzionaria dilibertà. Questo residuo è l’elemento regolativodella Costituzione U.S.A.Come si vede, l’impostazione di Pettit al tema dellalibertà non è conciliabile con quella di Isaia Berlinche si basa sulla convinzione che esistano solo duetipi di liberà: la libertà da e la libertà di, cioè lalibertà negativa (libertà da ogni interferenza, nonsolo da quella arbitraria) che si riconosce nel fattoche nessuno interferisce nelle tue attività e la liber-tà positiva che si consegue con la padronanza disé, con la capacità di fare. Nel formulare la propria impostazione al temadella libertà, Berlin aveva ripreso BenjaminConstant che aveva distinto le due libertà comelibertà degli antichi e libertà dei moderni. Berlin vivede qualche cosa in più: la libertà negativa, eglidice, si trova in Hobbes, Bentham e Mill, inMontesquieu, Constant e Tocqueville, in Jeffersone Paine; la libertà positiva si trova in Herder,Rousseau, Kant, Fichte, Hegel e Marx, in raggrup-pamenti religiosi, in pensatori radicali, in ideologidel totalitarismo.In questo senso, Pettit sostiene che la distinzionedi Berlin ha reso un cattivo servizio alla riflessionepolitica. Questo perché la libertà negativa spinge-rebbe verso l’espansione del privato (attraverso lanon interferenza senza distinzione tra quella arbi-traria e quella lecita) e la libertà positiva spinge-rebbe verso l’espansione del pubblico (attraversola costruzione di un uomo nuovo ideologico).

L’ideale prerivoluzionario americano era centratosulla libertà come non dominio, mentre l’idealedella libertà come non interferenza (senza distinzio-ni) era sostenuto da coloro che hanno difeso finoall’ultimo gli interessi della corona britannica. Ladefinizione di libertà come non interferenza arbitra-ria, come non dominio, sarebbe una sintesi delledue libertà di Berlin, una posizione intermedia.Pettit così sintetizza il problema: la libertà negativasi ha con l’assenza di interferenza da parte di altri(p. 32); la libertà positiva aspira ad ottenere lapadronanza di sé; la mediazione tra le due prece-denti libertà, la libertà come non dominio, implical’assenza di padronanza da parte di altri; la media-zione tra le due libertà nella versione di Berlin stanell’avere privilegiato il riferimento all’assenza enon alla presenza e nell’avere considerata centralela padronanza e non l’interferenza (p. 32).La necessità di distinguere tra interferenza arbitra-ria e non nasce da vari fatti: 1) io posso esseredominato da qualcuno che, per suo animo gentile,non interferisca effettivamente in alcune delle miescelte fidando nel fatto che io mi adeguerò permancanza di alternative; 2) vi può anche essereinterferenza senza pretesa di dominio, come quan-do io interferisco per amore o bontà d’animo ecerco di aiutare altri a realizzare un proprio inte-resse; 3) vi possono essere anche interferenze nonintenzionali, come quella che mi vede occuparel’unico parcheggio libero togliendolo a chi arrivadopo di me; 4) vi sono, infine, le interferenze nonarbitrarie, come quella di un genitore che agiscenel nome e nell’interesse dei figli non maturi peraffrontare da soli una situazione in cui si sianovenuti a cacciare. La libertà come non dominio, inoltre, riguarda igovernati perché nasce dal desiderio di non esserearbitrariamente governati e quella come non inter-ferenza (senza distinzioni) riguarda i governantiperché nasce dal desiderio di non avere ostacoli oimpedimenti nel governare o dominare. Pettitattribuisce a Machiavelli, che lo avrebbe scritto aproposito dei romani nei Discorsi sopra la primadeca di Tito Livio, la prima esplicita definizionedella libertà come desiderio di non essere gover-nati (p. 38). Questa principio di libertà come desi-derio di non essere governati, che produce sicu-

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rezza, “secondo Machiavelli, può essere garantitomeglio in democrazia, ma il pensatore fiorentino èdel tutto esplicito nel riconoscere che è possibileottenere un simile beneficio anche nelle monar-chie” (p. 39).Per questa via, si finisce per collegare la libertàcome non dominio con il concetto di federalismoantropologico, da me elaborato per spiegare ilmodello di sviluppo veneto (Gangemi, G., La que-stione federa lista . Za na rdelli, Ca tta neo e i ca tto-lici brescia ni, Torino, Liviana-Utet, 1994). In unpasso del suo scritto, Della storia dei feudi, con laquale contrappone la propria concezione del fede-ralismo antropologico al testo La Città di Cattaneo,Zanardelli presenta un aneddoto riferito all’incon-tro tra Federico Barbarossa in Italia e un uomo cheviene definito indipendente, cioè libero, perché, permantenersi, vive del suo. Esattamente la stessa defi-nizione di Harrington, riferita da Pettit. PerHarrington, infatti, “un uomo che non ha i mezzi pervivere non può che essere servo; ma un uomo chepossiede tali mezzi può essere libero” (pp. 44-45). Rientra sempre in questa linea di sviluppo anche ilconcetto di federalismo di fatto elaborato da Elazare persino l’esperienza della Kehillah all’interno deighetti ebrei (la Kehillah era del resto una dellefonti di ispirazioni implicita del federalismo antro-pologico veneto dal momento che tre protagonistidi questa esperienza politica erano di origineebraica: Daniele Manin, Emilio Morpurgo e LuigiLuzzatti). Come era stato intuito da Harrington, e recente-mente affermato da Maitland e Nippel, l’obiettivodella libertà come non dominio è quello di viverecon i propri mezzi, non quello di partecipare algoverno.In aggiunta a quanto già detto, si può anche soste-nere che la libertà come non interferenza (senzadistinzioni) si concilia con la concezione élitistadella libertà, la concezione secondo la quale si puòdefinire la democrazia come la capacità dei gover-nati di svolgere un ruolo di arbitro tra le contrap-poste oligarchie governanti. La libertà come nondominio potrebbe, a sua volta, conciliarsi con laconcezione della democrazia deliberativa, la con-cezione secondo la quale si può definire la demo-crazia come la capacità dei governanti di svolgere

un ruolo di arbitro (garante di logica, etica e dirit-to naturali) di fronte alla cittadinanza che si rendeattiva, cioè partecipa. Infatti, citando Trenchard eGordon, Pettit sottolinea che “La libertà vera eimparziale è pertanto il diritto di ogni uomo di per-seguire i dettami naturali, ragionevoli e religiosidella propria mente” (p. 41). In questo, Pettit nonè molto chiaro perché afferma che la libertà nega-tiva è congeniale alla democrazia rappresentativa omaggioritaria, mentre quella positiva è congenialealla democrazia deliberativa, che egli definiscepopulista: “La libertà positiva viene interpretata inchiave populista come partecipazione democrati-ca, una simile scelta non richiede particolari giusti-ficazioni: un ideale partecipatorio del genere, infat-ti, la prospettiva di essere personalmente soggettialla volontà di tutti non può che apparire ben pocoallettante” (pp. 101-2). In questo, Pettit si affiancaalla concezione élitista della scienza politica cheassimila partecipazione a governo, mentre dovreb-be assimilare la partecipazione ad autogoverno. Infatti, la democrazia rappresentativa o maggiorita-ria può essere definita come la capacità di svolgereun ruolo di arbitro tra le contrapposte oligarchiegovernanti che dichiarano essere la propria lamigliore soluzione pratica dei problemi generali edell’agenda di problemi specifici. In un contesto incui il popolo (il corpo elettorale o, più realistica-mente, gli individui-elettori) non riesce più a svol-gere il proprio ruolo di arbitro perché non valutapiù la realtà, ma viene portato – dai mass media edalle retoriche imperanti - a valutare provvisori eartificiali spezzoni di realtà, comincia a sentirsisempre più il bisogno di una diversa concezionedella democrazia che viene intesa non più comel’arbitraggio del popolo nei confronti di oligarchiein competizione nella manipolazione della realtà,ma come la richiesta di una realtà che viene diret-tamente agita dalla cittadinanza di fronte a un’oli-garchia di rappresentanti del popolo che svolge ilruolo di arbitro. In questa seconda definizionedella democrazia deliberativa, la partecipazionenon è governo in quanto è autogoverno, cioè capa-cità di soddisfare la propria esigenza di fare da sé,di esercitare la propria padronanza di sé.Pettit ritorna sulla svolta operata dalle vittorioserivoluzioni U.S.A. e francese per sottolineare che

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esse sono espressione di una motivazione cheviene poi tradita: “Il crescente impegno a favoredella democrazia che si rende visibile a partire dalXVII secolo – la teoria del governo basata sullaconvenzione, così come l’ha definita [Maitland] –fosse inizialmente motivato dal desiderio di sot-trarre potere arbitrario allo stato, ma che abbiacondotto, in conclusione, a una affermazione dellademocrazia maggioritaria che ha finito per con-traddire questa aspirazione originaria” (p. 42).Per quanto riguarda il rapporto tra libertà e legge,la libertà come non dominio sostiene che la liber-tà viene fondata dalla legge, quando la legge siastata congegnata in maniera appropriata, cioèrispettando la rule of la w, ovvero la condizione incui l’impatto della legge è esclusivamente regolati-vo e non costitutivo-regolativo. Per una maggiore comprensione di quest’afferma-zione, occorre fare una precisazione di natura lin-guistica: nella concezione hobbesiana della legge,la costituzione di una legge viene definita comeregolazione. In una definizione riportata da Pettit,così Hobbes definisce la libertà ne Il Levia ta no:“La libertà di un suddito consiste, pertanto, solo inquelle cose che il sovrano, nel regolare le sue azio-ni, ha omesso” (p. 51). In questa citazione, il con-cetto di regolazione viene utilizzato come sinoni-mo di produzione di norme (indipendentementeda ogni vincolo, in base alla sola sovranità o, se sivuole, al solo fatto di disporre del monopolio del-l’uso legittimo della forza). Secondo una teoriaalternativa della regolazione che ha trovato la pro-pria prima formulazione implicita (senza riferi-mento al termine regolazione) in Vico e Locke e lapropria formulazione esplicita (con riferimento alconcetto di regolazione derivato dall’uso che ne hafatto Kant) nelle opere di Rosmini, di Polanyi (sia ilnoto economista Karl che il fratello chimico e filo-sofo Michael), di Foucault e di altri, per regolazio-ne si intende quella produzione di norme che arri-va alla fine di un processo che ha già affermatocome dettami “naturali” (della mente) quei com-portamenti che la norma stabilizza.Vi sono, quindi, due diverse concezioni della rego-lazione: la regolazione adattava che è l’unica basa-ta sulla rule of la w, cioè sul fatto che nessun uomosia sottomesso ad altri uomini in quanto tutti sono

sottomessi alla legge; la costituzione regolativache non è basata sulla rule of la w in quanto è arti-ficialmente e convenzionalmente costituita dauomini che la impongono ad altri uomini e licostringono a processi di adattamento che sonosubiti e costituiscono l’impatto costitutivo dellaregolazione. La regolazione adattiva si ha quando la legge siadatta, per via evolutiva, agli uomini e la costitu-zione regolativa si ha quando sono gli uomini adoversi adattare alla legge. Tre concetti, quindi,per una concezione vichiana-kantiana-rosminianadella regolazione: regolazione adattativa, costitu-zione regolativa e impatto costitutivo (che c’è conla seconda e non c’è con la prima forma di regola-zione). Due concetti, invece, per una concezionehobbesiana-hegeliana della regolazione: regolazio-ne tout court (sempre costitutiva) ed impatto diregolazione (sempre elevato).La prima esplicita formulazione della regolazioneadattiva la si trova in von Hayek il quale, in alcunisuoi scritti, ha formulato una teoria, poi ripresa erilanciata da Bruno Leoni, secondo cui “l’interfe-renza di un certo tipo di legge – una legge pro-dotta da un determinato processo di evoluzione,una legge che sia per certi aspetti intrinsecamentegiustificabile – non sia in verità lesiva della libertà”(citato da Pettit 2000, p. 65, nota 9). Detto in altritermini, abbiamo sempre un impatto della normasulla società, cioè una modifica della vita quotidia-na e delle attività di coloro ai quali la norma siapplica: quando questo impatto è minimo, il pro-cesso evolutivo che ha portato alla produzione diuna norma non implica alcuna forma di dominio(dell’uomo su altri uomini servendosi della legge)e si parla di regolazione; quando questo impatto sifa sentire in forma di interferenza della vita quoti-diana e dell’attività, vi è sempre una qualche formadi dominio e la produzione di quella norma non èpiù il risultato di un processo, bensì è la produzio-ne costitutiva di una convenzione o artificio a cui lasocietà deve adattarsi (in questo caso la produzio-ne di norme è costitutiva e non regolativa).I sostenitori della teoria secondo la quale la libertàè libertà dalla legge (Hobbes) perché la produzio-ne di norme è sempre costitutiva e i sostenitoridella teoria secondo la quale la libertà è libertà in

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virtù della legge (Locke) perché la produzione dinorme è o deve essere regolativa, concordano neldefinire liberi gli individui che non subisconointerferenza e dominio e nel definire non libericoloro che subiscono interferenza o dominio.Dove non concordano è quando la situazione chesubiscono è di interferenza e non di dominio oviceversa.Nel secondo capitolo viene affrontato il problemadi specificare le caratteristiche del dominio. Essesono tre:1) la capacità di interferire;2) l’interferenza arbitraria;3) l’interferenza che si realizza in cose che l’altro ènella condizione di poter fare.Gli altri tipi di interferenza non hanno a che fare conil dominio. Inoltre, il dominio può variare in esten-sione e in intensità; in alcuni casi ci può esseredominio in più settori e in alcuni settori il dominiopuò essere più grave che in altri. Inoltre, può anchedarsi che esista un dominio anche laddove questodominio non viene esercitato effettivamente, mapotrebbe essere esercitato solo se la persona in con-dizioni di esercitarlo lo volesse. Al contrario, invece,può succedere che qualcuno interferisca sugli altrisenza per questo esercitare alcun dominio. Questocontribuisce a fare del concetto di dominio qualco-sa che si può constatare solo in corso di azione enon in astratto, in via teorica. Gli effetti del dominio su un individuo sono: 1) l’insicurezza perché l’interferenza arbitraria puòscatenarsi in qualsiasi momento;2) la necessità di dotarsi di una strategia di defe-renza e prudenza;3) la subordinazione alla volontà o arbitrio altrui.Infine, Pettit sostiene che “uno degli insegnamentipiù ricorrenti del pensiero repubblicano … è chenel momento in cui lo stato entra in possesso deimezzi e dei poteri necessari per assolvere inmaniera sempre più adeguata il suo ruolo di pro-tettore – nel momento in cui, per esempio, si dotadi un esercito, di un corpo di polizia o di un servi-zio di sicurezza sempre più imponente – divieneesso stesso una minaccia alla libertà come nondominio, una minaccia persino superiore a ognialtra minaccia che esso si propone di eliminare”(p. 130). Nello stesso tempo, però, “la libertà inte-

sa come non dominio è definita nei termini dellaquantità e della qualità della protezione contro gliatti d’interferenza arbitraria di cui il soggetto gode”(p. 134). La contraddizione tra queste due esigen-ze deriva dal fatto che la libertà come non dominioè un fatto concreto e non teorico ed è, quindi, unfatto che si definisce e si articola all’interno di uncontesto concreto e delle visioni della politica cheinterpretano questo contesto. In altri termini, lalibertà come non dominio non è definibile inastratto perché muta le proprie caratteristiche inrelazione a ciò che più determina insicurezza inuna data situazione e in un dato momento: se loStato che interviene troppo o lo Stato che non for-nisce abbastanza protezione contro gli atti di inter-ferenza altrui. La conclusione è che quello che puòcostituire sicurezza per una generazione può esse-re considerato dominio dalla generazione succes-siva. Il che implica, tra le altre cose, che la demo-crazia non può mai dirsi compiuta e che la qualitàdella democrazia si configura come la capacità diinterferire su tutti coloro (i soggetti pericolosi) chehanno la possibilità di interferire sugli altri o sucoloro che hanno potere (dai quali ci si deve aspet-tare più virtù che dagli altri) e come la capacità difornire sicurezza a chi (i soggetti vulnerabili) nonha possibilità di interferire sugli altri. Tra i soggettipiù pericolosi, infine, vanno annoverati coloro chepossono esercitare l’abuso pubblico del dominio,più che coloro che possono esercitare l’abuso pri-vato del dominio.Una delle ultime conseguenze della concezionedella libertà come non dominio è che può essereconsiderata superata la contrapposizione tra indi-vidualismo e com’unitarismo. Infatti, vi sono fon-date ragioni per sostenere che questa concezionedella libertà sia conciliabile con il liberalismo e ilcomunitarismo. Ogni bene individuale derivatodall’esercizio del non dominio “sarà un bene par-zialmente comune nella misura in cui non puòessere incrementato per uno senza che sia incre-mentato per qualcuno; sarà un bene pienamentecomune nella misura in cui non può essere incre-mentato per uno senza essere incrementato pertutti” (p. 148). La libertà come non dominio è alcontempo un bene sociale e un bene comune.“Godrai pertanto di una condizione di non domi-

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Giuseppe Gangemi La libertà come non interferenza arbitraria

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nio solo a patto che tale condizione sia garantita atutti coloro che, per così dire, appartengono allatua stessa classe di vulnerabilità” (p. 149). In que-sto contesto, ha ugualmente senso parlare dellalibertà di Firenze e della libertà dei fiorentini comedella stessa cosa: la libertà di Firenze è la libertà deifiorentini. Invece, nella concezione di Hobbes,nella concezione della libertà come fatto costituti-vo e non regolativo, la libertà di Firenze e la liber-tà dei fiorentini possono avere seguito percorsidiversi se non addirittura inconciliabili.La seconda parte del volume di Pettit è dedicata aindicare quali sono le istituzioni che possono esse-re il risultato della concezione della libertà da luipropugnata. La prima istituzione è il linguaggio: ilnon dominio fornisce un linguaggio adatto a darevoce alle proteste. Una donna o un servo, tipichecategorie sottoposte al dominio del padrone e delcapofamiglia, non potrebbero mai descrivere leproprie rivendicazioni in termini di libertà comenon interferenza, mentre possono benissimo farloin termini di libertà come non dominio. Inoltre, lalibertà come non dominio poteva trascendere leproprie origini, mentre “la ragione per cui il libera-lismo classico fallisce da questo punto di vista èche il linguaggio della non interferenza non riescead andare oltre l’ambito di opinioni e interessi cuiera legato in origine” (p. 161). Il contrario, invece, per il linguaggio della libertàcome non dominio, particolarmente adatti perdescrivere la condizione dello schiavo e delladonna. Il linguaggio nato per coloro che sono nellacondizione di vulnerabilità maggiore, può essereutilizzato anche per coloro che, pur trovandosi neiconfronti dello schiavo in una condizione di mino-re vulnerabilità, sono comunque in condizioni divulnerabilità nei confronti di altre categorie. Tantoè vero che Pettit esprime la convinzione che il lin-guaggio di questo tipo di libertà possa essere uti-lizzato per ridescrivere in chiave repubblicanal’ambientalismo, il femminismo, il socialismo epersino il multiculturalismo.Tuttavia, quello che il concetto di libertà come nondominio riesce meglio di tutto a descrivere è pro-prio la capacità dello Stato di essere, entro certilimiti, costruttore di libertà ed oltre un certo limi-te, costruttore di dominio. “Benché lo stato repub-

blicano sarà, quindi, tendenzialmente incline adassumersi un’ampia gamma di responsabilità, èimportante non dimenticare che, nel caso in cuioltrepassi un certo limite, è destinato inevitabil-mente ad arrogarsi anche un insieme di poteriindipendenti: è destinato, cioè, a diventare a suavolta una presenza dominante” (p. 181). Questonon succede o succede di meno soltanto se loStato repubblica si attiva per realizzare politicheche portino a favorire l’autogoverno e l’indipen-denza economica. Per questo, una delle politichepiù sostenute dai repubblicani è quella di una rifor-ma agraria tesa a garantire che la proprietà dellaterra non finisca nelle mani di pochi possidenti. L’ultimo capitolo serve a Pettit per descrivere lecondizioni in cui un governo repubblicano puòridurre al minimo la propria componente arbitra-ria. La prima è la rule of la w intesa in senso radi-cale (solo la legge che viene approvata nel corso diun processo regolativo garantisce una sottomissio-ne alla legge e non agli uomini che la legge hannovoluto). La seconda è la necessità di distribuire ipoteri legittimi tra soggetti diversi (il principiodella divisione dei poteri stabilito daMontesquieu); la terza è la necessità di rendere lalegge relativamente resistente alla volontà dellamaggioranza (le leggi più importanti non dovreb-bero essere cambiate a maggioranza semplice)(pp. 208-9).Citando Shapiro, Pettit sostiene che “la democra-zia, secondo l’opinione generale, ha a che fare conil consenso; di norma viene associata in manieraquasi esclusiva all’elezione popolare dei membridel parlamento. Ma, in modo altrettanto legittimo,si può concepire la democrazia alla luce di unmodello centrato più sul conflitto e sulla contesta-zione che sul consenso. Alla luce di questo model-lo un governo apparirà democratico, rappresente-rà cioè una forma di governo sottoposta al con-trollo popolare, se gli individui, individualmente ocollettivamente, godranno permanentementedella possibilità di contestare le decisioni prese dalgoverno” (p. 223).Infine, la nozione di democrazia rimanda, più cheal consenso, all’autonomia e all’autogoverno di unpopolo. Per realizzare questo autogoverno, neilimiti del possibile, Pettit sostiene che occorre

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rispettare tre regole: 1) che il processo decisionale sia condotto inmodo tale che sia possibile contestarlo;2) che non solo vi sia un canale per esprimere dis-senso, ma vi sia una arena dove far sentire le pro-prie contestazioni;3) che questo spazio di ascolto non sia fine a sestesso, ma sia una premessa per fornire un’ade-guata valutazione delle contestazioni e una rispo-sta adeguata.Per queste tre regole, si può sostenere che ilgoverno repubblicano è deliberativo e basa la pro-pria azione politica fondamentale su negoziazione,deliberazione e mobilitazione, con tutti i limiti chequesti tre modi: la negoziazione favorisce le perso-ne che hanno più potere negoziale; la deliberazio-ne coloro che hanno più mezzi per far arrivare atutti la propria voce; la mobilitazione coloro chehanno più possibilità di tenere mobilitati i proprisostenitori (in genere, coloro che fanno parte dipartiti organizzati o con posizioni lavorative con-nesse ad aspettative o a concessioni clientelari). La concezione della libertà come non dominioimplica degli assunti impliciti che Pettit, nell’ultimaparte, cerca di esplicitare:1) che si sposti l’attenzione dall’interferenza arbi-traria all’interferenza naturale (cioè all’interferenzache è logicamente, eticamente e giuridicamentenaturale);2) che persino il percorso verso la secessione siaobbligatoriamente condotto nel senso di rispetta-re logica, etica e diritto nel separarsi;3) che le leggi migliori siano quelle che sono statedeliberate da più tempo senza essere state modifi-cate in modo significativo e che il modo miglioredi modificare una legge sia quello di aggiustamen-ti progressivi e graduali;4) che la sovranità popolare non stia nella rappre-sentanza, bensì nel diritto di resistenza o, più esat-tamente, nella capacità di trasformare la classe diri-gente in un arbitro nelle condizioni in cui si attivaper partecipare;5) che sia considerata con pessimismo la possibili-

tà che chi acquista posizioni di potere si mantengaincorrotto, mentre assume con ottimismo la natu-rale disponibilità al bene comune della gentecomune (il contrario si può dire per la libertàcome non interferenza);6) che la regolazione sia costruita sull’individuoche rispetta le regole (in questo caso il termineregolazione è usato in modo corretto e l’argomen-to più forte a favore di questa regolazione è lacosiddetta “forza civilizzatrice dell’ipocrisia” for-mulata da Elster, ripresa da Habermas e condivisada Pettit), mentre la libertà come non interferenzapresuppone che la regolazione sia costruita sull’in-dividuo deviante (il termine regolazione usato daPettit, in questo caso, è improprio perché sarebbepiù giusto dire che si tratta di produzione dinorme in senso costitutivo);7) che la regolazione sia concepita come un allar-me antincendio (ci si affida all’allarme dato dai cit-tadini), mentre la libertà come non interferenzaconcepisce la regolazione come un pattugliamen-to di polizia (ci si affida a una parte autorizzatadella società). Il primo modello è meno costoso enon è soggetto a corruzione, mentre il secondo ècostoso e può degenerare nella corruzione;8) una società fondata su buoni costumi e buoneleggi in senso regolativo, perché i buoni costumi siaffermano attraverso le buone leggi e le buoneleggi attraverso i buoni costumi;9) che il mercato sia concepito come regolato dauna mano intangibile (cioè la reputazione e il sensodell’onore) che è tanto più efficace quanto più l’i-dentità di una comunità è forte (il che permette dimettere insieme un liberalismo comunitarista chemette in gioco forme di identità collettive), mentrela concezione liberale tradizionale concepisce ilmeccanismo del mercato come mano invisibile,cioè come costruito sull’interesse individuale di cia-scuno e non sul senso civico diffuso;10) che la forza della fiducia si sostituisca alla forzadella produzione di norme, il capitale sociale agliinteressi individuali.

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Padova Carrarese: nuove prospettive storio-grafiche

Oddone Longo (a cura di), Pa dova Ca rra rese (Attidel Convegno, Padova 11-12 dicembre 2003), IlPoligrafo, Padova 2005, pp. 366 € 30.00.

L’Accademia Galileiana di Scienze Lettere ed Artiha pubblicato nella collana “I Poliedri” edita dalPoligrafo di Padova, gli atti del convegno sul“periodo d’oro” della storia padovana, - il periodocarrarese -, su cui peraltro esiste un’ampia lettera-tura. Silvana Collodo, in I Ca rra resi a Pa dova :signoria e storia della civiltà citta dina , tracciauna sintesi della signoria carrarese, dopo un’infor-mazione precisa sui nuovi paradigmi oggi domi-nanti nella storiografia sul fenomeno delle signo-rie. Attorno ai Comuni come centri di libertà e con-seguentemente la signoria come tirannide o dispo-tismo si è creato un certo “mitologismo”, che inquesti ultmo decenni ha subito un’eclissi. Il domi-nio dei Carraresi (1318-1405) è analizzato attraver-so l’alleanza che si è istituita tra signore e mercan-ti. In particolare la studiosa, che a tale problema hadedicato lavori pionieristici, si sofferma sui qua-rant’anni in cui Francesco il Vecchio esercitò ilpotere, introducendo nuove modalità di prelievofiscale, incrementando la manifattura tessile,potenziando le attività della zecca. Di fronte a questi sviluppi e ad altri che si riscon-trano nell’ultimo periodo della signoria, governatada Francesco Novello (1390-1405), la Collodo

mette in evidenza i limiti di un esercizio del pote-re, teso “più a contenere la vita associata che amodificarne in profondità i moduli costitutivi”.Padova, con i suoi 40-45.000 abitanti aveva una“posizione di rilievo nella graduatoria quantitati-va”, ponendosi al di sopra dello standard mediodelle città del tempo. Ma a ciò non corrispondevaun sistema economico adeguato, né l’apportodello Studio modificò tale situazione. Ma nellaseconda metà del Trecento si registra una svolta;“Padova imboccò con decisione la strada della pro-mozione delle attività manifatturiere e in primisdello sviluppo dell’industria tessile”. A integrazione di questa analisi, l’autrice si soffer-ma a delineare i modi e i tempi in cui si manifestònei signori una presa di coscienza “dinastica” delloro ruolo nella città e alle conseguenti iniziativeche intrapresero. Basterà ricordare “l’ambiziosodisegno della fondazione del mausoleo di fami-glia”, considerato l’espressione di un tentativo dicelebrazione civica. Ma in tale scelta si va oltre,afferma la Collodo, che vi scorge “una dimensionepiù profonda”, ossia l’intento, da parte diFrancesco il Vecchio, di “rappresentare il legameinscindibile che univa la città con la dinastia carra-rese: come la città apparteneva al signore, così ilsignore apparteneva alla città”.Nell’intervento su Signorie venete nel Trecento.Spunti compa ra tivi Gian Maria Varanini ci informasullo “stato attuale delle ricerca sulle signorie vene-te”, i cui modelli politici (genesi, sviluppo, eclissi)sono stati alla base di una profonda revisione della

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Mario Quaranta

Un momento aureo della cultura a Padova

Segno Veneto

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storiografia su tale periodo. Revisione da cui partelo studioso che si sofferma, in modo particolare,sui modi diversi messi in atto dalla signoria scali-gera e quella carrarese per “creare e mantenere unconsenso sociale robusto”, specie di quelle élitecittadine che hanno consentito stabilità e durata alpotere signorile. L’autore si indugia, infine, sugli strumenti culturalie le iniziative che hanno consentito ai signori car-raresi, più ancora che agli scaligeri, di avviare unapolitica di “immagine” come parte integrante diuna pratica del potere. Essa fu giocata attraversostrumenti plurimi: dalle medaglie ai libri dei cimi-teri, ai diversi livelli della storiografia di corte, ecossì via. In questa attività appare fondamentale,secondo l’autore, “la capacità degli intellettualidella corte carrarese di rielaborare, nella prospetti-va della dinastia signorile, la storia della città”.Antonio Rigon affronta un argomento tra i piùcomplessi della storia padovana trecentesca, i rap-porti fra la Signoria e l’episcopato di Padova. Fu unrapporto conflittuale, di pacifica convivenza o direciproco aiuto? L’autore sottoliena che c’è unacontinuità fra il periodo comunale e quello signo-rile; il potere politico ebbe “un rapporto stretto ediretto con la Curia pontificia, la quale destina allasede padovana propri fedeli e collaboratori”, spes-so di rango. L’autore sostiene che a differenza diVerona scaligera, la Curia apostolica e i Carraresiconcorsero nella scelta dei presuli. In altri termini,ci fu “un saldo legame di fedeltà al papa di Roma”.Così, quando la Chiesa attraversò un periodomolto difficile, il collasso fu evitato proprio dall’in-tervento dei Carraresi.Andrea Saccoci fornisce un contributo di rilievo sulruolo della monetazione padovana nel periodocarrarerese, delinenando una mappa delle areemonetarie, che “erano in realtà delle specie di mer-cati comuni della moneta, sempre contrastati dallaautorità dei vari stati”. L’autore indica le tre distin-te fasi della monetazione, individuando le sceltecompiute da Francesco il Vecchio nella politicamonetaria, volta a dotarsi di monete concorrenzia-li con le altre valute esistenti nell’area veneta.Giovanni Lorenzoni interviene su Urba nistica edemergenze a rchitettoniche nella Pa dova ca rra re-se; un argomento su cui ha già pubblicato studi digrande rilievo. Nel periodo carrarese, afferma, il sistema di mure

cittadine era completato “almeno nei suoi nucleiessenziali”, e fu Ubertino a portarlo definitivamen-te a termine. Le emergenze architettoniche siincentrano essenzialmente sulla “Reggia carrare-se”, che occupava un’area molto estesa, sede del-l’abitazione dei Carraresi e del loro governo: “Iltutto era racchiuso da mura che ne delimitavanol’area in modo perentorio: un microcosmo, la reg-gia, inserito nel macrocosmo della città di Padova”.In conclusione, c’è stata una continuità tra l’orga-nizzazione urbanistica comunale e quella carrare-se, con un cambiamento significativo nella localiz-zazione del centro del potere. Oggi, come è noto,non c’è quasi nulla di quel complesso di edifici, cheebbe un grande significato politico e simbolico.Sul castello carrarese (il “Castello” per antonoma-sia di Padova) interviene con un ampio saggioSante Bortolami, la cui costruzione nel periodo diFrancesco il Vecchio ubbidì a ragioni difensive.Prima dei Carraresi, fu la “Torre lunga o Torlongail cardine delle difese urbane ma anche simbolo diuna specifica fase della storia cittadina”. L’autore sisofferma sul periodo di Ezzelino da Romano e sulperiodo comunale. Per poi rilevare che il comples-so fortificato da Francesco il Vecchio si inserì in uncontesto pre-esistente portando a compimento“l’integrazione di civita s e suburbia ”, che segnòpressochè definitivamente la forma urbis diPadova. Anche Renzo Fontana interviene sulCastello “dalla svalutazione di un simbolo carrare-se al futuro recupero”, rilevando che “la perditadell’identità originaria del Castello si è protrattafino ai nostri giorni”, tanto che non è presentenella cartografia del Touring Club né nelle mappedella città distribuite dall’Azienda del turismo.Giulio Cattin e Antonio Lovato si occupano dellamusica e delle dottrine musicali a Padova nelTreccento. Per un secolo, afferma Cattin, le quat-tro istituzioni fondamentali, comune, cattedrale,monastero, università, sono state centri “nella ela-borazione, produzione, copiatura e riflessione sudottrina e prassi musicale”. Lovato sottolinea cheagli inizi del Trecento si registra un mutamentonell’approccio alle problematiche della musica,orientato essenzialmente da filosofi, astronomi emedici. In questo modo entrano in scena gli audi-tores, “che si appropriano del fenomeno musicalein quanto evento sonoro”. Giorgio Ronconi, conL’imma gine dei Ca rra resi nella lettera tura del

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Mario Quaranta Un momento aureo della cultura a Padova

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tempo, e Giovanni Gorini con I Ca rra resi dopo iCa rra resi: forme di sopra vvivenza lettera ria , cidicono come è veicolata nella letteratura l’immagi-ne dei Carraresi durante e dopo il periodo dellaSignoria. Un cenno merita il testo breve di AlbertoPapafava dei Carraresi - Memorie di fa miglia -, incui il discendente dei Carraresi ricorda in modoriconoscente la figura di Taddea Ariosti, moglie diGiacomino Papafava, il cui coraggio consentì digarantire la continuità della proprietà che è giunt-qa fino ad oggi.Manlio Pastore Stocchi tratta Il modello uma nisti-co: gli uomini illustri dell’a ntichità , ossia “lo ster-minato calendario astrologico nel Palazzo comuna-le della Ragione e l’imponente serie di trentaseiuomini illustri dell’antichità, da Romolo a Traiano,a frescata nella cittadella signorile”. Lo studiososottolinea il significato di entrambi i cicli, rilevan-done una sottesa conflitualità; i modelli di eccel-lenza, infatti, di indubbia ispirazione umanistica, sicontrappongono “all’anonimo catalogo di tipi edestini ordinari del ciclo della ragione”.Per quanto riguarda le vicende culturali di questoperiodo, dopo che quelle artistiche sono state rin-viate a un successivo convegno, si segnalano treinterventi: Graziella Federici Vescovini su La supe-riorità della ma tema tica nell’insegna mentoscientifico di Bia gio Pela ca ni sotto i Ca rra resi;Enrico Berti su Astronomia e a strologia da Pietrod’Aba no a Giova nni Dondi dell’Orologio, eGiuseppe Ongaro su La medicina dura nte lasignoria dei Ca rra resi.La Federici Vescovini si sofferma sul contributo diPelacani, operante a Padova dal 1384 al 1411, nelcampo della matematica, di cui egli avvertì l’im-portanza epistemologica decisiva all’interno delsapere, determinata dall’alto grado di certezza cheassicurava, e “questa supremazia della certezzadella matematica è opposta a quella della fisica edella metafisica”. La matematica, insomma, comescienza regina nell’ambito di una classificazionedelle scienze. Enrico Berti si sofferma su un argo-mento, astronomia e astrologia, in cui permango-no tuttora incomprensioni e fraintendimenti,come il contrasto che ci fu nel medioevo, tracosmologia aristotelica e quella tolemaica. Unposto di grande rilievo ha avuto Pietro d’Abano, ilquale difese l’astronomia tolemaica anche dalpunto di vista fisico. E che il modello tolemaico

non fosse solo un’ipotesi matematica, ma descri-vesse una realtà effettiva, è alla base di quel capo-lavoro teorico (Tra cta tus a stra rii) e pratico, lacostruzione dell’astrario, che fa di Giovanni Dondidell’Orologio uno dei personaggi più “moderni”del Trecento. Giuseppe Ongaro traccia un quadro della medici-na, soffermandosi sul fenomeno della peste chedecimò la popolazione nei tre momenti in cuiapparve a Padova, 1348, 1362, 1382. In queste con-giunture la medicina fallì perché i rimedi messi inatto, di cui ci viene fornita impietosamente unadocumentazione, non servirono a nulla; inoltre lastessa immagine del medico fu moralmente messain discussione perché molti si rifiutarono di pre-stare soccorso. Lo studioso padovano si soffermapoi su alcune figure centrali, come Pietro d’Abano,cui si deve la prima autopsia; tra la fine delDuecento e i primi decenni del Trecento, affermaOngaro, a Padova c’era un’affermata attività disset-toria. Il suo successore fu Giovanni Santa Sofia,considerato “Monarcha medicinae”, capostipite diuna lunga serie di una illustre famiglia di medici,come Iacopo Dondi, medico, astronomo e mate-matico. In conclusione, nota l’autore, studi recentihanno smentito un pregiudizio storografico; findal Duecento anche Padova aveva un insegnamen-to di medicina di alto livello.Ci sembra che la novità - metodologica e di ricerca-, cui giungono i diciotto studiosi, su alcuni deiquali ci siamo brevemente intrattenuti, sia stataresa possibile dall’avere tutti tenuto conto delmutamento del paradigma storiografico sul feno-meno delle Signorie, Oggi ha subito un’eclissi ilmitologismo dei Comuni come centri di libertà econseguentemente della Signoria come una formadi tirannide o dispotismo. In queste ricerche sono individuati i motivi di dis-continuità ma anche quelli di continuità fraComune e signoria, che a volte sono solidi eriguardano istituzioni e ceti importanti. È stataindicata l’importanza che ha avuto la politica cul-turale e di immagine delle signorie nella creazionedel consenso di certi ceti e nella legittimazionedello stesso potere.

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Ripensando a Paolo Sarpi

Corrado Pin (a cura di), Ripensa ndo Pa olo Sa rpi(Atti del convegno internazionale di studi nel 450°anniversario della nascita di Paolo Sarpi),Appendice iconografica a cura di Camillo Tonini,Ateneo Veneto, Venezia 2006, pp. XV-758 € 35.00.Paolo Sarpi, Istoria dell’Interdetto, a cura diCorrado Pin, introduzione di William Shea,Edizioni THINK ADV, Conselve 2006, pp. XLVIII-327, € 25.00. Paolo Sarpi, Della potestà de’ princi-pi, a cura di Nina Cannizzaro con un saggio diCorrado Pin, presentazione di Giancarlo Galan,Regione del Veneto-Marsilio, Venezia 2006, pp.125, € 13.00.

Per la seconda volta l’Ateneo Veneto ha ricordatocon un convegno di grande rilievo Paolo Sarpi (giànel 1983 l’Ateneo organizzò un convegno sul servi-ta, integrato da una mostra). Alcuni dei ventiduecontributi, usciti ora a stampa in un ponderosovolume, consentono di segnalare le novità storio-grafiche di interesse generale cui è giunta la ricer-ca su Sarpi, con interpretazioni delle convinzionifilosofiche, religiose e politiche del servita venezia-no molto varie per non dire, a momenti, persinoantitetiche. Gino Benzoni, in una fluviale introduzione (anzi Amo’ d’introduzione) cui ci ha abituato in questiultimi anni, traccia un quadro delle vicende delperiodo storico, in cui si colloca l’attività di Sarpi.Anche se “non incattedrato”, di fatto Sarpi – sostie-ne Benzoni – esercitò l’attività propria di un pro-fessore di scienza della politica. Il suo insegna-mento della “dottrina dello stato”, dal quale dipen-de la sua azione a sostegno della Serenissima inqualità di consultore in iure, è da Benzoni sinte-tizzato in questa formula apertamente provocato-ria: “Tutto bene se comanda il principe, tutto malese comanda Roma”. In conclusione, Sarpi “tiene,sempre e comunque, per lo Stato”.Ben diverso l’approccio di Boris Ulianich, che nellarelazione su Teologia pa olina in Sa rpi?, prose-guendo nei suoi studi sulla figura del servita vene-ziano iniziati negli anni cinquanta, insiste sulla“centralità fondante della Scrittura, come punto diriferimento ultimo, al quale il Sarpi si appella”. Difronte al quesito se l’ecclesiologia sia stata utilizza-ta da Sarpi per dare fondamento a finalità essen-

zialmente politiche, o abbia invece una sua propriaautonomia, la risposta è netta: tutta l’attività diSarpi, afferma Ulianich, è fondata sulla “Scrittura e,in particolare, sulle lettere paoline”. In questa pro-spettiva, “la Istoria del Concilio Tridentino è eresta la massima espressione del Sarpi teologo,perché la dimensione teologica costituisce l’inte-resse fondamentale che lo muove a redigerla”. Inaltri termini, non è la teologia instrumentum dellapolitica, ma la politica una “riprova nodale dellasua [di Sarpi] visione teologica”. Vittorio Frajese rappresenta, per così dire, l’anti-Ulianich, confermando, nel contributo Problemidi da ta zione dell’insegna mento esoterico diSa rpi, la tesi formulata a suo tempo in un lavoroche sollevò un largo dibattito, e cioè che da nume-rose testimonianze dell’epoca possiamo ricavarel’immagine di un Sarpi scettico e sostenitore di unmaterialismo atomista. Ugo Tucci ripercorre levicende economiche e finanziarie dell’epoca diSarpi, sfatando il tenace pregiudizio storiograficodi un presunto declino a cavallo del Cinque eSeicento della Repubblica veneta; e Pacifico M.Branchesi ritorna su alcuni documenti apparsinegli ultimi decenni per delineare la vita e l’attivitàdel frate servita “prima della vita pubblica (1552-1605)“. Peter Burke lamenta che manchi ancora una inter-pretazione convincente di Sarpi storico e suggeri-sce linee di lettura dell’opera sarpiana, in partico-lare dell’Istoria del concilio tridentino; GiovanniDa Pozzo, dal canto suo, si sofferma su Il problemafilologico del testo sa rpia no dell’“Istoria delConcilio Tridentino”, l’opera che ha reso celebreSarpi in Europa, segnalando i limiti filologici delleedizioni finora pubblicate, da superare in una pros-sima, e quanto mai necessaria, edizione critica del-l’opera fondamentale del padre servita, di cui deli-nea l’impostazione essenziale. Eleonora Bellignidiscute i rapporti tra Pa olo Sa rpi, Ma rca ntonioDe Dominis e i la titudina ri della prima genera -zione. La tesi centrale è che “cristiani come PaoloSarpi e Marcantonio De Dominis avevano interpre-tato il concilio come opera di accentramento poli-tico e affermazione di fatto di atteggiamenti cor-rotti e di errori dottrinali”.Corrado Pin, uno dei maggiori esperti di testi sar-piani, affronta in due interventi alcune questioniimportanti. Nel primo compie una disamina di

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alcuni Ma noscritti sa rpia ni: a utogra fi, idiogra fi ea pogra fi (di cui si offre un campionario in fac-simi-le), mostrando come attraverso l’individuazionedelle grafie dei vari amanuensi sarpiani sia possibi-le non solo individuare nuovi testi del servita, mafissare con sufficiente approssimazione la datazio-ne di suoi manoscritti. Proprio grazie al ricorso allegrafie si è potuto dimostrare come i manoscrittidelle controverse sillogi Pensieri sulla religione ePensieri medico-mora li vadano collocati nonprima, ma dopo l’Interdetto veneziano del 1606;con l’interessante risultato di ridimensionare latesi di Gaetano Cozzi di una cesura fra il Sarpi poli-tico e quello “privato” dei testi filosofici. Pin pone in evidenza la continuità degli interessifilosofici e religiosi del servita (una tesi sostenutaanche da Frajese) nonostante l’esperienzadell’Interdetto del 1606, aprendo così nuove vieall’individuazione dell’unità del pensiero sarpiano.Nella relazione su Pa olo Sa rpi e la committenzadel dopo-interdetto, Pin presenta con ampia eragionata documentazione un Sarpi fortementedeluso dall’esito dell’Interdetto, avvertendo “quel-la pace come una sconfitta”. Sarpi infatti, nota conacume Pin, è stato “il teologo che aveva ispirato edato voce agli ideali della riforma religiosa”; idealiche ora subivano una eclissi. Una delusione nonsufficientemente compensata, osserva Pin, daldato di fatto incontrovertibile che il compromessoraggiunto “non toccava l’aspetto giurisdizionalisti-co della contesa”. In altri termini, la conclusionedel conflitto che aveva interessato tutta l’Europa edato a Sarpi una figurazione di primo piano, “sal-vaguardava in pieno le leggi della Serenissimaincriminate da Paolo V e le sue prerogative sovra-ne”, ma non realizzava i progetti che avevano spin-to il servita a schierarsi apertamente a fianco dellaSerenissima contro il papato della Controriforma.Una delle relazioni cruciali è quella di Libero Sosio,che dà una sistemazione organica a un problemada lui affrontato in altri scritti: Pa olo Sa rpi, unfra te della rivoluzione scientifica . Anche se Sarpinon ha pubblicato alcun scritto scientifico, secon-do Sosio è legittima l’ipotesi che avesse una pre-parazione scientifica di prim’ordine e che “possaanche aver dato qualche contributo alle scienzeattraverso contatti diretti con alcuni fra i massimiscienziati del tempo”. È noto, infatti, che condussestudi sul barometro, sul magnetismo, sulla rifrazio-

ne della luce; che si occupò a varie riprese di medi-cina e di biologia, con osservazioni originali sull’a-natomia dell’occhio, giungendo inoltre a indivi-duare l’esistenza delle valvole delle vene, una dellecondizioni che permisero a Harvey di formulare lateoria della circolazione del sangue.Libero Sosio discute con grande competenza ilrapporto di Sarpi con Galileo, sottraendosi all’al-ternativa fra quanti negano qualsiasi influenza diSarpi sullo scienziato pisano, e chi, invece, sostie-ne un suo influsso preminente. La tesi di Sosio èche “il cammino di Galileo – dalla critica della fisi-ca aristotelica alla fondazione della nuova scienzadel moto – è prefigurato e accompagnato da un’e-voluzione simile di Sarpi”. Inoltre, sul problemadelle maree i testi ci direbbero, secondo Sosio, che“è più verosimile che la prima idea di questa teoriasia stata concepita da Sarpi”. E il problema dellemaree è stato uno dei rovelli di Galileo, protratto-si fino alla vecchiaia. Alla conclusione di questo ampio e documentatosaggio Sosio conclude: “Mi pare che fra Paolopossa aver dato un apporto concreto alla genesidella scienza moderna, aiutandoci a capire per-ché i diciotto anni trascorsi da Galileo a Padovasiano stati fra i migliori della sua vita”: una tesicondivisibile. È indubbio che il convegno i cui“atti” abbiamo brevemente commentato, ha for-nito elementi che favoriscono una rinnovataconoscenza di aspetti poco frequentati nella purampia letteratura critica su Sarpi, e nuovi appro-fondimenti delle questioni già note. Basterà ricor-dare, a tale proposito, i contributi di Filippo deVivo su Paolo Sarpi e la gestione dell’informazio-ne, in cui lo studioso rileva l’uso moderno cheSarpi ha fatto dell’informazione. Claudio Povolointerviene con importanti osservazioni sul nonfacile rapporto di Sarpi con il diritto veneto, e diPiero Del Negro sui consulti sarpiani, che convin-cono la classe dirigente veneziana a “inventare”una laurea di Stato, troncando “il cordone ombe-licale, che univa gli Studi generali e, al di là di essi,il sapere nelle sue più alte manifestazioni, ai pote-ri universali dell’Europa medievale, il papa e l’im-peratore”. Mario Sangalli indaga i rapporti di Sarpi con i teati-ni di Bergamo, da cui emerge la sua concezioneeducativa di stampo antigesuitico; PasqualeGuaragnella fornisce una innovativa lettura della

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biografia di Fulgenzio Micanzio, la Vita del pa drePa olo, ricorrendo agli strumenti della più raffinatacritica letteraria; Mario Infelise affronta l’intricatis-simo campo delle opere a stampa di Sarpi, tra falseindicazioni di luogo, di editori e di librai, traccian-do un ampio quadro della fortuna editoriale diSarpi dentro e fuori d’Italia, che dà la misura dellasua proiezione europea. Ma la fortuna di Sarpi nonè solo editoriale: aprendo vie nuove alla ricerca,Antonella Barzazi segue lungo tutto il Seicento eoltre il difficile rapporto dell’ordine dei Servi diMaria con l’eredità del suo più grande e imbaraz-zante figlio; mentre Dorit Raines avvia un’originalericerca della memoria di Sarpi negli archivi privatidel patriziato veneziano. Infine, Giuseppe Trebbi con la consueta finezzapassa in rassegna alcune recenti interpretazionidel padre servita, soffermandosi in particolaresull’odierno dibattito circa la religione di Sarpialla luce dell’edizione critica dei Pensieri e dellerecenti edizioni delle sue opere. In conclusione,si può dire che chi vorrà accostarsi e proseguirenella ricerca su questo straordinario personaggio,dovrà ora partire proprio da questi contributiinnovativi. Conclude il ricco volumeun’Appendice iconografica, curata da CamilloTonini e realizzata da una équipe di studiosi iquali, valorizzando il patrimonio del Museo,offrono un innovativo contributo sulla fortunasarpiana nell’Ottocento veneziano.Corrado Pin pubblica ora una vera e propria novi-tà, l’Istoria dell’Interdetto nella redazione cheSarpi preparò nella primavera del 1610, in vistadella consegna allo storico francese Jacques-Auguste de Thou per la continuazione della suaHistoria sui temporis; consegna poi impedita dalCollegio veneziano per motivi di opportunità poli-tica. Nella Nota critica a l testo Corrado Pin dimo-stra come il codicetto, da lui rinvenuto nel fondoDonà delle Rose (Biblioteca del Museo CivicoCorrer di Venezia), tutto di mano del copista ordi-nario di Sarpi fra Marco Fanzano, sia quello prepa-rato per l’invio, poi non avvenuto, a Parigi e rima-sto nell’archivio privato – dove ancora attualmen-te si trova – del doge Leonardo Donà, protagoni-sta del periodo dell’interdetto, protettore di Sarpie suo strenuo difensore dopo la conclusione dellacontesa con il papa Paolo V. Nell’Introduzione al volume, William Shea, titolare

della cattedra galileiana di Storia della scienzaall’Università di Padova, espone le ragioni chefanno di quest’opera un testo centrale nella storiadei rapporti fra Stato e Chiesa. Del papa Paolo Vafferma che “impersonava il cattolicesimo autorita-rio, bramoso di potere temporale”, e che “adope-rava la scomunica come strumento di sopraffazio-ne”. Il contrasto fra il Papa e Venezia, dunque, fuessenzialmente di carattere politico e Sarpi ha datoun contributo di grande rilievo a smascherare econfutare le pretese del Papa.Il centenario dell’Interdetto si conclude con il clas-sico “coup de théâtre”. Nina Cannizzaro, docentepresso il Bard College nello Stato di New York, stu-diosa di letteratura del Cinque e Seicento, ha rin-tracciato presso la Beinecke Library della YaleUniversity un manoscritto della seconda metà delSeicento, copia di un inedito di Sarpi – Della pote-stà de’ principi –, di cui aveva dato notizia nellabiografia sarpiana il Micanzio, ma che era finitoquasi subito nel totale silenzio. Si tratta, come giàinformava il biografo sarpiano, dell’abbozzo deiprimi tre capitoli di un’opera che Sarpi aveva pro-gettato di scrivere e che dava “indizio che dovesseesser la più bella e importante composizione chesia mai comparsa al mondo”; di essa – è sempreMicanzio a informarci – Sarpi aveva steso una trac-cia in 206 “rubriche” (rubriche – e cioè titoletti deiprogettati capitoli – anch’esse serbate nel mano-scritto di Yale). La studiosa fornisce nell’introduzione una precisainformazione di questo straordinario ritrovamen-to, tracciando il suo possibile percorso, mentreCorrado Pin, in un ampio saggio, con la proverbia-le cautela di expertise di testi sarpiani, dimostral’autenticità dell’opera, la cui composizione è data-bile fra il 1610 e il 1611. In quest’opera, Sarpi“sostiene senza tentennamenti le principali tesiassolutistiche” formulate tra Cinque e Seicento, inparticolare da Jean Bodin, fino ad anticipare posi-zioni, secondo Pin, vicine al pensiero di Hobbes edi altri teorici dell’assolutismo regio del pienoSeicento. Un nuovo e intrigante testo, che vieneofferto agli studiosi, i quali proprio nel momentoin cui forse pensavano di avere concluso il lorolavoro euristico, devono riprenderlo e almeno inparte rivederlo.

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Antonio Vallisneri, medico e naturalista

Dario Generali (a cura di), Bibliogra fia delle operedi Antonio Va llisneri, Leo S. Olschki, Firenze2004, pp. 265 € 27.00 Antonio Vallisneri, Qua derni di osserva zioni, vol.I, a cura di Concetta Pennuto, introd. di DarioGenerali, Note biologiche di Andrea Castellani, LeoS. Olschki, Firenze 2004, pp. CVIII-255, € 36.00.Antonio Vallisneri, Migliora menti e correzionid’a lcune sperienze ed osserva zioni del signorRedi, a cura di Ivano Dal Prete, Note biologiche diAndrea Castellani. Carlo Francesco Cogrossi - Antonio Vallisneri,Nuova idea del ma le conta gioso de’ buoi, a curadi Mauro De Zan, Leo S. Olschki, Firenze 2005, pp.173, € 18.00.Antonio Vallisneri, Epistola rio 1714-1729, a cura diDario Generali, Leo S. Olschki, Firenze 2006, CD,pp. XIV-1873, € 50.00.

Questi quattro volumi fanno parte di un’audace emeritoria impresa editoriale, che prevede l’edizio-ne nazionale delle opere di Antonio Vallisneri(1661-1730), più di sessanta, distribuite in treserie: l’edizione dei manoscritti, le opere editedallo scienziato e il carteggio, che conta più di12.000 lettere, del quale si è da poco conclusa lapubblicazione delle circa 1600 dell’Epistola rio, e ilcui arcchivio elettronico in progress è on-line sulsito internet www.vallisneri.it.Dopo essersi formato a Bologna sotto la direzionedi Marcello Malpighi, Vallisneri venne chiamato nel1700 alla cattedra di medicina pratica (passandosuccessivamente a quella di teorica) nello Studio diPadova, dove ha insegnato per trent’anni. Ha pub-blicato, spesso anonimi o con pseudonimi o anome di allievi, una sterminata serie di saggi, arti-coli, libri, di cui Dario Generali, coordinatorescientifico dell’iniziativa, ci fornisce una rigorosabibliografia. Uno strumento imprescindibile perchi si accosta all’opera vallisneriana, che compren-de un ampio spettro di argomenti: anatomia com-parata, medicina, embriologia, storia naturale, eto-logia, filosofia, entomologia, geologia.Nel primo volume dei Qua derni di osserva zioni,cui l’autore si dedicò tra il 1694 e il 1701, si trova-no notazioni originali che hanno consentito alloscienziato di correggere errori e vere e proprie fal-

sità riscontrate nei testi che gli scienziati avevanoscritto su vari argomenti. La lettura di questaminiera di dati, fatti, ipotesi, ci permette di com-prendere, inoltre, la genesi del pensiero e la prati-ca scientifica di Vallisneri, frutto di un’intensa atti-vità osservativa e teorica, soprattutto in ambitoentomologico.In molte occasioni, Vallisneri non solo fornisce laspiegazione o enuncia ipotesi attendibili relative afenomeni fino allora sconosciuti, ma falsifica in ter-mini scientificamente rigorosi la tesi della genera-zione spontanea, e confuta, sulla base del metodosperimentale di stampo galileiano, l’aristotelismobiologico. E tutto ciò sullo sfondo di una esplicitabattaglia per la libertà di pensiero, contrastando lepretese della chiesa controriformistica di control-lare l’impresa scientifica.Egli attribuisce, baconianamente, un posto centra-le all’osservazione assiduamente ripetuta e rigoro-sa dei fenomeni di cui la scienza si occupa. Le dueopere, Muta menti e Nuova idea , del 1712 e del1714, rappresentano due momenti fondamentalinell’attività scientifica di Vallisneri (e di Cogrossi).Nella prima affronta un delicato problema, lasciatoaperto dal Redi, il quale per primo si impegnònella confutazione della dottrina della generazionespontanea,che però ammise in alcuni casi partico-lari, come quello delle galle delle querce e di altriparassiti delle piante, che ritenne generati dallaforza vegetativa delle medesime. Un varco, questo,che consentì allo schieramento avverso di metterein discussione la legittimità dello stesso metodosperimentale. Vallisneri, per non comprometterela posizione galileiana, non critica frontalmenteRedi ma propone “miglioramenti e correzioni” alleosservazioni e alle conclusioni errate avanzate daquest’ultimo, mettendo in evidenza che l’errorenasce esclusivamente da una applicazione sbaglia-ta del metodo.La Nuova idea riguarda la scoperta della causa delcontagio epidemico del 1714, che determinò lamorte di oltre un milione e mezzo di bovini inEuropa (da noi, soprattutto nella pianura padana).Contro le teorie tradizionali della “costituzioneepidemica”, Cogrossi e Vallisneri sostengono l’ipo-tesi microbica della peste; una teoria che non eraancora sufficientemente corroborata empirica-mente, e quindi epistemologicamente incerta.Secondo Cogrossi è legittimo ricorrere a congettu-

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re che comunque forniscono una spiegazionerazionale del fenomeno che, anche se ipotetica eincerta, è pur sempre più convincente di quellatradizionale. Vallisneri aderisce a questa prospetti-va interpretativa e teorica, ma non dimentica lanecessità di giungere a una conferma empirica darealizzare attraverso il ricorso ad adeguate osserva-zioni con il microscopio, per individuare e osser-vare il presunto microrganismo responsabile dellamalattia dei bovini. Infine, la pubblicazione in due volumi, a cura sem-pre di Generali, delle lettere vallisneriane delperiodo 1679-1713, è ora integrata dal CD in cui èregistrato l’epistolario dal 1714 al 1729; un’edizio-ne digitale senza apparato critico e di commentostorico, al contrario dei due precedenti volumi, mache mette a disposizione degli studiosi un mate-riale imponente da un punto di vista quantitativo,di grande importanza storiografica e che fornisceun notevole aiuto alla ricerca.Già da questi testi emerge nitidamente la figura diVallisneri, il suo temperamento di battaglierodifensore della nuova scienza, del metodo speri-mentale scandito nei tre momenti: osservazione,ipotesi, sperimentazione. Sotto il profilo metodo-logico e sperimentale, egli ha fornito un contribu-to decisivo per la confutazione della teoria dellagenesi spontanea degli organismi viventi: “nonammetto - dichiarava - alcuni immaginabili genera-zioni senza materna semenza”. Elaboratore di unparadigma “forte” del creazionismo, difende ladistinzione fra scienza e fede, ma è cauto quandosono coinvolti problemi di ortodossia religiosa,mentre nelle lettere dà aperto sfogo alle sue idee.L’attacco violento che egli muove all’aristotelismobiologico è motivo costante nei suoi scritti, anchese si rende conto che occorre ampliare la polemi-ca contrapponendo al peripatetismo una diversaconcezione generale della natura. Egli progetta,perciò, la ricostruzione di ogni anello della “gran-de catena degli esseri”; consapevole di delineareun’impresa che potrà essere realizzata soltantocon l’apporto di alcune generazioni di studiosi.

Un cercatore d'oro di Treviso

Da rio De Bortoli, Ja ck Costa . L'epopea del trevi-sa no che cercò l'oro in Ala ska , e lo trovò,Fra ncoAngeli, Milano 2006, pp. 236, € 15.

Attraverso sessant'anni di storia, dal 1868 al 1928,viene raccontata la straordinaria vita di un trevisa-no partito emigrante dal Veneto per raggiungerel'Alaska. Qui, dopo tremende fatiche e sacrifici,trova l'oro che gli consente di tornare ricco al suopaese. Ma per far riaffiorare questa storia l’autorepercorre anche le vicende della famiglia di JackCosta, dispersa in diversi continenti, intrecciatecon i grandi avvenimenti mondiali. Tutto inizia nelVeneto del 1868, due anni dopo l'annessione alRegno d'Italia, quando Giovanni nasce a Costa, fra-zione di poche case vicina al paese di Pederobba.La sua famiglia, affittuaria di vari terreni, conduce-va una vita modesta ma dignitosa in una situazionegenerale caratterizzata da crescenti difficoltà,dovute anzitutto all'arretratezza dei sistemi coltu-rali e alla crescente pressione di una fiscalità impie-tosa. In un quadro sempre più fosco, l'unica spe-ranza di una vita migliore sembrava venire ai con-tadini del tempo dalla prospettiva dell'emigrazioneal di là dell'Oceano, soprattutto in Brasile, dove lafine della schiavitù aveva liberato grandi quantità dibraccia che dovevano essere immediatamente rim-piazzate. Promettendo un viaggio gratuito, attrezzi da lavo-ro, proprietà e vantaggi di ogni genere, agenti diemigrazione al servizio dei grandi proprietari ter-rieri o delle compagnie di navigazione, in accordocon lo Stato brasiliano, percorrevano le campagnevenete per convincere la gente a partire. EGiovanni Dalla Costa ne vide molti partire verso undestino di fatiche e sacrifici mai pensando, fino al1886, che anche alla sua famiglia sarebbe toccatoin sorte un tale destino. Fu proprio nell'autunno diquell'anno, infatti, che un incendio distrusse tuttociò che la sua famiglia aveva: la casa e il raccolto. Il fratello maggiore, Francesco, era sotto le armi, equindi toccò a lui, appena diciottenne, emigrare inFrancia per lavorare nelle miniere e mandare aisuoi qualche risparmio che potesse contribuire allaloro sopravvivenza. Ma dopo due anni, quandoebbe modo di rendersi conto che i suoi sforzi pocovalevano per salvare la sua famiglia, Giovanni deci-se di seguire il suo istinto verso l'avventura, e cosìsi imbarcò a Le Havre e raggiunse la California perpartecipare alla corsa all'oro. Vi giunse nel 1888quando, però, della mitica corsa all'oro iniziataquarant'anni prima non rimaneva altro che la pos-

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sibilità di trovare impiego in una miniera gestitadalle grandi compagnie minerarie. E così fece, nelvicino stato di Washington, per quattro anni,segnati da due importanti novità: la partenza dellasua famiglia per il Brasile nella primavera del 1890e, poco dopo, l'incontro con il fratello Francescogiunto anche lui in America sulle sue tracce. Ma la vita del salariato stava stretta a Giovanni, chenel 1892 decise di raggiungere Nome, in Alaska,per congiungersi con le avanguardie di una corsaall'oro che avrebbe assunto un carattere di massacinque anni più tardi, nel 1897. Qui, in condizioniclimatiche estreme, in una terra vastissima e vuota,fra alte montagne e fiumi immensi, estati senzabuio e inverni senza sole, Giovanni diventa JackCosta, il cercatore veterano capace di scavare pozzinel terreno gelato e di affrontare pericolosi viaggicon la slitta trainata dai cani. Prima da solo e dal1896 con il fratello Francesco, Frank, e il comuneamico Felice Pedroni, Felix Pedro, trova varie pic-cole quantità d'oro e trae buoni guadagni dal com-mercio.Nel 1899, dopo aver sfruttato un filone piuttostoricco, ritiene che sia giunto il momento di tornarea casa per farsi una famiglia. Ma nello stato diWashington, dove si ferma al ritorno dai ghiacci,sventuratamente perde tutto il denaro accumula-to. Davanti alla scelta fra rientrare in Italia poverocom'era partito o riprovare a far fortuna in Alaska,sceglie la seconda opzione, e così ricomincia a sca-vare e commerciare con in cuore la speranza delgrande ritrovamento. Che giunge quattro annidopo, il 9 aprile del 1903, nella zona dove anchelui, assieme a Felix Pedro, a suo fratello Frank e adaltri compagni di avventura, contribuirà alla nasci-ta di Fairbanks, oggi seconda città alaskana dopo lacapitale Anchorage. Questa volta la concessione a monte sul fiumePedro gli dà la vera fortuna e, nel 1905, gli consen-te di ritornare ricco nella natia Pederobba dove,nel giro di pochi mesi, acquista case e proprietà,deposita una grossa cifra in monete d'oro presso ilBanco di Mutuo Soccorso di Valdobbiadene e sisposa con Rosina Rostolis per ripartire con leiancora verso l'Alaska in un favoloso viaggio dinozze. Seguono tredici anni di benessere, allietatidalla nascita del primogenito Francesco e di altrequattro figlie; anni in cui Giovanni, profondamen-te identificato con il mondo rurale in cui era nato,

porta avanti la coltivazione delle terre che haacquistato e la produzione di vino. Ma poi è dinuovo tragedia. Nel 1918, con la disfatta diCaporetto, è costretto a fuggire a Pavia dove rimar-rà per un anno e mezzo patendo anche il doloredella morte della figlia maggiore vittima della “spa-gnola”. Al rientro, l'amara sorpresa: la casa distrut-ta, trafugate tutte le cose più preziose sepolte inun bauletto alla partenza, sequestrato dall'esercitoaustriaco il deposito in oro. Nel 1928, Giovannimuore lasciandoci eredi di una storia esemplare,estremamente attuale nonostante siano passaticent'anni, vivida testimonianza della volontàumana di una vita migliore in un mondo alloracome oggi percorso da guerre e grandi emigrazioni.

[Pietro Bardella]

Il modello Veneto

Curi, Umberto, a cura di, Il “modello veneto” frastoria e futuro, Poligrafo, Padova, 2007, pp. 153

In questo libro sono pubblicati gli atti del conve-gno su Il “modello veneto” fra storia e futuro,organizzato dall'Accademia galileiana nel 2005. IlVeneto, in particolare il Nord-Est, ha conosciuto inquesti ultimi vent'anni una trasformazione econo-mica così profonda e diffusa, che gli ha consentitodi passare da “meridione” del Nord a regione-modello di sviluppo industriale per piccole emedie imprese. Un fenomeno di tali proporzioniha sollecitato storici e sociologi dell'ultima genera-zione a operare una radicale revisione dei tradizio-nali moduli d'interpretazione della storia delVeneto. Carlo Fumian, ad esempio, ha ripercorsole tappe di questa lunga marcia della storiografianella conoscenza del Veneto e nell'individuazionedei caratteri del suo modello di sviluppo. Modellosu cui si è soffermato, in uno dei contributi piùinnovativi, Giorgio Roverato. Questi storici hanno riletto le vicende politichevenete del secondo dopoguerra, ove un ruolo deci-sivo ha svolto la politica dei governi diretti dallaDemocrazia cristiana, incentrata su una legislazioneche protesse, in particolare, gli interessi dei conta-dini (blocco dei contratti agrari, credito agricolo,ecc,). Ora, l'espanzione capitalistica del dopoguer-ra ha determinato l'eclissi dell'agricoltura tradizio-

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nale, ma il mondo contadino veneto non ha cono-sciuto un progressivo impoverimento come èavvenuto in altre regioni; esso è passato dalle atti-vità agricole a una diffusa piccola-media industria,proprio per l'azione di sostegno dei governi, cheha permesso una riconversione “morbida” dei ceticontadini. Così essi sono diventati piccoli impren-ditori o si sono riversati nell'economia dei servizi.Questo fenomeno è stato considerato unico inItalia, ed è stato accompagnato da un processo cul-turale di laicizzazione della società che ha coinvol-to anche ceti di solide tradizioni cattoliche.Umberto Curi, in una delle relazioni storico-criti-che più analitiche ha affrontato in termini nuovi laquestione dell'identità veneta, diventata ora cen-trale per una serie di motivi analizzati con curadallo studioso. Egli è persuaso che la questionedell'identità non debba essere confinata “sul pianoriduttivamente culturale”, ma che occorra “farne ilmotore di una strategia proiettata all'avvenire”.Bruno Anastasia si pone il quesito se il ciclo “vir-tuoso” del Veneto stia per terminare o quali osta-coli non congiunturali debba superare per proce-dere ulteriormente. Paolo Biffis sottolinea il rile-vante e forse decisivo contributo che la finanza e ilcredito hanno dato allo sviluppo dell'economiaveneta, mentre Giovanni Costa e Ilaria Bettella sisono soffermati sul capitale umano del Veneto traXX e XXI secolo e, dati alla mano, istituiscono unaclassificazione delle “persone creative” presentinei capoluoghi di provincia, nella persuasione chela localizzazione di tali persone sia decisiva nellosviluppo economico di una regione. Francesco Favotto e Paolo Gubitta hanno traccia-to l'evoluzione della forma impresa, che nelVeneto ha espresso una vitalità e pervasività ecce-zionali, con un “forte radicamento territorialedelle reti economiche e sociali che uniscono tali

imprese”. Uno sguardo acuto sulla classe politicaveneta, in particolare sul personale politico demo-cristiano e comunista ha dato Monica Fioravanzo.La studiosa esprime, infine, un forte scetticismosulla possibilità che l'impetuoso sviluppo econo-mico del Veneto di questi ultimi decenni possaproseguire. Massimo Carraro ritiene che nel cetoindustriale veneto non ci sia una adeguata consa-pevolezza della nuova condizione che ha creato ilprocesso di globalizzazione alle attività industrialidel Veneto. Altri studiosi si sono soffermati suaspetti particolari ma rilevanti: Carlo Gregolin suicambiamenti nei servizi sanitari e sociali; MaraManente sul turismo; Paolo Scarpi sui modelligastronimici; Michele Zanette sulla finanza comu-nale del Veneto. Questo convegno è riuscito pie-namente sia nell'analisi storica che è a monte del-l'odierno sviluppo, sia nell'individuazione degliostacoli che occorre superare per dare continuitàa tale sviluppo, sia nell'indicare le prospettive peril futuro. Dalle relazioni su quest'ultimo aspettodella questione veneta emergono come centralisia la richiesta di una riduzione del fiscalismo daparte dello Stato, sia la necessità di una integra-zione dell'area veneta nell'ambito del mercatotedesco, ossia del modello franco-renano di uncapitalismo “temperato”, in grado di garantirecontinuità allo sviluppo.

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BRUNO MAIORCA (a cura di), Gra msci sa rdo.Antologia e bibliogra fia 1903-2006, IstitutoGramsci della Sardegna, Cagliari 2007

Non vi sono dubbi che nella formazione degli intel-lettuali e degli uomini politici italiani la nascita el’appartenenza a una determinata regione geogra-fica e storica ha un ruolo molto importante. Tuttala letteratura dei sardi su Gramsci e la Sardegna,accuratamente raccolta da Bruno Maiorca, mettein luce degli aspetti decisivi della personalità delpensatore politico sardo. Ma essa ha rispostoanche ad altre esigenze di carattere più propria-mente partitico e politico. Gramsci era sardo ma èstato anche molto influenzato dal sardismo, ossiada un pensiero politico e da un sentimento popo-lare fondato sulla reazione nei confronti della poli-tica dello Stato dei Savoia nei confronti dellaSardegna, e infine ha sviluppato delle specificheiniziative politiche nei confronti dei sardi anchequando militava nel partito socialista, e successiva-mente quando ha diretto quello comunista.Gramsci sardo, sardista, teorico della questionemeridionale tre aspetti che si saldano nella suaaffermazione relativa alla necessità della creazionedi una Repubblica federale degli operai e dei con-tadini nella lettera del 12 settembre 1923 per lafondazione dell’Unità. Gramsci federalista, dun-que? Se si rimuove l’affermazione di Gramsci sulfederalismo, è evidente che tutta l’analisi e la rico-struzione del suo intenso rapporto con laSardegna e con i sardi resta molto incompleta. Ilfederalismo gramsciano è la conclusione anchedella sua interpretazione della questione sarda.Non è affatto vero, come ha sostenuto ClaudiaPetraccone, che il federalismo di Gramsci abbia“un valore strumentale”. Gramsci non era affattopreoccupato dai fenomeni di opposizione che sisviluppavano nel Meridione mettendo in pericolol’unità nazionale; ne sottolineava l’acutezza.Che cosa ha gravato negativamente sugli studi esulle testimonianza di Gramsci sardo e sardista?Anzitutto la mancata informazione del distacco del

partito comunista dalla strategia elaborata daGramsci e conclusa con il congresso di Lione nel1926, congresso che aveva stabilito come obiettivopolitico l’Assemblea repubblicana sulla base degli“operai e contadini”. In secondo luogo l’atteggia-mento assunto da Palmiro Togliatti nei confrontidel federalismo nel 1945. Nel suo rapporto al VCongresso del Pci del dicembre 1945, Togliatti haassunto una posizione di principio antifederalista,la quale aveva certo delle motivazioni e delle giu-stificazioni nel pericolo della disintegrazionedell’Italia e nelle preoccupazioni per il Trattato dipace, ma proprio per il modo in cui è stata assun-ta, per il suo carattere assoluto, ha pesato negati-vamente anche nel caso specifico della ricerca edella interpretazione del federalismo di Gramsci.Nel 1919 e nel 1920 Gramsci ha scritto vari articolidedicati alla Sardegna che hanno accompagnato ilsuo intervento politico nei confronti dei soldatidella brigata Sassari che egli ha ricordato nel suosaggio su Alcuni temi della questione meridiona -le. Anche nel caso della Sardegna e del Partitosardo d’azione il suo percorso non è stato sempli-ce. Ancora nelle tesi del congresso di Lione (gen-naio 1926) i partiti meridionali dei ceti medi e inparticolare quello Sardo d’azione sono indicaticome un ostacolo alla realizzazione dell’alleanzafra operai e contadini. Il congresso di Lione non haaffatto risolto la questione del governo operaio econtadino, il nuovo obiettivo indicato da Lenin nelmomento del riflusso della rivoluzione a livellomondiale; la formula che consentiva alla classeoperaia di uscire dall’isolamento e dalla passività.Le tesi di Lione sono un passo indietro rispetto allalettera al Comitato esecutivo del PCI del 12 set-tembre 1923 relativa alla fondazione dell’Unità. Lacontraddizione fra i due documenti si spiega con gliorientamenti estremistici della maggioranza degliiscritti al partito comunista, ma anche con le incer-tezze politiche e teoriche dello stesso Gramsci. Laparola d’ordine della Repubblica federale è statarilanciata nell’Appello dell’Internazionale contadinarivolto al V Congresso del Partito sardo d’azione

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(27 settembre 1925) scritto da Ruggero Grieco, ilcollaboratore di Gramsci per il lavoro nei confrontidei contadini del Mezzogiorno e delle isole. Griecoha scritto anche un commento del congresso; è evi-dente che l’interesse di Greco per la Sardegna rien-tra nell’ambito dei suggerimenti gramsciani.Nel luglio 1926 Gramsci invia a Emilio Lussu unquestionario di sei domande relative alla situazio-ne politica sarda. Il fascismo è già al potere. Èmolto significativo che Grieco abbia sempre sotto-lineato la diversità della questione della Sardegnarispetto al Meridione, e nello stesso tempo si siaconfigurato come il dirigente post-gramsciano cheha ribadito più a lungo la posizione federalista delPCI almeno fino al 1932. Grieco è stato anche l’in-terlocutore privilegiato del federalista venetoSilvio Trentin, amico di Emilio Lussu durante glianni dell’emigrazione antifascista.Maiorca ha il merito di aver individuato e raccolto iprimi scritti di Gramsci (1903-1913) fino alla lette-ra inviata a Alfredo Deffenu del Gruppo sardo dellaLega antiprotezionista. Oltre a tutti gli scritti deisardi su Gramsci. Ma che senso ha troncare la pub-blicazione degli scritti di Gramsci al 1913? Gli scrit-ti gramsciani di maggiore interesse sulla Sardegnasono quelli successivi. Inoltre gli scritti politici sullaSardegna per essere comprensibili devono essereaccostati ad altri scritti sul fronte unico, sul fasci-smo, nei quali sono espressi i criteri politici gene-rali in base ai quali Gramsci ha aggiornato e svilup-pato il suo modo di affrontare la questione sarda equella del federalismo. La questione sarda non puòessere separata da quella generale dello Stato cen-tralista italiano che Gramsci ha analizzato in modofino ad ora insuperato. Maiorca dà l’impressione diaver mosso la sua ricerca nell’ambito di un pensie-ro politico autonomistico sardo, che Gramscimediante un processo complesso ha superato indi-cando nel 1923 l’obbiettivo della Repubblica fede-rale degli operai e dei contadini.

(Elio Franzin)

ALESSANDRO MINELLI (a cura di), Attua lità diDa rwin, Il Poligrafo, Padova 2006, pp. 84,€ 15.

I recenti dibattiti sul darwinismo fanno da sfondo aquesto libro collettivo originato da una serie di

“lezioni” tenute, da parte di specialisti legati all’uni-versità patavina, sotto il patrocinio dell’Accademiagalileiana.Nel volume, nonostante la non grande mole, sonotoccati i problemi più scottanti, direi i punti nevral-gici della grande teoria che ha rivoluzionato tanticampi scientifici: una teoria che “è venuta evolven-dosi nel tempo rispetto all’iniziale modello darwi-niano”, quindi “in continuo divenire, spesso pro-blematica e magari pluralistica, come necessaria-mente accade per i frutti della ricerca scientifica”.Così afferma Alessandro Minelli nella Presentazione.Dallo stesso Minelli ci viene poi un’essenziale e illu-minante esposizione di quel settore nuovo (di cuiquest’autore è uno dei maggiori specialisti) che vasotto il nome di evo-devo, abbreviazione di evolu-tiona ry developmenta l biology (biologia evoluzio-nistica dello sviluppo), una sintesi tra biologiadello sviluppo (ontogenesi) e biologia evoluzioni-stica. Se si domanda, ad esempio, perché un ani-male è fatto proprio in questo modo, si possonodare “due diversi tipi di risposta. Se con taledomanda vogliamo in realtà sapere come una spe-cifica forma è stata realizzata, dobbiamo calarcinella logica della biologia dello sviluppo, e andarein cerca di meccanismi di proliferazione e di diffe-renziamento cellulare, di trascrizione differenzialedei geni, di specificazione e realizzazione di organi.Se invece la nostra domanda sul perché di unaforma biologica si riferisce al valore di questa per lasopravvivenza dell’organismo, allora ci dobbiamospostare nel dominio della biologia evoluzionistica,per vedere come differenze anche piccole (…) pos-sano avere ripercussioni sul successo adattativo”.Un altro intervento alquanto “tecnico”, ma sugge-stivo, è quello di Andrea Pilastro, il quale ricordacome – oltre alla selezione naturale attraversocompetizione diretta dei maschi per il possessodelle femmine – ci fosse già in Darwin una sele-zione attraverso la “scelta femminile”, rivolta aimaschi forniti di maggiori “ornamenti”. Solo negliultimi decenni si è giunti a dare un’appropriataspiegazione scientifica, sintetizzata in queste pagi-ne, a questo secondo aspetto, che lasciava scetticimolti studiosi. Una vivace descrizione autobiogra-fica di una cospicua serie di ricerche sul campo daparte di un veterano della biologia evoluzionisticaci viene offerta da Bruno Battaglia, con una note-vole verve narrativa. Un racconto che dà anche

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un’idea efficace di questo campo di studi, delle suedifficoltà e vicissitudini.Ravvivate da vis polemica sono le pagine cheGianantonio Danieli dedica alle recenti discussionitra sostenitori e avversari dell’evoluzionismo, iquali ultimi, curiosamente, sono forti soprattuttonegli USA, una società all’avanguardia in camposcientifico, anche in quello specialistico dell’evolu-zione, eppure ancora alquanto chiusa sul piano diuna cultura scientifica come visione del mondobasata sulle scienze. Tutto ciò affetta particolar-mente il campo scolastico. Del resto anche da noi,negli ultimi anni, ci sono stati tentativi di emargi-nare dall’insegnamento medio la teoria dell’evolu-zione. Si sono rimessi in discussione gli stessi pro-nunciamenti della chiesa che in un messaggio diGiovanni Paolo II alla Pontificia Accademia delleScienze, del 1996, sembrava aver sostanzialmenteaccettato il principio evoluzionistico. A dire il vero, oggi, più che escludere questo prin-cipio in assoluto, i negatori si sono concentrati sulsuo inquadramento, per cui magari può passareun’evoluzione in generale, purché le si dia unosfondo teleologico legato alla sapienza del creato-re e non al “caso” darwinista. Le “evidenze” in favo-re della trasformazione delle specie stanno dimo-strandosi così forti da farla considerare un “dato difatto”, come osserva Oddone Longo, e non certoun’ipotesi qualsiasi. Ciò che ancora suscita mag-giori resistenze è invece il concetto del cosiddetto“disegno intelligente”: un progetto evolutivo dellespecie viventi elaborato in qualche modo da unamente superiore intelligente, divina (un discorsoche esula dal metodo della scienza, ma che secon-do i suoi sostenitori sarebbe richiesto da un’esi-genza razionale di spiegare l’estrema complessitàdei fenomeni naturali). Ma forse ancor più “diffici-le da digerire”, a parere di Longo, è la diffusaimmagine (neo)darwinista che vede nei viventi (inquanto derivano da mutazioni casuali e cieca sele-zione naturale) “non già dei protagonisti ma dellecomparse passive, del puro materiale, se non pro-priamente inerte, quasi, sul quale si eserciterebbe-ro gli esperimenti del processo evolutivo stesso”.Un particolare impegno del libro si nota anche neiconfronti del problema del rapporto tra l’evoluzio-ne dell’organismo e quella della mente. Gli esseriumani - così Giovanni Felice Azzone sintetizzaalcuni recenti risultati delle ricerche su questo pro-

blema - sono costruiti “sia come macchine deter-ministiche mediatori di geni che come sistemi cheagiscono come mediatori di memi, gli strumentidella trasmissione culturale fra le generazioni. Imembri della specie umana sono in grado di modi-ficare i vincoli dello sviluppo imposti dai genimediante gli effetti dei memi”, che costituisconoper così dire le unità di trasmissione culturale. Conla loro attività mentale, fornita di intenziona lità ,gli uomini possono in qualche modo scegliere tragli agenti che influiscono su di essi e sui lorodiscendenti, condizionando i percorsi evolutividella società umana e del suo ambiente.Analogo problema quello della responsabilitàmorale, al cui proposito Giovanni Boniolo pone lacruciale domanda se si possa “naturalizzare” l’eti-ca, nel senso di far dipendere tutti i nostri com-portamenti da spinte e leggi naturali, oggetto dellabiologia evoluzionistica. Per rispondere occorreanzitutto distinguere le “condizioni abilitanti lacapacità morale” dai “giudizi morali” propriamenteintesi, cioè dalle valutazioni sui propri comporta-menti. E su questa base Boniolo sostiene quellache chiama una “naturalizzazione debole dell’eti-ca, ossia solo delle condizioni abilitanti”, intenden-do con queste ultime le condizioni neurofisiologi-che che permettono un dato sviluppo conoscitivoed emotivo e una certa serie di istinti che vengonoereditati. Ma oltre a ciò che è istintivo abbiamo icomportamenti “abituali” legati a relazioni cultura-li ecc.. In conclusione, i comportamenti sonomorali perché così valutati da un particolare ani-male, cioè l’uomo, dotato di capacità morale dovu-ta al suo stadio evolutivo cerebrale, mentre i com-portamenti in sé non sono intrinsecamente moraliné immorali). E ciò mi pare che possa anche con-tribuire a rispondere alle preoccupazioni circa la“passività” dell’uomo rispetto all’evoluzione deisuoi processi più qualificanti.

(Ferdinando Bidoni)

WILHELM WUNDT, Scritti scelti, a cura di ClaudioTugnoli, Utet, Torino 2006, pp. 927, € 90.00.

Il primo volume della collana “Classici della psico-logia”, diretta da Umberto Galimberti, pubblica iLinea menti di psicologia e gli Elementi di psico-

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logia dei popoli tradotti e prefati da ClaudioTugnoli. Due opere di sintesi che illustrano i duecampi in cui Wundt (1832-1920) fornì contributieccezionali, che hanno orientato tre generazioni distudiosi. Il suo programma di ricerca è sorretto daun’idea di fondo: come Auguste Comte con ilCorso di filosofia positiva ha dato alla culturaeuropea un’enciclopedia del sapere scientifico(compresa la sociologia), così Wundt ha intesocostruire un’enciclopedia delle scienze morali (oumane) fondate sulla psicologia. Nel Sistema della filosofia Wundt spiega come l’e-voluzione della filosofia ne abbia mutato profon-damente il senso e la funzione. La funzione gene-rale della filosofia nell’attuale sistema delle scienzeconsiste nella connessione delle singole scienze inuna visione del mondo e della vita che soddisfi leesigenze dell’intelletto e i bisogni del sentimento.Wundt si richiama esplicitamente a Comte e aHume quali ispiratori delle due correnti del positi-vismo moderno alle quali si devono ricondurre ledue concezioni fondamentali, che fa della filosofiauna scienza generale e la trasforma in una enciclo-pedia della scienza, e quella che indaga le condi-zioni generali del conoscere e dell’agire applican-do la psicologia empirica. La filosofia deve consi-derare le scienze come proprio fondamento, non ilcontrario. Solo se la filosofia poggia sulle scienzepotrà evitare ogni preferenza unilaterale di deter-minati punti di vista scientifici, per i quali non pos-siede alcuna competenza. Il compito della filosofia,dopo la costituzione delle scienze particolari, nonè quello di riproporsi come scienza, ma di ordina-re quelle esistenti. La filosofia permette di distin-guere tra la matematica, che indaga i propri ogget-ti esclusivamente in base alle loro proprietà for-ma li, e le scienze reali, che si suddividono a lorovolta in scienze della natura e scienze dello spirito.Wundt precisa che la realtà è una e che le scienze- formali e reali, della natura e dello spirito - sicostituiscono per astrazioni successive. Perciò laloro differenza non è un’immediata differenza dioggetti. Le scienze della natura si dividono a lorovolta in due ambiti, corrispondenti rispettivamen-te ai processi fisici e agli oggetti fisici.Il primo obiettivo è di dotare la psicologia di unmetodo sperimentale; ciò non significa applicaread essa il paradigma della meccanica o di altrascienza, come accadrà in seguito, ma usare l’osser-

vazione e l’esperimento con il proposito di con-trollare con rigore le conclusioni cui giunge l’inda-gine. In questo modo Wundt riteneva di potersuperare l’obiezione di Comte circa l’impossibilitàdi fondare una scienza sull’introspezione; nellaprospettiva wundtiana, invece, la scienza risulta“fondata sull’autoanalisi condotta con metodo spe-rimentale”. Wundt rileva che la psicologia del suotempo è sostanzialmente rimasta ancorata all’im-postazione aristotelica, e critica radicalmente i duemodelli, spiritualistico e materialistico, alloradominanti, ciascuno dei quali nasce dalla filosofiadi Cartesio e dalla sua separazione di res cogita nse res extensa . La vita psichica, afferma Wundt, è unfenomeno unitario e complesso; parte da elemen-ti semplici che via via si intrecciano e concresconoinsieme. I primi sono la sensazione e la percezio-ne: fenomeni in cui si innervano le sfere del fisicoe dello psichico. Egli critica radicalmente lo spiri-tualismo e il materialismo perché forniscono unmodello riduttivo della psicologia, o riconoscendoil primato dell’anima (o mente, o spirito) o ricon-ducendo la coscienza a processi chimici e fisici. Laconseguenza è che entrambi negano l’autonomiadella psicologia, facendone un’appendice dellafilosofia o della fisiologia.Data la complessità del “fenomeno coscienza”, duesono le discipline che possono contribuire a farneuna scienza: la psicologia evolutiva e quella com-parata. La prima ci dice come è evoluta la vita psi-chica dell’uomo, la seconda descrive le caratteristi-che della vita psichica degli animali. Non solo:Wundt allarga il ventaglio delle discipline che pos-sono informarci sullo sviluppo storico della psiche.Impostando storicamente l’analisi dello svolgimen-to del linguaggio, del mito, della religione, deicostumi, possiamo conoscere l’evoluzione spiri-tuale dell’umanità. Poiché tutti questi fenomenirientrano nella sfera della psicologia, nasce da ciòl’esigenza di delineare una “psicologia dei popoli”,che con la psicologia scientifica istituisce un rap-porto indisgiungibile. Wundt ha dedicato gli ultimivent’anni della sua attività a raccogliere un enormemateriale confluito nei dieci volumi della suaPsicologia dei popoli (o psicologia sociale).Dopo l’insegnamento di antropologia e psicologiaad Heidelberg nel 1864, Wundt si trasferì a Lipsia,dove, dal 1875, ebbe la cattedra di filosofia, il chelo indusse ad affrontare il problema dei rapporti

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tra psicologia (come scienza) e filosofia, nell’ambi-to di un dibattito che interessò tutto il Novecento.Wundt rifiuta la soluzione che considera la psico-logia una scienza dello spirito, e quella che la ritie-ne parte integrante della filosofia. Dopo aver stabi-lito una netta distinzione tra la funzione esplicativadel sapere e quella pratica, Wundt mantiene fermal’idea che la psicologia è scienza sperimentaleautonoma, anche se le questioni che essa affrontaimplicano una riflessione di carattere filosofico.Compito della scienza è di fornirci una conoscenzarazionale dei fenomeni naturali; ma essa è neutra-le, nel senso che i suoi risultati non implicano scel-te filosofiche e pratiche; gli eventuali effetti di rica-duta possono certo rivelarsi utili, ma rimangonosecondari rispetto alla struttura formale e alle fina-lità della scienza. Nel sapere scientifico si esauriscequasi completamente la conoscenza della realtà, ela filosofia, afferma Wundt, è “la scienza generaleche deve riunire in un sistema privo di contraddi-zioni le nozioni generali fornite dalle singole scien-ze”. Dopo che le scienze hanno raggiunto un altogrado di sviluppo, cambia necessariamente il ruolodella stessa filosofia: essa non può più prescrivereciò che la scienza deve fare, né fornire un fonda-mento alla razionalità scientifica. Ciò che le rimaneda fare è un compito squisitamente metodologico:rendere coerente l’edificio della scienza, togliendoeventuali contraddizioni, dato che una teoria cheabbia al suo interno una contraddizione, non pos-siede valore conoscitivo alcuno.Come è noto, il modello wundtiano di psicologiaha subito un’eclissi con l’emergere della “psicolo-gia della forma”; ma nelle due opere di questovolume ritroviamo problemi e soluzioni su cui

generazioni di psicologi si sono misurati. Uno deilati più validi del pensiero dello psicologo tedescoconsiste nella ricchezza delle argomentazioni cheegli sa allestire per polemizzare, in termini presso-ché definitivi, nei confronti della concezione spe-culativa e materialistica della psicologia. Dueorientamenti che, in cambio, hanno condizionatola genesi della psicologia italiana: quello speculati-vo, espresso da Roberto Ardigò (che su Wundt halasciato un ampio lavoro inedito), e quello biologi-co da Giuseppe Sergi.L’analisi wundtiana dei diversi linguaggi (delcorpo, dei sordomuti, ecc.) e delle loro caratteri-stiche peculiari, prelude a una concezione moder-na della cultura come un serbatoio di codici lin-guistici. Sono da segnalare altresì le analisi condot-te con acume sugli equivoci logico-linguistici che sipresentano in psicologia, equivoci che saranno alcentro del pragmatismo di Vailati. Né va sottovalu-tata la sua analisi della psiche degli animali, l’ideadi valutarne il comportamento in analogia conquelli umani, senza cadere in una visione antropo-morfica. (L’analogia degli esseri viventi fu sostenu-ta dalla scuola razionale di Malpighi continuata daVallisneri). Né è da dimenticare che la distinzionewundtiana tra psicologia come scienza e come filo-sofia, è stata raccolta, ma diversamente risolta, daalcuni psicologi italiani. Basterà citare la posizionedi Vittorio Benussi il quale, in polemica con lo spi-ritualista Francesco De Sarlo, difese una posizioneanaloga a quella wundtiana.

(Mario Quaranta)[email protected]

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