Confronti di aprile 2016 (parziale)

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1 aprile 2016 6 EURO TARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/04 N.46) ART.1 COMMA 1, DCB MENSILE DI RELIGIONI · POLITICA · SOCIETÀ apr 2016 Si può fare

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aprile 2016

6 EUROTARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/04 N.46) ART.1 COMMA 1, DCB

MENSILE DI RELIGIONI · POLITICA · SOCIETÀ

apr2016

“Si può fare”

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ANNO XLIIINUMERO 4Confronti, mensile di religioni, politica, società, è proprietà della cooperativa di lettori Com Nuovi Tempi, rappresentata dal Consiglio di Amministrazione: Nicoletta Cocretoli, Ernesto Flavio Ghizzoni (presidente), Daniela Mazzarella, Piera Rella, Stefania Sarallo (vicepresidente).

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FOTO/CREDITI

Copertina e pagine 3, 9,

11, 12-13, 14, 16, 33, 38

Andrea Sabbadini.

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aprile 2016

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aprile 2016 le immagini

CORRIDOIUMANITARI

Sono già un centinaio i

rifugiati aiutati dal progetto dei Corridoi umanitari

promosso dalla Federazione delle chiese

evangeliche in Italia (Fcei),

dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Tavola

valdese.

Foto di Andrea

Sabbadini

aprile 2016

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il sommario

il sommario

aprile 2016

GLI EDITORIALI

Lo spaccone e la secchionaMatteo Risari6

Jobs act: bilancio di un annoAntonio Sciotto7

La Brexit e le lotte interne dei ToriesSimone Maghenzani8

ISERVIZI

RIFUGIATIL’invalicabile muro di DublinoMaria Paola Nanni10

L’unica emergenza è l’accoglienzaOlivia Lopez Curzi12

La Danimarca ha paura del futuro?(intervista a) Charlotte Sylvestersen 15

LIBIALa Nato: il piromane che vuole fare il pompiere(intervista a) Domenico Losurdo17

DIALOGOL’ecumenismo della testimonianzaLuca Baratto20

L’ecumenismo della carità(int. a) Kurt Koch22

STATI UNITINonno Bernie e i suoi nipotiRoberto Bertoni24

MEDIAIl vaticano pigliatutto in televisioneEnzo Marzo26

Se i media ignorano il pluralismo del paeseLuca Maria Negro29

INCONTRIUn’opera di testimonianza verso i malatiBarbara Oliveri Caviglia31

LENOTIZIE

Diritti umani Il Rapporto annuale di Amnesty international34

Immigrazione Due bambini al giorno perdono la vita attraversando l’Egeo34

IslamPresentato il libro “Giovani musulmane d’Italia”35

Ambiente Il 17 aprile il referendum sulle trivellazioni35

Chiesa cattolicaKüng chiede a Francesco di rivedere il dogma dell’infallibilità36

Ecumenismo La questione degli “uniati” ucraini36

RicordoLa scomparsa del pastore Maselli37

Agenda 37

LERUBRICHE

Diario africanoCronaca di una strage annunciataEnzo Nucci39

In genere Il Progetto Aisha contro la violenza di genereSumaya Abdel Qader40

Salute e religioni La salute come dovere verso di sé e verso DioDavide Romano41

Note dal margineFrancesco e la strategia dei piccoli passiGiovanni Franzoni42

Spigolature d’Europa Figli di un’Europa in crisi costanteAdriano Gizzi 43

ILIBRI

Il diario di Romero, martire per il popoloLuigi Sandri44

Segnalazioni 45

IMMAGINI

Andrea Sabbadini

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aprile 2016

L’odio non è un’opinione Claudio Paravati

Parole d’odio, lo hate speech, non è più questione solo da bar. Dal 21 marzo, con lo slogan «Silence hate - Changing words changes the world» e l’hashtag

#silencehate, ha preso il via la campagna europea contro l’hate speech on line. Di che si tratta? Delle parole d’odio che costellano la rete internet, sui social network, nei blog, nei commenti agli articoli, nelle condivisioni di testi, foto o altro. Parole che ci raggiungono quotidianamente perché “socializzate” nella rete, dove incontriamo, talvolta quasi assuefatti, xenofobia, islamofobia, discorsi antisemiti e rigurgiti razzisti. Le vittime? Chiunque. Adolescenti a scuola vittime di “cyberbullismo”, personaggi pubblici, e poi, tristemente ancora una volta, chiunque sia minoranza, o “diverso”, o “altro”.

La ricerca “L’odio non è un’opinione. Hate speech, giornalismo e migrazioni”, promossa dall’associazione Cospe, ha messo in luce proprio queste dinamiche, dopo aver monitorato testate giornalistiche, blog, siti. Nel 2015, anno in cui le testate giornalistiche europee hanno dovuto affrontare lo scenario delle crisi umanitarie in corso, le espressioni razziste online sono cresciute, secondo la ricerca. L’Unar - Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, nel 2014 ha registrato 347 casi di espressioni razziste sui social (Facebook, Twitter etc.), di cui 185 su Facebook e le altre su Twitter e Youtube. A queste se ne aggiungono altre 326, per un totale di 700 episodi di intolleranza. Si tratta, è facile immaginarlo, di dati molto lontani dalla reale grande massa di parole quotidiane. Un fenomeno impossibile da monitorare e intercettare in tutta la sua portata.

Chi fa delle parole la propria professione è chiamato in prima persona a interrogarsi. Qualche risposta c’è stata: «È responsabilità etica dei media cancellare i messaggi razzisti, discriminatori, che incitano alla violenza o irrispettosi della dignità delle persone e “bannare” i loro autori», ha dichiarato la Federazione europea dei giornalisti, rifacendosi alla campagna #nohatespeech (no ai discorsi d’odio) dell’Associazione Carta di Roma (www.cartadiroma.org). Fare oggi giornalismo e più in generale prendere la parola nei luoghi “pubblici”, o “sociali”, ci mette di fronte al dovere di usar bene le parole. Certo, l’etica della comunicazione è il fondamento della professione. Ma ora, di fronte alla rivoluzione digitale, che entra nelle vite di tutti noi, senza parlare di quelle delle generazioni digitali (gli adolescenti di oggi), serve anche un nuovo sapere. Se «il medium è il messaggio», non si può e non si deve sottovalutare che ogni parola d’odio ha ricadute politiche, talvolta biopolitiche, su uomini e donne. Su questo piano non ci è permesso di distrarci neanche per un secondo, neanche per un “tweet”.

invito alla lettura

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aprile 2016 gli editoriali

Lo spacconee la secchiona Matteo Risari

Ancorché la duplice corsa alle candidature democratica e

repubblicana per l’elezione del 45esimo presidente degli Stati Uniti del prossimo novembre non sia ancora entrata nella fase decisiva, possiamo tuttavia prefigurare un esito piuttosto probabile con la vittoria di Hillary Clinton da una parte e, dall’altra, una linea di tendenza tanto chiara quanto sorprendente che vede Donald Trump in pole position alla nomination del Gop (i repubblicani). Bernie Sanders dovrà quasi sicuramente “accontentarsi” di far valere il suo nutrito gruppo di delegati per condizionare da sinistra la convention democratica. Sia chiaro: secondo tradizione, nella lunga corsa delle primarie ogni candidato cerca di ottenere il maggior consenso possibile entro i confini del proprio elettorato di riferimento, salvo poi convergere verso posizioni più centriste e moderate nella fase finale della campagna presidenziale contro il candidato dello schieramento opposto: prima bisogna infatti conquistare i “propri”, poi in seguito si devono convincere almeno una parte degli “altri”. Se vale come metro di paragone l’esperienza come segretario di Stato, vien da sé che questa strategia sembra tagliata su misura per la Clinton, indicata come “falco” ai tempi della prima amministrazione Obama per le posizioni interventiste e militariste tenute in politica estera a dispetto della maggiore prudenza

mostrata dallo stesso presidente.La ex first lady è stata a capo della diplomazia per

quattro anni con un risultato per nulla brillante, specie nei vari dossier del Medio Oriente: conflitto israelo-palestinese, Siria, Libia, Iran.Il paradosso peculiare, se non straordinario, che sembra quindi profilarsi nel prossimo autunno in un ipotetico scontro in politica estera tra Clinton e Trump, risiede al fondo nell’eccezionale diversità dei contendenti, che prosegue di pari passo con la stessa “eccezione” rappresentata dal magnate e playboy repubblicano.

Se infatti è possibile delineare un profilo dell’azione presidenziale di politica estera della Clinton, alla luce della trentennale esperienza come first lady, senatrice e – soprattutto – segretario di Stato, lo stesso approccio non può proprio adoperarsi con Donald Trump. I toni esplosivi della sua campagna elettorale ne hanno determinato fino ad ora il successo, eleggendolo a fenomeno che si autoalimenta di vittoria in vittoria e che difficilmente sembra poter essere arrestato. Perfino il Gop, che mai lo ha sostenuto perché in lui non si riconosce, ora sembra rassegnato a cavalcarne l’onda con una dolorosa scelta di “buon viso a cattivo gioco”.

Intemerate non proprio politicamente corrette hanno coinvolto minoranze interne e paesi stranieri con duri attacchi rivolti al mondo musulmano per quanto concerne la minaccia del terrorismo, al Messico per quanto riguarda il tema dell’immigrazione clandestina e alla Cina nell’ottica della concorrenza sui mercati e del gap nella bilancia dei pagamenti, solo per citare alcuni esempi. Trump ha inoltre più volte ribadito di stimare leader discussi a livello di libertà interne come il presidente turco Erdogan e, soprattutto, quello russo Putin.Mentre la Clinton non potrà che porsi in continuità con la politica obamiana di apertura verso i regimi di Cuba e Iran, le asprezze di Trump verso ispanici irregolari e musulmani sembrano porsi in totale contraddizione con i passi rivoluzionari compiuti dagli Stati Uniti con paesi che assieme avevano raggiunto 80 anni di rottura diplomatica con Washington (tuttavia gli slogan talvolta non coincidono con la prassi, basti pensare all’“impero del male” reaganiano, preludio agli accordi con l’Urss). Da una parte, in ultima analisi, l’indeterminatezza di scenari politici internazionali a noi ora sconosciuti e che le posizioni di Trump (in linea con l’estemporaneità del personaggio e alla luce dell’estraneità di esso ai canoni e ai metodi della politica estera tradizionale) potrebbero innescare; dall’altra, la certezza che la prossima campagna presidenziale proporrà sviluppi dai contenuti tanto inediti quanto assolutamente appassionanti per tutti gli osservatori della politica americana.

MATTEO RISARIstudioso di relazioni internazionali.

“In forte vantaggio nelle rispettive primarie,

Donald Trump e Hillary Clinton – stile, linguaggio e curriculum

agli antipodi – potrebbero fronteggiarsi nelle elezioni

presidenziali Usa di novembre„

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aprile 2016 gli editoriali

Jobs act: bilanciodi un anno Antonio Sciotto

Non tutti lavorano meglio al tempo del Jobs act: se da un lato nel

primo anno di applicazione della nuova legge si sono registrati nuovi contratti a tempo indeterminato e stabilizzazioni, come sottolinea il governo, dall’altro però si sono moltiplicate le occasioni di precarietà e impoverite le tutele. Un esempio per tutti: il boom dei voucher, una vera e propria esplosione, visto che dai 36 milioni del 2013 si è passati a 115 milioni nel 2015. Questo perché i buoni per il lavoro a chiamata – una sorta di ticket che retribuisce le singole prestazioni – sono stati liberalizzati e quindi trovano ormai le più svariate applicazioni, soprattutto nel terziario. Le stesse assunzioni a tempo indeterminato – peraltro senza più l’articolo 18 come deterrente contro il licenziamento ingiustificato – sono state incentivate con sgravi molto generosi: 8000 euro per ogni neo-assunto nel 2015, che però scendono a poco più di 3mila per le imprese che attivano un contratto quest’anno. Molti analisti parlano di un “mercato drogato”: finiti gli incentivi (durano tre anni) si teme che potrebbe seguire una valanga di licenziamenti. Timore già confermato dai dati Inps di gennaio: il saldo tra attivazioni e cessazioni dei contratti a tempo indeterminato risulta negativo per la prima volta dopo le buone performance dell’anno scorso (-12.378). Oltretutto

l’indennizzo dovuto al dipendente in caso di rescissione di un contratto a tutele crescenti è comunque

parecchio inferiore rispetto agli sgravi percepiti dall’azienda: la Uil ha calcolato che gli eventuali vantaggi per le imprese variano da 763 euro a 5mila se si manda a casa il lavoratore entro il primo anno, e dai 12 ai 15mila euro se si licenzia dopo 3 anni.Licenziamenti che comunque continuano a riguardare anche tanti dipendenti di fabbriche “classiche”, quelle del made in Italy.

Spesso a causa della delocalizzazione: marchi coinvolti recentemente in vertenze con centinaia di esuberi sono Saeco e Brioni. La crisi per molte famiglie non è finita, e così lo scorso Natale, mentre tanti di noi stavano al caldo con i propri cari, gli operai delle macchine del caffè erano giorno e notte in presidio, esposti al gelo e alle intemperie, davanti al loro stabilimento. Scene che continuiamo a vedere sempre più spesso. Se si parla di “made in Italy” non si possono certo dimenticare i tantissimi braccianti – spesso immigrati – che lavorano nelle nostre campagne per la raccolta di pomodori, arance, carciofi, in condizioni bestiali e per pochi euro a giornata. Schiavi di imprenditori senza scrupoli e caporali. Le cronache hanno riportato il caso delle donne violentate a Ragusa dai piccoli proprietari terrieri, mentre l’estate scorsa ben

quattro lavoratori hanno perso la vita nei campi. Paola Clemente, bracciante di 49 anni deceduta mentre raccoglieva l’uva in una vigna di Andria, lavorava per soli due euro l’ora. Il governo ha promesso un giro di vite sui controlli, ha creato una “Rete del lavoro di qualità”, un network a cui possono iscriversi le imprese in regola per ottenere una certificazione da esibire nella vendita al dettaglio. Ma fino a quando, come denuncia la Coldiretti, le arance verranno pagate 7 centesimi al chilo, e i pomodori pachino sui 15-20 centesimi, come si potranno assicurare contratti regolari ai braccianti? Una grossa responsabilità ricade sulla grande distribuzione, che chiede prezzi sempre più bassi, mentre sarebbe da imitare l’iniziativa di una rete di consorzi di acquisto scandinavi: importeranno dal nostro paese solo ortofrutta “etica”, che provenga cioè da una filiera priva di sfruttamento. Per il momento non esiste una certificazione ufficiale: sarebbe ora che fosse istituita per legge. In questi giorni troviamo in piazza anche i lavoratori dei call center: ben 8mila di loro rischiano il posto, a causa del cambio di appalto in grossi gruppi come Enel e Poste. La ricerca del minimo costo possibile ha reso poco remunerative le loro commesse, estromettendo le imprese che le gestivano. E se il lavoro privato non sta bene, anche quello statale non è in salute: i contratti di 3,5 milioni di dipendenti – compreso il mondo della scuola – non vengono rinnovati da ben 6 anni. Secondo la Cgil, ciascun lavoratore avrebbe già perso oltre 7mila euro di potere d’acquisto.

ANTONIO SCIOTTOgiornalista della redazione Economia e lavoro de “il manifesto”.

“Mentre il governo Renzi sottolinea gli effetti

di stabilizzazione sul lavoro, i critici insistono sulle forme

di moltiplicazione della precarietà„

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Il referendum del 23 giugno vedrà il Regno Unito decidere della propria

adesione all’Unione europea: non un fatto nuovo nella storia britannica. Già nel 1975 il paese venne chiamato alle urne per approvare la partecipazione al mercato comune europeo, con un referendum indetto dal primo ministro laburista, Harold Wilson. Oggi come allora il dibattito non coinvolge i temi dell’identità europea delle isole britanniche, o il ruolo di Londra sullo scacchiere internazionale. Se nel 1975 la decolonizzazione era fatto ancora recente, e si poteva pensare al Regno Unito come punto originale di intersezione tra la tradizionale “relazione speciale” anglo-americana, il Commonwealth, e l’Europa, oggi l’eredità dell’impero è lontana, e partner commerciali nuovi sono al centro della scena.Tuttavia, le due consultazioni sono assai simili. Se nel 1975 il referendum aveva l’obiettivo di tenere insieme il partito laburista, con una sinistra interna preoccupata che le decisioni di politica industriale sarebbero state prese a Bruxelles e non più a Westminster (tra gli oppositori di allora all’adesione al mercato comune, l’attuale leader del Labour, Jeremy Corbyn), oggi il referendum non ha altra ambizione che quella di David Cameron di mantenere l’unità del partito conservatore. Con uno Ukip

capace di mettere il fiato sul collo dei Tories in molte elezioni, e soprattutto con un partito

conservatore diviso, l’accordo negoziato da Cameron con l’Europa non è altro che un timido tentativo di resistere alla propaganda degli euroscettici. Tagli ai benefit per gli immigrati europei e rifiuto di una prospettiva unitaria più forte per l’Ue sono un inefficace argine all’opposizione interna.

Accordo assai infruttuoso per Cameron, visto che cinque dei suoi ministri (tra cui il reazionario Michael Gove, ministro della Giustizia) si sono dichiarati a favore della Brexit, cosi come l’uscente sindaco di Londra Boris Johnson. Una nuova “gang of six” (il gruppo all’interno dei Tories che fece perdere la poltrona di primo ministro a Maggie Thatcher nel 1990), interessata alla successione nella leadership conservatrice più che all’indipendenza del Regno Unito da Bruxelles. Con Cameron a fine carriera (al suo ultimo mandato, che potrebbe essere interrotto bruscamente in caso di perdita del referendum), la partita sembra tutta per la successione, tra i tatticismi euroscettici di Johnson

e il neoliberalismo fatto di tagli del ministro dell’Economia, George Osborne, per nulla inviso a Bruxelles. Le due anime del partito conservatore – la City con i suoi interessi sul continente, e la piccola borghesia spaventata dall’immigrazione – si fronteggiano, mentre ai vertici lotte tra élites raccontano solo di riposizionamenti strategici. Sulla pelle di un paese che potrebbe disintegrarsi, con una Scozia alla vigilia di un nuovo referendum per l’indipendenza, in caso di uscita dalla Ue, e una Irlanda del Nord di cui nessuno sa predire il futuro. In questo quadro, le opposizioni sono incapaci di dire parole forti, con un Jeremy Corbyn sempre più scommessa fallita della sinistra, dopo anni di blairismo e avventure di guerra.Si potrà pensare che questa non sia altro che un’analisi politicista della realtà. Immigrazione e lavoro sono sicuramente le istanze più sentite, e dare colpa della cattiva gestione delle politiche migratorie e della mancanza di politica del lavoro all’Europa è la carta vincente di tutti i populismi. Tuttavia, l’incapacità del fronte del no all’uscita dall’Europa di costruire un racconto differente dell’Unione, e la mancanza di un piano di riforma dell’Europa che non preveda l’abbandono del campo, svelano un dramma politico. L’isolamento del Regno Unito dalla scena europea, e la natura tutta interna dello scontro al fronte conservatore, descrivono infatti una storia più antica, quella del declino delle cause liberaldemocratica e socialista nel Regno Unito come nel resto d’Europa.

“Il 23 giugno gli elettori britannici saranno

chiamati a pronunciarsi sulla permanenza o meno

nell’Unione europea. Una sfida che ha molte implicazioni di politica interna, soprattutto nel partito conservatore del premier Cameron che sul referendum è spaccato„

gli editoriali

La Brexit e le lotteinterne dei Tories Simone Maghenzani

SIMONE MAGHENZANIdocente di Storia moderna, Università di Cambridge.

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i servizi

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aprile 2016 i servizi | IMMIGRAZIONE

L’invalicabile muro di Dublino

Maria Paola Nanni

Le contraddizioni e le inefficienze del meccanismo previsto dal Regolamento Dublino. Le norme dell’Ue in materia di diritto d’asilo sono del tutto inadeguate a fronteggiare la crisi in corso

e a garantire accoglienza e tutela a chi fugge in cerca di protezione.

L’eccezionale afflusso di persone in fuga, in cerca di sicurezza e protezione, che preme

ai confini dell’Unione europea e attraversa i suoi territori, lungo rotte continuamente ridefinite dagli stessi indirizzi di governo dei paesi interes-sati (sbarrate da reti metalliche e filo spinato e poi ri-avviate da passaggi che ora si aprono ora si chiudono, sulla falsariga dei delicati equilibri politici dell’eurozona), sta segnando un’epoca, la nostra. Ma di che segno si tratta?Senza dubbio, siamo di fronte a uno scenario “inedito”, tanto in termini qualitativi che quanti-tativi, che chiama le istituzioni nazionali e comu-nitarie a una sfida che, però, si trascina ormai da anni, spostandosi nei suoi risvolti più drammatici da una frontiera all’altra, da un muro all’altro, da Lampedusa a Ventimiglia, da Lesbo a Idomeni. E questo senza che nel frattempo si siano svilup-pate risposte adeguate ed efficaci, a partire dal piano normativo e dalla sua fondamentale funzio-ne di regolazione.Le norme dell’Unione sul diritto d’asilo hanno infatti evidenziato, fin dall’inizio, tutti i loro limi-ti rispetto alla gestione della crisi in corso. E gli ultimi scenari prospettati, che indicano nella co-operazione col governo di Ankara il fulcro di una “nuova” strategia di gestione, continuano ad elu-dere il nodo principale: garantire un’accoglienza dignitosa e adeguate misure di tutela a chi fugge in cerca di sicurezza e protezione. Un compito davanti al quale l’Europa si è scoperta debole e divisa, incapace di convergere su strumenti di ge-stione equi ed efficaci.Ma andiamo con ordine e facciamo un passo in-dietro. Prima dei negoziati con la Turchia c’è

stato l’accordo sul “ricollocamento” di 160mila rifugiati dalla Grecia, l’Italia e l’Ungheria (ma a distanza di sei mesi il numero dei ricollocati non arriva a mille) e, ancor prima, a giustificare un tale passaggio, c’è il Regolamento Dublino III: il principale strumento tramite il quale l’Unione europea regola il diritto d’asilo sul suo territorio. E cosa dice il Regolamento Dublino? Dice, in sostanza, che competente per l’esame di una do-manda d’asilo è il primo stato dell’Unione in cui il richiedente mette piede e in cui viene identificato tramite la rilevazione delle impronte. Quello è il paese in cui bisogna fermarsi e in cui la domanda verrà vagliata, il paese in cui stabilirsi e tentare di ricostruire la propria vita. Non importa se ci sono fratelli, sorelle, mariti, mogli, figli o genitori altrove, in un altro stato dell’Unione: quella è la meta ultima del viaggio.Non stupisce quindi che il termine fingerprint ab-bia finito per rappresentare una sorta di chiave di volta nella capacità di comprensione e di scelta di un qualsiasi richiedente asilo: impronte, chi le lascia è perduto, bloccato, non può più scegliere dove provare a ricominciare a vivere, dove sentirsi finalmente e definitivamente al sicuro. E non stu-piscono nemmeno i reiterati tentativi di aggirare l’identificazione prima di arrivare alla “fine” del viaggio: una meta stabilita, che spesso si identifica con la Germania, la Svezia o un altro paese dell’a-rea centro-settentrionale del continente dove si può contare sul sostegno di reti parentali e amicali già strutturate, oltre che su un più solido sistema di accoglienza. Così come non stupisce che a conti-nuare il viaggio siano anche quelli che le impron-te le hanno lasciate, magari forzatamente, ma poi vanno oltre lo stesso, cercan-do di aggirare anche il “muro di Dublino”. Un muro che, però, solo apparentemente ci si lascia alle spalle.

MARIA PAOLA NANNICentro studi e ricerche Idos.

IMMIGRAZIONEMaria Paola Nanni p.10Olivia Lopez Curzi p.12Charlotte Sylvestersen p.15

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aprile 2016

Ed è così che ci si ritrova ingabbiati in una de-finizione, quella di dubliners (o “dublinati”), che niente ha a che fare con la gente di Dublino raccontata da Joyce, identificando tutti quei migranti forzati che avviano una procedura di protezione in uno stato dell’Unione diverso da quello di primo ingresso e che, in applicazione del meccanismo sopra richiamato, vengono lì rinviati. Un passaggio che può anche avvenire dopo che, non senza fatica, si sono già avviati impegnativi (e dispendiosi) processi di inclu-sione. Un nuovo sradicamento che può finire per spezzare delicati e per niente scontati percorsi di ricostruzio-ne. Un’ulteriore frattura che si riflette in un più elevato carico di complessità anche rispetto alle condizioni di accoglienza e alla procedura per il riconoscimento di una forma di protezione (come dire che a traballare sono le stes-se garanzie dei richiedenti asilo a ricevere un trattamento equo, effi-ciente ed efficace).È il caso di tutti quei “profughi” arrivati in Italia, e qui identificati, che poi riescono a rag-giungere Germania, Svezia, Olanda, Francia, ma che vengono costretti a tornare indietro (in certi casi passando per la detenzione ammini-strativa): è sulle loro sorti che si dispiegano, quasi emblematicamente, tutte le contraddi-zioni e le inefficienze del meccanismo Dublino, che ne condiziona fortemente i percorsi, a vol-te in senso definitivo.

Eloquente, in questo quadro, è la situazione di chi, prima del trasferimento, ha già goduto di una qualche forma di accoglienza: condizione che può escludere dall’accesso al circuito istituzionale an-che se si appartiene a categorie vulnerabili. Se si deve formalizzare la domanda di protezione una seconda volta, in altri termini, non è raro che ci si ritrovi per strada, costretti a bivaccare nelle sale aeroportuali o a cercare sostegno tramite reti in-formali, con in mano solo un invito a presentarsi presso la questura. Manca un piano di dettaglio, la burocrazia è lenta e la sostanziale mancanza

di orientamento può lasciare il ri-chiedente nell’“incapacità” di eser-citare il proprio diritto alla riattiva-zione della procedura e, di riflesso, il possibile inserimento nel circuito dell’accoglienza. Si delineano così percorsi frastagliati, a volte ciechi, incoerenti e quantomeno poco ade-renti all’obiettivo cardine di restitu-ire dignità, protezione e sicurezza a chi ha già perso tutto. Si parla da tempo di un diritto d’a-

silo europeo che svincoli dall’obbligo di iniziare e concludere la procedura nel primo paese dell’U-nione toccato. Intanto, però, i dubliners conti-nuano a subire la detenzione amministrativa, la separazione dalle famiglie, il vuoto d’accoglienza e si continua a fuggire non solo dai conflitti, ma anche dall’identificazione.Oltre i muri di reti e filo spinato, un’altra barrie-ra continua a bloccare la strada verso la ricostru-zione di se stessi.

“Si delineano percorsi frastagliati,

a volte ciechi, incoerenti e

quantomeno poco aderenti all’obiettivo cardine di restituire dignità, protezione e sicurezza a chi ha già

perso tutto„

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aprile 2016 i servizi | IMMIGRAZIONE

L’unica emergenzaè l’accoglienza

Olivia Lopez Curzi

«Dublino è un sapone che fa scivolare in Italia». Così Garineh – una giovane

donna siriana che studia Lettere alla prima uni-versità di Roma e si sta al contempo formando come mediatrice interculturale – descrive il re-golamento che costringe moltissime delle perso-ne che cercano rifugio in Europa a presentare domanda d’asilo nel primo paese membro in cui approdano e vengono prese loro le impronte. Il Regolamento Dublino disciplina, infatti, la competenza degli stati europei nell’esame delle istanze di protezione internazionale ed indivi-dua – salvo alcune eccezioni – il primo paese in cui i richiedenti asilo hanno fatto il proprio in-gresso nell’Unione europea come responsabile della loro presa in carico. Datato, nella sua versione originaria (1990), questo strumento ha mostrato finora tutta la sua obsolescenza e i suoi limiti, sovraccarican-do di responsabilità i paesi di frontiera come la Grecia e l’Italia e basandosi sulla premessa fasulla che i sistemi di accoglienza e di prote-zione dei diversi paesi europei siano uniformi, e che quindi non ci sia differenza tra il livello di presa in carico offerto dai diversi paesi appar-tenenti all’Ue.Per chi, come Garineh, è già stato costretto ad abbandonare la propria casa, i propri affetti e il proprio percorso di vita a causa della guerra, il Regolamento di Dublino è l’ennesimo ostacolo al ricongiungimento con familiari e amici già ri-fugiati in Europa e alla realizzazione di progetti di vita alternativi a quelli interrotti dalla fuga forzata.Lo sanno bene anche Lamin e Anthony. Arrivati in Germania dopo essere approdati dal Gambia

e dal Ghana sulle coste ita-liane, per loro le forzature del Regolamento Dublino si sono palesate una mat-tina di qualche mese fa quando, dopo esser stati bruscamente svegliati dalle autorità tedesche, sono sta-ti scortati fino alla frontie-

ra italiana. Qui, dopo aver ricevuto un invito a presentarsi presso la questura competente, sono stati lasciati sul territorio, senza aver ricevuto nessun tipo di informativa, privi di accoglienza e di supporto logistico. Che il sistema di accoglienza italiano sia ancora fortemente ancorato ad una gestione emergen-ziale ce lo mostrano i numeri. La mancanza di una politica organica in materia e gli innume-

OLIVIA LOPEZ CURZIoperatrice sociale presso Mediterranean Hope dellaFederazione delle chiese evangeliche in Italia.