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1 MODULO 2 Varietà, registri, usi dell'italiano; bilinguismo e multilinguismo Patricia Bianchi, Università Federico II, Napoli Immacolata Tempesta, Università di Lecce Autori: Patricia Bianchi (prof. associato di Linguistica italiana, Facoltà di Lettere e Filosofia.) per la parte: "Varietà, registri, usi dell'italiano" § 2.9- 2.13 Immacolata Tempesta (prof. straordinario di Linguistica italiana, Facoltà di Lingue e Letterature straniere) per la parte: "Bilinguismo e multilinguismo nel repertorio dell'italiano" § 2.1- 2.8

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MODULO 2 Varietà, registri, usi dell'italiano; bilinguismo e multilinguismo Patricia Bianchi, Università Federico II, Napoli Immacolata Tempesta, Università di Lecce Autori: Patricia Bianchi (prof. associato di Linguistica italiana, Facoltà di Lettere e Filosofia.) per la parte: "Varietà, registri, usi dell'italiano" § 2.9- 2.13 Immacolata Tempesta (prof. straordinario di Linguistica italiana, Facoltà di Lingue e Letterature straniere) per la parte: "Bilinguismo e multilinguismo nel repertorio dell'italiano" § 2.1- 2.8

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Indice: 2.0 PRESENTAZIONE DEL MODULO 2.1 LA COMUNITÀ LINGUISTICA2.1.1 Rete sociale e varietà della lingua 2.2. IL REPERTORIO LINGUISTICO 2.3 IL BILINGUISMO2.3.1 Il bilinguismo individuale2.3.2 Il bilinguismo sociale 2.4 LA DIGLOSSIA 2.5 IL CAMBIO

2.6 IL MULTILINGUISMO2.6.1 La dominanza 2.6.2 Le lingue tetto

2.7 LA PERCEZIONE 2.7.1 La percezione geolinguistica 2.7.2 La percezione sociale 2.8 L'ATTEGGIAMENTO 2.8.1 La valutazione 2.9 L’ITALIANO: GAMMA DI VARIETÀ 2.11 L’ITALIANO: GAMMA DI VARIETÀ 2.12 LA VARIAZIONE DELL’ITALIANO IN SINCRONIA2.12.1 L’area geografica2.12.2 Il gruppo sociale2.12.3 La situazione comunicativa2.12.4 Il mezzo fisico-ambientale 2.13 LA VARIAZIONE DELL’ITALIANO IN DIACRONIA2.13.1 Registri e stili del discorso

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2.14.2 Sottocodici e lingue speciali 2.15 DALL’ITALIANO STANDARD ALL’ITALIANO DI USO MEDIO 2.16 GUIDA BIBLIOGRAFICA

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2.0 PRESENTAZIONE DEL MODULO Nel modulo sono trattate, nella prima parte, le nozioni basilari sul repertorio linguistico, sul bilinguismo, sul multilinguismo, sulla percezione e la valutazione delle lingue in un repertorio plurilingue, in particolare nelle situazioni di contatto ricorrenti nel repertorio dell'italiano, caratterizzato dalla compresenza di italiano, varietà dell'italiano, dialetti dell'italiano, lingue minoritarie, lingue straniere, dialetti stranieri nella competenza degli immigrati. Il modulo può essere integrato con il modulo riguardante la pedagogia interculturale (Modulo 1). La seconda parte riguarda gli aspetti della variazione linguistica sulle dimensioni della diamesia, della diafasia, della diatopia, della diastratia e della diacronia. Sono riportate indicazioni di base sul concetto di varietà, nella sua connotazione linguistica e sociale, sui registri, sulla zona di contatto fra italiano standard e italiano dell'uso medio. Non sempre il parlante ha consapevolezza nell’uso delle varietà, specialmente regionali, e non sempre è chiaro il rapporto tra dialetto, italiano regionale e standard. Anche il concetto di norma e di modello di italiano devono essere ripensati con la comparazione agli usi medi dell’italiano. L’insegnante dovrà avere un quadro di riferimento delle dimensioni della variazione per orientare alunni italiani e stranieri nella produzione scritta e parlata e per valutarne linguisticamente i risultati ma anche per promuovere l’osservazione dei fenomeni linguistici nell’italiano.

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Sezione 1 BILINGUISMO E MULTILINGUISMO NEL REPERTORIO DELL'ITALIANO di Immacolata Tempesta 2.1 LA COMUNITÀ LINGUISTICA I "Una lingua non è un’entità che si mantiene da sola, ma è qualcosa che esiste solo laddove esiste una comunità che la parla e la trasmette" (Romaine, Nettle, 2001, p. 18). La comunità linguistica è definita su basi linguistiche, anche se rimanda a molti altri elementi, geografici, culturali, politici, sociali, interazionali, cognitivi. Al concetto di comunità linguistica introdotto nel 1933 da Bloomfield, che la definisce come l’insieme di tutte le persone che usano una determinata lingua, Fishman (1975) aggiunge altri elementi così che, secondo lo studioso, “una comunità linguistica è quella comunità i cui membri hanno tutti in comune almeno una varietà di lingua e le norme per il suo uso appropriato”. Hymes (1980) definisce la comunità parlante o speech community come comunità che condivide la conoscenza di regole per produrre ed interpretare il parlare. I suoi membri condividono cioè la conoscenza di almeno un tipo di parlata e dei suoi schemi d’uso. Una comunità dovrebbe, in generale, presentare una determinata lingua o varietà, avere una delimitazione socio-geografica, seguire comportamenti linguistici e norme comuni, assumere atteggiamenti sociali condivisi nei confronti della lingua, dovrebbe stabilire e sostenere un sentimento di appartenenza che oppone il “noi” agli altri. Il linguaggio diventa, in questo contesto, un legame sociale primario, un mezzo di associazione, un veicolo di identificazione e di appartenenza al gruppo. Attraverso la lingua si rappresenta la realtà, si forma l'identità, si rende riconoscibile lo “straniero”. Tessarolo (1990) scrive che “se l’identità ha bisogno di essere socializzata per consolidarsi, la lingua viene ad assumere un’importanza fondamentale come elemento di identificazione” (p. 32). La comunità linguistica si serve della lingua non solo per veicolare messaggi e contenuti ma anche e soprattutto per marcare la propria identità linguistica e culturale. Una volta determinata la nozione generale di comunità linguistica, è necessario tenere presente che in molti casi le comunità reali non presentano tutti gli elementi considerati, si presentano invece complesse, con forti frantumazioni interne di comportamento e di atteggiamento, tanto da essere considerate più una somma di reti sociali, che un unico gruppo coeso e uniforme. Le comunità, come le lingue, non sono fissate una volta per tutte. Gli stessi fattori che ne costituiscono la nascita e il mantenimento, geografici, culturali, politici, sociali, interazionali, cognitivi, possono determinarne il cambiamento. Come scrive Rosiello (1979) "ogni mutamento storico comporta mutamenti nel sistema ideologico e semantico di una società; ciò provoca dei mutamenti linguistici relativi al nesso di associazione tra forme grammaticali (lessicali, sintattiche, ecc.) e contenuti di pensiero, che possono determinare un nuovo assetto

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sistematico della lingua.[…] L’instaurarsi di nuovi rapporti sociali, l’emergenza di nuove tendenze culturali sono la causa di mutamenti di comportamento linguistico" (p.314).

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2.1.1 Rete sociale e varietà della lingua I L'utilizzazione delle reti sociali come strumento d'analisi, ha avuto, nell'ultimo ventennio, un notevole sviluppo, non solo in campo antropologico e sociale ma anche negli studi sulla variazione linguistica. Con il concetto di rete sociale, introdotto già dagli anni '40, si indica l'insieme di persone con cui un attore sociale di riferimento, detto Ego, intrattiene rapporti comunicativi in un determinato spazio di tempo. Boissevain (1987) rappresenta la rete come una cipolla formata da più strati o zone: la cella personale, che consiste di pochi amici intimi e parenti stretti, la zona confidenziale, composta da parenti e amici più distanti emozionalmente; la zona strumentale (o utilitaristica), composta da persone con le quali si mantengono i rapporti in quanto possono risultare utili; la zona nominale, costituita da persone che hanno per l'Ego poca importanza sia strumentale che emozionale. Questa zona è seguita dalla zona estesa (o allargata) i cui membri sono conosciuti solo casualmente dall'Ego. II Il concetto di rete è stato introdotto per analizzare alcuni fenomeni non riconducibili entro le categorie tradizionali delle scienze sociali, come la classe e il gruppo. Queste categorie sono di tipo macrosociologico, presentano confini e posizione ben definiti, appartengono ad un approccio statico dell'analisi sociale. La rete invece ha un carattere microsociologico, appartiene ad un approccio di tipo processuale: lo studio sulle rete ha come centro d'attenzione l'individuo, che usa le reti per conservare o modificare gli attributi sociali a proprio vantaggio. In molti studi l'analisi di rete risulta integrata con l'analisi dei gruppi e delle classi. Sia la classe che la rete sono meccanismi di applicazione delle norme sociali, anche se la classe agisce sull'individuo in modo meno diretto della rete. La classe e la rete sembrano essere rapportate anche dal tipo di aggregazione sociale poiché in una rete si tende a stabilire contatti soprattutto con attori che appartengono alla stessa classe sociale. Questa configurazione può tuttavia cambiare in quanto le azioni strumentali e le risorse acquisite possono attivare processi di mobilità sociale e di apertura delle reti che cambiano la posizione sociale e la collocazione in rete dell'attore. La nozione di rete è in parziale sovrapposizione anche con quella di gruppo. Esistono, per esempio, varie strategie di riconoscimento e di adesione ad un gruppo che portano a stabilire continui contatti tra i membri di un gruppo primario e a rafforzarne la rete. III Nello studio delle reti si distinguono le caratteristiche interazionali da quelle strutturali. Sono definite proprietà strutturali: - la densità, cioè il rapporto tra i contatti reali avvenuti in un intervallo di tempo tra gli individui di una certa rete e l'insieme dei contatti che si otterrebbe se tutti gli attori fossero in relazione tra di loro. La densità viene calcolata con la formula 100 X Na%

N

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in cui Na indica il numero dei contatti attuali e N il numero dei contatti potenziali. Ad esempio, nella rete rappresentata dalla fig. 1 la densità è di 0,35 (5 contatti sui 14 possibili se i 6 attori fossero tutti collegati tra di loro) Fig. 1

Ego

- la multiplessità, che è data dalla quantdel network: per legame multiplo si intedi lavoro. Se la rete è costituita da attdefinisce uniplessa, se i rapporti sono chiamata multiplessa. Le relazioni multinfluenza sui componenti della rete, risp- la centralità, che riguarda la struttura p- la raggiungibilità, che è data dalla proqualsiasi punto. A seconda del tipo di legami tra gli attosi tratta di associazioni informali di psviluppato sentimento di appartenenzafondamentali per l'integrazione comunitSono considerate proprietà interazionafrequenza, l'intensità, la durata, i contsingoli o multipli). Le reti sono formate da relazioni di divdi risorse, ma anche di conflitto. IV Fra le ipotesi più importanti emersall'opposizione degli Ego rurali a quelmaglia stretta, ad alta densità, e con cvengono definite a maglia larga, di bcrescere del grado di urbanizzazione lepiù diversificate, meno dense, più specparenti e dei vicini rispetto a quello degIn campo sociolinguistico il concetto comportamento linguistico in una comu

ità di relazioni plurime che si instaurano tra i membri nde un legame a più dimensioni, ad es. di parentela e ori che hanno un rapporto di un solo tipo la rete si contemporaneamente di natura diversa la rete viene iplesse vengono considerate più potenti, in termini di etto alle uniplesse; iù o meno centripeta della rete;

porzione di attori della rete che sono contattabili da un

ri le reti possono formare dei clusters o delle cliques: ersone che hanno un alto grado di intimità e uno

e di lealtà al gruppo. Le cliques sono considerate aria e la stratificazione sociale. li, delle singole relazioni: la direzione dei contatti, la enuti (che possono essere materiali e non materiali,

erso genere, simmetriche o asimmetriche, di scambio

e dagli studi sulle reti troviamo quella relativa li urbani. Le reti rurali vengono indicate come reti a ontenuti relazionali poco specializzati; le reti urbane assa densità e con contenuti molto specializzati. Al reti interpersonali tenderebbero ad essere più ampie, ializzate e con un diminuito peso delle relazioni dei

li amici. di rete è stato utilizzato, in generale, per studiare il nità, in contesto sociale e in situazioni di “everyday

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life”. L'ipotesi di correlazione sociolinguistica proposta dalle diverse ricerche sembra essere questa: una rete sociale a struttura relazionale densa, a maglie fitte, presenta una forte caratterizzazione delle norme interne al gruppo, un grado elevato di lealtà culturale e linguistica; una rete sociale poco densa, a maglie larghe, con legami più numerosi e meno multiplessi presenta comportamenti meno coesi e favorisce la diffusione delle innovazioni, anche di quelle che non valgono come contrassegno di identificazione e di lealtà al gruppo. V Lo studio dell'interazione come momento rituale in cui contano le relazioni fra gli attori, le loro immagini sociali e il diritto di non violazione del proprio territorio e della propria azione indica la collocazione in rete come uno dei fattori più rilevanti per la scelta linguistica (Tempesta 1998). In una ricerca condotta in Salento è stato rilevato che nella cella, nelle relazioni personali, a differenza di quanto avviene nelle zone allargate e nelle relazioni transazionali, è ammesso l'uso frequente di nomignoli, di espressioni tabu, di epiteti irriguardosi che servono a rafforzare la coesione stabilendo rapporti di camaraderie. La lingua risulta 'giocata' socialmente e simbolicamente come liberazione, come violazione consensuale, dalle interdizioni e dalle regole formali della cortesia goffmaniana, usata per stabilire una sorta di spazio privato tendenzialmente coprolalico, ma fortemente affettivo (Tempesta 1998). La cella salentina appare in generale molto connotata linguisticamente: è la fascia in cui dilaga il misto ma si conserva meglio il dialetto. Le celle più conservative risultano quelle dei gruppi sociali più bassi dei piccoli centri, le celle più innovative quelle giovanili, di alta scolarità, dei centri urbani (Tempesta 2000).

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2.2. IL REPERTORIO LINGUISTICO I Il repertorio linguistico di una comunità comprende l'insieme delle risorse linguistiche disponibili in quella data comunità linguistica. Tali risorse vanno considerate nei rapporti e nella distribuzione gerarchica che le lingue e le varietà di un repertorio presentano nei continui contatti tra di loro. I repertori sono in genere plurilingui e comprendono più varietà. Il repertorio dell'italiano contemporaneo comprenderà, indicando sinteticamente i sistemi principali, l'italiano standard, l'italiano comune, l'italiano regionale, l'italiano popolare, l'italiano L2, la koinè dialettale, il dialetto e le sue varietà, le lingue di minoranza storica o di antico insediamento e le loro varietà, le lingue degli zingari, le lingue straniere e i dialetti presenti soprattutto fra gli immigrati, il misto tra due o più lingue o varietà. L'insieme di queste varietà deve essere considerato nelle dinamiche che attraversano il repertorio e costituiscono la cosiddetta architettura dell'italiano contemporaneo (si veda Berruto 1993a e 1993b). II Accanto alle minoranze storiche e alle minoranze diffuse, il panorama linguistico e culturale italiano, come quello europeo, presenta un fenomeno nuovo e in costante crescita: la formazione di consistenti gruppi di cittadini immigrati provenienti da diversi paesi e di parlata diversa da quella nazionale che vengono denominati “nuove minoranze”. Questi gruppi in molti casi non indicano delle vere minoranze poiché non formano entità socialmente aggregate, riconoscibili per la presenza di proprie istituzioni e strutture di vita comunitaria, non condividono un progetto migratorio di lunga durata, né la volontà di conservare la lingua, la cultura, la religione e l'identità di origine. Le lingue d'origine di queste minoranze sono quanto mai varie, sia perché gli immigrati provengono da paesi diversi sia perché in alcuni di questi paesi si parlano più lingue locali, tribali. Secondo il Dossier Statistico Immigrazione della Caritas (2002) i paesi da cui provengono i lavoratori extracomunitari sono l'Albania, il Marocco, la Romania, la Svizzera, la Jugoslavia, la Tunisia, il Senegal, la Cina, la Polonia. I principali paesi di origine dei lavoratori domestici extracomunitari sono le Filippine, il Perù, lo Sri Lanka, la Romania, la Polonia, l'Albania, il Marocco, l'Etiopia, la Repubblica Dominicana, l'Ecuador, la Somalia, il Capo Verde, il Brasile, la Nigeria, le Mauritius, lo stato di El Salvador.

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2.3 IL BILINGUISMO I Prima di parlare di aree bilingui e multilingui è opportuno operare una distinzione tra situazioni di frontiera e situazioni all’interno di uno Stato. Nelle zone di confine la sovrapposizione di due o più varietà di lingua è inevitabile poiché i confini politico-geografici non sono uguali a quelli linguistici. Le comunità con più lingue che si trovano all’interno di uno Stato hanno invece un passato storico che ha permesso l’insediamento di genti dalle lingue e dalle culture diverse, o sono interessate da fenomeni di immigrazione che portano al contatto tra molte lingue. Nel mondo vi sono molte comunità che parlano più lingue, e in queste comunità il bilinguismo rappresenta quasi una regola. In generale si intende per bilinguismo la compresenza di due lingue, individuale se il punto di riferimento è dato dal singolo parlante, sociale se il punto di riferimento è dato da un repertorio comunitario. Sul bilinguismo esistono diverse interpretazioni.

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2.3.1 Il bilinguismo individuale II Per il bilinguismo individuale si va da una definizione per cui si dichiara bilingue chiunque parli più di una lingua a quella per cui si giudica bilingue solo chi parla perfettamente due lingue. Tra i criteri principali sui quali si basano le diverse definizioni troviamo il grado di competenza nelle due lingue, il modo di apprendimento, che può essere simultaneo o aggiuntivo, l'età dell'apprendimento bilingue che può essere più o meno precoce. III Moretti, Antonini (2000) distinguono nelle competenze individuali tre possibili situazioni: quella di monolingue che parla una sola lingua, quella di bilingue e quella di monolingue che ha acquisito o appreso una lingua seconda. Il bilinguismo può cambiare nel corso della vita a seconda degli usi e dei bisogni: si possono avere fasi di bilinguismo ascendente quando si progredisce nella competenza linguistica diversa da quella materna, di bilinguismo recessivo quando la competenza bilingue diminuisce. Si può avere un bilinguismo attivo quando le due lingue vengono non solo comprese ma anche prodotte, un bilinguismo passivo quando una lingua è disponibile per la comprensione ma non è usata per la produzione. Figure particolari di potenziali bilingui sono quelle del cosiddetto parlante evanescente e del rememberer, che può essere stato parlante abile nel passato. IV Non tutti i bilingui arrivano allo stesso grado di competenza in entrambe le lingue. Possiamo avere casi di ambilinguismo o di bilinguismo perfetto quando una persona usa bene entrambe le lingue in tutti i contesti, casi di bilinguismo dominante quando la competenza in una lingua, generalmente quella materna, è superiore rispetto all’altra, casi di semilinguismo quando il parlante non conosce bene nessuna delle due lingue. Si distingue anche tra bilinguismo precoce e bilinguismo tardo. Il bilinguismo precoce si ha quando il contatto con entrambe le lingue avviene entro il primo mese di vita, tardo quando viene appresa inizialmente solo una lingua, seguita dall'apprendimento consecutivo di un'altra lingua.

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2.3.2 Il bilinguismo sociale V Il bilinguismo sociale può essere monocomunitario quando tutta la comunità è bilingue come nella Valle d'Aosta, o bicomunitario come nell'Alto Adige/Südtirol, o isolato quando il bilinguismo riguarda un parlante che a causa di un trasferimento o per il carattere misto della propria famiglia, è costretto a imparare due lingue, pur vivendo in una comunità monolingue. Il bilinguismo può essere esogeno, o esocomunitario, quando nuove immigrazioni portano dall'esterno lingue diverse. Nel bilinguismo, come nel plurilinguismo in generale, nascono frequentemente conflitti di lingue e culture, processi di sostituzione di lingua, influssi vari da un sistema linguistico sull'altro. Le lingue compresenti non sono paritarie e intercambiabili come vorrebbe la definizione, in genere una domina sull'altra o sulle altre. Le diverse lingue vengono usate diversamente nei diversi domini. A seconda dell'estensione e della distribuzione nei vari domini abbiamo una diversa configurazione della dominanza linguistica. Una lingua sarà tanto più dominante quanto maggiore sarà il numero dei domini in cui è presente. Mutamenti nella distribuzione delle lingue nei diversi domini fanno diagnosticare un indebolimento linguistico e quindi l'invasione di una lingua su un'altra. Le lingue che si trovano in situazioni di svantaggio possono essere favorite dall'impiego in alcuni domini, come quello scolastico.

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2.4. LA DIGLOSSIA I La diglossia è stata studiata inizialmente da Ferguson alla fine degli anni ’50. Indica la compresenza di più lingue o varietà socio- funzionalmente differenziate che hanno cioè funzioni diverse nell’ambito delle interazioni. La diglossia è stata molto studiata negli ultimi anni, e anche se il concetto è stato applicato a situazioni di contatto molto varie, secondo Ferguson si può parlare di diglossia quando in una comunità esistono, stabilmente, una varietà alta e diversi dialetti nativi, o varietà basse della lingua; la varietà alta è sovrapposta a quelle basse, è molto diversa strutturalmente da queste, presenta un'importante tradizione letteraria, è una varietà standard, è appresa a scuola o comunque attraverso un’istruzione formale, è usata nello scritto e nel parlato formale, non è usata nella conversazione ordinaria. Berruto (2003) sottolinea, nel concetto di Ferguson, la difficoltà di rinvenire nell’italiano l’ultimo tratto della diglossia, cioè l’assenza della varietà nella conversazione quotidiana. Secondo Berruto, l’italiano formale viene usato anche nelle situazioni quotidiane, per cui si tratterebbe di una diglossia particolare che Berruto chiama dilalia. Esempi di diglossia si ritrovano in Italia in varie regioni fino alla fine dell’ '800 quando fra italiano, lingua colta, praticamente non usata, e dialetto (lingua parlata dalla grande maggioranza degli italiani) vi era una forte distinzione funzionale.

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2.5. IL CAMBIO L'Italia è un paese ufficialmente monolingue, eccetto alcune regioni a statuto speciale in cui sono riconosciute più lingue. Di fatto l'Italia è plurilingue poiché comprende più lingue di minoranza e molti dialetti italo-romanzi. Lingue, varietà e dialetti presentano vari fenomeni di contatto e di cambio. Il cambio linguistico (o code switching) indica in generale il passaggio da una lingua all'altra in uno stesso discorso o in uno stesso evento linguistico. Può essere un'alternanza, o una commutazione o un cambio mistilingue. La commutazione di codice si ha quando nello stesso discorso di uno stesso parlante compaiono due lingue, senza che vi sia alcun cambiamento nella situazione. La commutazione di codice ha una sua funzionalità ben precisa, può servire, per es., per una citazione, un'esclamazione, per enfatizzare un messaggio che si è già prodotto e che viene ripetuto in un'altra lingua, ecc. L'alternanza si colloca ad un livello macro-sociolinguistico, poiché comporta l'uso alterno di due codici in relazione a differenti domini, situazioni o eventi comunicativi. Si dice cambio situazionale. II Sembra che il cambio di codice sia insensibile alla distanza tipologica e strutturale fra i sistemi linguistici interessati. E’ infatti attestato non solo fra lingue più o meno strettamente imparentate e strutturalmente vicine (per esempio fra italiano e dialetti italo-romanzi, fra italiano e francese), ma anche fra lingue di media distanza tipologica (per esempio fra inglese e spagnolo) e fra lingue tipologicamente molto lontane (fra italiano e cinese, arabo e francese). Com'è dimostrato da numerose ricerche il cambio di codice non può avvenire in tutti i punti di un discorso, presenta delle restrizioni che limiterebbero la possibilità di passaggio da una lingua all'altra. Poiché nella realtà empirica sono stati rilevati dei controesempi per tutte le restrizioni variamente proposte, è stata introdotta una distinzione tra smooth switching, il normale cambio fluente, sottoposto a restrizioni sintattiche, e flagged switching, il cambio segnalato, da pause, esitazioni, cambiamenti nell’intonazione, commenti metalinguistici, che non avrebbe alcuna restrizione potendo avvenire in qualsiasi punto del discorso. Diverso dal code switching è il code mixing o mescolanza di codice. Nel code mixing, uno o più costituenti della frase risultano formulati in una lingua diversa da quella in cui la frase è stata iniziata. Come scrive Berruto (2003), normalmente è difficile assegnare un valore discorsivo o una funzione pragmatica a passaggi di questo genere, che non coincidono con un cambiamento nel flusso della situazione comunicativa e paiono dovuti semplicemente all'equiparabilità funzionale dei due diversi codici e all'interpenetrabilità delle loro grammatiche.

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2.6 IL MULTILINGUISMO I Il multilinguismo indica i casi di compresenza di più di due lingue, come nel trilinguismo, nel quadrilinguismo, ecc. Insieme al bilinguismo fa parte del sovraordinato plurilinguismo che indica i casi di presenza di più di una lingua ed è associato al cosiddetto pluriculturalismo. Lingue diverse rimandano non solo a sistemi linguistici diversi ma anche a diverse visioni del mondo che caratterizzano in maniera determinante l'identità personale, sociale e culturale dei parlanti. Le lingue possono avere, naturalmente, diverso status, svolgere diverse funzioni e presentare diversi tipi di trattamento da parte delle istituzioni. Le norme che si riferiscono alle lingue standard sono diverse da quelle delle lingue minoritarie, come avviene, per esempio, nell'ambito dei programmi europei. Tra le ultime direttive assunte dal Parlamento Europeo e dal Consiglio Europeo nel campo del multilinguismo troviamo quelle riguardanti l'AEL 2001 (Anno Europeo delle Lingue 2001). II Con l’AEL ci si è proposti di favorire l’apprendimento continuativo delle lingue target, le lingue ufficiali della Comunità europea, unitamente alle lingue dell’Irlanda e del Lussemburgo e ad altre lingue definite dagli Stati membri. Gli obiettivi specifici sono stati: 1. aumentare la consapevolezza della ricchezza della diversità linguistica e culturale nell’ambito dell’Unione Europea e del suo valore in termini di civiltà e cultura; 2. favorire il multilinguismo; 3. portare all’attenzione dell’opinione pubblica i vantaggi derivanti dalla conoscenza di diverse lingue; 4. favorire l’apprendimento continuativo delle lingue; 5. raccogliere e diffondere l’informazione sull’insegnamento e l’apprendimento delle lingue. III Il multilinguismo, insieme al multiculturalismo e alla multietnicità, è una situazione sempre più diffusa in Europa, in cui, nell'ultimo decennio, per varie vicende storiche, in particolare per i vari conflitti, e per motivi socio-economici, sono andati aumentando i flussi immigratori da paesi belligeranti o socio-economicamente svantaggiati. Un segnale visibile di questa compresenza di lingue e culture è dato dalle classi scolastiche, soprattutto infantili e adolescenziali, di molte città e paesi d'Italia, in cui si ritrovano significative presenze di alunni immigrati, in particolare al Nord dove è concentrato il 66,57% di alunni stranieri, seguito dal Centro, con il 23,32%, dal Sud e dalle Isole con il 10,11 %. Nell'a.scol. 2001-2002, in uno studio del MIUR, nella fascia dell'obbligo scolastico sono stati registrati 181.767 allievi stranieri, il 2,31 % del totale (si veda il sito www.istruzione.it.).

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2.6.1 La dominanza I Il concetto weinreichiano di dominanza si riferisce alle situazioni di compresenza di più lingue in cui ci sia variazione di distribuzione d’uso nei diversi domini, nelle competenze e nelle abilità del parlante nei diversi codici o varietà. Fra i domini considerati per la configurazione di dominanza troviamo quelli del lavoro, della strada, della vita culturale, dell’amicizia, della famiglia.La dominanza è importante per capire lo stato di salute di una lingua e rimanda, in un certo senso, ancora una volta, alle dinamiche di vario tipo, convergenza, divergenza, conflitto, integrazione, assimilazione, che possono coinvolgere il repertorio di una data comunità. È stato più volte mostrato che la variazione d’uso e la dominanza assumono caratteri diversi da punto a punto, da comunità a comunità, da dominio a dominio e dipende dall’evoluzione socio-economica di un’area. Il mantenimento di una lingua dipende, fra l'altro, dal ruolo che essa svolge nella famiglia, nella comunità, nell'educazione, dal suo prestigio sociale, dalla legittimazione e dall'istituzionalizzazione del suo uso. Nelle aree in cui due o più lingue sono in contatto il mantenimento o il cambio linguistico sono relazionati al grado di identificazione alla comunità dei parlanti nativi, al loro legame e partecipazione al gruppo primario. Questi meccanismi psicologici dell’individuo sono collegati anche a vari elementi della struttura sociale (status, fattori demografici e le istituzioni stesse) che incoraggiano o meno l’identificazione della minoranza ai valori del proprio gruppo. Le comunità linguistiche minoritarie possono essere messe in pericolo dal processo di assimilazione del gruppo etnico minoritario a quello prevalente dello stato in cui si trovano. Tale processo, detto pammixia, provoca l'ibridismo della cultura dominata e di quella dominante provocando talvolta la crisi dell’identità comunitaria minoritaria. II La configurazione della dominanza non è sempre chiara poiché in molti casi le lingue si distribuiscono all'interno dello stesso dominio. Nel contatto tra due o più lingue o varietà il mutamento linguistico è innanzitutto mutamento del potere sociolinguistico. La riduzione del potere di una lingua porta alla riorganizzazione della dominanza a seguito della quale la lingua minacciata reagisce con fenomeni di vario genere che le permettono di continuare a vivere: tra questi la spettacolarizzazione teatrale come avviene per esempio, nella Grecìa salentina, la risistemazione strutturale che porta una lingua ad una nuova posizione nel repertorio e quindi a nuovi usi sociali. È il caso del dialetto che, di fronte ai vari fenomeni di italianizzazione, va assumendo una nuova definizione e nuovi usi (si veda 2.2).

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2.6.2. Le lingue tetto Un concetto macrosociolinguistico, che appare produttivo nell’analisi del mutamento linguistico in comunità plurilingui con una lingua minoritaria, è dato dalla distinzione klossiana fra dialetti coperti che si riferiscono ad un sistema linguistico della stessa famiglia della lingua nazionale, insegnata a scuola, e dialetti senza tetto, appartenenti ad una famiglia diversa da quella dello standard del territorio di appartenenza. Le lingue senza tetto sarebbero più libere e dunque più attaccabili dall’esterno. In alcuni casi le lingue senza tetto, se particolarmente minacciate, vengono sostenute istituzionalmente, con l'insegnamento scolastico o altre attività di recupero e di sostegno, per favorirne la conservazione. È il caso, per esempio, delle lingue galloromanza a Faeto e grica nella Grecìa salentina, dove l’alloglossia è riconosciuta istituzionalmente e lo standard di riferimento, il galloromanzo e il neogreco, è stato introdotto nell’insegnamento scolastico. Da lingue senza tetto è formata la maggior parte delle competenze di lingua materna degli immigrati che vivono in Italia, che hanno come L1 sistemi linguistici vari appartenenti ai repertori dell'Est Europa, dell'America latina, delle Filippine, dell'Africa Subsahariana, dell'Oceania (Dossier Statistico Immigrazione 2002).

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2.7 LA PERCEZIONE I Oltre al comportamento linguistico un posto importante nello studio della variazione linguistica e sociolinguistica in gruppi plurilingui è occupato dalle percezioni, intese come sapere linguistico, come modi di riconoscere le lingue e di riconoscersi nelle lingue. Nel quadro generale è importante distinguere, innanzitutto, fra coscienza linguistica e rappresentazioni che sono costituite, a loro volta, da credenze, opinioni, concezioni in genere, da una parte, atteggiamenti dall'altra. Secondo Grassi (2002, pp. 4-5) per coscienza linguistica dei parlanti s'intende "il sapere linguistico e metalinguistico da essi esplicitato in diversi modi e nelle situazioni più diverse o, anche, le loro opinioni sulla lingua o sul dialetto propri o altrui". Berruto (2002, p. 352) la definisce "come sentimento intuitivo della propria lingua che diventa riflessione dotata di una sua sistematicità interna-concetto quindi abbastanza vicino a quello di identità linguistica, una sorta di identità in senso neoidealistico-". II Dalla coscienza linguistica si discostano le rappresentazioni, così come i giudizi e le opinioni sono diversi dagli atteggiamenti studiati dalla psicologia sociale. Naturalmente atteggiamenti, credenze e saperi sono interdipendenti, gli atteggiamenti dipendono in parte da ciò che il parlante percepisce e da come lo percepisce e determinano a loro volta percezioni e concezioni. Anche se, come scrive Sornicola (2002), concetti come "sentimento della comunità" e "comunità" sono oggi più difficilmente applicabili, come categorie generali, alle situazioni storiche recenti rispetto al passato, le percezioni rimangono mezzi potenti del rapporto fra parlante-comunità-lingua e servono come base per la costruzione delle identità, dei conflitti, dei comportamenti individuali e comunitari. III La percezione linguistica dei parlanti può riferirsi a vari aspetti della variazione linguistica e può mutare nel tempo in dipendenza di fattori storico-sociali. Può riguardare la percezione della collocazione spaziale, sociale, stilistica di una determinata lingua o di una determinata varietà. Sulla percezione disponiamo di studi recenti molto interessanti, relativi soprattutto alla percezione geolinguistica. In questo tipo di percezione lo spazio diventa "contenitore dell'alterità" (D'Agostino M., Ruffino G., Castiglione M., Lo Nigro I., Dinamiche sociospaziali e percezione linguistica. Esperienze siciliane. In Cini, Regis ( a cura di), p. 181), poiché il senso della differenza linguistica "si evidenzia [..] nell'esperienza del parlante, non soltanto allorché egli si accosta a lingue diverse dalla propria, ma anche [...] nella attività comunicativa interna al punto linguistico in cui è immerso" (Telmon 2002, p. XXVIII).

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2.8 L'ATTEGGIAMENTO L'atteggiamento indica "uno stato mentale di predisposizione, organizzato attraverso l'esperienza, che esercita un'influenza dinamica, polarizzata o in senso favorevole o in senso sfavorevole, sulla risposta di un individuo agli oggetti e alle situazioni con cui si trova ad aver a che fare" (Berruto 2003, p. 91). Nello studio degli atteggiamenti trova posto il cosiddetto paradigma di valutazione del parlante per il quale gli atteggiamenti e le reazioni di un ascoltatore nei confronti di una persona sono determinati anche dal suo modo di parlare. All'interno dell'atteggiamento occupa un posto centrale la valutazione, di superficie o dei livelli cognitivi più profondi, che può orientare il comportamento linguistico, le definizioni di appartenenza e di identità del parlante. L'uniformità di atteggiamento verso la lingua comunitaria è uno dei criteri base nella definizione laboviana della comunità. La valutazione non si riferisce naturalmente alle caratteristiche linguistiche di una varietà, ma all'immagine del parlante che queste riflettono, raccoglie e rappresenta i pregiudizi sociali, etnici che un parlante ha verso chi parla quella varietà. Per la sua complessità e per la sua profondità cognitiva l'atteggiamento può essere rilevato solo attraverso tecniche specifiche, perfezionatesi via via anche nel campo della sociolinguistica.

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2.8.1 La valutazione I In Italia disponiamo ormai di numerosi studi sulla valutazione sociale di lingue diverse, in particolare del dialetto e dell'italiano che rappresentano i poli classici del repertorio. Nella maggior parte della letteratura disponibile è attestata una diffusa valutazione positiva dell'italiano in termini di prestigio, inteso come lingua 'forte' per le classi sociali che lo parlavano e lo parlano, per le aree geografiche-economiche di potere in cui era ed è particolarmente diffuso, per gli usi scritti, per tutte le valenze socio-economiche-culturali che in genere accompagnano l'uso di una lingua comune, nazionale. Il dialetto sfavorito sul piano socio-professionale si è ritagliato nicchie di valutazione positiva sul piano emotivo-personale (simpatia, affidabilità) e su quello del we code, come segnale di identificazione con piccoli gruppi, gruppi primari, celle personali. II I legami di affiliazione a un gruppo assumono un'importanza rilevante nella formazione degli atteggiamenti, tanto da determinare, in alcuni casi, la scelta di un membro appartenente ad una classe sociale bassa che conserva la propria varietà, pur riconoscendo migliore quella della classe alta. L'aspirazione alla promozione sociale dunque non determina sempre il rifiuto dei valori del gruppo primario, anche quando questo comprende in prevalenza membri di classe sociale bassa. L'atteggiamento ha, cioè, un valore identitario ed esprime l'immagine di sé inserita nel gruppo di appartenenza, pur riflettendo, contemporaneamente, le aspirazioni che orientano il parlante verso il gruppo di modellamento, di maggiore prestigio. III In una ricerca recente condotta a Lecce con un gruppo misto di 159 bambini nativi e immigrati di scuola elementare, si rileva proprio questo duplice orientamento valutativo. La rivalutazione del dialetto sembra emergere soprattutto dal giudizio degli immigrati. Alla domanda "Se tu dovessi scegliere come amico intimo tra un bambino che parla dialetto e uno che parla italiano quale sceglieresti?" il 63,5% dei nativi e il 36,4% degli immigrati scelgono un bambino che parla italiano. Solo il 5,8% dei nativi preferisce un bambino che parla dialetto, ma la percentuale aumenta, arrivando fino al 13,6%, con gli informatori immigrati. Sono interessanti anche i dati relativi agli informatori che non esprimono preferenze (il 13,9 % dei nativi, il 18,2 degli immigrati), perché la scelta, secondo questi valutatori, "non dipende dalla lingua ma da come è il bambino", "la lingua non fa differenza" con l'attestazione di un atteggiamento 'aperto' che sembra contraddire la consolidata teoria della diseguaglianza socio-linguistica. Alla domanda "Che cosa pensi di una persona che sa parlare solo dialetto?" una buona percentuale dei nativi, il 33,6%, ha dato un'opinione negativa, contro un numero molto più ridotto di informatori immigrati (9,1%). La valutazione riguarda colui che parla dialetto dal

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punto di vista sociale, comportamentale e culturale (è un po' volgare, un paesano, educato male, maleducato, incivile, scorbutico, strano, stupida, non molto intelligente, forse non ha molta cultura). I giudizi positivi provengono soprattutto dagli immigrati, a conferma della valutazione in generale più positiva del dialetto in questo gruppo: il 9,1% contro il 2,9% dei nativi (chi parla dialetto è una brava persona, parla la propria lingua). Alla domanda "Che cosa pensi di una persona che sa parlare solo italiano?" il 39,4% degli informatori nativi e il 18,2% degli informatori immigrati esprimono un'opinione positiva (è: educata, diligente, brava, distinta, istruita), l'1,5% e il 4,5% una valutazione negativa (è troppo vanitosa, un po' ignorante, non rispetta la cultura di un tempo). Alla domanda "Ti piacerebbe saper usare il dialetto?" rivolta ai bambini che non lo conoscono il 7,3% dei nativi risponde affermativamente; questa percentuale aumenta notevolmente con gli immigrati raggiungendo il 45,5%.

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2.9 GUIDA BIBLIOGRAFICA Per la sezione 1 si segnala la seguente bibliografia: Alfonzetti G.(1992), Il discorso bilingue. Italiano e dialetto a Catania, Franco Angeli, Milano. Baroni M.R. (1983), Il linguaggio trasparente, Il Mulino, Bologna. Berruto G. (1993a), Le varietà del repertorio. In A.A. Sobrero (a cura di), Introduzione all’italiano contemporaneo. La variazione e gli usi, Laterza, Roma-Bari, pp. 3-36. Berruto G. (1993b), Varietà diamesiche, diastratiche, diafasiche. In A.A. Sobrero (a cura di), Introduzione all’italiano contemporaneo. La variazione e gli usi, Laterza, Roma-Bari, pp. 37-92. Berruto G. (2002), Sul significato della dialettologia percettiva per la linguistica e la sociolinguistica. In Cini, Regis (a cura di), pp. 341-362. Berruto G. (2003), Fondamenti di Sociolinguistica, Laterza, Roma-Bari. Boissevain J. (1987), Social Network.In Ammon U., Dittmar N., Mattheier K. J. (a cura di), Sociolinguistics, De Gruiter, Berlino-New York, pp. 164-169. Carli A. (2001), Aspetti linguistici e interculturali del bilinguismo, Franco Angeli, Milano. Cini M, Regis R. (a cura di) (2002), Che cosa ne pensa oggi Chiaffredo Roux? Percorsi della dialettologia percezionale all'alba del nuovo millennio, Edizioni dell'Orso, Alessandria. Cordin P., Franceschini R., Held G. (2002), Lingue di confine, confini di fenomeni linguistici, Bulzoni, Roma. D'Agostino M. (a cura di)(2002), Percezione dello spazio, spazio della percezione. La variazione linguistica fra nuovi e vecchi strumenti di analisi, Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani, Palermo. Dal Negro S., Willeit C., Carpene A. (1999), Studi su fenomeni, situazioni e forme del bilinguismo, Franco Angeli, Milano. De Mauro T. (1987), L’Italia delle Italie, Editori Riuniti, Roma. Fishman J.A. (1975), La sociologia del linguaggio, Officina Edizioni, Roma. Galli de' Paratesi N. (1985), Lingua toscana in bocca ambrosiana, Il Mulino, Bologna. Giannini St., Scaglione St. (a cura di) (2003), Introduzione alla Sociolinguistica, Carocci, Roma. Grassi C. (2002), Che cosa pensava e che cosa ne pensa oggi Chiaffredo Roux. Ovvero: quale contributo può dare l'esperienza empirica del dialettologo e del geolinguista alla determinazione dei criteri fondanti di una dialettologia percettiva. In Cini, Regis (a cura di), pp. 3-21. Gruppo di Torino (2002), Spazio e tempo nella dialettologia soggettiva del parlante. Risultati del test di riconoscimento. In Cini, Regis (a cura di), pp.63-80. Hymes D. (1980), Fondamenti di sociolinguistica. Un approccio etnografico, Il Mulino, Bologna. Labov W. (1972), Language in the Inner City, University of Pennsylvania Press, Philadelphia.

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Sezione 2: VARIETA’, REGISTRI, USI DELL’ITALIANO BILINGUISMO E MULTILINGUISMO NEL REPERTORIO DELL'ITALIANO di Patricia Bianchi 2.11 L’ITALIANO: GAMMA DI VARIETÀ L’italiano contemporaneo si può identificare come un sistema linguistico unitario ben definito: all’interno di questo sistema si individuano però delle differenze fonetiche, morfosintattiche e lessicali che si riflettono in testi e enunciati diversamente articolati; si individua cioè una gamma di varietà che hanno tra loro differenze ma anche punti di contatto. Ogni lingua presenta, nelle sue realizzazioni e manifestazioni concrete, una serie di differenze dovute a variabili dette assi di variazione. Gli assi di variazione fondamentali in sincronia sono legati all’area geografica, al gruppo sociale, alla situazione comunicativa, al canale di trasmissione del messaggio. Definiamo queste variazioni come variazioni diatopiche, diastratiche, diafasiche, diamesiche (per una descrizione sosiolinguistica dell’italiano Berruto 1987 ) Le quattro dimensioni di variazione sono gli assi di riferimento entro i quali si possono descrivere le varietà compresenti nello spazio di variazione dell’italiano contemporaneo. In questo spazio vanno inserite anche le varietà delle interlingue italiane degli apprendenti. Si veda 2.6 Nello spazio linguistico degli italiani troviamo le varietà della lingua italiana ma anche i dialetti. Anche i dialetti presentano delle gamme di variazione, minori rispetto all’italiano perché sono minori le funzioni comunicative e sociali. La gamma delle varietà dei dialetti è dunque compresente con quella dell’italiano. Si veda 2.6.1 Varietà di italiano e varietà di dialetto costituiscono il repertorio linguistico medio della comunità italiana: la maggior parte degli italiani conosce, capisce, parla alcune varietà di italiano e una o più varietà dialettali . Al repertorio italiano si devono aggiungere alcune parlate alloglotte. Il parlante seleziona una varietà in relazione alla situazione comunicativa, che è l’insieme formato dal luogo, dal momento, dai partecipanti, dai risultati, e da altri fattori che determinano tale scelta.

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Per codificare (e anche per decodificare) in modo accettabile un messaggio non basta conoscere una lingua, ma occorre saperla usare in maniera appropriata: non solo bisogna avere competenza linguistica, ma bisogna avere anche competenza comunicativa. Se il parlante possiede entrambi i codici, anche per la scelta tra italiano e dialetto è importante la situazione comunicativa: tendenzialmente si riserva il dialetto a situazioni meno formali (per esempio la conversazione in famiglia, con amici), l’italiano a quelle più formali (per esempio la conversazione con estranei, la conversazione con persone autorevoli). In questa scelta intervengono anche fattori legati alla cultura e alle abitudini linguistiche del luogo: ad esempio in alcune regioni, come il Veneto, il dialetto è usato in una gamma molto vasta di situazioni comunicative anche da chi ha competenza dell’italiano (ad esempio in conversazioni tra professionisti, tra docenti e studenti). Le varietà del repertorio linguistico italiano si dispongono secondo una gradazione che va dall’alto verso il basso :

– varietà alte o più formali : adeguate alla norma, attente alla forma ortografica o alla pronuncia, alla scelta delle parole appropriate, alle soluzioni sintattiche adeguate .

- varietà basse, meno formali o informali: meno attente alla pronuncia e all’ortografia, con sintassi scarsamente controllata o anche trascurata. L’insieme di varietà tra lingua e dialetto è stato così schematizzato (per la storia delle classificazioni delle varietà dell’italiano Sobrero 1993):

1. italiano standard 2. italiano regionale 3. koinè dialettale 4. dialetto schietto

Questa è una semplificazione utile ai fini descrittivi, con due poli in cui si presuppone una certa uniformità e con due situazioni mediane che nella realtà presentano infinite sfumature e gradazioni. Il quadro delle varietà del repertorio linguistico italiano tra varietà di italiano e di dialetto è stato rappresentato anche in altri modi; per esempio il seguente elenco è distribuito in una scala ideale i cui si riprendono le varietà a partire dall’italiano standard per arrivare al dialetto:

Italiano • italiano standard toscaneggiante • italiano neo-standard / italiano dell’uso medio / italiano medio tendenziale • italiano regionale ‘alto’ (formale)

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• italiano colloquiale • italiano formale trascurato • italiano popolare / regionale “basso” (informale) Italiano– dialetto / dialetto – italiano • koinè dialettale • dialetto urbano • dialetto locale (rustico)

Lo schema sottolinea la presenza di una varietà di dialetto che interessa un territorio più esteso (koinè dialettale), il dialetto del centro maggiore e quello del piccolo centro, cioè il dialetto locale, più rustico, meglio conservato, meno soggetto a cambiamenti, il dialetto che accoglie più lentamente le innovazioni linguistiche. Nella comunità urbana, con rete sociale aperta (nella quale un individuo A conosce un individuo B che conosce C, ma A e C non si conoscono), con stratificazioni sociali complesse, con variazione tra un quartiere e l’altro, tendenzialmente l’unità culturale è più debole, e quindi il dialetto si usa meno e la sua italianizzazione è più marcata. Nel paese, dove più o meno tutti si conoscono, l’unità culturale è più forte, il dialetto è assai più usato ed è meglio conservato. A fronte di questa schematizzazione di massima ma orientativa, bisogna considerare che in ogni comportamento linguistico entrano variabili sociali (come età dei parlanti, grado di istruzione, abitudini locali ), geografiche e così via, e perciò anche il piccolo centro non è omogeneo. In passato era solitamente il dialetto del centro urbano il modello linguistico di riferimento (e più in generale culturale e sociale): infatti in una società di tipo tradizionale il piccolo paese ha un rapporto gerarchico con il centro cui fa capo, il quale, a sua volta, ha come riferimento un altro centro più grande, che può essere un capoluogo di provincia o regione. Nella situazione odierna il modello linguistico più prestigioso, da imitare, o al quale si tende ad uniformarsi, è costituito dall’italiano: il dialetto locale tende a eliminare le forme considerate e percepite come dialetto “rozzo” e guarda direttamente, piuttosto che modello del dialetto del capoluogo o del centro urbano più vicino, al modello dell’italiano regionale, senza passare attraverso la koinè dialettale. Nella dinamica sociolinguistica, l’azione del centro di maggiore prestigio agisce su classi sociali di solito più sensibili ad uniformarsi ai modelli di quel centro, classi che a loro volta costituiranno, a macchia d’olio, l’esempio da seguire, contribuendo così alla saldatura con l’ambito territorialmente continuo. Di solito sono le grandi città che offrono i riferimenti per un dialetto “civile”, cioè un dialetto a sua volta già si è depurato di tratti municipali, ad esempio perché è stato usato nella

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letteratura, nel teatro, nelle canzoni come è avvenuto per il napoletano oppure perché si è modellato storicamente sul toscano / italiano come è avvenuto per il romanesco. Questo dialetto “civile”, urbano, soddisfa le esigenze delle città e delle classi borghesi, mentre i dialetti delle campagne ,o comunque isolati, con la loro arcaicità, sono visti come un indice di inferiorità socioculturale e di rozzezza linguistica. Nel contatto tra italiano e dialetto quest’ultimo subisce vari processi di italianizzazione, più evidenti nel lessico e reciprocamente l’italiano accoglie elementi dialettali del lessico e in parte della morfosintassi.. I cambiamenti nel vocabolario sono dovuti da un lato alla perdita delle parole per l’abbandono di tradizioni locali, strumenti e mestieri che non si praticano più, prodotti che non si utilizzano come in passato; ad esempio nel settore delle piante spontanee, oggi sono pochi i nomi usati (qualcuno in più vive ancora nella memoria di qualche parlante) rispetto a quelli di un tempo quando le piante ben conosciute e variamente utilizzate; ad esempio l’’agrimonia’ era chiamata l’èrba da la fèver dai trentini che la usavano come rimedio contro la febbre (Marcato 2003) . Dall’altro lato si introducono nuove abitudini di vita, nuovi oggetti, e ciò determina l’inserimento nei dialetti di parole che solitamente vengono dall’italiano, cioè di prestiti lessicali il più delle volte adattati alla fonetica dialettale. Vi sono invece parole che, come cinema o dentifricio, si presentano immutate anche quando si parla in dialetto e non mostrano adattamenti alla fonetica dialettale. Volendo schematizzare, l’italianizzazione del lessico dialettale si manifesta come segue:

a) con l’ingresso di parole nuove; b) con la sostituzione di parole italiane alle parole del dialetto, le quali, di conseguenza,

tendono a essere relegate ad un livello di dialetto “arcaico”; c) con una modifica formale (fonetica) della parola dialettale; d) con incroci tra parole italiane e dialettali (che in alcuni casi confluiscono nella

tipologia della reinterpretazione paretimologica).

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2.12 LA VARIAZIONE DELL’ITALIANO IN SINCRONIA L’italiano si presenta come un insieme variato: all’interno di questa gamma di varietà è possibile indicare una dinamica legata al continuum e al gradatum. La nozione di continuum solitamente si riferisce a un insieme di varietà nel quale due ben identificabili si pongono agli estremi, in posizione polarizzata e fra queste vi sono varietà intermedie che sfumano l’una nell’altra. In genere si pensare alle varietà linguistiche come a situazioni delimitate distinte l’una dall’altra, anche se nella pratica comunicativa sperimentiamo una diversa dinamica. In particolare gli insegnanti possono osservare che solo il parlante che ha una buona competenza linguistica può muoversi attraverso il continuum, ad esempio passando anche in una stessa situazione comunicativa dal dialetto all’italiano. Al concetto di continuum si aggiunge quello di gradatum (o discretum, anche discreto, o discontinuum), con cui si intende “un continuum a gradini” e si usa in presenza di varietà almeno in parte separabili tra loro. • Una situazione denominata continuum geografico è quella rappresentata da due dialetti dell’Italia geograficamente adiacenti, ovvero da un continuum di dialetti. Non vi è una delimitazione netta tra l’uno e l’altro (ad esempio i confini amministrativi di province o regioni non fissano i confini tra dialetti), ma un’area di passaggio tra i due. Ad esempio gli abitanti di una località A comprendono bene quelli della località B, meno bene quelli della località più lontana C, e avanti in questo modo finché non si capiscono i parlanti della località Z, sicché i dialetti sui margini esterni dell’area geografica possono non essere mutuamente intelligibili, ma essi saranno collegati da una catena di reciproca intelligibilità. • Un altro tipo di continuum si considera il complesso del repertorio linguistico italiano che comprende le varietà dell’italiano e le varietà di dialetto, con i due estremi occupati rispettivamente dall’uno e dall’altro. Semplificando i rapporti e delineandoli in termini di opposizione tra italiano / dialetto, si può dire che l’italiano è la varietà più alta, più prestigiosa, il dialetto la varietà più bassa, meno prestigiosa. Il parlante bilingue dialettofono e italofono non usa entrambi i codici indifferentemente, ma li seleziona a seconda dell’ambito comunicativo (per esempio con estranei tenderà a parlare in italiano, in famiglia il dialetto); tale situazione si denomina comunemente diglossia. Si deve aggiungere ancora che la varietà più alta, vale a dire l’italiano standard, è assai poco rappresentata, e in parallelo quella più bassa, cioè il dialetto locale più schietto ( comunemente si parla di “dialetto puro”), è sempre meno adoperata.

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• La situazione linguistica di un centro urbano può essere un caso di continuum sociale. In molte città italiane, ad esempio Napoli, a partire da una situazione iniziale di italiano e dialetto distinti tra loro, progressivamente italiano e dialetto si sono avvicinati; si è formato, o rafforzato, un italiano regionale mentre il dialetto ha perduto alcune delle sue forme più locali. Vi è dunque un insieme di varietà intermedie diversamente dominate dai parlanti e selezionate di volta in volta in base a considerazioni complesse (la situazione comunicativa, il livello di autocontrollo, la competenza individuale).

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2.12.1 L’AREA GEOGRAFICA Una stessa lingua assume caratteristiche diverse a seconda delle singole zone in cui è usata. Queste varietà sono definite varietà diatopiche.

La variabile diatopica è particolarmente importante per l’italiano e i suoi dialetti, e infatti

osserviamo la diversificazione dei dialetti anche in microaree ma soprattutto osserviamo le

diverse realizzazione parlate dell’italiano al Nord, al Centro e al Sud.

Con italiano regionale ci si riferisce a quella varietà dell’italiano connessa a fattori diatopici (o geografici o spaziali) e dovuta al fatto che la lingua è diffusa su comunità che erano generalmente solo dialettofone. I diversi dialetti parlati nella penisola hanno condizionato l’italiano frammentandolo, suddividendolo in varietà che risentono del sottofondo dialettale o conservano delle particolari selezioni (ad esempio arcaismi o strutture morfosintattiche) nell’ambito del repertorio italiano. Nel tipo di italiano regionale i due codici in contatto, italiano e dialetto, hanno prestigio asimmetrico (minore quello del dialetto che perciò tende ad orientarsi verso l’italiano, maggiore quello di quest’ultimo che risentirà, ma in maniera più misurata, del dialetto). I principali tipi di italiani regionali sono: settentrionale, centrale (con la sottovarietà toscana), romano, meridionale, meridionale estremo e sardo. La varietà romana è stata sinora considerata importante per la possibilità di diffondersi sul piano nazionale (a Roma si trovano infatti i centri della pubblica amministrazione e dell’informazione, la televisione, il cinema), ma nonostante l’espansione di elementi lessicali, non si è, in realtà, realizzata un’egemonia di questa varietà. L’italiano regionale è particolarmente marcato nelle pronunce, su cui per altro è difficile esercitare anche autocontrollo, e le pronunce regionali si trasmettono anche agli apprendenti di italiano L2. Diversi tratti di origine dialettale caratterizzano le varietà di italiano regionale e sono selezionati con maggiore o minore densità dal parlante nelle diverse realizzazioni: si possono avere delle realizzazioni, per esempio all’interno di una stessa frase, che si dispongono gradualmente da quella più vicina allo standard a quella più vicina al dialetto.

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Questa gradualità si può rilevare nell’esempio che segue, di area abruzzese : 1. ho mangiato troppo ora sono sazio e devo prendere… 2. ho mangiato troppo adesso sono abboffato e devo pigliare… 3. sono mangiato troppo mo sso’ abbottato e ho da pigliare 4. sso’ magnato troppo mo sso’ abbottato e tengo a piglià

5. sto magnato troppo mo sto abbottato e tengo a piglià 6. sto magnate troppo mo sto abbottate e teng a pilglià 7. Sto magnète troppe mosto abbottate e teng a piglià

8. stènghe magnète troppe mo stènghe abbottète e teng a piglià. Maggiori sono gli elementi provenienza dialettale e più si considera basso il livello dell’italiano regionale. Lo sviluppo delle varietà regionali, parallelo all’espansione dell’italofonia, ha favorito una grande mobilità di forme e di strutture dai dialetti alle varietà locali di italiano e attraverso queste alla lingua comune. Ad esempio elementi lessicali dialettali, adattati nella fonetica dell’italiano, sono entrati nell’italiano e viceversa elementi del lessico italiano sono entrati nei dialetti, che per altro subiscono un processo di italianizzazione anche nelle strutture morfosintattiche. I tratti regionali riguardano l’intonazione, la fonetica, la morfosintassi e il lessico, ma non tutti i tratti ricorrono in tutte le produzioni linguistiche dell’area. Alcuni fattori extralinguistici determinano il grado di “regionalità” di una produzione in lingua italiana. Essa è tanto più ricca di forme regionali tipiche quanto più:

- la situazione è informale - il parlante è anziano - il parlante è poco scolarizzato - il parlante vuole conseguire risultati particolari (ad esempio dare un’alta espressività

al messaggio, o commuovere, o coinvolgere l’ascoltatore) - la regionalità è un valore condiviso nella comunità a cui appartengono gli

interlocutori . Gli italiani regionali si possono dunque considerare la vera realtà parlata dell’italiano. Si può anzi dire che l’italiano è sempre regionale (o locale) : quando perde gli elementi dialettali (ma non nella pronuncia) ascende all’italiano dell’uso medio; in quanto invece è realizzato con minore competenza della lingua scivola verso l’italiano popolare. Relativamente ai tratti fonetici, i diversi italiani regionali hanno varianti fonetiche più o meno specifiche. Questi tratti, legati all’ intonazione, per i parlanti sono più evidenti e

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consentono di riconoscere la provenienza di chi sta parlando, perché sono note certe particolarità nella pronuncia di consonanti e vocali grazie alla loro altissima frequenza. Tra i numerosissimi tratti fonetici regionali vi sono ad esempio: • la mancanza di opposizione fonologica tra le coppie di e chiusa (pésca del pesce) ed e aperta (pèsca frutto) e tra o chiusa (botte per il vino ) ed o aperta (bòtte ‘percosse’) al di fuori dell’Italia centrale; • la realizzazione sempre sonora di s intervocalica in tutta l’Italia settentrionale (cioè la pronuncia di una parola come ‘casa’ che nell’Italia centro-meridionale sembra ‘cassa’); • la tendenza, nell’Italia settentrionale, ad articolare come semplici le consonanti doppie (o intense o rafforzate): belo per bello; lo stesso vale anche per suoni gn, gl, sc, z, quando sono intervocalici in parole come pegno, figlia, coscia, vizi; • la tendenza, nell’Italia centrale e meridionale, a pronunciare ts invece di s nei nessi o gruppi consonantici rs, ns, ls, come ortso per orso; • la tendenza, nell’Italia centro-meridionale alla lenizione (vale a dire indebolimento dell’articolazione) delle occlusive sorde dopo la consonante nasale: cambo per campo, mangia per mancia. Per quanto riguarda la pronuncia delle cosiddette “doppie” (sono tali graficamente) o intense, l’italiano appreso attraverso la scrittura determina, in area settentrionale, un’articolazione intensa delle consonanti graficamente doppie, diversamente la pronuncia non è intensa e ciò dipende dalla struttura dei dialetti nei quali mancano le consonanti “doppie”. Così non è pronunciata intensa la b nel costrutto è bello di contro alla pronuncia intensa del toscano è bbèllo. Non vengono pronunciate intense quelle consonanti che si articolano come tali per il fenomeno del raddoppiamento (o rafforzamento) fonosintattico, a meno che non sia registrato anche nella scrittura; per esempio ebbene, sopratutto, davvero, ecc., casi in cui si è verificata l’univerbazione, ovvero le due parole si sono unite in una. Per i tratti morfosintattici dell’italiano regionale si sintetizzano qui quelli di più ampia diffusione: • uso del passato prossimo (e non del passato remoto) che caratterizza l’area settentrionale dove nei dialetti il passato remoto è scomparso da oltre un secolo; tale uso si sta diffondendo in italiano pure nelle altre aree in cui esiste anche il passato remoto; • uso dell’ausiliare avere con i verbi dovere, potere, volere seguiti da un intransitivo: ho dovuto andare per sono dovuto andare; • uso del cosiddetto accusativo preposizionale (anche oggetto preposizionale, o costruzione dativale) in tutte le regioni del Centro-Sud; è la costruzione verbo + oggetto animato preceduto dalla preposizione a: vedere a qualcuno ( ma vedere qualcosa), per esempio Ho visto a Maria rispetto a Ho visto una casa;

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• variazioni diffuse in tutta l’area meridionale (le diverse soluzioni dipendono dalle aree e dal livello di cultura del parlante) nell’uso del modo verbale nel periodo ipotetico dell’irrealtà: se direi farei, se direi facessi, se dicessi facessi; • distribuzione differenziata geograficamente di suffissi diminutivi: -uccio nel Centro-Sud, -ino nel Nord-Ovest, -etto nel Nord-Est; per esempio macchinuccia / macchinina / macchinetta ‘automobile giocattolo in scala ridotta’. Fra i tratti di diffusione più limitata vi sono per esempio: • uso di essere + gerundio; per esempio sono scrivendo una lettera per ‘sto scrivendo’ in Sardegna; • collocazione del verbo in fondo alla frase: Salvatore molto bravo è, in Sardegna; • La preposizione a per da; per esempio vado a Vincenzo per ‘vado da’, di area meridionale e specialmente abruzzese; • uso del si impersonale con pronome soggetto di I persona plurale: noi si va ‘noi andiamo’, di area toscana e umbra settentrionale. Anche gli elementi lessicali provenienti dai dialetti sono particolarmente caratterizzanti le varietà regionali. Ovviamente nel contatto tra italiano e dialetto avviene pure il procedimento contrario, ovvero l’ingresso di parole dell’italiano nei dialetti, specialmente quando si tratta di termini relative a novità tecnologiche. I termini di origine dialettale entrati in italiano sono solitamente denominati dialettismi o dialettalismi. Ma si usano anche altri termini: regionalismi, provincialismi, localismi, con allusione ad ambiti geografici talvolta ambigui; per esempio regionalismo richiama la nozione di regione politico – amministrativa, ma tali regioni italiane non corrispondono ad entità linguistiche omogenee. Spesso i dialettismi si utilizzano per coprire un vuoto oggettivo in italiano, vale a dire perché mancano parole corrispondenti a tradizioni e usi locali. Basti pensare alle numerose parole della cucina locale, in alcuni casi diffuse a livello nazionale, favorite anche dalla commercializzazione del prodotto: dalla pizza napoletana alla cassata siciliana, ai grissini piemontesi, ai cantucci toscani, al panettone milanese. I dialettismi si possono classificare in diverso modo a seconda della funzione che svolgono nell’italiano (sono entrati stabilmente, sono limitati all’italiano regionale, sono di uso occasionale), degli adattamenti o meno all’italiano, della loro relazione alle diverse varietà della lingua (per esempio l’uso limitato a situazioni comunicative informali, quindi a registri più bassi, o anche altri registri). Il regionalismo dunque

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-può essere usato per esprimere un qualche aspetto della cultura locale per il quale manca un termine dell’italiano, -può riflettere le diverse abitudini delle varie aree della penisola, -può essere adoperato altresì per ottenere un dato effetto espressivo, per cambiare stile, come si può osservare anche nella scrittura, specie quella letteraria. Molti tratti degli italiani regionali (uso pleonastico dei pronomi a me mi piace , uso enfatico del che che, vieni con noi?, uso di perifrasi verbali sto andando, che stai a fare?) coincidono con l’italiano di uso medio. .

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2.12.2 Il GRUPPO SOCIALE Le realizzazioni di un gruppo sociale determinano variazione. Le varietà sociali, dette anche varietà diasastriche, sono le varietà dell’italiano connesse alla variazione che dipende dalla stratificazione socioeconomica e dalla collocazione culturale dei parlanti. In linea generale fattori quale appartenenza a classe sociale alta, alto grado di istruzione e scolarizzazione, crescita in ambiente italofono, favoriscono l’acquisizione di varietà della lingua che sono più vicine allo standard. Al contrario, appartenenza a classe sociale bassa, basso livello di istruzione e scolarizzazione, crescita in ambiente dialettofono favoriscono una maggiore esposizione al dialetto o a varietà di italiano basse, lontane dallo standard. L’acquisizione dell’italiano non ha sempre come conseguenza diretta l’abbandono del dialetto e la scelta tendenziale dell’italiano non è prerogativa esclusiva e necessaria dalle classi alte. Oggi molti parlanti che hanno l’italiano come lingua materna hanno interesse per il dialetto che apprendono e usano come espressione di cultura o come lingua di appartenenza a un gruppo sociale o generazionale. Gli immigrati che apprendono l’italiano in maniera spontanea, attraverso contatti comunicativi e l’esposizione agli usi del repertorio, spesso adoperano il dialetto e l’italiano regionale della comunità linguistica in cui si trovano. Di particolare interesse è il comportamento linguistico dei bambini immigrati: recenti ricerche nell’area campana ci informano che gli alunni immigrati usano il dialetto per la comunicazione non didattica in classe e nella comunicazione con i compagni. Una varietà di italiano caratterizzata socialmente è il cosiddetto italiano popolare o italiano dei semicolti. L’italiano popolare ( denominazione usata a partire dal 1970 ) è una varietà studiata ora anche a livello di lingua parlata: in un primo tempo gli elementi caratterizzanti sono stati tratti da testi scritti (le cosiddette “scritture dei semicolti”: lettere, diari, testamenti, ecc.) . L’italiano popolare è definito come “il tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto” (De Mauro 1970). Non è una varietà di facile descrizione nonostante la gran quantità di documentazione disponibile. Etichettabile come una varietà sociale, l’italiano popolare non dipende solo dalla condizione del parlante madrelingua dialettofono pur essendo indubbiamente condizionato dal dialetto.

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La competenza espressiva dell’italiano popolare include registri della lingua che del dialetto, ma tra italiano standard e italiano popolare c’è un rapporto di esclusione reciproca , cioè non ci sono parlanti che padroneggiano l’italiano standard e che hanno mantenuto l’italiano popolare (ad eccezione di quegli scrittori che possono avvalersene per rendere l’espressività propria dei semicolti). Oltre all’interferenza del dialetto, nell’italiano popolare confluiscono altri fattori apparentemente contrastanti quali l’imitazione di modelli formalizzati, burocratici o pseudoletterati e la riproduzione del parlato. Tra i fenomeni linguistici generali dell’italiano popolare ricordiamo:

- l’espressività rafforzativa come nella ripetizione di pronomi in una frase del tipo gli voglio scrivere anche a lui,

- -il processo di ristrutturazione anche nei termini di una semplificazione linguistica, con prevalenza della semantica sulla sintassi.

Tratti linguistici dell’italiano popolare si possono ritrovare anche nell’italiano regionale ma non con la stessa ricorrenza e con lo stesso peso. Si potrebbe, perciò, empiricamente dire che l’italiano regionale non appare “scorretto” quanto quello popolare. I tratti che costituiscono l’italiano popolare sono sia di tipo grafico e fonologico che morfosintattico, lessicale e stilistico e sono descrivibili complessivamente (tratti unitari); a questi tratti si aggiungono nei diversi testi le variabili di realizzane individuale dello scrivente semicolto. Alcuni fenomeni appartenenti all’italiano popolare sono in realtà comuni anche all’italiano di media formalità in quanto tipici della lingua parlata colloquiale, per esempio l’uso di a me mi, di gli per le e loro, di ma però. Per quanto riguarda le testimonianze scritte, si può rilevare una trasformazione che consiste nella perdita di caratteri più legati al (semi) analfabetismo e una maggiore avvicinamento alle varietà di registro formale e colloquiale. L’italiano popolare ha una morfologia semplificata e una sintassi con frasi semplici coordinate con e o accumulate o comunque con prevalenza di paratassi su ipotassi; il discorso è scarsamente pianificato , con situazione tipica del parlato; di qui uno “stile popolare” caratterizzato da - frequenza di anacoluti,

- uso di numerosi segnali discorsivi, - uso del che polivalente,

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- frequenza di struttura a cornice (io devo pensare anche a me, devo pensare), - preferenza per il discorso diretto. Qualche esemplificazione tra gli elementi ricorrenti:

- concordanze a senso: c’è qualcuno che dicono; - desinenze ridotte: mia moglia; - ridondanza pronominale: fargli coraggio a papà; i suoi genitori di lei; ti vorrei

spiegarti; la gente [...] mi guardava anche a me, ma a me non mi seccava, gradi rafforzati (più meglio, più peggio, più bene, molto bellissimo)

- che polivalente, in origine pronome relativo col senso di ‘di cui’, ‘a cui’, ecc., poi diventato generico elemento di congiunzione con molte funzioni: si sentiva che era piovuto che era poco lì, la sera che ti ho incontrato,anche come rafforzativo o integrativo di altre congiunzioni subordinanti: quando che , siccome che

Il lessico è limitato ma caratterizzante, non di rado è sovraesteso: per coprire il significato di una parola che non si conosce, se ne usa un’altra nota, che appartiene alla stessa sfera semantica, ad esempio le carte per ‘i documenti’. Frequenti sono i malapropismi, cioè le parole riprodotte da un parlante incolto assimilandole a qualcosa che risulta più familiare e noto: così celebre per celibe, febbrite per flebite, autobilancia per autoambulanza. La presenza di dialettismi nel complesso è contenuta dall’intenzione di scrivere ‘italiano’. Frequenti perifrasi o fraseologismi con il verbo fare: fare la decisione ‘decidere’, fare un’emigrazione ‘emigrare’, far poco ‘guadagnare poco’, fare appartenenza ‘appartenere’, fare sangue ‘sanguinare’. Notevole la presenza di cultismi e formule burocratiche, riprese dalla scuola o da modelli burocratici, per esempio l’ordine cognome – nome, l’uso di codesto, cotesto. Nei fenomeni graficofonetici sono forti le interferenze con i dialetti e con una grande varietà di realizzazioni locali. Tra i fattori generali ‘unitari’ si deve comunque ricordare che vi è in italiano popolare una tendenza molto più marcata che non nel parlato colloquiale a fenomeni di semplificazione di realizzazioni ‘difficili’, in particolare per quanto riguarda nessi consonatici: quindi troviamo facilmente epentesi di vario genere (pissicologico, aritemetica – o, con assimilazione, arimmetica, -ecc.); ma anche aferesi non immediatamente motivate da facilità articolatorie (bastanza, dirizzo per indirizzo).

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Le scritture in italiano popolare, oltre ai tratti indicati, hanno elementi tipici relativi alla grafia, per esempio -incertezza nella punteggiatura e negli accenti, nell’uso del digramma cq (acqua) e anche di q semplice (quore e cuesto); -l’imperfetta analisi della parola parlata porta a forme con aggiunta o falsa discrezione di articolo: linverno, l’aradio, all’avoro, e altri casi di univerbazione o errata suddivisione della parola;

- distribuzione arbitraria delle maiuscole; - uso arbitario della punteggiatura. -

Sono poi tipiche del Sud le realizzazioni con incertezze delle vocali finali (il mio cognata), o le sonorizzazioni (londano), del Nord gli scempiamenti (cavalo), assimilazioni ( pasienza ‘pazienza’ pasiensa), ipercorrettismi (oglio, gnente); comuni a Nord e Sud forme come canbiare, senpre. I tratti salienti dell’italiano popolare, compresi quelli relativi a “errori” nella grafia e irregolarità nell’interpunzione, si possono ritrovare in varie forma di scrittura, anche in quelle di alunni nelle scuole. Sono documentazioni scritte di italiano popolare le cosiddette scritture dei semicolti, per lo più lettere, diari, memorie autobiografiche, testamenti.

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2.12.3 LA SITUAZIONE COMUNICATIVA La variabile diafasica è quella legata alla situazione comunicativa, all’argomento trattato, al grado di relazione con l’interlocutore. L’insieme di questi fattori determina la scelta del registro linguistico più o meno formale. Ad esempio per un discorso ufficiale o una lettera formale la stessa persona farà scelte linguistiche differenti rispetto al discorso tra amici o a una lettera privata. Rientano nelle variabili diafasiche i sootocodici con i tratti propri delle lingue speciali. Il tipo di relazione che intercorre tra gli interlocutori ad esempio condiziona la scelta degli allocutivi (la dottoressa Fabbri, la signora Fabbri, Maria Fabbri), dei pronomi allocutivi tu,lei, Ella e le formule di saluto. Le funzioni pragmatiche di una frase per ordinare, chiedere, informare sono condizionate dalla situazione comunicativa: mi porteresti quel libro? portami quel libro! Ricordati di portarmi quel libro.

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2.12.4 IL MEZZO FISICO-AMBIENTALE La variabile diamesica è legata al mezzo materiale in cui avviene la comunicazione. Distinguiamo - la lingua dei testi parlati, in prevalenza dialogici e rivolti a persone presenti e conosciute e quindi legati anche al contesto situazionale

- la lingua dei testi scritti, monologici, rivolti spesso a un pubblico lontano e non conosciuto e destinati a durare nel tempo.

La variabile diamesica legata alla scrittura è trasversale alle variabile sincroniche e diacroniche della lingua. La distinzione tra parlato e scritto è dunque un’opposizione che percorre le altre dimensioni di variazione e allo stesso tempo ne è attraversata. La differenza tra parlato e scritto è da riportare al mezzo di trasmissione e alle scelte obbligate. Nel testo scritto ad esempio possiamo pianificare e controllare , nel parlato la velocità e la transitorietà dell’ esecuzione non lo consentono.

Caratterizzano lo scritto: - progetto testuale complessivo - accuratezza nella disposizione dei contenuti - struttura testuale e sintattica fortemente coesa e coerente - appropriatezza delle strutture grammaticali - selezione lessicale - mancanza di ambiguità - esplicitezza - uso della punteggiatura. Caratterizzano il parlato: - pianificazione ridotta del discorso - possibilità di cambio di progetto e riformulazione immediata - struttura testuale scarsamente coesa con segmentazioni in frasi brevi - ripetizioni lessicali - ambiguità - impliciti - intonazione e procedimenti paralinguistici - integrazione con linguaggio non verbale .

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Ricordiamo che le descrizioni grammaticali di una lingua di cultura erano tradizionalmente fondate sulla lingua scritta, prevalentemente letteraria. Queste descrizioni grammaticali improntavano la valutazione della produzione e la selezione di un modello didattico. Oggi le descrizioni linguistiche hanno messo in luce la “grammatica” del parlato e la specificità della produzione orale.

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2.13 LA VARIAZIONE DELL’ITALIANO IN DIACRONIA Le lingue vive, e quindi anche i dialetti, cambiano e si modificano nel tempo: questi mutamenti si manifestano non sistematicamente, in tempi e modi diversi, su elementi della lingua , ad esempio sulla pronuncia di una fonema o il cambio di significato di una parola. L’insieme dei fenomeni della variazione nel tempo diventa visibile con una prospettiva “da lontano”, a contrasto con l’uso sincronico della lingua. La lingua italiana rispetto ad altre lingue romanze risulta più conservativa, soprattutto nella varietà letteraria in cui tratti lessicali e morfosintattici si conservano sino all’età moderna, in particolare nella poesia. Con l’espressione “italiano antico” spesso si fa riferimento anche all’insieme di fattori stilistici e retorici connessi alla situazione comunicativa : si fa riferimento dunque sempre a testi scritti, che possono essere di tipo letterario o di tipo documentario. La descrizione della variazione in diacronia sia dei testi letterari che dei testi documentari è l’ambito della storia della lingua; la descrizione della variazione in diacronia delle strutture linguistiche è l’ambito della grammatica storica. I mutamenti che interessano il livello fonologico e morfosintattico sono più lenti e graduali: il cambiamento linguistico non consiste in una sostituzione improvvisa di una forma con un’altra ma presuppone un lungo periodo di compresenza tra una forma consolidata e una forma che tende a sostituirsi alla prima, occupandone gradatamente l’area funzionale. La forma più antica, a sua volta, non scompare in tempi brevi: può resistere ad esempio nello scritto o nel parlato più formale o nei linguaggi specialistici, e sono questi i casi delle forme lessicali, oppure può estendere il suo carico funzionale, come avviene ad esempio per l’imperfetto nell’italiano contemporaneo che ha funzione attenuativa e di cortesia in sostituzione di altri tempi e modi : volevo dire/vorrei dire. Si vedano i paragrafi 4.4 e 3.9 del modulo 1. E’ possibile osservare una variazione anche su breve termine, ad esempio nell’arco di una vita umana. In questa prospettiva sono possibili osservazioni di autodiacronia linguistica, fatte per lo più da parlanti anziani competenti, ma anche analisi su corpora di testi scritti, parlati o filmati. Nel breve termine il settore che risulta più esposto al mutamento è il lessico, anche per motivi connessi alla storia sociolinguistica italiana del Novecento. Ci sono parole che scompaiono dall’ uso, altre vengono immesse, altre infine cambiano significato nel tempo. Nell’ italiano contemporaneo

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- prevale il parlato informale su un modello formale influenzato dal tipo letterario e burocratico - entrano nell’uso un maggior numero di stranierismi, con prevalenza di anglicismi e

americanismi - entrano nell’uso un maggior numero di regionalismi e dialettalismi, socialmente accettati - aumentano le formazioni di neologismi. La variazione su breve o su lungo termine coinvolge anche i dialetti: i dialetti di oggi non sono uguali a quelli del passato perché, tra l’altro, sono esposti a fenomeni di italianizzazione e sono usati spesso in realtà urbanizzate assai diverse dal mondo rurale: per questi motivi spesso si generalizza impropriamente parlando di “morte dei dialetti” Tra i caratteri che marcano la differenza dell’italiano antico da quello moderno sono stati selezionati i dieci più significativi a scopo di esemplificazione: 1) Formazione delle parole: l’italiano antico ha una più alta frequenza di derivati (bontade,

servitude, condannagione), di suffissi e prefissi (fidanza, mostravento, disamare, misleale) da tipi oggi non produttivi; l’italiano contemporaneo ha incrementato la formazione di parole con –izzare e i composti verbo + nome rompighiaccio.

2) Morfologia verbale: sono variate le desinenze di seconda persona singolare del presente indicativo e congiuntivo (tu ame, che tu abbie) e la prima persona singolare dell’imperfetto indicativo (io amava) che era in uso fino all’Ottocento.

3) Enclisi: nell’italiano moderno l’enclisi dei pronomi atoni è derminata dal modo del verbo (imperativo, infinito, gerundio ecc.), nell’italiano antico dipende dalla posizione del pronome nella frase, cioè all’inizio del periodo (Rispuosemi: non omo, già omo fui), dopo le congiunzioni e, ma ( e menommi,(ma sforzami), all’inizio della frase reggente posposta alla subordinata (ma quando tu sarai nel dolce mondo, priegoti ch’a mente altrui mi rechi).

4) Ordine dei costituenti: nell’italiano antico i pronomi atoni lo, la, li, le, ne erano disposti nell’ordine oggetto- dativo lo mi dici, farloci mentre dal Cinquecento prevale l’ordine dativo-oggetto me lo dici, farcelo. Nell’italiano antico osserviamo la collocazione del pronome atono prima del verbo reggente egli la venne a annunziare in Nazarette, mentre l’italiano contemporaneo accentua tendenza alla posposizione.

5) Fenomeni di accordo: nell’italiano moderno a più soggetti si accorda un verbo al plurale, in italiano antico l’accordo è al singolare. Il participio passato con l’ausiliare avere si accordava con il complemento oggetto aveva la luna perduti i raggi suoi. I participi passati assoluti , a differenza dell’italiano contemporaneo, potevano rimanere invariati: veduto la bellezza.

6) Fenomeni di omissione: nell’italiano antico poteva essere omesso l’articolo determinativo ritornare in mia terra, in particolare con nomi astratti giustizia mosse il mio alto fattore. L’omissione dell’articolo continua nella lingua letteraria fino all’Ottocento. Tratto caratteristico dell’italiano antico è l’omissione del che sia come congiunzione

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subordinante che come pronome relativo Vidi a vostro padre non bisognava nulla, Per quel vedevo e udivo.

7) Uso dei modi e dei tempi: per indicare il “futuro nel passato” nell’ italiano antico era in uso il condizionale presente disse che verrebbe, nell’italiano moderno è in uso il condizionale composto disse che sarebbe venuto. Nell’ italiano antico era frequente il trapassato remoto, oggi in disuso. Il gerundio poteva avere un soggetto diverso da quello del verbo della principale, a differenza di quanto avviene oggi .

8) Paraipotassi: nell’italiano antico era diffusa la paraipotassi, cioè una sintassi mista tra paratassi e ipotassi in cui erano compresente un doppio legame di elementi coordinativi (e, si) e subordinativi: Poiché voi di questo mi fate sicuro, e io il vi dirò, Uscito il marito d’una parte della casa, e ella uscì dall’altra, Da ch’ella vedendo ch’ella è troppo invecchiata, si ssi brigarono per ringiovanirla.

9) Subordinazione: nell’italiano antico , accanto all’omissione del che, è frequente la ripetizione del che subordinante. Caratteristico della prosa antica è l’ anticipazione del soggetto di una subordinata completiva: estimo le cose presenti che nel detto modo debbiano andare.

Diffusa nella prosa antica anche la subordinazione mista di tipi non omologhi di preposizioni dipendenti: Io credetti di andare in battaglia come duca, e guidare gli altri, e ch’elli facessono secondo la mia provedenza. 10) Struttura della frase: in italiano antico era frequentemente messo in rilievo come tema

della frase un costituente diverso dal soggetto, senza ripresa pronominale, a differenza della tendenza moderna dello scritto: questo dono vi manda Paolo/ Paolo vi manda questo dono.

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2.13.1 REGISTRI E STILI DEL DISCORSO Con registri si indicano le varietà diafasiche dipendenti dal carattere dell’interazione e dal ruolo reciproco assunto dal parlante o dallo scrivente e dal destinatario. Le varietà diafasiche dipendenti dall’interazione e dal ruolo si indicano anche come stile o livello di lingua. Lo stile tiene conto soprattutto del ruolo del parlante o dello scrivente nella situazione comunicativa: la nozione di stile si applica principalmente per distinguere stile formale e informale nel parlato e nello scritto. Nell’ italiano lo studio dei registri è problematico, perché è difficile stabilire confini tra registri, varietà geografiche e varietà sociali. Si vedano 2.6.1 e 2.6.2 La scala dei registri I registri possono essere elencati con una scala : registro aulico colto eufemistico formale medio colloquiale informale popolare disfemistico familiare Il registro si configura per la correlazione e l’ opposizione tra formale/informale, colto/popolare Eufemistico/disfemistico. Il grado di controllo dell’elaborazione del parlante, la modalità di interazione e l’atteggiamento sono in larga parte descrivibili entro questi gradi di correlazione. La scala dei registri può essere esemplificata riscrivendola con parole e perifrasi lessicale che designano il “morire”: Rendere l’anima a Dio Esalare l’ultimo respiro, spirare Salire in cielo Spegnersi, scomparire, decedere

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Morire, mancare, Finire Rimanerci Crepare, lasciarci le penne, tirare le cuoia Andarsene La variazione di registro nel parlante o nello scrivente dipende dalla codificazione sociale della situazione, dal grado di controllo e attenzione posto all’enunciazione, dal coinvolgimento, dal rapporto col destinatario . I registri inoltre si correlano alla realizzazione coerente alla situazione e al contesto (regole di co-occorenza): ad esempio in una commemorazione ufficiale non si usa rimanerci , in una situazione ecclesiastica si usa salire al cielo, nel linguaggio burocratico si usa defungere. La realizzazione della variazione di registro per il parlante e per lo scrivente è condizionata anche dalla sua competenza e dalla capacità di produzione. I registri informali si intersecano con la variazione diastratica e geografica regionale. Si vedano 2.6.1 e 2.6.2Anche nelle realizzazione scritte condividono tratti del parlato quali: - minima articolazione sintattica interna, con ripetizione di pochi connettivi (poi, così,

allora, perché) - gamma di variazione lessicale ridotta, con ripetizione di lessico di base - uso di forme abbreviate: cine, bici. - uso di termini dialettali, regionali o gergali anche con connotazione espressiva - tendenza a usi diastraticamente bassi con lessico osceno, imprecazioni, epiteti ingiuriosi - nel parlato, realizzazione della catena parlata rapida e trascurata - nello scritto, scarsa attenzione all’uso della punteggiatura. I registri formali condividono anche nelle realizzazioni parlate tratti dello scritto quali: - alta articolazione sintattica con ampio e variato uso dei connettivi - ampia variazione lessicale con uso di termini astratti e lessico colto o specialistico - uso di forestierismi e latinismi - scelte di forme arcaicizzanti o letterarie:onde, cagione, palesare,debbo - uso di si impersonale - perifrasi verbali con verbi andare, venire, avere: è andata delusa la speranza, vengono a

chiedere, ebbe a ripetere - sovrabbondanza di aggettivazione - nel parlato, accuratezza nella realizzazione dei fonemi con tendenza verso lo standard

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nello scritto, accuratezza nell’uso della punteggiatura, delle maiuscole e nella disposizione grafica del testo.

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2.14.2 SOTTOCODICI E LINGUE SPECIALI I sottocodici sono così definiti dal punto di vista della variazione in rapporto al codice: rispetto agli elementi di base del codice selezionano o aggiungono elementi lessicali e strutture morfosintattiche specifiche della comunicazione in un determinato settore scientifico, culturale, sociale, professionale. I sottocodici sono dunque varietà diafasiche dipendenti dall’argomento del discorso e dall’ambito esperienziale di riferimento. I sottocodici possono essere descritti come varietà diafasiche caratterizzate da un lessico speciale, in relazione a particolari domini extralinguistici e alle corrispondenti aree di significato. In base a questa definizione, i sottocodici si possono identificare con le cosiddette lingue speciali usate nello scritto e nel parlato per la comunicazione scientifica e professionale, come la fisica, la biologia, la medicina, lo sport, la musica, la politica, la burocrazia, l’informatica. I sottocodici e le lingue speciali si realizzano attraverso il linguaggio verbale e comprendono varietà molto differenziate tra loro. La terminologia che designa la tipologia di variazione diafasica qui descritta non è univoca negli studi linguistici, dove si parla di Sottocodici Lingue speciali Linguaggi specialistici Microlingue Linguaggi settoriali. La categoria dei sottocodici/ lingue speciali costituisce un settore aperto e soggetto a ulteriori suddivisioni: ad esempio la lingua dell’economia comprende sezioni come l’economia politica, la lingua della borsa, della finanza, del marketing ecc. Alcune lingue speciali riguardano discipline ad alto grado di specializzazione come la fisica, la linguistica, la chimica, la matematica, l’informatica (le cosiddette scienze dure); altre riguardano discipline specialistiche aperte agli apporti concettuali e linguistici di altre discipline come la psicologia, la storia dell’arte, l’economia, la sociologia (le scienze molli) o settori e ambiti professionali che attingono all’insieme dei sottocodici, come il linguaggio giornalistico, politico, burocratico. Queste ultime possono essere etichettate come linguaggi settoriali. Il lessico è il settore caratterizzante dei sottocodici e delle lingue speciali: ciascun sottocodice/lingua speciale ha un suo repertorio lessicale, un insieme di termini che ha una definizione e un significato specifico all’interno del sottocodice.

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Ad esempio la parola forza che fa parte del lessico di base, assume un significato specialistico all’interno della lingua della fisica. Ciascun sottocodice può essere incrementato con parole ed espressioni nuove o adattare a nuovi significati e contesti parole ed espressioni che già esistono nel codice. Le lingue speciali hanno un lessico specifico e regole interne (ad esempio per la modalità di formazione dei neologismi, per l’uso specialistico dei suffissi, per le strutture testuali ). In chimica ad esempio gli acidi sono indicati dal suffisso –ico solforico, i sali con –ato solfato, i carboidrati con –osio glucosio. Le lingue speciali delle scienze dure hanno una circolazione prevalente tra un pubblico di esperti. Le scienze “molli” ,.cioè le più interdisciplinari, e le loro lingue settoriali non dispongono di un lessico specifico esteso né di regole convenzionali definite, e per questo sono più aperte all’importazione di parole, espressioni, metafore dalla lingua comune e da altri sottocodici. Le lingue settoriali di settori e ambiti professionali spesso si rivolgono a un pubblico più ampio di non specialisti e quindi possono essere realizzate per un livello divulgativo. La situazione, e in particolare destinatario, argomento e scopo determinano la scelta di un registro anche per le lingue settoriali. La maggior parte dei testi scritti (e orali) specialistici è compreso tra due poli: - livello scientifico con massima specializzazione e massima distanza dalla lingua comune - livello divulgativo con conservazione dei tecnicismi ineliminabili e necessari e

avvicinamento alla lingua comune, ad esempio attraverso parafrasi . L’esposizione scientifica di un argomento di medicina, di biologia, di fisica è diversa lessicalmente e nella struttura testuale espositiva rispetto alla trattazione di uno stesso argomento in un inserto giornalistico divulgativo: anche i manuali scolastistici possono per certi aspetti considerarsi testi divulgativi. Caratteri generali di una lingua specialistica sono: precisione, oggettività, astrattezza, generalizzazione, densità di informazione, sinteticità, neutralità emotiva, mancanza di ambiguità, impersonalità, coerenza logica, uso di termini tecnici definiti, di simboli e figure.

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Le lingue specialistiche tendono a un sistema lessicale in cui il legame tra significato e significante sia univoco e inequivoco. Il lessico specialistico è monoreferenziale cioè ogni termine deve avere un referente unico e un solo significato. Termine e concetto hanno un accordo di definizione, cioè ogni termine non può essere sostituito da un sinonimo ma solo da una perifrasi, da utilizzare in fase di divulgazione. Per questo motivo il lessico specialistico ha un alto indice di ripetizione nei testi. La monoreferenzialità è ottenuta anche con una serie di procedimenti: 1) ricorso a lingue straniere o lingue universali di cultura (angloamericano, greco, latino) con

prestiti non integrati o calchi; 2) formazione di neologismi con procedimenti standardizzati e con serie predeterminate e

convenzionali di suffissi e affissi che permettono di utilizzare poche unità lessicali, di realizzare termini trasparenti, di creare classi aperte. In medicina ad esempio alla stessa base lessicale si possono aggiungere più affissi: idrocortisone, polireumatoide;

3) utilizzazione di termini della lingua comune con significato specializzato: ad esempio base, sale in chimica;

4) utilizzazione di sigle e acronimi come parole piene con autonomia di significato : tac, laser,pc.

Sul piano morfologico e sintattico nelle lingue speciali hanno particolare frequenza: 1) la nominalizzazione, cioè la trasformazione di sintagmi verbali in sintagmi nominali: il farmaco non ha controindicazioni= per il farmaco nessuna controindicazione; 2) riduzione della gamma d’uso dei tempi, modi e persone verbali a favore delle forme nominali del verbo (participio presente e passato), del presente indicativo, del verbo essere con sintagmi nominali sino all’ abolizione di forme verbali. Alta frequenza di verbi copulativi (diventare, costituire, significare, rappresentare ecc.) ; 3) preferenza per lo stile nominale, con periodi brevi senza verbo, e uso ridotto delle

subordinate; 4) uso del passivo e delle forme impersonali per ottenere un effetto di “spersonalizzazione” e oggettività del testo.

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2. 15 DALL’ITALIANO STANDARD ALL’ITALIANO DI USO MEDIO L’italiano per secoli, a causa del suo uso prevalentemente scritto, è stato una lingua stabile, poco soggetta al mutamento e nello stesso tempo poco compatta al suo interno. L’ uso scritto infatti consentiva la coesistenza di più forme tra loro equivalenti (sacrificio/sagrifizio, debbo/devo, arma/arme), cioè una polimorfia graficofonetica o morfologica, e anche la compresenza di forme dotte (causa/cosa). Nel Novecento l’italiano ha fortemente ridotto la polimorfia e l’uso di cultismi, anche nella lingua letteraria con un processo di semplificazione. Alla semplificazione ha corrisposto un processo di normativizzazione: proprio nella prassi didattica si sono consolidate una serie di regole (ad esempio ortografiche come l’uso degli accenti sugli avverbi lì e là per distinguerli dai pronomi li e la). Altri importanti canali di diffusione della lingua, come la radio, la televisione, il cinema, i giornali, hanno contribuito a un nuovo processo di standardizzazione dell’italiano, da cui è risultato un sistema linguistico più compatto e più diffuso tra i parlanti. Una lingua che si è modellata in seguito a contatti con altre varietà, per l’azione normalizzatrice della politica linguistica, della scuola, dei mezzi di comunicazione si definisce come standard. I caratteri dell’ italiano standard sono però cambiati nel tempo: oggi si sono ridotti i tratti letterari, sono accettati i prestiti da lingue straniere, si tende ad una semplificazione della sintassi. Anche il contatto tra italiano e dialetti e la crescente espansione della lingua comune ha prodotto un’ evoluzione del precedente standard, ad esempio per la fonetica e il lessico. Si veda 2.7 La nozione complessa di lingua standard in una semplificazione didattica può essere sintetizzata come Standard = uso linguistico che l’intera comunità dei parlanti riconosce come corretto ma anche come Standard= modello di lingua proposto dalle grammatiche, usato nello scritto e nel parlato dalle persone colte. Un problema è però la definizione di standard relativamente al parlato: sul piano fonetico infatti non sono realizzate dai parlanti le diverse pronunce di e ed o aperte e chiuse e prevalgono le pronunce regionali. Un modello di standard parlato potrebbe essere il cosiddetto “fiorentino emendato”, cioè la pronuncia colta di Firenze, priva di tratti locali, pronuncia insegnata ad esempio nelle scuole

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di dizione e adottata appunto da attori o da alcuni speakers televisivi ma non realizzata con continuità dagli italiani che padroneggiano lo standard scritto. Si veda il modulo 1, paragrafo 1.1 La lingua standard è, per alcuni, una varietà prevista ma non realizzata con continuità e stabilità : è una lingua ideale, tendenziale, di cui tuttavia si trovano realizzazioni soprattutto nello scritto più formale. Per italiano standard dunque si intende una lingua livellata e di prestigio, che si può definire per opposizione alle varietà geografiche e regionali. Si vedano 2.6.1 e 2.6.2 Una “nuova” varietà: l’italiano di uso medio. Se si osservando lo scritto e il parlato di media formalità anche di persone colte dagli anni Ottanta ad oggi si nota come le realizzazioni siano in parte differenti dall’italiano descritto come standard ma anche dall’italiano regionale o colloquiale . Come ogni lingua in movimento, anche l’italiano si modifica e nell’uso si diffondono forme morfosintattiche e lessicali e regrediscono o scompaiono altre. Una “nuova” varietà dell’italiano è stata individuata e definita come italiano dell’uso medio oppure come neostandard (Sabatini 1985). L’ individuazione e l’analisi di questa nuova varietà consente una descrizione più completa del repertorio dell’italiano e una rappresentazione degli usi comunicativi reali. Molti tratti dell’italiano di uso medio sono già documentati in testi antichi e sono continuati nei registri meno formali e nel parlato, ma sono stati censurati o ignorati dalle grammatiche; oggi tali tratti si sono manifestati e stabilizzati più largamente non solo nel parlato ma anche in certi tipi di testi scritti, ad esempio la prosa giornalistica. Elenchiamo qui tra i 35 tratti dell’italiano medio quelli più frequenti nello scritto e nel parlato: 1) uso della forma dativale gli al posto di le – a lei e loro- a loro 2) uso delle forme pronominali lui, lei, loro con funzione di soggetto 3) partitivo preceduto da preposizione : con degli amici 4) uso di ci attualizzante, in particolare davanti al verbo avere:ci hai ragione, non ci capisco

niente 5) ricorso all’ordine marcato dei costituenti della frase con dislocazione a sinistra (i libri li ho

portati io) , a destra (l’ho portato già, quel libro)

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6) tendenza al tipo sintattico a me mi piace leggere, di pane non ne ho più con uso pleonastico della particella pronominale

7) tendenza a sostituire il congiuntivo con l’indicativo: credo che Mario ti chiama, se me lo dicevi, te lo portavo

8) uso del che in funzione di subordinatore generico (che polivalente) , soprattutto con valore temporale: dal momento che l’ho visto, mi è stato simpatico

9) Per cui con valore di connettivo frasale: pioveva, per cui ho preferito non uscire 10) Cosa? Al posto di che cosa? 11) E, ma, o, allora, comunque in posizione iniziale di frase 12) concordanza ad sensum: sono venuti a trovarmi una decina di amici 13) il soggetto postverbale: non ci sono soldi 14) il tipo nominale niente soldi 15) verbi in forma pronominale per indicare partecipazione affettiva: mi sono letta la tua

lettera, ti sei bevuto il caffè 16) frequenza della frase scissa: è lui che ha fatto bene, sono loro che mi hanno invitata. Non tutti i tratti dell’uso medio si pongono sullo stesso piano: alcuni sono ampiamente diffusi ( ad esempio 1, 2, 3), altri hanno distribuzioni variabili secondo i contesti e le situazioni. I fenomeni di questa varietà dell’uso medio consentono di cogliere le linee di tendenza del sistema, cioè le possibili evoluzioni e sviluppi della nostra lingua. Se l’italiano standard è fissato e riconosciuto al più alto livello di istituzionalità, l’italiano di uso medio costituisce la lingua comune a tutti gli italiani negli usi scritti e parlati. Italiano standard e italiano di uso medio dunque possono essere indicate come varietà nazionali dell’italiano contemporaneo.

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2.16 GUIDA BIBLIOGRAFICA Per la sezione 1 si segnala la seguente bibliografia:

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Le reti più chiuse riguardano i gruppi primari, dei parenti stretti e degli amici intimi, che formano insiemi di individui in continuo contatto tra di loro. In genere i membri del gruppo primario costituiscono i nodi di una cella personale. Su tutta la rete possono operare le figure del cosiddetto gruppo di riferimento che modella il comportamento di un individuo. Il gruppo di riferimento indica un gruppo esterno di cui l'individuo desidera fare parte e da cui assume i modelli di valore e le norme di comportamento. Il gruppo di riferimento occupa un posto notevole nel processo della mobilità sociale in quanto può influenzare le azioni di un individuo, orientandole verso comportamenti estranei al proprio gruppo.

Torna al paragrafo 2.1.1

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Tra le ricerche classiche sulla covariazione lingua-rete sociale troviamo, come è noto, quella di Labov (1972) ad Harlem. Labov ha studiato gli adolescenti neri, di età compresa fra i 10 e i 20 anni, dei ghetti di Harlem, a New York City. I ragazzi erano scarsamente istruiti e la maggior parte di loro appartenevano a due bande di strada: i Thunderbirds e gli Aces. Gli individui esterni erano noti come Lames ‘zoppi’. I Lames non formavano un gruppo ben definito: alcuni erano fuori dalle bande per il divieto dei propri genitori, altri perché impegnati nel lavoro; alcuni condividevano alcuni valori e alcuni atteggiamenti con una delle due bande, altri ne erano completamente fuori. Labov raccolse delle prove di covariazione fra grado e tipo di appartenenza alla banda e comportamento linguistico. Notò, per es., che le varianti di alcune variabili fonologiche usate dai Thunderbirds e dagli Aces erano molto simili, nonostante le due bande fossero rivali e avessero pochissimi contatti fra di loro, e che si discostavano fortemente da quelle dei Lames. I membri delle due bande usavano, ad es., in modo quasi categorico, la variante [n] della variabile (ng), a differenza dei Lames che la usavano meno frequentemente. Nella realizzazione della variabile (dh) con la variante standard [�], o con l'occlusiva dentale [d] o la fricativa labiodentale [v] gli Aces usavano [v] più dei Thunderbirds, ma entrambe le bande usavano esclusivamente le varianti non standard [d] e [v], laddove i Lames usavano anche la variante standard [�]. Ancora più decisivo appare il contrassegno di rete per le variabili sintattiche: per la realizzazione di c'è i Thunderbirds usavano un numero significativamente maggiore di it come soggetto (It's) laddove i Lames usavano soprattutto lo standard there (There’s). Un altro degli studi classici è dato da Milroy (1980). L'A. ha studiato alcuni gruppi della classe operaia a Belfast, nelle aree di Ballymacarrett, protestante, Hammer, protestante e Clonard, cattolica. Alcuni parlanti appartenevano a reticolati molto chiusi, altri avevano relazioni meno strette con la comunità di appartenenza. I risultati hanno mostrato che la variazione linguistica dipendeva sia dal sesso, sia dall'età, sia dalla distanza sociale dal centro della comunità, dal grado cioè di coesione al gruppo. Il grado di coesione è stato calcolato attribuendo un valore, da 0 a 1, a una serie di variabili considerate significative per la ricerca. Il punteggio totale è definito punteggio di coesione in rete (o indice di cultura locale, o scala di forza della rete) e serve a definire la posizione di un Ego rispetto ad un gruppo, o al quartiere o al paese di appartenenza. Milroy aveva classificato gli informatori in base a cinque criteri: 1) l'esistenza di legami di parentela con più di una famiglia nel quartiere; 2) lo stesso luogo di lavoro di almeno altri due individui del quartiere; 3) lo stesso luogo di lavoro di almeno altri due individui dello stesso sesso; 4) la partecipazione abituale ad attività di carattere territoriale (gruppi di strada, squadre di calcio, ecc.); 5) l'associazione volontaria con compagni di lavoro dopo le ore lavorative. Assegnando un punto per ogni valore positivo, aveva ottenuto una scala di forza della rete del quartiere con un punteggio da 0 a 5 e sulla base di quest'ultimo i soggetti erano stati definiti non integrati (0) o molto integrati (5), con quattro livelli intermedi di integrazione.

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Come è noto L2 indica l'italiano di coloro che hanno una lingua madre diversa, la lingua straniera è la lingua non materna appresa a scuola, la lingua seconda è la lingua non materna appresa in contesto naturale. Tra le varietà del repertorio troviamo anche il foreigner talk, un tipo di lingua che viene usato verso i non nativi, in cui le frasi sono meno elaborate, le parole sono spesso degli iperonimi per farsi meglio comprendere dallo straniero.

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Nella Carta europea delle lingue regionali e minoritarie (Strasburgo, entrata in vigore nel 1998) le lingue minoritarie, da cui sono esclusi i dialetti e le lingue dei migranti, vengono definite come lingue praticate tradizionalmente da un gruppo ristretto di cittadini nel territorio di uno Stato, differenti dalla lingua ufficiale. In Italia le lingue di minoranza, le cui origini non sono sempre certe, comprendono i due gruppi delle lingue romanze e non romanze. Al gruppo romanzo appartengono: – il francoprovenzale (in provincia di Torino, a nord della Val Sangone), in Valle d'Aosta e nei comuni di Celle San Vito e Faeto in provincia di Foggia. Sull'attribuzione della lingua di questi ultimi due centri permangono ancora molti dubbi; – l'occitano nel Piemonte occidentale, a sud dell'Alta valle di Susa e a Gurdia Piemontese in provincia di Cosenza; – il francese in Valle d'Aosta, nell'Alta Valle di Susa e nelle Valli Valdesi; – il ladino dolomitico intorno al Massiccio del Sella, nell'Alta Valle del Boite e del Piave; – il friulano; – il galloitalico in Toscana, in Sicilia, in Basilicata; – il ligure in Sardegna, a Carloforte e Calasetta; – il catalano ad Alghero in provincia di Sassari. Al gruppo non romanzo appartengono: – il tedesco in numerosi centri dell'Italia settentrionale (in provincia di Belluno, di Verona, Vicenza, Novara, Udine), nella Valle d'Aosta; – il serbo-croato nel Molise, in provincia di Campobasso; – l'albanese in numerosi centri dell' Italia meridionale (in provincia di Campobasso, Cosenza, Foggia, Pescara, Potenza, Taranto, in Sicilia); – il grico nel Salento, in provincia di Lecce, e in Calabria, in provincia di Reggio Calabria. La legge n. 482 del 15.12.1999 su Norme di tutela delle minoranze linguistiche storiche cita le minoranze delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene, croate, quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo.

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Questa minoranza transnazionale è formata da piccoli gruppi, di rom, sinti e camminanti siciliani, sparsi su più aree del territorio italiano. La presenza è stimata intorno alle 130.000 unità. Un terzo circa è rappresentato da rom di recente immigrazione dalla ex Iugoslavia. Data l’assenza di un territorio preciso di appartenenza la lingua parlata, il romanés, assume per gli zingari una funzione di identificazione e di riconoscimento della ziganità. Di origine indoeuropea questa lingua ha risentito delle lingue e dei dialetti dei paesi ospitanti frazionandosi in molte varietà.

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Secondo uno studio dell’Eurobarometro del 2002, oltre la metà dei cittadini dell'Unione Europea è in grado di parlare una lingua straniera oltre alla lingua materna, e in alcuni Stati membri tale quota raggiunge addirittura il 98%. Le conoscenze linguistiche non sono distribuite in maniera equa tra le fasce d'età e le categorie sociali: nella fascia d'età compresa tra 15-24 anni vi sono molte più persone che conoscono una o più lingue straniere rispetto alla fascia d'età che va da 25 a 39 anni, la quale a sua volta conosce le lingue straniere meglio rispetto alla fascia compresa fra 40-54 anni. Il 67% di lavoratori di classe sociale alta ha conoscenze di lingue straniere, rispetto al 27% delle casalinghe e al 17% dei pensionati. La gamma delle lingue straniere parlate dagli europei è formata per il 41% dall' inglese, per il 19% dal francese, per il 10% dal tedesco, per il 7% dallo spagnolo e per il 3% dall' italiano, con l'aggiunta di altre lingue di rango molto basso.

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Sul parlante evanescente si veda Moretti (1999). Tempesta (2003) in una ricerca condotta in Puglia, con un gruppo di 76 informatori, soprattutto bambini, esamina la consapevolezza linguistica e la capacità metalinguistica di operare con le lingue, di riconoscerne i caratteri tipici, di saperli selezionare e utilizzare come etichette per produrre dialetto, da parte di parlanti non 'abili' in dialetto ma che dimostrano di conoscere le 'marche' dialettali con cui costruiscono un nuovo tipo di dialetto. Per molti aspetti questi parlanti richiamano il parlante evanescente. Il parlante evanescente non parla il dialetto, che però ha acquisito passivamente, conosce le marche più forti della dialettalità e le applica nella costituzione di elementi dialettali a partire dall'italiano. Tra le voci esaminate nella ricerca in Puglia, troviamo, per esempio, coccinella. La coccinella è un coleottero che vive in Puglia dove ricorrono numerose denominazioni dialettali, che sono spesso varianti metaforiche riferite a antropomorfi di origine cristiana (nomi di santi: ad esempio, la madunn dde "la madonnella", a s nda lu "la Santa Lucia"), o a "scambi" di nome tra l'animaletto in questione e animali più grossi appartenenti a figure religiose (come u per ne de sand and ne "il maialetto di Sant'Antonio" in Puglia, la pekur a de s nt antoni "la pecorella di Sant'Antonio" in Salento). I dati raccolti nelle nostre inchieste presentano un recupero della forma locale (u pertSil de sand andonje) solo in due casi, da parte di due adulti pugliesi. Tra i bambini, in dialetto, il 59% presenta un esito dialettale proveniente dall'italiano, kotS:inel:∂, kotS:ined:∂ in Puglia, kutS:inel:a, kutS:ined:a in Salento. I tratti utilizzati per organizzare la voce dialettale sono il passaggio della laterale intensa a -dd- negli esiti pugliesi e in quelli salentini; la cacuminalizzazione della laterale intensa, la presenza di u per o, all'interno del passaggio di Ō, Ŭ> u nel vocalismo tonico e di Ō, Ŏ, Ū > u in quello atono, risultano, nei nostri dati, i segni distintivi più usati della dialettalità salentina. Per la Puglia il tratto più frequente è l'evanescenza delle vocali atone e delle vocali finali. Gli informatori, pur non conoscendo le forme tradizionali del dialetto, mostrano di essere capaci di manipolare la lingua in una sorta di competenza multipla ricostruita a partire dall'italiano.

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In situazioni di bilinguismo opera in modo significativo la cosiddetta accomodation theory, per la quale il locutore tende ad adattare il proprio codice alle competenze dell'interlocutore, per ottimizzare l'efficacia comunicativa. Solitamente, in una situazione di contatto tra lingue, è il parlante che ha lo status, individuale e sociale, meno elevato che si adatta al suo interlocutore. Sono state identificate ben quattordici strategie di adattamento che variano tra un adattamento massimale, che consiste nell’utilizzare esclusivamente la lingua dell’interlocutore, ed un adattamento minimo in cui il parlante fa uno sforzo molto ridotto per favorire la comunicazione con la persona che ha di fronte, fondamentalmente a causa della mancanza di un codice comune.

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In questa regione troviamo il cosiddetto bilinguismo 'perfetto', sancito dallo statuto speciale di regione autonoma: tutti gli atti legislativi devono essere redatti sia in italiano che in francese.

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In quest'area vi sono un gruppo di lingua materna tedesca e uno di lingua materna italiana.

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Il dominio è dato da una classe di situazioni che presentano congruenza tra relazione di ruolo, tempo, luogo ed argomento. Ad esempio il dominio scuola è costituito da tutte le situazioni che comportano relazioni di ruolo del tipo insegnante- alunno, nel luogo 'scuola' e nel tempo 'orario scolastico'.

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In alcune ricerche si è distinta una in-diglossia da una out-diglossia. La prima si ha quando la varietà alta e la varietà bassa appartengono allo stesso sistema, la seconda quando appartengono a sistemi diversi, una macro-diglossia da una micro-diglossia, soprattutto nella situazione italiana. Nella macro-diglossia la varietà A e la varietà B sono presenti in molti domini e si sovrappongono in molti contesti funzionalmente ambigui, vi è una koinè dialettale e i dialetti sono stratificati.Nella micro- diglossia una delle due varietà è usata in pochissimi domini, non c’è una koinè dialettale, le due varietà sono separate funzionalmente e i dialetti sono socialmente simili.

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L'evento linguistico è dato da una sequenza di atti linguistici che ha un inizio e una fine nel tempo. Data una situazione linguistica, gli eventi saranno costituiti dalle unità discorsive strutturate che lo compongono. L'evento è condizionato dalla stessa situazione, dai partecipanti, dall'argomento, dal mezzo.

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Esempi di alternanza si ritrovano in Alfonzetti (1992) che riporta alcune situazioni di compra-vendita, in cui il negoziante alterna la lingua con il dialetto nel rivolgersi rispettivamente ai clienti oppure ad un collega o ad un ragazzo di bottega, spostandosi da un episodio comunicativo ad un altro, come accade, ad esempio, nel frammento che segue: [In una gioielleria] F (la proprietaria alla commessa) Ppi cchissu cci ava rittu a A "Passacci!" [per questo le avevo detto a A. "Passaci!"] (Pausa) F (alla cliente che aspetta in piedi) Si accomodi, signorina. (p. 17, con adattamenti).

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Una delle restrizioni, indicate già da Poplack (1980), è la restrizione del morfema libero per cui un cambio non può avvenire tra una forma lessicale e un morfema legato, a meno che il primo non sia stato fonologicamente integrato nella lingua dell’ultimo. Questa restrizione, come molte altre, è ricca di eccezioni, per esempio è frequente trovare gruppi nominali con l’articolo in una lingua e il nome in un’altra. Abbiamo poi la restrizione dell’equivalenza per cui il cambio può avvenire solo in un punto della frase in cui non si viola la grammatica delle lingue in contatto. Altri autori hanno provato a formulare restrizioni sulla commutazione di codice in termini di relazioni di government per cui, in una prospettiva generativista, lo scambio sarebbe possibile solo fra elementi non in relazione di governo, nella struttura sintattica profonda.

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In una ricerca condotta in Puglia, a Celle di San Vito, a Faeto e a Casalvecchio, in provincia di Foggia, punti alloglotti galloromanzi i primi due, albanese il terzo, risulta che, sebbene la lingua minoritaria presenti vistosi fenomeni di erosione, è tuttavia difficile definire domini specifici in cui tale erosione sia del tutto assente o del tutto presente. Ogni dominio risulta nel suo interno frantumato in più usi linguistici, a seconda, per esempio, che nell’interazione siano coinvolti bambini o anziani, o estranei.

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Un esempio di rapida estensione di una lingua ci è dato dall'inglese. Dall'Eurobarometro 2002 risulta che in Europa è la prima lingua straniera scelta dai genitori per i propri figli e sta soppiantando le lingue tradizionalmente insegnate nelle scuole europee, come il tedesco, il francese, lo spagnolo e l'italiano, anche nelle regioni in cui la prima lingua straniera più "logica" sarebbe la lingua di uno Stato confinante.

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La protezione delle minoranze è prevista, in Italia, dalla legge n. 482 del 15.12.1999. Per quanto l’insegnamento scolastico possa favorire lo stato di conservazione di una lingua, per le alloglossie esistono almeno due punti critici al riguardo: 1) per molte colonie appare difficile risalire ad un’origine precisa dell’alloglossia stessa; 2) le aree alloglotte sono esempi tipici di aree seriori, che conservano cioè fasi diverse, più antiche, rispetto a quella presente nelle lingue tetto insegnate a scuola. Per favorire la conservazione delle minoranze linguistiche l'UE ha approntato vari documenti volti a incoraggiare lo sviluppo delle competenze linguistiche (con l'insegnamento della lingua a tutti i livelli, l'insegnamento della lingua a distanza, la promozione del bilinguismo e del multilinguismo, la produzione di materiale didattico e multimediale, le pubblicazioni per bambini); la descrizione e la normalizzazione della lingua (con lavori di lessicografia, creazione di database, costituzione di archivi sonori e scritti per le lingue di tradizione orale, lavori di ricerca e valutazione sull’utilizzo e la vitalità della lingua); la promozione economica e sociale della lingua (sollecitando la presenza delle lingue minoritarie nei segnali stradali, nelle affissioni, nei prodotti di consumo locale, nelle nuove tecnologie).

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Indichiamo qui in particolare due studi riguardanti l'area siciliana il primo (D'Agostino M., Ruffino G., Castiglione M., Lo Nigro I., Dinamiche sociospaziali e percezione linguistica. Esperienze siciliane. In Cini, Regis ( a cura di), pp. 173-188), quella salentina il secondo (Romanello M.T., Sentire parole/percepire varietà. In Cini, Regis (a cura di), pp. 283-297). . Riferendosi alle inchieste dell'Atlante Linguistico della Sicilia (ALS), il gruppo siciliano sottolinea la forza del 'radicamento spaziale' nella percezione della diversità linguistica, sostenendo che lo spazio svolge un ruolo fondamentale nella percezione dell'alterità ma anche nella creazione della propria immagine, così che la percezione di sé, la percezione dell'altro e la percezione dell'ambiente si sovrappongono "come in un gioco di scatole cinesi"(p. 181). . L'identificazione segue, nei dati esaminati, dei percorsi privilegiati molto interessanti, caratterizzati da alcuni comportamenti diffusi: – la reciprocità della percezione. L'informatore di un paese A individua un dialetto diverso nel paese B e l'informatore del paese B lo fa nei confronti del paese A; – l'esiguità dei tratti utilizzati per la distinzione. La marca distintiva è rappresentata spesso da pochi tratti (uno o due) che per il parlante hanno valore di stereotipo; – la prossimità del confine. La distinzione riguarda in prevalenza i centri immediatamente vicini al proprio. Per l'area salentina Romanello scrive che "sembra proprio che laddove il riconoscimento della varietà leccese sia vago, o assente, la percezione della differenza con i paesi limitrofi si dichiari forte: in una specie di distanziamento ulteriore dal lontano, in favore di una più consapevole attenzione al vicino" (p.290); – l' indipendenza da variabili classiche, quali l'età e l'istruzione. In altre ricerche tali variabili agiscono in modo inatteso: Gruppo di Torino (2002) ha rilevato nella Valle di Susa una maggiore percezione dei tratti di riconoscimento in adulti e giovani, interessati da più frequenti contatti con i dialetti dei paesi vicini, rispetto agli anziani che pure hanno una maggiore competenza dialettale. Gli esempi linguistici riportati dai siciliani sono soprattutto morfologici e verbali, ma in altre ricerche sono riportati esempi anche per gli altri livelli, lessicale, fonetico, paralinguistico.

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L'A. rimanda alle osservazioni di Terracini sulla parlata di Usseglio in B. Terracini (1910-1922), Il parlare di Usseglio. "Archivio Glottologico Italiano", 17 (1910), pp. 198-249 e 289-360; 18 (1922), pp. 105-186.

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La tecnica maggiormente utilizzata è quella del matched guise modificato, che consiste nella percezione, da parte dei parlanti valutatori, delle stratificazioni sociali come, a loro parere, vengono manifestate nelle registrazioni di un testo appositamente predisposto. Con questa tecnica l'oggetto delle percezioni che hanno un input linguistico riguarda un fatto non linguistico - frequentemente si tratta di valutazioni sociali, personali - e questo permette di raccogliere indirettamente e in modo appropriato, i dati sugli atteggiamenti che interessano la lingua. Molto usate sono anche le scale di valutazione di tipo Likert e il differenziale semantico. Nelle scale di Likert, dopo aver definito le dimensioni dell'atteggiamento che si vuole studiare, si formulano delle affermazioni che coprano i vari aspetti delle dimensioni interessate. I soggetti informatori devono esprimere il loro grado di accordo o disaccordo con ognuna delle affermazioni su scale pentenarie o settenarie il cui centro è neutro. A seconda delle risposte si assegnano dei punteggi che sommati, danno la posizione del soggetto sulla scala dell'atteggiamento studiato. La tecnica del differenziale semantico serve a misurare le reazioni cognitive prodotte da uno stimolo concettuale attraverso una serie di qualificazioni, ordinate in forma di scala, date dal soggetto a tale stimolo. Le scale sono bipolari e hanno agli estremi due qualificazioni semanticamente opposte. Tessarolo (1990) in uno studio sulle minoranze linguistiche rileva, attraverso il differenziale semantico, i diversi atteggiamenti di vari gruppi minoritari. Nel gruppo albanese emerge, per es., il fattore del prestigio, della gradevolezza, della simpatia, della familiarità e della semplicità.

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Tra i tanti lavori che prendono in considerazione i giudizi sul dialetto Vecchio (1990) riporta una serie di dati raccolti con il questionario dell'Osservatorio Linguistico Siciliano che comprende espressioni di valutazione chiaramente negativa del tipo: "La parlata siciliana è rozza e volgare"; "Le persone istruite dovrebbero parlare in italiano e non in siciliano"; ed espressioni di valutazione chiaramente positive del tipo: "Il siciliano è una lingua e non un dialetto"; "Le leggi e i regolamenti della Regione e dei Comuni siciliani dovrebbero essere scritte anche in siciliano", su cui gli informatori erano chiamati ad esprimere il loro consenso o il loro dissenso. I dati, come in molte ricerche di questo tipo, non sono univoci. Così un quarto del campione considera il proprio dialetto rozzo, ma più di un terzo preferirebbe che gli atti pubblici fossero scritti anche in dialetto. Inoltre i dati risultano significativamente influenzati dall'appartenenza degli informatori ad un comune capoluogo o ad un comune non capoluogo, dall'istruzione e dall'età. I residenti in comuni non capoluogo considerano, più dei primi, il siciliano un dialetto, non sono d'accordo sulla necessità che le persone istruite parlino il dialetto, né che a scuola si debbano studiare poesie e commedie scritte in siciliano, o il siciliano. Per quanto riguarda l'istruzione tra le autovalutazioni diverse risulta che più gli intervistati sono istruiti più vedono con favore l'insegnamento di poesie e commedie in siciliano, per quanto riguarda l'età le fasce intermedie (45-54 anni e 35-44 anni) considerano, più delle altre, il siciliano una vera lingua e non un dialetto.

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Questi due tipi di valutazione, positiva per l'italiano sul piano socio-economico-culturale, positiva per il dialetto nella sfera dei rapporti personali, della solidarietà, della benevolenza, della simpatia compaiono in più ricerche. Nel lavoro di Baroni (1983) condotto a Padova, Milano, Bologna, Catania, riguardante la valutazione di tre livelli linguistici, quello dialettale, l'italiano regionale con accento, l'italiano senza accento, i risultati della ricerca, molto articolati, registrano giudizi di superiorità dell'italiano sovraregionale in tutti i tratti della situazione socio-economica, tratti in cui il dialetto è stigmatizzato o comunque non privilegiato. Il dialetto risulta invece approvato per alcuni tratti della personalità (simpatia, affidabilità, vicinanza sociale). L'italiano regionale con accento risulta il meno preferito, esso segue tendenzialmente le valutazioni de dialetto, ma occupa situazioni meno favorevoli nei tratti in cui il dialetto è apprezzato o tollerato. Le voci maschili settentrionali sono sempre preferite a quelle meridionali, soprattutto nel gruppo di informatori meridionali fra i quali emerge una sorta di autostereotipo denigratorio. L'attrazione verso il modello di prestigio, verso la norma vista come elemento di affermazione e ascesa sociale, con cui però è difficile identificarsi affettivamente, la fedeltà verso la propria varietà linguistica si ripresentano nello studi di Galli de' Paratesi (1985). L'A. esamina i giudizi espressi da 270 giovani (90 di Milano, 90 di Firenze, 90 di Roma) sulle varietà milanese, fiorentina, romana, meridionale dell'italiano e sull'italiano sovraregionale degli annunciatori della RAI. Sulla base dei dati ottenuti rileva che, sebbene non ci sia una pronuncia di indiscusso prestigio, l'accento della RAI è valutato in genere positivamente, con l'attribuzione di alcuni caratteri negativi, come la freddezza, l'artificialità, l'efficienza, le varietà regionali sono invece variamente valutate dai diversi gruppi di informatori: la varietà romana provoca giudizi sia positivi (simpatica, divertente), che negativi (volgare), la varietà fiorentina sollecita giudizi di tipo normativo ed estetico (l'italiano migliore, più giusto). Per quanto riguarda la sicurezza linguistica, i Milanesi mostrano l'indice di fiducia in sé più alto di tutti. Risultati parzialmente analoghi a quelli delle precedenti ricerche si trovano in Volkart Rey (1990), che prende in considerazione lo standard, le varietà romana e catanese poco, mediamente e fortemente marcate. I risultati più rappresentativi sono quelli concernenti il parlante standard e quello catanese con accento molto marcato. Le risposte rivelano precise categorizzazioni socio-economiche e culturali. Secondo la maggioranza dei valutatori il parlante standard è un collezionista, gioca a tennis, possiede un auto costosa, ha frequentato l'università, abita in un quartiere residenziale e "dimostra consapevolezza di sè", mentre il catanese con accento fortemente marcato ha l' hobby del calcio, possiede al massimo una utilitaria, ha frequentato le elementari, abita in un quartiere proletario e risulta impacciato, ignorante e il più volgare di tutti i parlanti ascoltati. Il parlante sovraregionale risulta colto, intelligente, socialmente affermato, mentre quello catanese con accento fortemente marcato appartiene a una classe bassa, disagiata e rivela mancanza di cultura. La pronuncia dunque, suscita rispetto e ammirazione se standard, rifiuto se fortemente marcata dalla dialettalità. L'italiano normativo viene, anche in questa ricerca, valutato negativamente nei rapporti interpersonali, suscitando una valutazione di freddezza e di scarsa affidabilità.

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D. Lucaselli, Fra italiano L1 e italiano L2: il lessico. Una ricerca a Lecce. Tesi di laurea inedita in Sociolinguistica (relatore I. Tempesta), Università degli Studi di Lecce, a.a. 2002-03.

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Repertorio linguistico è l’insieme delle varietà di lingua e dialetto simultaneamente disponibili ad una comunità di parlanti in un certo periodo di tempo. Con varietà, nel caso specifico, si intende l’insieme di forme linguistiche (lessicali, morfologiche, sintattiche, foniche, ecc.) riconoscibile e riconosciuto in quanto tale dai parlanti stessi. Ogni lingua, o dialetto, del repertorio può comprendere una o più varietà. Perciò il dialetto parlato in una determinata località, in un paese è una varietà, il dialetto della città capoluogo è una varietà, l’italiano parlato dai giovani è una varietà, l’italiano della burocrazia è una varietà, l’italiano di un testo di filosofia è una varietà, e cosi via.

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Nella complessa situazione linguistica italiana la casistica è però varia - non sempre l’azione del tipo linguistico urbano su quello rurale ne determina

l’italianizzazione; - le dinamiche linguistiche all’interno di una comunità urbana non sono sempre e

soltanto dovute al modello che gli strati sociali altri imporrebbero a quelli bassi, vale a dire che all’interno di un centro urbano coesistono diverse varietà di dialetto, quindi non vi è un solo dialetto basso che imita quello alto ma situazioni di contatto e antagonismo più complesse. Si può richiamare, tra i vari esempi, quello di Roma con una realtà sociolinguistica difficile da segmentare che va dall’italiano comune a una dialettalità variegata e complessa che comprende anche il dialetto dei giovani, per i quali l’uso dialetto può essere un simbolo di appartenenza al gruppo o un modo per ostentare una diversità.

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Vi sono degli aspetti nell’uso dei dialettismi che non riguardano solo la varietà della lingua in senso geografico (italiano regionale): alcune forme sono ancora sentite come basse ed usate in registri bassi della lingua, o evitate in situazioni di conversazione formale, come, ad esempio, potrebbe essere evitato a Napoli l’uso dell’aggettivo tanto, tanta nel senso di ‘così grande’ o ‘così piccolo’, in una frase come era una strada tanta ‘era una strada piccola [stretta] così’, comunque usata anche dai parlanti colti . Di fatto, in ogni caso, non sempre si può stabilire con certezza il livello di registro ed il livello di regionalità di un elemento lessicale, consideratala gradualità che muove da un massimo di dialettalità e attraverso una dialettalità ‘italianizzata’ giunge ad un massimo di ‘italianità’, come ad esempio le parole di area napoletana sfizio e inciucio, riprese anche dalla pubblicità e dai giornali.

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Le interferenze del dialetto sull’italiano creano una varietà intermedia che si definisce interlingua in quanto prodotto di un contatto tra due sistemi linguistici, quindi un sistema in cui vivono regole della lingua materna e di quella che si apprende. L’italiano popolare è una tipica situazione di interlingua o di interlingua di apprendimento, e in quanto varietà di apprendimento che si può vedere rappresentata anche in certe produzioni scolastiche di alunni dialettofoni.

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L’ esigenza di comunicare in modo efficace e veloce determina le scelte lessicali del parlato. La mancanza o meglio la scarsa pianificazione, legata alla velocità di esecuzione, portano a una minore diversificazione nella scelta delle parole, alla frequente ripetizione dello stesso termine, alla superutilizzazione di parole con significato generico come cosa, fatto, roba, persona, uno. Il parlato tende alla semplificazione sul piano morfologico, ad esempio per il sistema verbale dove sono sottoutilizzati alcuni tempi (passato remoto, trapassato prossimo) e modi (congiuntivo, condizionale). La conseguenza più vistosa della scarsa pianificazione del parlato spontaneo è la frammentarietà sintattica, con pause di esitazione, false partenze, cambi di programma, autocorrezioni, enunciati incompiuti o sospesi. Frequente anche l’implicito, possibile nel parlato “faccia a faccia” per la condivisione delle conoscenze e di situazioni che comunque garantiscono il passaggio delle informazioni. ( Sornicola 1981; Voghera 1992) . Il parlato spontaneo, o parlato- parlato, ha strutture differenti dal parlato realizzato con una base di testo scritto (parlato-scritto) come ad esempio il parlato di una conferenza o di un telegiornale. Alle categorie di scritto e parlato possiamo aggiungere quella di parlato trasmesso attraverso radio, televisione, cinema in cui la comunicazione parlata interagisce con le immagini e con elementi di testualità scritta (D’Achille 2003).

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Lungo periodo e breve periodo. La variazione in diacronia dunque è percepita e analizzata prevalentemente sul lungo periodo, ad esempio nell’arco di un cinquantennio o di un secolo. L’italiano del Novecento, ad esempio, è stabile rispetto alla struttura storica della lingua, ed infatti gli studenti italiani riescono a leggere e comprendere Dante o Petrarca senza eccessiva difficoltà, ma è anche in mutamento, perché ad esempio quelli stessi studenti rilevano in Dante o Petrarca parole e strutture morfosintattiche non note, “difficili”.

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A chi ascolta, tuttavia, si manifesta con immediatezza questa variazione: un medico, un fisico, un avvocato, un linguista, un informatico che parlano o scrivono per un pubblico di esperti, parlano e scrivono lingue diverse tra loro e in parte diverse dall’ italiano comune. Le lingue speciali riflettono un sapere specialistico condiviso da gruppi di esperti, e all’interno di questi saperi tendono a stabilire un rapporto univoco, preciso e costante tra parole e cose. Ad esempio la serie multa/ammenda/sanzione pecuniaria

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Lo standard può essere prodotto da forti spinte culturali, ad esempio dagli usi degli scrittori o da modelli di grammatici, come ad esempio è avvenuto in Italia con i grammatici del Cinquecento e la ripresa del modello della lingua degli scrittori del Trecento.

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