Confesso che ho insegnato (preview)

32

description

Estratto dal nuovo libro di Massimo Desideri. Questo libro è uno sguardo “dal di dentro”, ironico e provocatorio, fuori dal coro, sulla scuola italiana, di cui si svelano le contraddizioni e i meccanismi più segreti, a volte bizzarri, in gran parte ignoti al grande pubblico...

Transcript of Confesso che ho insegnato (preview)

Massimo Desideri

“Confesso che ho insegnato”

Premessa Questo libro è uno sguardo “dal di dentro”, ironico e provocatorio, fuori dal coro, sulla scuola italiana, di cui si svelano le contraddizioni e i meccanismi più segreti, a volte bizzarri, in gran parte ignoti al grande pubblico. Un libro molto diverso dall’abbondante saggistica degli ultimi tempi sulla situazione dell’istruzione in Italia, soprattutto concentrato sul mondo dei licei e della secondaria superiore. La narrazione segue, nell’arco di circa un trentennio, il percorso professionale del protagonista, un docente “qualunque”, onesto e serio, della scuola secondaria superiore, attraverso i suoi rapporti con circolari e ordinanze ministeriali, con gli studenti e le altre componenti della comunità scolastica. Gli episodi narrati nel corso del libro, i dati e i riferimenti ai Ministri e ai loro provvedimenti sono stati ricavati, e fedelmente riportati, rispettivamente, dalle cronache giornalistiche e saggistiche, e dalle normative ufficiali della legislazione scolastica italiana di questi ultimi dieci anni: si è preso spunto, tra gli altri, da articoli, a partire dal 2000, tratti da Il Messaggero, La Repubblica (e dall’inserto Il Venerdì di Repubblica), dal Corriere della sera (e dall’inserto Sette), da Il Sole 24 Ore, da riviste come L’Espresso, e da alcuni saggi, specificamente citati all’interno della narrazione, sulla situazione della scuola in Italia. La crisi dell’istituzione scuola, che è pure crisi di un modello familiare ed educativo in genere, viene rappresentata anche attraverso aspetti e curiosità spesso involontariamente esilaranti, dalle quali, però, per contrasto, emergono potenzialità inespresse, a volte colpevolmente trascurate, e risorse professionali e umane, di cui l’universo scolastico italiano è, comunque, ricco. Dal quadro complessivo risulta evidente che oggi le esigenze di rinnovamento e di ripensamento dei modelli didattici ed educativi, di reclutamento e di aggiornamento degli insegnanti non sono più procrastinabili; gli standard europei e mondiali, con cui l’istruzione in Italia è chiamata a confrontarsi e ai quali deve dar conto circa la qualità dei risultati ottenuti, impongono una revisione completa del modo stesso di fare scuola e della professionalità docente. Per questo, in “Confesso che ho insegnato”, tutti gli episodi direttamente vissuti dal protagonista, insegnante spesso “scomodo”, sempre cocciutamente ligio e coerente con se stesso, e quelli che si raccontano nel corso del libro circa il mondo della scuola, intendono mostrare la situazione com’è e come, invece, auspicabilmente, dovrebbe essere: il professor Virginio Sasso, infatti, è, più che il personaggio principale, un “mezzo”, una figura-tipo ideale di professionalità docente (dove per “ideale” s’intende un professionista, preparato, aggiornato e in linea con i modelli europei, capace, in ogni caso, di rapportarsi, professionalmente e umanamente, sempre, con gli studenti, e non un improvvisatore dell’insegnamento). La scuola è, per ogni società, specialmente nel competitivo mondo globalizzato di oggi, un settore strategico, vitale di crescita, mentre, in Italia, sembra solo terreno di scontro politico di tutti contro tutti e di sterile irresolutezza. A questo proposito, filo conduttore del libro è, in ultima istanza, la tesi, forse inammissibile per molti, che anche le modalità delle annuali proteste studentesche (e docenti) italiane, soprattutto ricorrenti in autunno, non siano ormai altro se non uno stanco e meccanico ripetersi di riti, funzionali ad “altro da sé”, testimoni della mancanza di una vera dialettica politico-culturale e, dunque, di una reale capacità di ascolto delle reciproche ragioni delle parti a confronto.

M. D.

I

Quando ci pensava, e lui si sforzava di far sì che non accadesse spesso, al Professor Virginio Sasso non sembrava proprio fossero passati trent’anni dalla sua prima lezione, in quell’aula di tanti visi un po’ attoniti e, quel giorno lontano, attenti e incuriositi. Invece, erano passati, quei trent’anni. Operosi, per la verità, mai noiosi, pieni, sonori di squilli di campanella, di riunioni, di accorate difese e circostanziate arringhe durante gli scrutini; anni trascorsi fra accurate chirurgie a colpi di matita rossa e blu su faticosi fogli protocollo consegnati dai ragazzi entro limiti orari puntualmente sforati, tra un rimbrotto e l’altro, tra un richiamo e l’altro…; anni spesi a studiare per far studiare, a preparare esercizi per far esercitare, a parlare per far parlare, a suggerire rimedi, a far intravedere soluzioni, e spiragli su muraglie che sembravano di pietra spessa… Tutto fa il suo tempo, e anche il suo tutto aveva fatto il suo, ma non aveva rimpianti il professor Virginio Sasso. Semmai, piacevoli ricordi e l’orgoglio di aver dato a molti qualcosa d’importante, se non altro una bussola, come gli piaceva dire, da tirar fuori, quando c’era bisogno di capire quale fosse la strada migliore da imboccare. Perché lui non era di quelli che stavano zitti a sentire sparare a zero sulla scuola, a farsi dire in faccia che non funziona, che non ci si può combinare niente di buono dentro e che chi ci lavora o va fuori di testa o è per forza frustrato, o è, nel migliore dei casi, un perditempo pagato per blaterare al vento mezza giornata tra gli sbadigli dei ragazzi e farsi tre mesi di vacanza d’estate, per non parlare delle feste di Natale e di Pasqua, e di tanti ponti e ponticelli vari, fatti apposta per far crepare d’invidia gli altri, che gli snocciolavano improperi sibilando di lavorare sul serio, accompagnati da amichevoli “Per carità, non è per te, non è per Lei. Niente di personale, ma sai, ma sa...”. Lui no, non era di quelli, non sopportava i luoghi comuni, le generalizzazioni, né i preconcetti, né, tanto meno, i soloni improvvisati, e con pacatezza, ma fermo e scientifico, sosteneva le sue ragioni. E ne aveva da vendere. Difatti, aveva i suoi riscontri, lui: il fatto che i suoi ex studenti, già donne e uomini fatti, venivano a trovarlo più d’una volta, anche dopo essere usciti dalla scuola col loro bel diploma in tasca, da universitari che riuscivano a stare più o meno in linea con gli esami… E poi, sì, la stima dei genitori, merce spesso più rara di quella dei ragazzi. Insomma, non si era pentito, né si sentiva frustrato del suo lavoro, come tanti, come troppi e troppe dei suoi colleghi. Fin da quando…..

II Ricordava quei pomeriggi ancora afosi di settembri lontani, quando, non ancora titolare, si trattava di conquistare una supplenza annuale, qua e là in giro per la regione. Ricordava un pomeriggio in particolare, appena usciti e attaccati al muro i fogli delle graduatorie, lungo i corridoi da bolgia dantesca del Provveditorato agli Studi: faceva caldo, ci si accalcava, con più o meno sopportazione per gli altri pari, all’unico scopo di individuare, fra i tanti altri, il proprio nome a stento stampato con inchiostro sbiadito, e immaginare l’imminente, sperato destino, la meta agognata. In città, in provincia, in un paese comodo da raggiungere, abbarbicato tra i monti o esposto all’aria salmastra del mare Tirreno? Quel pomeriggio dovette praticamente sdraiarsi per terra, contando sui piedi benevolenti dei più fortunati che leggevano ad altezza d’uomo, dato che il foglio coi cognomi della sua lettera alfabetica era il più in basso, il primo a partire dal pavimento… Fu fortunato anche lui: ebbe solo un paio di calci, involontari e non dolorosi, da due colleghe festanti, e già appagate per aver individuato il proprio nome.

Una sola si scusò, da lui ricambiata con un sorriso rasoterra, mentre l’altra si era già slanciata verso l’uscita a dar l’annunzio, forse, ai suoi cari o al fidanzato, magari un po’ annoiato, rimasto in attesa all’entrata di quell’intellettuale carnaio… Ricordava quasi con nostalgia quelle giovanili flessioni, allora ancora possibili. E quegli estivi contorcimenti acrobatici nell’imminenza di anni scolastici ormai dietro le spalle. Quell’antico giorno di settembre il prof. Sasso se ne uscì di lì, dopo essersi anche lui ritrovato nella chilometrica lista e aver saputo che sarebbe stato a breve convocato per andarsene, quell’anno scolastico, a V., nel liceo della bella località dei Castelli Romani. Bei tempi andati. Adesso il prof., un po’ meno pieghevole, un po’ più cieco, canuto e occhialuto, rimpiangeva addirittura il periodo dei verdi anni del precariato, dopo il quale era arrivato, comunque, a superare il concorso senza raccomandazioni (ma molti amici estranei all’ambiente della scuola non gli credevano e gli ridevano in faccia); il concorso che gli aveva consentito di conquistare una cattedra da titolare, tutto sommato giovane, a trentacinque anni. Eh, sì: aveva tentato, anche se il concorso a cattedre era a zero cattedre (potenza degli italici ossimori!), e gli era andata bene, perché poi le cattedre si materializzarono, come un “pof” di Mago Merlino, dopo pochi mesi dalla fine delle prove. Quelle prove, specialmente le scritte, che lui - ricordava -, unico nello stanzone dove si svolgevano e dove erano in tanti, si era presentato ad affrontare solo con penna e documenti, tra il disprezzo malcelato, i sorrisetti o il dileggio dichiarato di chi, invece, previdente, aveva fatto il suo ingresso in aula con ponderosi borsoni pieni di libri. Ancora una volta, ci cascava fin dall’infanzia, aveva creduto all’indiscutibilità delle regole e alla loro applicazione, che lì erano promesse e minacciate ore rotundo dalle frasi ufficiali del bando, con cui si proibiva “tassativamente”, pena l’esclusione dal concorso, l’uso di qualsiasi cosa che non fossero, appunto, la penna per scrivere sui fogli forniti dallo Stato e il documento per farsi riconoscere. Invece, i commissari d’esame, i temuti tutori dello Stato e della Repubblica, non ci facevano nemmeno caso a tutta quella gente carica di bagagli come alla stazione, che si riversava nell’ampio stanzone: chissà, forse pensavano - pensava Virginio nella bianca armatura della sua anima retta - fossero solo vettovaglie per nutrirsi in quelle otto ore abbondanti da passare lì dentro. E, come lui - sempre pensava Virginio -, onesti e discreti, non volessero umiliare con umilianti controlli quegli aspiranti professori, certo futuri onesti tutori dello Stato e delle Repubblicane, Democratiche Istituzioni. E così, sicuri della condivisa da quelli onesta fede nello Stato, lasciavano passare bagagli e persone, persone e bagagli, senza fiatare, solo annotando le presenze dal documento esibito, col cipiglio imperturbabile della Vergine Astrea. Durante le prove scrisse quello che riuscì, anche senza i libri, che gli altri leggevano tranquilli e da cui annotavano, mentre i mansueti cerberi - quattro, più lo spessocchialuto Presidente - tra loro celiavano seduti dietro la cattedra lontana o altri leggevano inderogabili notizie dal giornale del giorno. Nessuno lo disturbò, né gli rivolse la parola, pur potendo, come altri facevano, almeno a voce più bassa che in chiesa per un senso di grato pudore istintivo ai blandi custodi della regolarità della prova: solo una matura collega, dal banco dietro al suo, già moglie e madre presunta - dalla fede incassata all’anulare sinistro, che intravide voltandosi -, gli chiese sommessa, se si scrivesse “sufficente” o “sufficiente” e se “qual è” volesse l’apostrofo o meno. Esaurita in un paio d’anni anche la prova orale, riuscì a piazzarsi, a dispetto della sua spudorata onestà, tra i primi quaranta e cominciò la sua vita da titolare, da TITOLARE (roba da rotolarsi in camera la sera prima di andare a letto), in una nota e tuttora ridente località di mare a quaranta chilometri da Roma, dove risiedeva in un appartamento del quartiere Appio Latino, acquistato con un mutuo ventennale in unità d’intenti e di sacrifici con sua moglie Alba, sposata tre anni prima.

VI (Sulla soprannumerarietà e i suoi effetti…) […] - Ragazzi, oggi, per evitare di prendere poi altro tempo alle lezioni, vi dirò perché l’anno prossimo cambierete l’insegnante di lettere, cioè me con un altro o un’altra, e perché la cosa non è poi così drammatica - aggiunse un po’ scherzosamente, per prevenire un paio di studenti, che già davano l’impressione di voler intervenire, evidentemente toccando lui un argomento tra loro, e tra loro e i genitori, a quanto pare, molto dibattuto. - Tutti, nella nostra carriera di studenti, più o meno abbiamo cambiato degli insegnanti, e per i motivi più diversi: per trasferimento di qualcuno che voleva una scuola più vicina a casa, o perché quell’insegnante era un supplente e quindi destinato a riconsegnare il posto al titolare, o per pensionamento, o per altro. [….] Insomma, non tutti i mali vengono per nuocere; sicché, anche se io non avrei chiesto subito il trasferimento, come invece devo fare per forza per il prossimo anno, non è detto che questo per voi sia un male in assoluto. Per cui, non siate egoisti e pensate che, rimanendo io qui l’anno prossimo e andandomene magari più in là, comunque si sarebbe lamentato qualcun altro. O forse no - aggiunse ridendo -, perché non è da escludere che, invecchiando, sarei peggiorato e che il mio trasferimento sarebbe stato visto come una liberazione -. - Sì, d’accordo, ma intanto nessuno ha chiesto o chiede la nostra opinione. Si può sapere perché un insegnante deve trasferirsi un certo anno, anche se non vuole? - si inserì un altro studente. Stavolta Virginio non riprese il ragazzo sul piano formale, perché non gli sembrò il caso e poi perché riconosceva, nel suo intimo, le ragioni delle perplessità, cui lui dava voce anche a nome dei compagni. - Vedete, ragazzi, noi qui, facendo scuola, abbiamo rapporti umani per fortuna, e viviamo, parliamo, pensiamo, liberamente, ci scambiamo conoscenze, informazioni, ma anche, a volte, confidenze. Insomma, mettiamo in campo la nostra umanità: e per me, ve lo dico sinceramente, aver stabilito con voi rapporti di stima, e anche regole, che magari vi seccano un po’ - aggiunse ridendo -, è stato molto positivo. Ma voi, sicuramente, durante l’intervallo, o mentre entrate a scuola, o ne uscite, passate davanti alla bacheca, che si trova nell’atrio, accanto alla postazione del buon bidello Filippo, e nemmeno leggete i documenti che per legge il Preside deve affiggere, per renderli pubblici. E lì, insieme agli altri che si susseguono nel corso dei mesi, ogni anno, all’incirca tra febbraio e marzo, appare una silloge, un piccolo faldone, una serie di fogli spillati fra loro, sulla cui pagina principale appare il titolo “Graduatoria interna di Istituto”. Ecco, quella è la classifica degli insegnanti della vostra scuola, che tutti, docenti, ma anche studenti e genitori e chiunque altro lo voglia, possono leggere, in modo da rendersi così conto del punteggio che ciascuno di loro possiede, fatto di titoli e di altro, e che ogni anno bisogna considerare, sperando che siano sempre disponibili tutti i posti di insegnamento per poter utilizzare le persone lì elencate. Questa silloge, questa raccolta di fogli, che riporta in elenco tutti i nomi di tutti i vostri insegnanti di ruolo, divisi per materia e disposti dal primo all’ultimo in ordine di punteggio, questa silloge, come tutte le cose che abbiamo davanti, noi non la vediamo. O meglio, vediamo, passandoci davanti tutti i giorni, la consistenza bianca dei fogli e lo spazio che occupa quella consistenza, ma non osserviamo di che cosa consiste. Eppure, lei è lì. Succede che, a vederci sempre davanti una cosa, ci abituiamo a vederne i contorni, ma ci sfugge di cosa è fatta, quindi ci sfugge la sua importanza. Così è per la “Graduatoria interna di Istituto”: è lì, ma nessuno la vede davvero e nessuno la legge. Eppure è lei, è secondo il suo ordine interno che in una scuola si resta o ci se ne va: quindi, è importante, almeno per gli insegnanti che occupano gli ultimi posti dell’elenco.

Voi, da poco, attraverso di me e altri come me, ne state considerando gli effetti; e magari non vi piacciono. Ma tra me e voi c’è lei: lei è la legge, stabilita tanti anni fa, d’accordo, tra chi governava la scuola e i sindacati della scuola. E va bene ancora oggi, se no l’avrebbero cambiata, a chi governa la scuola oggi e ai sindacati della scuola di oggi. E magari anche, perché no?, alla maggioranza degli insegnanti... Dunque, per ogni materia, se andate a sfogliare la “Graduatoria”, c’è un elenco: il primo insegnante di ogni elenco è il più “sicuro”, quello che perde posto in questa scuola, solo se la scuola stessa, per ipotesi, chiude. Ma qual è, mi chiederete, il criterio con cui si compila l’elenco? Vedo che me lo chiedono i vostri occhi. Ebbene, passato il primo anno in cui gli ultimi arrivati in una scuola sono anche gli ultimi in questa graduatoria, a prescindere, come direbbe Totò, dai punti che già ti porti dietro da fuori, poi, dal tuo secondo anno, il criterio principale e il modo più certo per accumulare punti è l’età: più sei vecchio, più punti hai, più sei bravo e scali la classifica. Ma non importa (e qui Virginio si lasciò prendere da una involontaria punta polemica) se sei davvero in gamba o mediocre, cosa fai durante l’anno scolastico, o cosa non fai, o se hai alti e bassi, come può succedere a chiunque in ogni lavoro che svolge: in ogni caso, a prescindere, siccome nessuno viene a controllare, a meno che tu non sia imprudente, uno sprovveduto o un mascalzone, un anno scolastico di servizio, da titolare in una scuola, ti dà sei punti. Quindi: dieci anni di servizio uguale a sessanta punti, venti anni centoventi punti, e così via. Anche partendo da zero titoli - e c’è chi è partito da zero, cioè con la laurea e basta -, dopo trent’anni, almeno centottanta punti non te li toglie nessuno e puoi contare, come è giusto per le persone anziane, su una certa stabilità di sede del posto di lavoro, prima di andartene in pensione e lasciare il posto tuo a chi ti segue in classifica e nel diventare vecchio -. - Ma i meriti, Prof, non contano niente? E come si diventa insegnanti nella scuola pubblica? - chiese di getto Mariani, una studentessa dall’aria vivace e dai capelli corti, bruni, tagliati a caschetto. - Oh, certo, c’è anche uno spazio per il merito, anzi la tabella su cui si deve costruire la “Graduatoria interna d’Istituto” prevede, al terzo punto, il computo dei titoli posseduti. Ma, come mi disse tempo fa un sindacalista con cui lamentavo alcuni criteri della tabella, “La coperta è corta, e bisogna cercare di coprire più cose”. Fuor di metafora, voleva dire che i meriti, cioè i titoli culturali che uno possiede sono importanti, ma contano anche altre cose -. - Eh, no! - insorse Panetti, quello di prima, - Per insegnare nella scuola bisogna che contino solo i titoli che uno ha, le capacità. Se no, che altro deve contare? - - Piano, piano. Non voglio impiegarci tutte e due le ore a spiegarvi. Qualcos’altro conta, e non possiamo essere noi qui, oggi, a cambiare le cose. Tutt’al più possiamo non essere d’accordo e magari farlo presente, civilmente, a chi di dovere. Semmai, scrivete ai giornali, parlate con qualche politico, che so, in modo che in futuro la tabella di cui parlavo prima venga modificata. Insomma, non perdiamo tempo ora, inutilmente. Comunque, per procedere: scorrendo la tabella, si viene a sapere che altri punti, oltre al servizio che hai già reso normalmente, te li guadagni se, dopo che sei diventato titolare, hai avuto il fegato di andare a insegnare nelle piccole isole, che so, a Ponza, o nelle Egadi, sfidando d’inverno i marosi su traghetti in balia delle onde. Ecco, così, anche se non sei un’aquila di insegnante in Matematica, in Latino o in Inglese, ma sei di ruolo, il coraggio, il puro e semplice coraggio di andare per mare con qualsiasi tempo, anche se, attenzione, non in Sicilia o Sardegna, bensì in isole piccole, dove è più dura andare o resistere abitandoci, quel coraggio ti assicura un punteggio aggiuntivo rispetto a quello annuale, che ti spetta comunque. In questo modo, zitto zitto, ti intaschi i tuoi dodici punticini annuali. - Ma, allora - intervenne Barbini, un mingherlino precisino e sempre puntuale nei suoi impegni scolastici, - conviene stare su un’isola piccola, per aumentare i punti e andarsene poi in un posto migliore, quando si è più vecchi. E conviene soprattutto ai supplenti. E il merito? -

- E dai! - lo riprese Virginio - Vi ho già detto che il merito viene dopo, Vedremo. Ah, comunque, per precisare: un supplente, anche se isolano su piccole isole, e anche se è un fenomeno di insegnante, ottiene la metà, e cioè tre punti per l’anno normale di servizio che presta, più altri tre aggiuntivi, solo perché, appunto, è su un’isola. Per farla breve, per fare lo stesso punteggio annuale di un titolare, sul continente, a un supplente servono due anni: se poi vuole strafare, se ne va su un’isola piccola e ne fa sei in un anno pure lui. D’altra parte, se uno è titolare, vorrà pure voler dire qualcosa, o no? Specialmente in mezzo al mare-. - Sì, d’accordo, ma, a parte che ‘sti criteri sono complicatissimi, pare che, a un certo punto, la faccenda sia solo di matematica, di calcoli e di cose cervellotiche - si inserì Valentini, una ragazza di solito silenziosissima. Virginio, man mano che il discorso procedeva, si sentiva un po’ a disagio, soprattutto perché si rendeva conto di essersi addentrato in un ginepraio, e poi perché non sapeva bene dove sarebbe andato a parare. Così sintetizzò un po’: - E pensate che per i titolari che non chiedono spesso trasferimenti ci sono altri punti in più da aggiungere al carniere: questi davvero non costano nulla, se non lo sforzo di rimanersene buoni buoni, nella scuola dove già si è, per qualche annetto di fila…È un specie di premio fedeltà, forse perché non rompi le balle ai Provveditorati, che, se tu chiedi di trasferirti, devono lavorare di più...Mah, il motivo vero non lo so - - Ah, questa poi! - sgranò gli occhi una ragazzina occhialuta del primo banco - Ma allora, se uno non si fa tutti questi calcoli, rimane dietro ad altri, che magari valgono meno di lui…- - Non mescolare le cose. I meriti a dopo. Certo, se ai meriti, aggiungi pure qualche calcolino accorto, è meglio…- aggiunse un po’ malizioso Virginio. - Però - riprese Virginio con l’intenzione di non farla troppo più lunga -, prima dei meriti, cioè dei titoli, che ti possono dare un punteggio finalmente a prescindere dall’età e dal servizio, vengono le cosiddette “esigenze di famiglia”. E qui, mi raccomando, non mi fate troppe domande - tentò di mettere le mani avanti. - Allora: la famosa tabella, che serve per la “Graduatoria interna”, ma anche per i trasferimenti da una scuola all’altra quando si tratta di riunirsi alla famiglia, riconosce sei punti per, così dice, vi leggo testualmente, «ricongiungimento al coniuge ovvero, nel caso di docenti senza coniuge o separati giudizialmente o consensualmente con atto omologato dal tribunale, per ricongiungimento ai genitori o ai figli». Che poi significa (dato che la stessa tabella si adopera ogni anno nelle scuole, anche se non ti trasferisci, per fare l’elenco di cui vi parlavo prima): se hai una moglie, o un marito, nella “Graduatoria interna” la moglie o il marito valgono sei punti. Sei punti, proprio come un anno di servizio da titolare, o due da supplente. Se poi la moglie non ce l’hai, o l’hai lasciata e sei tanto allocco da andare oltre la separazione fino al divorzio, facendoti togliere sei punti, avrai pure una vecchia madre malandata, o un figlio minore o minorato da accudire, no? E badate, non faccio battute su problemi veri che un insegnante, come chiunque altro, può avere, ma sui criteri, a volte davvero unici, che solo certe norme italiane prevedono -. E qui, mentre parlava, Virginio non riuscì a non pensare al caso, che gli avevano raccontato e che gli avevano assicurato fosse vero, di una collega, che aveva perso entrambi i genitori, ma che si era fatta adottare da una vecchietta paralitica e aveva sfruttato la legge 104, che consentiva una riduzione d’orario per la cura dei familiari non autosufficienti. Magari non i punti, ma qualcosa aveva pure ottenuto: se poi fosse anche una brava docente, questo non gliel’avevano detto… - Dopo la moglie, o il marito - continuò Virginio, - la scuola italiana si preoccupa, naturalmente, di trasformare in punteggio anche i figli. Sicché, per un professore o una professoressa, e qui finalmente, direte voi, si pensa ai professori anche giovani, dato che di solito si procrea da giovani, un figlioletto che abbia meno di sei anni arriva a valere quattro punti; ma appena ha spento le sei candeline, zac!, fino a quando non arriva a

diciotto anni, ne vale uno di meno, e cioè tre punti, da far valere nella famosa “Graduatoria” della quale ci stiamo occupando -. E qui, mentre parlava, Virginio non riuscì a non pensare a una battutaccia di Andrea, un suo amico bancario, che, anni prima, avendo toccato lui, non ricordava come, quell’argomento dei punti per i figli, gli aveva detto, con una bella pacca sulle spalle, “Te l’avevo data bene io la dritta, Virgi’! Visto che ti sei proprio voluto sposare e fai pure l’insegnante, scopa di più e studia di meno! Ma tu, niente, non mi hai dato retta. E ti sei fatto fregare in classifica dalla collega, che è già arrivata in tre anni al secondo figlio. Lo vedi che pure il Ministero te lo fa capire? Chi tromba di più insegna meglio, e si merita un occhio di riguardo in più! Ah, ah!”, e giù a ridere, anche se a lui quel tipo di battute qualunquiste e generiche, fatte da gente che sapeva ben poco della scuola non piaceva per niente, e l’amico doveva notarlo per forza. Ma, a volte, si sa, gli amici esagerano, forse perché ci vogliono troppo bene o forse perché, sfottendo noi, mettono in secondo piano i guai loro... - Prof, ma allora - intervenne di nuovo la ragazzina del primo banco, leggendo da un notes dove aveva tracciato un rapido calcolo -, se una professoressa, sì vabbè, titolare, ha, mettiamo, un marito, un figlio di cinque anni e uno di diciassette, ha già tredici punti, da aggiungere ai sei per ogni anno di servizio. E se, invece, uno è “single”, perché, mettiamo sempre, vuole dedicarsi al lavoro di scuola o non gli va di sposarsi, o è giovane, ma è bravo, passa dietro gli altri. E perde posto, se succede, come qui da noi il prossimo anno, che ci sono meno cattedre...- - È così - confermò Virginio; - a quanto pare, questa norma, alla sua origine, voleva tutelare indistintamente un insegnante che ha famiglia, assicurandogli di stare nel comune dove risiede la famiglia di cui avere cura. Anche se, riconosco, bisognerebbe davvero rivederla, questa norma, magari, che so, mettendo almeno sullo stesso piano la famiglia e i titoli culturali, che qualcosa, per chi insegna, dovranno pur valere; invece, per ora, facendo due conti, i titoli di merito culturale valgono meno di mogli e figli. Comunque, è così. Speriamo solo che, presto, con tutto il rispetto per chi ha famiglia, si invertano un po’ le cose e si riconoscano più i meriti professionali che quelli...- - Di letto? Ah, ah! - sbottò, tappandosi subito la bocca come gli fosse scappata una parolaccia, Carletti, un ragazzo poco studioso, ma molto spiritoso, cui Virginio lanciò un’occhiata, che voleva essere di rimprovero, ma fu di divertita sorpresa, perché venne da ridere anche a lui. - Oh, beh, ragazzi. Io vi ho detto in breve le cose come stanno. Adesso, parliamo d’altro -. - Ma Prof, aveva detto che, bene o male, in questo elenco dei professori c’era posto anche per il merito, e non ce ne parla per niente? - tentò l’ultima carta per far passare l’ora indenne l’allievo Panetti. - Ah, certo, certo, al punto tre, l’ultimo, c’è posto anche per i titoli culturali, che dovrebbero essere i più importanti. Dunque: dodici punti, finalmente, te li riconoscono, se hai vinto il concorso specifico con cui sei entrato nella scuola (zero punti in più, se, invece, oltre a quello, hai superato pure qualche altro concorso, perché superarne più di uno, a quanto pare, non serve ad acquisire qualche merito ulteriore e a raggiungere in classifica chi ti ha staccato di un paio di figli…). Ma tenete presente che non tutti gli insegnanti sono entrati o entrano nella scuola per concorso, come succede negli altri settori della Pubblica amministrazione: ecco perché, se controllerete la “Graduatoria”, non tutti i docenti hanno i dodici punti, di cui prima parlavo; alcuni hanno solo quelli di servizio e di famiglia. A volte, infatti, in periodi particolarmente caldi, i governi, pressati dalla piazza, fanno leggi apposite, per assumere a tempo pieno nella scuola i precari che, magari, hanno fatto supplenze per anni, e non per colpa loro, e chiedono una sistemazione definitiva: in quei casi, con l’appoggio dei sindacati, essi ottengono lo scopo che, di per sé, può anche essere giusto. Ma il fatto è che, come nessuno controlla le capacità dei supplenti, quando vengono chiamati a sostituire qualche titolare, nemmeno poi, in questo secondo momento, quando in quel modo vengono immessi in ruolo, esistono forme di accertamento delle qualità professionali di un insegnante.

D’altra parte, i sindacati fanno il loro mestiere, che è quello di assicurare il lavoro alla gente e si fermano lì: spetterebbe alle autorità della scuola stabilire, dopo che li hanno assunti, corsi professionali o tirocini o altro, per saggiare le capacità professionali e aiutare gli insegnanti a insegnare meglio. Ma in questo campo, oltre alla cronica mancanza di soldi per la scuola, ci sono molte e forti opposizioni. Comunque, lasciamo perdere la fobia del mondo della scuola italiana a lasciarsi valutare, perché entreremmo in un argomento, che ci porterebbe troppo lontano. No, no, andiamo oltre - proseguì Virginio, anticipando un’altra studentessa, che voleva a quel punto intervenire -, e rimaniamo alla tabella, su questa faccenda dei titoli che si valutano ai docenti per costruire la “Graduatoria” dentro ogni singola scuola. Dunque: se hai un diploma di specializzazione dopo la laurea, puoi mettere nel carniere altri cinque punti. Un diploma specialistico non vale come un marito o una moglie, ma, come vedete, poco ci manca. Se poi, puoi aggiungere un diploma universitario o una laurea breve in più, ti vale come un figlio tra i sei e i diciotto anni, cioè tre punti, mentre un’altra laurea, oltre la prima, ne vale cinque. Ma attenzione: non si deve esagerare. Per quanti titoli in più, oltre la laurea, tu ti metta in testa di conseguire, per impolparti il punteggio e sperare in qualche punto in più per merito, non te ne riconoscono più di dieci (mentre si potrebbe arrivare anche a un massimo di venti): invece questo è possibile per i figli, che, naturalmente, si possono sommare, te li valutano tutti e puoi andare ben oltre i dieci punti. “In finale”, come direbbe qualcuno, i figli, cari miei, valgono, per un insegnante, più dei titoli! Per cui, se un insegnante poco titolato, ma prolifico, volesse andare avanti a forza di figli, finché sono piccoli, e, per scalare un po’ di classifica, mettesse al mondo un marmocchio l’anno, magari con in mezzo un parto gemellare della moglie, potrebbe arrivare a sei figli, di cui quattro “singoli” più due gemelli, per la bellezza di un totale di ventiquattro punti. E con la moglie arriva a trenta solo per punti famiglia. Così, nel frattempo, aspettando di invecchiare e di guadagnar posizioni per merito dei suoi capelli bianchi, un po’ di punti, per rimanere, magari, in una sede che gli va, se li incamera mettendo su una famigliola numerosa, e chi non ce l’ha, perché non è sposato o perché, pur essendo bravo, è giovane, se ne va e se ne cerca un’altra... D’altronde, pur volendo introdurre davvero criteri più di merito che d’altro, non si è mai riusciti a mettersi d’accordo su chi dovrebbe controllare la qualità dei professori: però questo argomento è antico e mi porterebbe via inutilmente troppo altro tempo. Mah, comunque, ragazzi, alcuni di quei casi, di cui vi ho parlato prima, sono casi limite e tenete presente che a me piace scherzare...Dunque, su, per ora le norme legali sono queste e le scuole debbono applicarle: spiegatelo anche ai vostri genitori - concluse, infine, sbrigativamente Virginio-.

XXV Ciò non toglie che la nuova gestione del ministero, che pure, durò, a differenza di altre esperienze, per un’intera legislatura di cinque anni, non potesse pensare di cavarsela con qualche provvedimento populista come quello del “nuovo” esame di Stato ed evitare così il dissenso che, invece, nella sostanza, si ingrossava sempre più come un’onda di piena. Così, proprio come succede durante la popolare trasmissione televisiva della Corrida, quella dei dilettanti allo sbaraglio, che prima il pubblico, per un po’, sta zitto anche a sentire esibizioni canore inqualificabili da parte di qualche concorrente incapace e incosciente e poi esplode con bordate di fischi e ‘buu’ ‘buu’ prolungati e rabbiosi al suo indirizzo, allo stesso modo deflagrò la bomba innescata dalla supponente Ministra. D’altra parte, in questo, trattata né più né meno degli altri suoi precedenti colleghi; con l’aggiunta, però, di un astio maggiore, dalle manifestazioni esteriori più sdegnate e diffuse. Contro la legge appena approvata dell’imprudente e troppo confidente Ministra si riversarono in piazza, una mattina, duecentocinquantamila studenti, cui la polizia dovette contrapporsi con

fumogeni, caschi e manganelli; lei pensava che la sua riforma fosse finalmente l’inizio di una scuola “su misura per tutti”, mentre i più benevoli dei suoi oppositori la considerarono una “riformetta” da quattro soldi. E l’opposizione rincarava la dose, denunciando un pericoloso “ritorno al passato” e, per l’università, la triste realtà di una “proposta dequalificante” e mortificante. Poche mattine dopo un migliaio di esponenti del mondo della scuola, di fatto considerati pericolosi incursori, assediarono addirittura il palazzo di Montecitorio, sede della Camera, a cui presidio vennero schierate ventisei camionette, due pullman tipo granturismo e otto jeep dei carabinieri. Come Virginio aveva saggiamente supposto e previsto, non era valsa, alla Ministra, l’assunzione di alcune decine di migliaia di insegnanti precari, che da «precari stabili» diventavano «stabili»: dato che insegnavano già nella scuola da supplenti, aveva arguito, tanto valeva assumerli come titolari e tenersi buoni piazza e sindacati. Del resto, pensò come da sempre s’era pensato al riguardo, le ossa già se le erano fatte sulle ossa degli studenti, dunque non c’era bisogno di ulteriori verifiche della loro capacità: c’era già, fatta sul campo e certificata ope legis; ci si poteva fidare. Punto. Poteva bastare a far digerire la riforma al mondo della scuola, no? No: se ci fosse stato in confidenza, Virginio, anche se non entusiasta di lei, per umana solidarietà gliel’avrebbe suggerito, glielo avrebbe ben spiegato che non poteva assolutamente bastare. Ci voleva ben altro: dunque, le proteste dovevano andare avanti. E così fu: Virginio, certo, non si stupì per questo, stavolta. Ma poi, come Dio e la costituzione italiana vollero, anche quella legislatura finì, ci furono nuove elezioni, vinse un altro schieramento e si insediò un altro nuovo Ministro all’Istruzione, l’onorevole Dottor Giuseppe Fioroni: che, come prima cosa, pensando pure lui che le parole contino più o, quanto meno, come i fatti, ripristinò il nome precedente. E, dunque, il Ministero non fu più il MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca), ma tornò a chiamarsi Ministero della Pubblica Istruzione, che fu ridiviso da quello dell’Università e della Ricerca, che fu affidato a un altro Ministro, di nome Fabio Mussi: c’erano già tutte le premesse per un mondo nuovo nella scuola italiana. Tanto che, come tanti dei suoi predecessori, anche questo Ministro, pur essendo laureato in Medicina e Chirurgia, quasi non avesse mai fatto altro in vita sua, si gettò a capofitto nell’impresa di dare finalmente il via a una scuola italiana, seria, moderna e competitiva, con lo stesso ardimento con cui un audace cultore di jumping si catapulta da un ponte con la speranza che l’elastico comunque tenga. Così presto decise di presentare alla stampa le Nuove Indicazioni per la scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, con rubiconda gioia nel volto: occorreva dare molto più spazio a matematica, grammatica e geografia, e, anche, poi, parecchio più all'Educazione che alle Educazioni; e darne, invece, molto, molto meno alle tre «i» di chi era venuto prima di lui, e cioè all’inglese, l’informatica e l’impresa. I bimbi, fin dalle elementari, oltre che di lecca lecca e di bombe caloriche a forma di merendina, avrebbero dovuto rimpinzarsi di molto più salutari tabelline, di grammatica, di sintassi, e di nomi di fiumi, di mari e di monti, studiando il mondo e l’Europa, che nessuno di loro sapeva, forse, esistesse nemmeno; e i più grandicelli, quelli di terza media, conoscere davvero, finalmente, la storia del Novecento («Figurarsi che oggi - precisava il Ministro - gli adolescenti fanno invero gran confusione, quando si parla di fascismo, di Resistenza o di De Gasperi»). «Così il curricolo - entrava più nel dettaglio colui - diventa più snello e si privilegiano italiano, matematica, storia e geografia». E che fosse un atto dovuto, a suo parere, si doveva riconoscere dalla sola, semplice constatazione che, per esempio, alle superiori, il 41% degli studenti mostrava lacune evidenti nelle materie fondamentali (e, addirittura, in percentuale anche maggiore, nel 44% dei casi, in matematica, per esempio, son somarelli davvero).

E allora, giù: fin dalle elementari vanno coltivati i germogli, a pane e matematica, italiano, storia, geografia e scienze. Per l’italiano, in particolare, c’era una vera e propria emergenza educativa, constatava il nuovo inquilino di Viale Trastevere (e, su questo, Virginio, da anni piagato combattente a colpi di Danti, di Petrarchi e di Manzoni, non poteva che convenire con lui); e così, sarebbe stato basilare riprendere in mano quei libri, così trascurati, di grammatica e sintassi, che molti non avevano mai, paventava il Ministro, dati alla mano, nemmeno sfogliato. Le Nuove Indicazioni, poi concludeva, sarebbero state applicate dalle scuole in via sperimentale per un paio d’anni (…ma non prevedeva, poco accorto delle impetuose bore politiche d’Italia qual era, che il suo governo, e insieme lui stesso, sarebbero ben prima caduti…). D’altra parte le preoccupazioni e l’urgenza di porre qualche rimedio alla situazione scolastica italiana, ormai, avrebbero dovuto unire più che dividere uomini e schieramenti, cui spettava di farsi carico del problema: sarebbe bastato leggere, come aveva fatto Virginio qualche settimana prima in classe, qualche stralcio almeno de La deriva, in cui gli ormai famosi giornalisti Stella e Rizzo, tra altri capitoli riguardanti la crisi del sistema Italia, puntavano il dito soprattutto contro la scuola. Invece, i politici preferivano continuare a giocare a mosca cieca, come i bambini. Quando Virginio aveva letto ai suoi ragazzi, i ragazzi diciassettenni di una seconda liceo, solo pochi passi delle pagine 177-181 di quel libro, gli sembrò davvero che molti ne fossero colpiti, specialmente là dove si diceva, visti i dati diffusi a fine 2007, che, secondo i rapporti Ocse del Pisa (Programme for international student assessment, ogni anno incaricato di valutare gli studenti quindicenni di tutto il mondo), «i nostri ragazzi...sono retrocessi in scienze addirittura al 36° posto con 475 punti contro una media di 500. E lontanissimi dai migliori: finlandesi (563), estoni (531), olandesi (525)...[...] Tra gli studenti al di sotto del primo livello di alfabetizzazione matematica i nostri sono davanti, tra tutti i Paesi Ocse, solo alla Turchia e al Messico. E nel complesso affondano nel fango. Uno su tre non sa leggere un grafico o convertire una moneta in un’altra. Quattro su dieci si impappinano nella lettura di un testo discontinuo. Sei su dieci non riescono a spiegare da cosa dipenda l’alternarsi del giorno e della notte. Umiliante. ...[...] Visti i numeri del rapporto Ocse, Fioroni sbiancò. Quindi diffuse un comunicato: “Abbiamo una scuola primaria di buona qualità su tutto il territorio nazionale, ma dal rapporto del Pisa emerge anche un acuirsi delle difficoltà nelle scuole medie inferiori e superiori. Basti pensare che alle superiori, in dieci anni, abbiamo scrutinato e mandato avanti circa 8 milioni e 800.000 studenti con lacune gravi o gravissime. […] Di più, le insufficienze sono particolarmente vistose proprio nelle materie d’indirizzo: il 55% dei ragazzi del classico è carente in latino, il 65% di quelli dello scientifico va male in matematica, l’83% di quelli del linguistico zoppica nelle lingue. Prova provata della necessità assoluta di ripristinare, per quanti limiti avessero, i vecchi esami di riparazione subito bollati da Enrico Panini, segretario della Flc-Cgil, come «una scorciatoia improvvisata» ”. […] Tradotto: aboliti gli esami di riparazione per dare vita al sistema dei “debiti”...abbiamo promosso nell’ultimo decennio quasi 9 milioni di somari che un tempo sarebbero stati rimandati o addirittura bocciati. Nove milioni di asini. Pari a tutti gli abitanti della Svezia. […] Spiega l’annuario statistico italiano che mezzo secolo fa, nel 1951-52,...la quota di bocciati alla maturità fu del 28,4%. Nel 2006, se escludiamo i privatisti (bocciati comunque solo in un caso su 6), è stata del 2,8%. Dieci volte di meno. Ma anche qui i dati vanno scomposti. Il rapporto del Pisa dice che gli studenti siciliani abissalmente ignoranti sono il quadruplo dei coetanei caucasici dell’Azerbaigian? I loro professori, distrattamente, non se ne sono mai accorti. I bocciati alla maturità 2006 negli istituti classici, scientifici, magistrali e linguistici sono stati, nell’isola, l’1,3%, con un record in provincia di Enna e di Messina di 0,9%. Vi pare possibile? Nove bocciati ogni mille studenti in un’area liquidata dai parametri Ocse come ricca di alcuni geni e tanti somari? Lo stesso giorno in cui esplodeva qualche anno fa lo scandalo dell’esame di ammissione all’Ordine degli avvocati a Catanzaro, dove 2295 concorrenti su 2301 avevano copiato parola per parola lo

stesso tema, un giornale pubblicava gli esiti della maturità nelle scuole del capoluogo calabrese. Bocciati: 1,16%. Ma molti istituti avevano fatto di meglio: tutti promossi i 133 ragazzi del liceo classico Fiorentino, tutti i 207 dello scientifico Siciliani, tutti i 209 dell’Itis Scalfaro e così via: 19 istituti su 34 senza un solo trombato. Neppure uno. Fantastico il rendimento alle magistrali Cassiodoro: erano usciti col massimo dei voti (100 su 100) 34 giovani su 141 iscritti. Un genio ogni quattro. E vai! Poi fai un sondaggio tra gli studenti e viene fuori che Aldo Moro fu assassinato non dalle Brigate Rosse ma dalla mafia, che uno dei padri della Costituzione del ‘48 fu Silvio Berlusconi, che gli «anni di piombo» non c’entrano col terrorismo ma sono «un’era zoologica precedente a quella del ferro», che le Fosse Ardeatine sono «un fenomeno carsico» e ci fu ammazzato tra gli altri il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. […] E il bello è che, alla domanda: “Quale materia aboliresti?”, buona parte dei ragazzi risponde: la storia». Ad ogni modo, passati pochi giorni da quella lettura fatta in classe da Virginio, per sicurezza e per non sembrare troppo di parte, la scuola s’agitò per tempo, fin dai primi mesi dell’insediamento del nuovo Ministro: e Virginio, che, invecchiando, diventava sempre più saggio, come, probabilmente, la provvida Natura concede agli onesti, anche stavolta non s’era sbagliato ad aspettarsi subissi di insulti pure contro l’ultimo arrivato, qualsiasi cosa di bene o di male facesse. Ne vide le prime avvisaglie sul campo, proprio nei mugugni dei suoi studenti contro certi provvedimenti del Ministro fin da subito bollati di demagogia e di conservatorismo della specie più bieca. Che pensare, bofonchiavano torvi, di uno che, esponente di un governo proclamatosi progressista, imbottito di progressisti e dichiaratosi sensibile innovatore egli stesso, poi, dimostrando molte e molteplici contraddizioni, dopo aver giustamente soppresso la fosca controriforma della riforma precedente, anche quella soffocata nella culla, si metta di seguito a ripristinare il tempo pieno nella scuola primaria, a stabilire l’obbligo scolastico fino a 16 anni, e, cosa nefasta e peggiore di tutte, a voler reintrodurre, di fatto, i famigerati esami di riparazione, costringendo pletore di ragazzi indifesi a saldare i propri debiti, col fiato grosso, entro la fine dell’anno in corso? Cos’avevano di male le benefiche e psicagogiche promozioni a giugno con l’assegnazione dei debiti formativi per l’anno appresso, che consentivano a figli, mamme e papà di andarsene comunque tranquilli al mare e ai monti senza tante pendenze con quei rompimaroni frustrati e lagnosi di presidi e professori sputasentenze? Erano andate bene per dodici anni e adesso non andavano più bene? Occorreva fare subito qualcosa contro l’«ennesima minaccia alla scuola pubblica»! E così, presto presto, fin dall’ottobre di quell’anno, in cui si era pensato di ricorrere a simili retrogradi provvedimenti, in ben 130 città si organizzarono manifestazioni e cortei da parte dei ragazzi della scuola italiana, tutti uniti in difesa della democrazia in pericolo e per dire «no agli esami di riparazione e alle punizioni più severe»: e una di queste Virginio, rimasto solo, pervicacemente, nella classe deserta, vide, policroma, chiassosa, e intenzionatissima a dare il tutto per tutto contro l’oscurantismo, sfilare una mattina proprio sotto le finestre del suo Istituto. Si decise, quella stagione memorabile, di marciare per le strade, contro il nuovo, reprobo Ministro, sulle note di Fischia il vento dei «Modena City Ramblers», chiedendo più risorse finanziarie per la scuola e l’università e una risposta finalmente chiara sul decreto riguardante i debiti formativi; e, per rendere più tangibile il disaccordo sulle paventate decisioni in materia scolastica, gli studenti accompagnarono le loro richieste, in quel dinamico autunno, con lanci di interi stock di uova più o meno fresche nelle piazze, con assedi alle università e urla di slogan offensivi e velenosi come frecce all’upas contro il non più tanto pacioso e, pure lui, ormai inviso Ministro. Al quale, per farsi almeno un po’ più benvolere, nemmeno a lui, bastò assumere, come non era bastato alla passata signora, qualche ulteriore migliaio di precari, infondendo in loro la vita di «insegnanti stabili», da informe e instabile creta supplente che erano prima: il guaio era fatto, e la sua popolarità, per la verità breve come il suo ministero, irrimediabilmente compromessa.

E pensare che, col maggior tatto del mondo, per mezzo di una regolare circolare ministeriale con tanto di logo statale, aveva persino cercato di ricordare al mondo scolastico italiano, in quegli stessi giorni, che esiste l’educazione e che sarebbe stata gioiosa e bellissima cosa condividerla con le famiglie: ma quelli non l’avevano voluta capire in nessun modo. Di più, però, in quella circostanza, proprio non poteva fare: tirato a forza a trattare lo scabrosissimo argomento, aveva tentato di prendere molto alla larga la faccenda dell’uso dei telefonini a scuola, e, per essere più persuasivo, aveva cominciato col dire che «un’educazione efficace dei giovani è il risultato di un’azione coordinata tra famiglia e scuola, nell’ottica della condivisione di principi ed obiettivi, evitando quei conflitti che hanno sempre gravi conseguenze sull’efficacia del processo formativo». Si mostrava così timoroso e prudente, perché sapeva di muoversi su un terreno minato, in quanto gran parte di italiani, ormai, padri, figli o madri che siano, imbottiti di spot sul tema come i panini al Mac Donald, amano più i telefonini che i nonni, i genitori o gli occhi dolci dell’amante. A tal punto che, al mare, parecchi di loro, pur senza volerlo ammettere apertamente, giudicherebbero più utile e urgente salvare dalle onde il cellulare piuttosto che uno che affoga: e, dunque, il Ministro, preparato in materia, ben paventava che anche il solo pensare di limitarne l’uso a scuola, seppure invocando motivi educativi, o, peggio, nei casi di un uso sconsiderato dello stesso, il solo ventilare la minaccia, addirittura!, di separare dal telefonino, anche se per poco, i giovani italiani, poteva diventare un serio problema, non solo ministeriale, ma addirittura governativo e sociale, scintilla decisiva, questa sì, forse, di chissà quali imprevedibili sommosse. Sicché, il buon uomo, per evitarsi la reprimenda di essere più scellerato di Erode, oltreché un retrivo tiranno antitecnologico, continuava, vellutando ulteriormente le parole: «È del tutto evidente che il divieto di utilizzo del cellulare durante le ore di lezione risponda ad una generale norma di correttezza che, peraltro, trova una codificazione formale nei doveri indicati nello Statuto delle studentesse e degli studenti, di cui al D.P.R. 24 giugno 1998, n. 249». Come dire: siccome non ti voglio offendere, qualificandoti come cafone se usi il cellulare a scuola, mi rifaccio a un decreto del Presidente della Repubblica sulla correttezza e l’educazione, così mi sento un po’ più tranquillo e appoggiato almeno da uno che conta. Preso, dunque, il necessario coraggio con questo respirone, di seguito si addentrava più specificatamente nel discorso: «L’uso del cellulare e di altri dispositivi elettronici rappresenta un elemento di distrazione sia per chi lo usa che per i compagni, oltre che una grave mancanza di rispetto per il docente configurando, pertanto, un’infrazione disciplinare sanzionabile attraverso provvedimenti orientati non solo a prevenire e scoraggiare tali comportamenti, ma anche, secondo una logica educativa propria dell’educazione scolastica, a stimolare nello studente la consapevolezza del disvalore dei medesimi». Per farla breve, bisognava che gli insegnanti si spendessero nel far capire ai ragazzi che usare il telefonino non è indispensabile come respirare o andar di corpo, ma che è nientemeno che un “disvalore”, poco contando, sul piano etico, i soldi che mamma e papà ci hanno messo per procurartelo. Ma era come sputare dalla nave controvento e sperare di farla franca, anche se il volenteroso Ministro ce la metteva tutta ad affannarsi a spiegare quello che in qualsiasi altra parte del mondo, fuorché in Italia, sarebbe superfluo spiegare. E cioè che, alla fin fine, costituisce un obbligo, per ciascuno studente non usare il telefono cellulare durante lo svolgimento delle attività didattiche, considerato che il discente «ha il dovere:

• di assolvere assiduamente agli impegni di studio anche durante gli orari di lezione (comma 1) (- questo fu il punto più incomprensibile per Virginio, tanto che dovette chiederne spiegazione al Preside, senza peraltro averne di decisive neppure da quell’autorità: non riusciva a capire, infatti, cos’altro avrebbero dovuto fare gli studenti durante le ore di lezione, se non dedicarsi allo studio. Forse impallinare i bidelli con proiettili di gomma? -);

• di tenere comportamenti rispettosi degli altri (comma 2), nonché corretti e coerenti con i princìpi di cui all’art. 1 (comma 3);

• di osservare le disposizioni organizzative dettate dai regolamenti di istituto (comma 4). La violazione di tale dovere comporta, quindi, l’irrogazione delle sanzioni disciplinari appositamente individuate da ciascuna istituzione scolastica, nell’ambito della sua autonomia, in sede di regolamento di istituto. È dunque necessario che nei regolamenti di istituto siano previste adeguate sanzioni secondo il criterio di proporzionalità, ivi compresa quella del ritiro temporaneo del telefono cellulare durante le ore di lezione, in caso di uso scorretto dello stesso». Virginio, che era stato adolescente in una realtà familiare e scolastica, in cui il concetto di “criterio di proporzionalità” in materia di sanzioni per violazione delle regole educative non esisteva e le punizioni venivano, di conseguenza, irrogate in modo del tutto arbitrario, per mezzo, oltretutto, di antidemocratici, non quantificabili e non negoziabili scapaccioni, faticò non poco a penetrare nel moderno spirito pedagogico della Circolare Ministeriale: lui pensava, sentendosi onestamente privo di scarsa sensibilità sul tema, che se uno studente sbagliava, occorreva sanzionarlo e basta, con giustizia ed equilibrio, certo, ma senza andare ad acchiappare, per giustificarsi, un comma qua e uno là, nel vento, come si fa con le farfalle nei campi. Addirittura, conosciuta la Circolare del Ministro, sembrava pensarla come lui anche un famoso opinionista, Michele Serra, che, naturalmente più intelligente che globalizzato, scriveva: «Il divieto di tenere i telefonini accesi a scuola deve farci davvero riflettere. Equivale, infatti, al divieto di suonare la tromba durante le lezioni, o al divieto di praticare buchi nella cattedra con un trapano. Pensandoci bene, pensandoci meglio, ci mette davanti agli occhi una caduta quasi surreale del livello di educazione di questo Paese. E ci fa intendere quanto incondizionata sia stata la resa degli adulti alla propria pigrizia - non di altro si tratta - di fronte alla responsabilità che portiamo nei confronti dei ragazzi». Ma è noto che i ministri sono ministri perché ne sanno più di noi e vedono molto oltre quello che vedono anche gli opinionisti; ecco il motivo per cui, a volte, usano le parole apparentemente come le usiamo noi, ma fanno e dispongono le cose in un modo che, di primo acchito, sfugge ai comuni mortali. Se, per esempio, il Preside della scuola di una cittadina in provincia di Venezia, San Donà del Piave, ai tempi di quel Ministro ufficialmente antitelefonaio, fosse stato più psicologo, non avrebbe preso così alla lettera certe disposizioni formali e sarebbe stato meno deluso, poi, a tutto vantaggio del suo interiore benessere. Un bel giorno, colui, infatti, ingenuamente convinto che i genitori degli studenti della sua scuola, oltreché per tenere occupati i figli la mattina, li mandassero a studiare sui banchi del suo Istituto anche perché ne uscissero un po’ più educati e meno bruti di un primate arboricolo, inviò a casa loro, chiedendo di firmarlo, un modulo nel quale domandava di dargli il consenso per l’eventuale ritiro del cellulare dei figli, nel caso lo usassero impropriamente durante la lezione. Su settecento famiglie (tanti erano gli studenti della scuola quell’anno) trecento si rifiutarono di firmarlo. Intervistato, addirittura, da un giornalista, il quale, per mestiere, doveva fingere di stupirsi dello stupore che non c’era e non c’è nella pubblica opinione riguardo la faccenda, il Preside così si lamentava: «Sono amareggiato. È il crollo del patto educativo. Pensavo a una santa alleanza, ero convinto che tutti capissero che il cellulare in classe è un formidabile antidoto alla concentrazione, alla comprensione, alla riflessione. Invece, ho ricevuto qualche telefonata, tutt’altro che amichevole. Mi hanno diffidato: guai se tocca il cellulare di mio figlio. Mi hanno prospettato denunce per abuso di potere, per appropriazione indebita. I figli, d’altronde, hanno due cellulari, che comprano i genitori: uno civetta, da consegnare al prof., l’altro, minuscolo, ben nascosto». Ma a lui era andata, comunque, sempre meglio che a un suo collega di una scuola media barese, che, già criticato per aver, pure lui, vietato il cellulare in classe, quando, poi, superando la misura!, non ricevette con sollecitudine la famiglia di un alunno per rendere conto dei voti troppo bassi in

pagella, fu caricato di cazzotti dal nonno e dal babbo del piccolino, gonfiato ben bene e mandato all’ospedale. Ma se non altro, i due episodi, uno veneto e l’altro pugliese, furono molto istruttivi per Virginio, perché servirono a far riflettere lui, e altri come lui che leggevano i giornali, che non è vero che l’Italia non è un Paese unito e che i genitori d’oggi non sono capaci di dare esempi di vita ai loro figli. I quali ultimi, tra l’altro, come farebbero senza cellulari, ad alimentare You Tube, arricchendolo di così tanto educativi e tanto divertenti video, che hanno per protagonista la scuola? Un alunno, saggio e accorto, per esempio, rivelava, trionfalmente, a un altro giornale: «Questa mattina nella mia classe hanno girato quattro video e non è successo niente»; e una ragazza: «La prof di disegno monta il caricabatterie sulla cattedra». Anche Virginio, d’altra parte, ebbe prove dirette degli effetti pratici dell’applicazione della Circolare del Ministro tra la gente della sua scuola: una quindicina di giorni dopo la diffusione della direttive ministeriali, infatti, una mattina, entrando in una sua classe per una comunicazione urgente, vide il professore di storia dell’arte che parlava tranquillamente al telefonino, mentre i ragazzi erano impegnati in una esercitazione grafica, tranne due, sul fondo, assorti a digitare sul cellulare, e rimase senza parole. Gli studenti, conoscendolo, compresero il suo visibile imbarazzo, e lui, per coerenza, accortosi che se n’erano accorti, dovette ricordare pubblicamente al collega, dalla faccia un po’ seccata, che non si doveva usare il cellulare in classe, al di là della Circolare, peraltro. Ma poi, a quattr’occhi, durante la ricreazione, il collega gli disse che non era il caso che si stupisse più di tanto, dato che lui aveva a casa un grave problema, che doveva assolutamente - as-so-lu-ta-me-nte -, tenere costantemente - co-stan-te-men-te -, sotto controllo (anzi, giorni dopo, volle essere ancora più scrupoloso, addirittura sincero, e finì per confidargli, da uomo a uomo, con complici ammiccamenti di maschio navigato in quel mare, che aveva una relazione extraconiugale “strabiliante” e appagantissima con una loro comune ex alunna, che si impegnò a riportare alla memoria visiva di Virginio con plastica gestualità e con precisi e inequivocabili riferimenti esteriori e posteriori alla di lei figura). Stessa scena la settimana dopo: stavolta era una collega di Matematica al telefono in classe, “dovutamente” si sentì in dovere di giustificarsi lei, dato che l’anziana mamma era a casa ammalata. Virginio, che non portava il telefonino in classe e poteva, dunque, imporre ai ragazzi che non lo usassero, rimpianse molto, quei giorni, i tempi in cui c’era soltanto il telefono col filo, a casa: si viveva lo stesso, ma, soprattutto, c’era un problema educativo in meno nelle scuole e i professori avevano un’opportunità in più per essere maggiormente coerenti e credibili agli studenti. Comunque, a prescindere da quella Circolare, che, pur edulcorata, a parere di molti poteva pure risparmiarsi, il Ministro continuò, quell’anno, a non avere vita facile: e neppure l’altro la passò liscia, quel Ministro, all’inizio più defilato, costola del primo, il Ministro dell’Università e della Ricerca, il Fabio Mussi, che fu crudamente criticato dai rettori degli atenei e dai docenti per la sua riforma dei concorsi, definita senza tanti complimenti e giri di parole «un fallimento». Che aspettavano, dunque, si chiedevano sia i delusi sia gli avversari politici di sempre, a chiudere bottega, costoro, e ad andarsene tutti quanti a quel paese, già pullulante di una abbondantissima popolazione fatta di tanta gente come loro? Eppure, anche a quest’ultimo Ministro, in cuor suo, Virginio concesse l’onore delle armi: infatti, il “morituro”, non ancora cosciente di esserlo, emanò per tempo una Circolare per gli Esami di Stato di quell’anno, in cui, fronteggiando la precedente marea montante di candidati, anche asini, che erano, comunque, ammessi d’ufficio, spiegava, con santa pazienza, che «la nuova legge [quella del gennaio 2007] introduce il giudizio di ammissione all’esame di stato». Raccomandava, poi, quello che dovrebbe essere superfluo raccomandare, ma che in Italia è sempre necessario dire e raccomandare: «Per il corrente anno scolastico si sottolinea l’esigenza che i Consigli di classe rivolgano una particolare attenzione alle verifiche intermedie e finali dei livelli di preparazione raggiunti dallo studente.

In sede di scrutinio finale si procederà ad una valutazione dello studente che tenga conto….delle conoscenze e delle competenze da lui acquisite nell’ultimo anno del corso di studi, delle sue capacità critiche ed espressive e degli sforzi compiuti per colmare eventuali lacune e raggiungere una preparazione complessiva tale da consentirgli di affrontare l’esame, anche in presenza di valutazioni non sufficienti nelle singole discipline. In questo ultimo caso, l’ammissione o la non ammissione dovrà essere specificatamente motivata» Con cristiana comprensione, infatti, non ce la fece a chiudere subito le porte in faccia a chi fosse ancora insufficiente in qualche materia nello scrutinio finale dell’ultima classe, ma almeno - sembrava suggerire il Ministro - i suoi insegnanti si assumano la responsabilità di dirci la ragione per cui lo ammettono lo stesso. Per la verità, la regola dell’ammissione all’esame per lo studente da parte del Consiglio dei docenti era cosa vecchia, risalendo alle norme precedenti al 2000, ma la bontà dei professori italiani era, anche allora, leggendaria: Virginio, al proposito, ricordava, divertito dalla trovata per un verso ma ancora indispettito per un altro, che nello scrutinio finale di una sua terza, a maggioranza, era stata decisa l’ammissione agli esami di maturità di un alunno, pur insufficiente in due materie importanti, perché aveva dimostrato di essere molto bravo nel salto in alto. Comunque, ritornando a concentrarsi sul presente della Circolare applicativa del Ministro Fioroni, essa, poi, come Virginio poté notare, riprendeva in buona parte le disposizioni in materia del precedente Ministro, nella convinzione, finalmente, che, pur essendo di colore politico diverso, non fosse opportuno uno stravolgimento completo solo per il gusto di cambiare: già era un buon miglioramento aver reintrodotto il principio del giudizio d’ammissione. Sicché, a proposito del “colloquio”, che era, ed è tuttora, la parte conclusiva dell’intero percorso d’esame, la Circolare precisava che «esso si svolge…su argomenti di interesse multidisciplinare attinenti ai programmi e al lavoro didattico dell’ultimo anno di corso. Deve ritenersi comunque rientrante tra gli argomenti di interesse multidisciplinare l’eventuale presentazione, da parte dei candidati, di esperienze di ricerca e di progetti in forma di tesina, preparati durante l’anno scolastico anche con l’ausilio dei docenti della classe. Gli argomenti possono essere introdotti mediante la proposta di un testo, di un documento, di un progetto o di altra questione di cui il candidato individua le componenti culturali, discutendole. È d’obbligo, inoltre, nel corso del colloquio, provvedere alla discussione degli elaborati relativi alle prove scritte». Insomma, si riconfermava la prassi della discussione, all’inizio dell’esame orale, di una tesina presentata e preparata dal candidato, per consentirgli di superare il prevedibile magone, che avrebbe potuto attanagliarlo all’ingresso nell’aula del colloquio, specialmente alla presenza di docenti a lui sconosciuti. E anche lì Virginio tornava con la memoria al primo anno di applicazione delle nuove norme, nel 2000 (ricordiamo: quelle del “tutti ammessi” per legge), quando, non essendo i professori stessi ancora pratici del nuovo formidabile e “oggettivo” strumento di “misurazione delle competenze” degli studenti, molte Commissioni lasciavano parlare i candidati, quasi tutto il tempo, a volte per un’ora, solo della tesina, dunque di quello che a loro pareva e piaceva, tra sorridenti e rilassanti assensi dei commissari d’esame: sicché tutto il resto di quello che sarebbe dovuto essere un “pluridisciplinare” accertamento della loro preparazione, attraverso agganci e rimandi tematici fra le varie materie, fu di fatto relegato a una corsa di pochi minuti (con qualche estemporaneo intervento dei singolo docenti esaminatori), riducendo l’intero colloquio a una barzelletta (tanto che, una volta, Virginio e i suoi colleghi uscirono da una scuola sede d’esame alle cinque del pomeriggio). Ecco come, in Italia, ogni legge, anche buona, viene poi applicata nel modo più riduttivo possibile: anziché una buona legge essere una cura per star meglio, da noi è un virus, di cui ci si affretta a trovare gli anticorpi per neutralizzarlo e lasciare sempre le cose, male, come prima. Ad ogni buon conto, la Circolare di Fioroni ribadiva, sacrosantamente, che «il colloquio, nel rispetto della sua natura multidisciplinare, non può considerarsi interamente risolto se non si sia

svolto secondo tutte le fasi sopraindicate e se non abbia interessato tutte le discipline per le quali i commissari, interni ed esterni, abbiano titolo secondo la normativa vigente». Fin qui per il colloquio, che, se fosse stato sempre condotto, e sempre lo fosse, secondo le prescrizioni ministeriali, di appena buonsenso comune e di minima serietà peraltro, potrebbe tuttora essere un affidabile strumento di analisi della preparazione di uno studente: ma poi, si sa come vanno queste cose, prevalgono le strettoie dei tempi (perché interrogare solo quattro studenti al giorno, per esempio, se se ne possono anche sentire cinque, risparmiando qualche giorno alla fine, visto che - concordano i prof - “ci pagano a forfait e non per numero di giorni lavorativi”?), la tendenza al “diplomare tutti”, anche per evitarsi grattacapi, il tener conto del punteggio accumulato con le prove scritte, per non far saltare tutto “solo” col colloquio e l’interiore, atavico recalcitrare dei prof nostrani di fronte alla prospettiva di passare per retrivi castigamatti. Per cui Virginio, vedendo come andavano le cose, e le percentuali bulgare di promossi, affatto corrispondenti al loro sapere, si chiedeva, anno dopo anno, perché lo Stato non decidesse di risparmiare una barca di soldi per pagare i prof d’esame, abolendolo, invece, quell’esame, che, di sé, rinnegava perfino la denominazione, per il modo troppo differenziato di gestirlo da parte delle Commissioni; le quali, di “oggettivo”, come la legge istitutiva dell’esame assicurava, riuscivano ben raramente a lasciare traccia, sia nella forma sia nella sostanza (ecco un caso, chiudeva poi il discorso con se stesso Virginio, in cui i nomina [non] sunt consequentia rerum, “I nomi [non] sono conseguenza dei fatti”). Ma quello che Virginio si sentì di apprezzare di più della Circolare di Fioroni, al di là delle disposizioni generali di organizzazione dell’esame di Stato, che si richiamavano sostanzialmente a quelle degli anni precedenti, fu il tentativo del Ministro di ripristinare un minimo di credibilità col ridimensionare la vergogna (secondo lui) delle Commissioni composte solo dai soli professori della classe. Invece, ora, si leggeva sulla Circolare, «la nuova legge ha innovato la composizione della Commissione giudicatrice, che è costituita al massimo da sei componenti, di cui tre interni e tre esterni, ai quali si aggiunge un Presidente anch’esso esterno». Tuttavia, se, ancora, «per ogni singola classe si costituisce una Commissione», come prima, «i membri esterni e il Presidente», però, si stabiliva, «sono comuni per ogni due Commissioni, che vengono abbinate generalmente secondo criteri di omogeneità o affinità culturali e pedagogiche esistenti tra gli indirizzi di studio». Se non altro, prima di cadere, prematuramente, come tanti suoi pari, il Ministro era almeno riuscito a rendere, per come la pensava Virginio, meno farsesco il cosiddetto Esame di Stato finale della scuola media superiore, almeno sulla carta, disponendo di nuovo, da buon Salomone, per quanto gli lasciarono fare, che le Commissioni fossero metà di professori interni alla scuola e metà esterni e che il Presidente (ancora, uno per Commissione) fosse esterno, ma dotato di “diritto di voto” nella Commissione, di cui faceva parte e che presiedeva. Invece, durante tutta la gestione Moratti dell’Istruzione e fino all’anno prima, con la pantomima delle commissioni tutte interne (una classe = una Commissione, costituita “solo” da membri interni), il Presidente c’era, ma solo di nome, perché era uno per tutte le classi terminali di un dato Istituto, non faceva parte di diritto di nessuna Commissione, non aveva voce in capitolo né sui criteri di valutazione né negli altri atti operativi di ciascuna delle Commissioni della scuola cui era stato assegnato, aveva solo compiti di controllo esteriore e burocratico e finiva esclusivamente, zampettando dall’una all’altra tutto il giorno, per controllare che non avvenissero violazioni eclatanti della legge: insomma, definirlo, più che altro, una sagoma di cartone o un pupazzo di pezza potrebbe fare al caso, perché si capisca quanto contava nell’Esame di Stato (che Virginio, ostinatamente, chiamava di classe). Soddisfatto, ad ogni modo, anche solo di questo, Virginio lesse, però, poi con curiosità, ma anche con scetticismo crescente, quanto si diceva all’art. 6 della Circolare, titolato Indicazioni operative: «Ad integrazione della presente nota, si richiama l’attenzione dei Dirigenti scolastici e dei docenti sulla necessità di porre in essere già da quest’anno, nelle classi antecedenti l’ultima, anche di intesa

con le famiglie, ogni iniziativa utile a favorire negli studenti il recupero dei debiti contratti la cui insolvenza non potrà più consentire tra due anni l’ammissione all’esame. Sarà cura dei Direttori Generali degli Uffici Scolastici Regionali e dei Dirigenti scolastici organizzare conferenze di servizio e incontri, anche con la presenza degli Ispettori operanti sul territorio, al fine di approfondire i vari profili del nuovo esame e porre gli studenti in grado di affrontare le prove con sicurezza e serenità. In tale contesto, anche in coerenza con il comma 12 del capoverso 4 dell’art. 1 della nuova legge, è stata costituita, presso il Dipartimento dell’Istruzione, una task-force di Ispettori in servizio presso il Ministero, con il compito di fornire alle scuole la più ampia informazione sulle novità dell’esame e di porre in essere, di concerto con gli Ispettori operanti nelle regioni, adeguate forme di assistenza e di intervento. Sarà altresì cura dei succitati ispettori procedere alla verifica della più rigorosa osservanza, da parte degli istituti scolastici statali e paritari, delle norme e delle disposizioni impartite». Le due questioni affrontate per ultime non erano di poco conto: ché la prima sollecitava l’esigenza che Presidi e docenti chiarissero bene agli studenti di darsi da fare per non arrivare all’ultimo anno di studi con insufficienze sulle spalle, perché altrimenti non sarebbero stati ammessi agli esami (e qui molti “buoni” professori intesero la cosa come dovere di “sanatoria” da attuare fin dalla fine del primo quadrimestre della classe terminale, sempre allo scopo di non avere rogne), mentre la seconda fece sorridere Virginio - e ne ebbe ragione - più della prima. Infatti, per prepararsi adeguatamente alla gestione di un passaggio così importante per gli studenti come l’Esame di Stato, conclusivo della loro carriera nella scuola superiore, si assicurava che i professori avrebbero potuto contare su «conferenze di servizio e incontri, anche con la presenza degli Ispettori operanti sul territorio, al fine di approfondire i vari profili del nuovo esame e porre gli studenti in grado di affrontare le prove con sicurezza e serenità». E, ancora, cosa più bella di quella di prima, che era «stata costituita, presso il Dipartimento dell’Istruzione, una task-force di Ispettori in servizio presso il Ministero, con il compito di fornire alle scuole la più ampia informazione sulle novità dell’esame e di porre in essere, di concerto con gli Ispettori operanti nelle regioni, adeguate forme di assistenza e di intervento». Sarebbe stata «altresì cura dei succitati ispettori procedere alla verifica della più rigorosa osservanza, da parte degli istituti scolastici statali e paritari, delle norme e delle disposizioni impartite». Virginio aveva sempre avuto molte riserve sugli “altresì” di circolari e disposizioni di legge in materia scolastica, perché avevano sempre preceduto affermazioni poi mai trasformatesi in realtà. Si promettevano nientemeno che “conferenze di servizio” e anche (ma la congiunzione, già di per sé, gli sembrava inclinare più all’eventualità che alla fattualità) “incontri” tra professori, desiderosi di sapere di più sull’esame, e ispettori territoriali. Ispettori territoriali, che sarebbero anche stati supportati, in seguito, da quelli ministeriali, organizzati addirittura in task-force, come supporto alle scuole per informazioni, assistenze e interventi a esami in corso: e qui Virginio, non più credulo com’era da giovane, lui che non aveva ancora mai visto com’era fatto un Ispettore, territoriale o ministeriale che fosse, in tutta la sua carriera di insegnante, riuscì, però, ancora a stupirsi della pervicacia con cui, da anni ormai, le Autorità scolastiche si servivano di promesse al vento, come fanno i marinai che, si dice, abbiano una donna in ogni porto, alla quale raccontano balle colossali e giurano sperticatamente eterno amore, salvo dimenticarsene un minuto dopo essere saliti sulla nave che li porterà in un altro porto. Forse lui, il Ministro Fioroni, medico, e dunque alieno ai gorghi burocratici sui quali navigava a Viale Trastevere, considerava veritiera quella Circolare a sua firma del gennaio 2007: ma Virginio, che non era ministro, e non lo sarebbe mai stato, sapeva che, né cinque mesi dopo né mai, avrebbe visto, né a scuola né altrove, sagome di Ispettori territoriali, né, tanto meno, seriose task force di panciuti Ispettori del Ministero stesso sciamare dai portoni di quell’edificio e dirigere le loro truppe ausiliarie verso e fin dentro le scuole, per portarvi il conforto della loro assistenza e del loro intervento.

Figurarsi, poi, se poteva concepirsi, da parte di un uomo di scuola di senno, o davvero credersi la “promessa” che si sarebbero visti arrivare in un Istituto, durante gli esami, per venire a controllare di persona la «più rigorosa osservanza, da parte degli istituti scolastici statali e paritari, delle norme e delle disposizioni impartite»: questa era davvero la più grossa e, almeno per quel che ne seppe e vide Virginio, quell’anno come i successivi, restò solo, appunto, allo stadio di pura fandonia. Però, adesso, s’era davvero fatto tardi: così ripiegò coscienziosamente le fotocopie che s’era procurato a scuola, la mattina, di quell’ultima Circolare ministeriale e se ne andò a dormire, pensando che davvero, dall’indomani, aveva cose ben più importanti e reali da portare avanti.

XXVIII Finalmente, dopo altre elezioni politiche e altre trattative febbrili sull’assemblaggio di un nuovo governo, un altro ministro, anzi, Ministra, l’avvocato amministrativo Maria Stella Gelmini, si insediò nel Palazzo di Viale Trastevere a Roma, al Ministero dell’Istruzione. Ma, essendo il governo di questa Ministra di colore politico diverso dal precedente, tuttavia uguale a quello precedente al precedente, il Ministero cambiò di nuovo nome; o meglio, tornò ad essere inglobato nel MIUR, ovvero il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, con la buona ragione, peraltro, che si volle, giustamente, riportare in auge la legge n. 247/2007, rispettando la versione originaria della Riforma Bassanini sulla Pubblica Amministrazione: in Italia, come si sa e già s’è detto, nomina sunt consequentia rerum, «le parole son conseguenza dei fatti». Anche se, poi, non è detto che i fatti s’avverino o si voglia o si possa avverarli; e le parole, allora, rimangono lì, sospese per aria, inerti, come un palco allestito all’aperto e deserto per pioggia improvvisa. All’inizio della sua avventura questa giovane neoministra, poco più che trentacinquenne, si mostrò subito entusiasta, determinata e tenace, anche se molti, dopo essersi chiesti invano chi fosse, si domandavano anche chissà, e perché, qualcuno l’avesse acconciata a quel modo, da maestra e professoressa-tipo: capelli non troppo lunghi, spesso disposti a caschetto bruno, occhiali ad ampia e nera (a volte blu) montatura e, più spesso che sempre, tailleur d’ordinanza nelle pubbliche uscite, o camicine chiare per i mesi più caldi. Mancando, però, di fulgide tracce del suo pedigree culturale e politico, come potevano averlo, per dire, antichi suoi illustri predecessori alla carica, tipo De Sanctis o Croce, o anche altri, meno eminenti, venuti dopo, s’accinsero alla ricerca di qualcosa d’esse, in guisa di nasuti cani molecolari, laboriosi e minuziosi giornalisti; e gran spulciatori di innato talento. Ma, più scheletri in armadio e qualche pecca trovandosi, nel percorso di studi e in altri, che fulgori e grandezze pregresse, cominciò a malignarsi su di lei, la più giovane tra i Ministri d’Istruzione d’Italia: tra l’altro, non risultava fosse neanche mai stata dirigente d’azienda, come, almeno, l’ultima donna lì sopraelevata prima di lei, né si mostrò sempre capace, da par suo, in più d’un caso, benedetta ragazza!, di evitare gran ruzzoloni proprio inerenti al sapere e all’impiego migliore della lingua di Dante. Sicché, soprattutto da puntuti avversari, come ben si può comprendere, si ebbe da subito rinfacci e sberleffi, parecchi anche pregiudiziosi, come viatico al suo pur difficile compito. Arrivò, perverso, persino, un noto settimanale a dedicarle, insolente benché corazzata di dati, un’intera copertina, che, in sintesi, non le lodi, ma le magagne e gli inciampi della sua pur breve esistenza dichiarava a gran lettere, giungendo, come fosse lei una dei nostri scolari un po’ loffi, ad assegnarle, col titolo in maiuscolo, un non certo eccelso “Ministro sei meno meno” (ma chi avesse dimestichezza retorica poteva ben esercitarsi a scoprirvi un perfido gioco di parole, che calembour designano i dotti). Solo l’antipasto, nondimeno, era, quel titolo maligno, del crucifige offerto all’interno, in cui vita, morte e miracoli, come si dice, venivano spifferati agli ingordi lettori sulla nuova Ministra. Ma i “miracoli”, poi, della di lei biografia erano cosa ben poco soprannaturale, perché attribuiti senz’altro a un arrivismo condito di melensa acquiescenza ai potenti giusti e all’imbocco delle vie più adeguate allo scopo prefisso, senz’arte né parte possedendo, per giunta.

Arte e parte, tuttavia, compensate da virtù ‘naturali’ e dal dono di un sagace tempismo nell’arrivare, priva di merito, come, dati alla mano, si diceva, dove moltissimi mai neppure col più alto, di merito, sarebbero mai potuti approdare. Per farla breve, la si bollava di “mediocre” persona, e senza neppure la consolazione che quella mediocrità fosse aurea, almeno alla lontana, come quella antica d’Orazio, che, qui, stava, appunto, fuori di posto e di luogo, come i cavoli, famosi, a merenda. Sicché era già bell’e spianata la strada al mare montante delle proteste, che, come un enorme pentolone a pressione di ceci e fagioli, quasi messo sul fuoco all’unisono coi primi passi della sua riforma dalle elementari all’Università, anche da lei assicurata epocale, le bolliva sotto la sedia. […]

XXX E, in effetti, le novità, certo, le più, sgradite a diretti interessati e parti sociali, non si fecero attendere: lancia in resta con la legge Finanziaria 133 dell’agosto 2008, si partì subito col maestro unico, previsto fin dal 2009, per poi procedere col cinque in condotta, con l’anticipo dell’iscrizione alle elementari, con l’inglese potenziato alle medie, con l’introduzione dell’educazione alla cittadinanza, ma, soprattutto, con la scure dei tagli, per esempio già con l’accorpamento di 350 istituti, e poi, appunto, con una riduzione di 42.000 docenti. Le prime battaglie avvennero sul tempo pieno per i più piccolini: i comitati anti-Gelmini erano imbufaliti, ma lei mandò in giro per l’Italia, come messaggeri col ramoscello d’ulivo, due superesperti del Ministero a spiegare che tutto era cambiato, ma…, come il Gattopardo aveva insegnato una volta per tutte, che «nulla è innovato per quanto riguarda il tempo pieno. Restano pertanto confermati l’orario di 40 ore per classe comprensivo del tempo dedicato alla mensa e l’assegnazione di due docenti per classe». Fenomenale! Sembrava il gioco delle tre carte e che per l’utenza non cambiasse proprio nulla: dunque, non c’era motivo né di agitarsi né di preoccuparsi. Invece, molti comitati di genitori (tranne il Moige [Movimento italiano genitori], favorevole) non sembravano pensarla così, tant’è che minacciavano ricorsi al Tar, cui si aggiungevano mozioni e petizioni da varie parti d’Italia; e a dar man forte accorrevano anche i professori delle medie, pure loro impegnati a formar comitati antiministra. E i sindacati? Niente: chiedevano l’immediata immissione in ruolo di tutti i supplenti annuali, in numero di trentamila, senza indugi o paletti ulteriori. Ma quello che, in ogni caso, Virginio, al di là delle ragioni del solito italico strepitar di piazze, apprezzò di più furono le modifiche apportate ai criteri di valutazione nella scuola media, forse perché di più immediata conseguenza sulle superiori. Lì si tornava ai voti al posto dei giudizi e, a partire dall’edizione del 2010, per l’esame finale si applicava un criterio matematico, più severo e rigoroso, in modo da far capire anche ai tredicenni che i voti alti non possono essere regalati, ma bisogna meritarseli. Lui lo sapeva, appunto, fin da ragazzino, ma poi le cose erano cambiate e per almeno due decenni bocciare qualcuno alle medie era stato più difficile che guidare a occhi chiusi sull’autostrada a duecento all’ora senza andare a schiantarsi. A meno che qualche alunno non avesse deciso di ammazzare il professore in classe: ma, allora, in quel caso, dovevano pensarci i Carabinieri. Non certo la scuola, che, magari, avrebbe anche perdonato il poverino, chissà, omicida non per colpa sua, ma per le cattive compagnie, l’ambiente, i genitori assenti o separati, o l’improvvisa dipartita del gatto, cui era così tanto affezionato...: insomma, bisognava comprenderlo, se gli erano saltati i nervi. Magari, proprio quel giorno il professore, che a quel punto se l’era cercata, l’aveva provocato con la pretesa di interrogarlo in geografia. Del resto, che le cose, nella scuola media italiana, andassero in un certo modo era noto da tempo: una volta, a proposito, un’amica, che viveva in un sobborgo a sud di Roma, poco fuori la città, aveva raccontato a Virginio un aneddoto, forse per alcuni divertente, a clamorosa e paradossale conferma di quale ne fosse la considerazione, specialmente presso gli stessi ragazzi.

Un giorno, di primo pomeriggio, sentì, dalla cucina di casa dove si trovava, il richiamo di un ragazzino, da lei conosciuto e che sapeva frequentare la seconda media, verso la finestra di un compagno di classe, abitante nella palazzina di fronte alla sua. Un po’ incuriosita da quelle che sembravano grida, visto che il tono di voce era alto, si era affacciata alla finestra del soggiorno e aveva così capito che il ragazzino voleva invitare l’amico ad unirsi al gruppo, per andare a giocare al pallone in un prato vicino. Al rifiuto di lui, che, affacciatosi, gli aveva risposto di non poter andare perché impegnato a fare i compiti per l’indomani, il piccolo calciofilo, dotato peraltro di pronta e precoce saggezza, aveva replicato, sicuro e convinto: «’A stronzo! Che studi a ‘ffà? Tanto te promoveno lo stesso! Ma vaff...!», e se ne era tornato, scuotendo la testa e considerando ormai perduto l’alieno, verso gli altri compagni, tanto, come lui, più saggi di quello sciagurato, sciocco e pavido esecutore domiciliare di esercizi e conteggi. Era necessario, dunque, improrogabile, metter mano in qualche modo alla scuola secondaria di primo grado, o scuola media, prima o poi; dal ‘62, anno dell’ultima sua riforma, era, infatti, in caduta libera di credibilità ed affidabilità didattica ed educativa, travolta, com’era stata, da demagogia e pressapochismo travestiti di sociologici e populistici panni. Sicché, per chiarire un po’ meglio la faccenda della decisione di ritornare ai voti nella scuola media, lasciando alle ortiche i “giudizi”, decisione sulla quale, com’è ovvio, si scatenarono accanite dispute in ogni contrada d’Italia, i giornali andavano qua e là a intervistare esperti, che avevano, naturalmente, opinioni del tutto opposte, sì che non intervistarli per niente avrebbe senz’altro chiarito meglio le idee di tutti, oltretutto col grosso beneficio di favorire nella gente lo sviluppo di una capacità di giudizio personale, bene, oggigiorno, sempre più raro. Così, se la psicologa Parsi, famosa in televisione per i suoi capelli rosso vivo, ci teneva a dire: «Non amo i voti e la media matematica. La scuola deve educare al piacere del sapere, deve mettere in moto il bisogno di cultura, suscitare la curiosità per il processo stesso e non per il prodotto finale», il suo collega Fulvio Scaparro pensava l’esatto contrario, e cioè che «il giudizio generico lascia il tempo che trova; io sono favorevole al ritorno dei voti e di una maggiore severità nella valutazione, anche all’esame di terza media. La vera competizione è con se stessi: se sono arrivato al sei, non devo accontentarmi, devo puntare al sei e mezzo». Virginio, leggendo tante parole al vento e del tutto avulse dalla realtà, pensava, un po’ divertito, che, per esempio, la sig.ra Parsi sarebbe stata molto utile all’eroica, di fatto solitaria Preside della scuola media “Viviani” di Caivano, presso Napoli, di cui aveva sentito parlare in tv. Magari, aiutandola ad andare a prendere i ragazzini a casa per portarli a scuola, come faceva lei ogni mattina, dato che le loro assenze erano il triplo delle presenze e che i professori, quando ce li avevano in classe, se ne scappavano di lì appena potevano, perché era più facile, a loro dire, fare il domatore di tigri o di leoni o lavorare in carcere che cercare di fare scuola in quella bolgia disumana. Un benemerito insegnante di quell’istituto aveva ben sintetizzato la situazione, spiegando che quei ragazzi, a causa del degrado ambientale e familiare in cui vivevano, nemmeno lo facevano apposta a rifiutare ogni proposta educativa, perché loro «sono di un altro pianeta, non sono come noi. Il loro mondo è completamente diverso da quello che trovano, o meglio, dovrebbero in teoria trovare a scuola». Sì, perché, in realtà, diceva l’insegnante con la maggiore naturalezza del mondo, «io, tutt’al più, posso far lezione una ventina di minuti. Poi loro si stancano, si alzano e se ne vanno in giro per la scuola, oppure si mettono a giocare a carte, o entrano ed escono dalla classe. Insomma, non sono assolutamente scolarizzabili». Peggio, insomma, delle scimmie antropomorfe, con le quali, al limite, è possibile interagire e che accettano anche delle regole, seppure legate al meccanismo del riflesso condizionato. In quella scuola, forse, se non si lavora sul serio con l’ausilio di specialisti veri e non di parolai, è davvero difficile, continuava a riflettere Virginio, «educare al piacere del sapere» o «mettere in moto il bisogno di cultura, suscitare la curiosità per il processo stesso»: davvero, di fronte a certe

situazioni, le formule astratte e gli stereotipi rischiavano di essere tragicamente comici prima che offensivi . Poi, però, tutta l’attenzione di Virginio fu attirata dalle novità per la scuola media superiore, dato che quelle lo toccavano da vicino, e subito, vista l’immediata applicazione di alcune nuove norme. Una, per la verità, fu disinnescata sul nascere da quelli che lui definiva il partito dei buonisti d’Italia. Il fatto era questo: la Ministra, ormai vessillifera del ritorno alla meritocrazia, non contenta di avere già introdotto la norma per cui l’insufficienza in condotta, col cinque, avrebbe comportato la non ammissione all’esame di maturità, che da qualche anno, come si sa, si chiamava di Stato, aveva tentato di inserire pure quella della sufficienza obbligatoria in tutte le materie per gli oltre 400 mila ragazzi quell’anno, il 2009, candidati al diploma. Ma: “Non vale! Non vale!” le aveva gridato contro a denti di fuori una fiumana di gente. “Potevi dircelo prima, casomai. Ce lo dici adesso, ad anno scolastico quasi finito? Giammai!”. E così lei aveva dovuto fare marcia indietro e dire: «E va bene! Per quest’anno faremo ancora con la media: per essere ammessi all’esame basterà avere la “media” del 6, non 6 in tutte le materie. Cominceremo col 6 obbligatorio in tutte le materie dall’anno prossimo. Contenti?». Naturalmente, furono tutti contenti e placati, perché gli italiani son brava gente, ma non spiccano per altruismo. Come dire: per quest’anno va bene a me così. Domani è un altro giorno: ci penseranno quelli a cui toccherà domani. E così, Virginio, non perché fosse un sadico, ma perché era fissato con la faccenda del merito e di quella che lui definiva “la difesa degli studiosi e degli onesti”, ancora una volta non fu tra quelli che gradirono questa obbligata marcia indietro ministeriale, ma tra coloro che la subirono: eh, sì, perché, per esempio, un suo alunno, che allo scrutinio per l’ammissione agli esami lui presentò con un bel 4 in Latino e un 5 in Italiano, fu, con la “media” generale del 6, comunque ammesso a sostenere gli esami di maturità classica (che, naturalmente, conseguì nel luglio successivo, per di più con un punteggio finale complessivo di 70/100: cioè a dire, convertito in voto decimale, con un bel 7 pieno, alla faccia di altri studenti ben più latinisti e umanisti di lui. “È un esame oggettivo, questo? Ma mi faccia il piacere!”, se la rideva sarcastico guardandosi la mattina allo specchio, Virginio). E meno male che, se non altro, la Gelmini, per come la pensava lui, aveva confermato le norme di Fioroni sull’ammissione, che doveva essere decisa dai docenti: almeno non si tornava indietro su quel punto (né su quello della composizione metà e metà delle Commissioni!). Che, poi, sull’altro versante della retromarcia della Gelmini sul 6 in tutte le materie non s’aspettasse l’entusiasmo invece dimostrato, addirittura, dal presidente dell’Anp (l’Associazione nazionale dei dirigenti scolastici), questo dipendeva dalla visione troppo angusta di Virginio: certo, perché il Preside dei Presidi, che aveva un cervello a grandangolo rispetto a quello ben più chiuso di lui, sapeva benissimo che, avendo ben 300 mila studenti riportato in pagella, alla fine del primo trimestre o quadrimestre, almeno un’insufficienza, si rischiava a giugno una strage, dato che era statisticamente sicuro che un terzo di loro avrebbe mantenuto quell’insufficienza fino alla fine dell’anno. E allora, che facciamo? Non ammettiamo agli esami 100 mila studenti? Ma siamo matti? E poi, rifletteva il Presidente Rembado, buttandola sul pratico, parliamoci chiaro: «La regola del 5 in qualsiasi disciplina avrebbe costretto le scuole a colmare eventuali singole insufficienze con un 6 dato per voto di consiglio, una specie di sanatoria...Così, invece, c’è un recupero della nostra tradizione, con la valutazione complessiva di un andamento». Anzi, aveva concluso, quasi a voler suggerire lui la strada da percorrere alla forse troppo giovane e inesperta (o “non competente”) Ministra: «Credo che questa [cioè, il tornare indietro sul 6 necessario in ogni singola materia] sia un’autocorrezione significativa e possa diventare un punto di riferimento per il futuro. Per noi, almeno, sarebbe auspicabile che fosse così». Dunque: “bocciata” la Ministra pure dal capofila dei Presidi e nemmeno, decisamente, presa in considerazione l’idea di “bocciare”, invece, gli studenti, pur portatori di una sola insufficienza,

quale sarebbe stata, sarebbe “dovuta” essere, la conseguenza, per il Presidente dei Presidi d’Italia, dell'ostinazione, magari, di un singolo docente a presentare, anche con un tre o un quattro, un alunno in una materia allo scrutinio finale? Non quella di dare ragione, magari perché, sul piano etico, pedagogico e didattico, ce l’aveva, al professore che presentava un alunno con un’insufficienza allo scrutinio finale e che, in tal modo, chiedeva, tacitamente, anche il rispetto della sua professionalità docente e di inviare un messaggio educativo al ragazzo “non studioso”: no, certo che no! La conseguenza sarebbe dovuta essere e sarebbe stata che gli altri professori avrebbero pensato loro, avrebbero “dovuto” pensare loro, a sistemare la cosa, con una bella «valutazione complessiva di un andamento», regalando un immeritato 6 d’ufficio (per “voto di Consiglio”), a maggioranza, a quell’alunno, molto probabilmente - nonostante voti negativi conseguiti portati come “prove” - “inviso” o “perseguitato” dal docente: così, con una bella patente di piena sufficienza, avrebbe potuto, in tal modo, com’era “giusto”, essere ammesso all’esame di maturità, proprio come quei fessi dei suoi compagni che, invece, la sufficienza ce l’avevano di loro. “E poi ci si lamentava”, borbottava ormai solo fra sé Virginio, “se, dopo anni e anni di questo andazzo, in Europa e nel mondo non ci considerano affidabili e ci ridono dietro!”. Poteva benissimo, sicuramente, anche darsi il caso che, davvero, un docente s’intestardisse, per puntiglio o semplice incapacità valutativa, a penalizzare ingiustamente un alunno - e molte volte Virginio aveva visto verificarsi una situazione del genere -: ma, ecco, allora, in quelle particolari circostanze, intervenire il ruolo di mediazione del Consiglio tutto e del Preside, che, controllata la regolarità delle prove scritte e orali del ragazzo in quella materia, sul Registro del docente, e altre variabili, psicologiche o di situazioni speciali, avrebbero potuto, stavolta sì a ragion veduta, in caso di anomalie, procedere ad attribuire un voto diverso da quello proposto dall’insegnante. Procedura chiaramente prevista dalla legge. Invece, quasi sempre, per non dire sempre, se l’insufficienza era una sola, si attribuiva, comunque, il 6 d’ufficio e “pace e bene” a tutti: il messaggio negativo al ragazzo era bell’e inviato (ma Consiglio, Preside, a quanto pare Preside dei Presidi e, naturalmente, alunno e genitori, ciascuno aveva la sua fetta di contentezza: tranne il solito, incorreggibile Virginio). “Magnifico!”, pensava lui, infatti, convincendosi ancor meglio, di fronte a simili considerazioni, perché non sarebbe mai diventato Preside: dunque, “la nostra tradizione” è “la valutazione complessiva di un andamento”. Quindi, oggi come oggi, se uno studente decide, puta caso, di non studiare affatto una materia, anche importante, ma una e una sola, magari latino al classico o matematica allo scientifico, non importa: viene promosso o ammesso all’esame lo stesso. Tutt’al più si lascia a quel docente la “possibilità” teorica del voto negativo, per poi promuovere d’ufficio lo studente, che, più intelligente che colpevole, a quel punto, prende atto della situazione e decide quale materia può tranquillamente risparmiarsi di studiare. D’altra parte, il Prof. Rembado ci aveva tenuto anche a far conoscere la sua opinione sulla faccenda del 5 in condotta e così aveva parlato: «Quanto al “cinque” in condotta, che nel primo quadrimestre ha ‘colpito’ 34 mila studenti, dobbiamo dare per scontato che una larghissima maggioranza abbia corretto i propri comportamenti». Ma, ci si poteva chiedere: erano i comportamenti degli studenti ad essere cambiati davvero, o i professori a vedere diventati buoni in estate quelli che avevano giudicato pestiferi d’inverno, per evitarsi problemi e grattacapi? “Ecco”, si diceva Virginio, “le differenze tra me e il Presidente Rembado: quello che lui vede, o dice di vedere, bianco per me è nero e viceversa. Ma poi, con questa nostra cieca filosofia della massificazione verso il basso, non dobbiamo dare la colpa all’Ocse, se i nostri ragazzi finiscono sempre, più o meno, agli ultimi posti: e che non si tratti di pregiudizi verso di noi lo confermano i tanti giovani italiani di valore, che sono moltissimi, i quali se ne vanno all’estero a ricevere quei riconoscimenti di merito, che qui noi non diamo loro”.

Per di più, lo aveva molto colpito, di recente, il boicottaggio, da parte dei docenti, e degli alunni istigati dai docenti e dai Cobas, dei test di valutazione dell’Invalsi somministrati ai ragazzi del secondo anno delle superiori. Occorreva, urgentemente, invertire il trend negativo europeo sulle competenze degli studenti italiani, ben scarsi, per esempio, in matematica, italiano e scienze: e così l’Istituto nazionale di valutazione aveva preparato dei test oggettivi allo scopo di “costringere”, gradualmente, le scuole a preoccuparsi di far raggiungere ai propri alunni almeno competenze di base sui saperi essenziali, per stare alla pari con i loro compagni delle altre nazioni. Ma questa faccenda della “valutazione” poteva essere uno strumento indiretto di controllo superiore degli insegnanti stessi: e tutti ricordavano come il Ministro Berlinguer, su questa materia, fosse andato a rompersi, metaforicamente, le ossa. E anche stavolta, un sindacato autonomo della scuola, con la scusa che questi test erano solo «ignobili quiz» nozionistici, che tarpavano le ali alla vera cultura, di cui la scuola italiana è tuttora, a suo dire, fulgido esempio, aveva indotto alla “disobbedienza civile” almeno il 20% dei professori; mentre ancora più vasta era stata l’astensione dei ragazzi che, invitati dal comitato studentesco Senzatregua, avevano consegnato i moduli in bianco nella misura del 30%. Una lettura benevola dell’iniziativa poteva essere quella che insegnanti e alunni ritenessero i quesiti non sempre chiari, né sempre esenti da qualche ambiguità interpretativa, per cui le risposte giuste, in qualche caso, potevano essere più d’una e non solo una, come in un test a scelta multipla doveva essere; ma un “antico” docente come Virginio, e non per pregiudizio ma per esperienza, pensava, invece, che quel rifiuto fosse la solita chiusura corporativa di chi, nel mondo della scuola, non sopportava alcun tipo di controllo sul rendimento degli studenti, in quanto vissuto come controllo del proprio insegnamento e presunta insidia alla propria autonomia didattica. Quanto agli studenti, poi, sempre ben contenti, com’è ovvio, di evitare una prova di verifica in più: specie se a dirtelo è il tuo stesso professore. E così, ancora una volta, si rammaricava Virginio (sia in classe sia coi colleghi), chi aveva il dovere di insegnare la disciplina e il rispetto delle gerarchie (in quel caso il Ministero che, tramite l’Invalsi, proponeva i test), salvo poi poter contestare le forma e i contenuti degli accertamenti, ma solo dopo averli comunque eseguiti, induceva i ragazzi al disprezzo e alla messa in discussione dell’autorità: un male endemico degli italiani, che, a causa di una democrazia fraintesa e di una scuola “cattiva maestra”, di solito prima protestavano e poi pensavano (ma, quasi sempre, la sequenza si limitava solo al primo elemento).

XXXI Anche quell’estate, però, placate e risolte le dispute sul voto d’ammissione, ci si dovette accingere a preparare l’Esame di Stato per i ragazzi dell’ultimo anno della secondaria superiore. Si trattò, ancora una volta, di riempir le molte carte, che avrebbero accompagnato gli studenti davanti alle quattro ‘asticelle’ da superare, di lì a pochi altri giorni, e cioè le tre prove scritte e il colloquio finale. Da tempo, ormai, il Ministero aveva comunicato quali “materie” e relativi insegnanti sarebbero stati “interni” nella Commissione d’esame e quali, invece, le materie esterne, per le quali, cioè, gli studenti sarebbero stati esaminati da insegnanti diversi dai loro e provenienti da altre scuole. Certo, non era più come per il passato, poco più di una decina d’anni prima, quando la Commissione era costituita da tutto personale esterno, proveniente anche da fuori Regione, così come il Presidente, più un solo insegnante della scuola; tanto che costui, detto “membro interno”, era l’unico componente della Commissione conosciuto dai ragazzi e assurgeva, spesso, al ruolo di loro “difensore civico” di fronte alla “muta selvaggia”, assetata di sangue studentesco, dei colleghi “esterni”. Allora lì si trattava, da parte del Consiglio di classe dei docenti, ricordava Virginio con un pizzico di divertita nostalgia, di scegliere l’insegnante più “diplomatico”, quello più capace, cioè, di

collaborare serenamente coi colleghi esterni, ma anche di entrare il più possibile in empatia con loro, per strappare alla Commissione i punteggi finali più favorevoli agli studenti. Così capitava, per certi paradossi della scuola italiana, che Virginio fosse più gradito, pur esigente e lineare com’era, agli studenti come “membro interno” che non ai suoi colleghi di classe. Perché la maggioranza dei primi, comunque, sapeva di poter contare sulla correttezza assoluta, che, di sicuro, lui avrebbe favorito e preteso da tutta la Commissione, su cui, non conoscendola, i ragazzi più accorti non si sentivano di mettere la mano sul fuoco, ma di fronte alla quale sapevano di essere tutelati dal loro professore, che dava loro, in ogni caso, sicurezza. Mentre i secondi, i colleghi di Virginio, invece, guardavano più alla “globalità” degli interessi, secondo loro, della classe, per la quale preferivano, anche come giudizio positivo di merito su se stessi, un “membro interno”, che tendesse, alla fine, a “strappare”, comunque, i punteggi finali più alti “per tutti”. Sicché, nelle classi di Virginio, vigeva il criterio della rotazione, di anno in anno, su chi dovesse svolgere il ruolo di “membro interno”, dato che questo incarico il Consiglio di classe dei docenti avrebbe sempre voluto affidarlo a qualcun altro, ritenendolo più adatto alla mediazione rispetto a lui; così lo affidava a Virginio proprio perché non si poteva sempre negarglielo e solo quando gli toccava, effettivamente, “di giro”, al di là di ciò che gli stessi alunni, qualche anno in particolare, avrebbero desiderato. Poi, però, magari succedeva che Virginio come “membro interno” riuscisse meglio di altri, non tanto perché, allo scrutinio finale, si mettesse a pietire qualche punticino in più per un determinato suo studente, ché non c’era proprio tagliato, ma per il semplice fatto che i colleghi e il Presidente di Commissione, constatata la sua integrità e il suo senso di giustizia, capivano di potersi fidare totalmente di lui, in quanto del tutto incapace di sostenere un alunno, pur seguito da lui tre anni di fila, se non se lo fosse meritato. Gli piaceva dire, infatti, alla Commissione: - Dovete state tranquilli, ché io non concepisco la funzione del ‘membro interno’ come se fosse un avvocato d’ufficio dei suoi studenti, ma come un ‘membro’ della Commissione d’Esame pari gli altri a tutti gli effetti, e, dunque, come gli altri tenuto, dalla sua deontologia professionale, ad essere corretto, e rispettoso, di conseguenza, del lavoro di voi esterni: certo, io tifo per i miei studenti, sperando che facciano bene. Ma se non fanno bene, io lo devo riconoscere, né più né meno di come siete tenuti a fare voi -. Dopo queste filippiche, andava spesso a finire che fossero i suoi colleghi esterni a chiedergli, in qualche caso, di essere più indulgente verso i suoi ragazzi, che, però, grazie al loro innato senso di onestà e alla coscienza dei propri mezzi, lo amavano, alla fine, molto più di altri loro insegnanti: questo lo percepivano benissimo quei docenti venuti da fuori, quando, per esempio, in sede di colloquio, gli studenti, rispondendo a una domanda di letteratura, che Virginio lasciava sempre formulare al collega “esterno”, cercavano più, cogli occhi, l’approvazione di lui che non quella del docente che l’aveva posta. Ed erano davvero soddisfatti, si vedeva, e diventavano più sicuri, nel proseguire l’esame, quando lui annuiva e li incoraggiava ad andare avanti su quella strada, nel discorso. Il massimo fu un anno, quando, di fronte ad un colloquio veramente brillante di una ragazza, alla fine, Virginio, dopo averle fatto i complimenti, di fronte al pubblico degli studenti che assistevano e alla Commissione tutta, riconobbe onestamente, un poco sorridendo, che i suoi colleghi, pur non conoscendola, erano riusciti a tirar fuori da lei le indubbie capacità che aveva saputo in quel momento dimostrare, mentre lui, in tre anni, non era stato in grado di fare altrettanto. La studentessa, allora, si lasciò andare a un sommesso pianterello, non si capì se per la tensione dell’esame ormai concluso che si scioglieva o per l’elogio ricevuto, finalmente, e davanti a tutti, da parte di Virginio, che non aveva problemi, d’altronde, a riconoscere di non essere infallibile. E quando, un paio di giorni dopo, una collega, in una pausa dei lavori della Commissione, gli aveva detto di essere molto ammirata della “simbiosi” - proprio così l’aveva definita - che lei avvertiva tra lui e i suoi studenti, Virginio, senza scomporsi più di tanto, le aveva semplicemente risposto: - Non c’è nessuna simbiosi, ci mancherebbe altro. Il fatto è che io sono stato il loro insegnante per tre anni

e loro i miei studenti per tre anni -. E se n’era andato a prendere un caffè, giù, al pianoterra, alla macchinetta distributrice. Comunque, rispetto all’attuale formula dell’Esame di Stato, quella di prima era completamente diversa e a Virginio non piaceva per niente: intanto, l’ammissione all’Esame di maturità, come si chiamava, avveniva per mezzo di giudizi analitici, spesso anche molto fantasiosi, dei singoli insegnanti sul singolo allievo. Tipo: per un giudizio non sufficiente, Impegno di studio spesso non all’altezza delle necessità; il ragazzo ha mostrato, altresì, difficoltà nella rielaborazione personale dei contenuti; labile la sua partecipazione al dialogo scolastico. Preparazione lacunosa, profitto quasi mediocre. Oppure, per un giudizio di buon livello: Poche le pause nell’impegno di studio, nel corso del triennio, da parte del ragazzo, che ha sempre mostrato vivacità di interessi, discrete capacità sintetiche e sufficiente partecipazione al dialogo scolastico, fornendo apprezzabili spunti di riflessione e di approfondimento. La preparazione e il profitto sono più che discreti. Rimaneva, però, competenza del Consiglio di classe giudicare, su parametri legati al profitto, soprattutto, ma anche ad altre variabili, come il comportamento o le “possibilità effettive” di far bene, se uno studente potesse essere ammesso o meno a sostenere l’esame finale (anche se la non ammissione era molto infrequente). Dopo questa operazione, e dopo aver proceduto all’ammissione degli studenti, si riassumevano, ad opera di uno o più volenterosi professori, i singoli giudizi analitici sui singoli ragazzi in ‘giudizi sintetici’, che andavano, poi, trascritti, a mano, sul Registro generale e sulle singole schede dei candidati alla maturità. Allora, a partire dal 1970, si esaminavano gli studenti solo attraverso due prove scritte (la seconda diversa per tipo di istituto), seguite da un colloquio su due sole materie, mentre le altre erano date per superate soltanto col voto e il giudizio dei professori di classe, con tutte le distorsioni e gli “abbuoni”, che se ne possono facilmente immaginare. Di queste due materie orali, su un ventaglio di quattro materie proposte per tempo dal Ministero, la prima era scelta dal candidato, la seconda, ufficialmente, dalla Commissione il giorno precedente a quello fissato per il colloquio stesso di quel determinato candidato. Ufficialmente, però: perché, poi, con l’atavica, o acquisita, italica propensione all’inganno e all’aggiramento delle regole, il professore designato come membro interno, a tempo debito, si informava dai ragazzi su quale seconda materia “preferissero” essere esaminati e si prendeva l’impegno di tentare di convincere la Commissione a seguire tale indicazione; sicché, alla fine, non solo il colloquio finale verteva su due sole materie, ma gli studenti, nel novanta per cento dei casi, finivano per sceglierle loro tutt’e due, benché la legge affidasse alla Commissione il dovere di scegliere almeno la seconda (ma era una legge che si invitava da sola ad essere violata, tanto era bucherellata come un colabrodo e ammiccante come una prostituta di notte lungo una consolare). D’altra parte, la cosa più divertente, se non fosse stata tragica, come la considerava Virginio, era che le norme allora in vigore prescrivevano alla Commissione di lasciarsi anche guidare dai “giudizi” espressi sul profitto degli studenti dagli insegnanti, e soprattutto dal giudizio sintetico, in modo che l’assegnazione della seconda materia orale “non fosse punitiva” per il candidato: roba da tenersi la pancia dal ridere! Ecco che, allora, i professori della scuola si impegnavano in complesse operazioni di ingegneria lessical-gesuitica, per poter suggerire alla Commissione, tra le righe, la seconda materia più “favorevole” agli studenti (ché di tale tenore era, appunto, da parte del Ministero, la formulazione dei criteri, cui la Commissione dovesse attenersi; sicché molti “membri interni”, spudoratamente, si preparavano un foglietto che elencava le “seconde materie” desiderate dagli studenti e, verificata, nel caso, la buonista accondiscendenza di tutta la Commissione, a questa suggerivano apertamente la seconda materia del colloquio di ogni candidato, seppure con ipocrita nonchalance. Così, in Italia, a questo mercimonio etico e culturale, tolto di mezzo un esame di maturità “classista” e sostituitolo con uno da sconti di fine stagione, fu subito ridotta e rifatta col trucco l’ondata rivoluzionaria del ’68: era l’inizio della fine).

A tutto questo si aggiunga che il punteggio finale si esprimeva in sessantesimi, ma che su di esso si poteva discutere, perché non scaturiva dalla semplice somma matematica delle prove d’esame, come per la nuova formula d’esame d’inizio XXI secolo, bensì anche da altri fattori (la carriera scolastica del ragazzo, i comportamenti, il rapporto con i punteggi degli altri studenti, con cui si cercava di mantenere un equilibrio), sicché era importante la decisiva collaborazione, la capacità di “mediazione politica” del “membro interno”, salvo che nei rari casi, in cui la Commissione esterna, non fidandosene troppo, tendesse a privilegiare di più le proprie impressioni e più gli specifici esiti delle prove d’esame che non elementi ad esse estranei. Ma, allora, quella Commissione, che era forse più di altre giusta e corretta, era invece considerata come composta da feroci aguzzini. D’altra parte, Virginio era sempre più andato convincendosi che in Italia si ha fiducia e ci si affida alla legge, di preferenza quando si tratta di far filare diritti gli altri e non se stessi, verso cui si è molto indulgenti; altrimenti, alla legge ci si ribella e si dice che è oppressiva e iniqua (del resto, se gli Italiani non avessero qualche difettuccio, sarebbero perfetti…). A Virginio, però, che non si preparava, naturalmente, alcun “elenco di favoritismi” - come chiamava i “desiderata” per le seconde materie del colloquio -, quando toccava essere “membro interno”, i colleghi di classe tessevano ancora più accorti “giudizi sintetici”, che erano veri e propri fili d’Arianna, per far sì che la Commissione arrivasse da sé all’assegnazione “giusta” della seconda materia. Di fronte a tutti i limiti di quell’esame di maturità, Virginio non vedeva davvero l’ora che tutte le operazioni d’esame si concludessero, sì da poter poi, una volta andati via tutti i membri della Commissione, affiggere la scuola i quadri con i punteggi finali: così, solo alla ripresa dell’anno scolastico successivo, sarebbe venuto a sapere delle lamentazioni, più o meno sussurrate, degli studenti circa il voto che avevano conseguito, perché uno degli sport preferiti, sia dai ragazzi sia, soprattutto, dai genitori, era quello di confrontare i punteggi l’uno con l’altro, per poter dire che quello del compagno era ingiustamente più alto. Ma Virginio aveva ormai fatto il callo, anche a questo e, convinto come s’era, che i migliori genitori sono quelli che non hanno figli, ma che, per la natura stessa del suo lavoro, non avrebbe mai potuto incontrarli, faceva di necessità virtù e cercava di far finta di nulla, con la coscienza di chi aveva sempre fatto il proprio dovere. Certo, non poteva nascondere a se stesso l’insoddisfazione, a volte anche acuta, per qualche scelta, che, forse, avesse potuto ripensarla, avrebbe condotto diversamente: ma questo considerava fosse inevitabile e che succedeva di continuo un po’ a tutti. Questa formula d’esame, che definire stramba era dir poco, durò fino al 1999, perché nel 2000 fu cambiata: la nuova tipologia dell’Esame, che si chiamò “di Stato” e non più “di maturità”, però, per prima cosa, abolì - con una buona dose di demagogia, secondo Virginio - l’ammissione o la non ammissione degli studenti stabilita dal Consiglio di classe dei docenti, ammettendo d’ufficio tutti gli alunni, sia i bravi sia i somari. Perché, infatti, escludere a priori che anche un asino potesse diplomarsi? Facciamo come il buono e saggio Ponzio Pilato e lasciamo che se la sbrighi la Commissione di turno: e si sa che le vie delle Commissioni potevano davvero essere, a quel punto, infinite,… ”E così, il peggio non è mai morto!” fu, lì per lì, il commento di Virginio; che ora, però, passata tanta acqua sotto i ponti, dopo circa dieci anni dall’esordio di quella nuova formula d’esame, poteva ben dire fosse ormai entrata a regime. Tant’è che, bene o male, lui e i suoi colleghi avevano dovuto da un pezzo digerirla. Così, quel pomeriggio, cacciati dal cervello i ricordi legati al vecchio modello dell’esame di maturità, si trovava lì di nuovo, in un’aula del suo Istituto adibita a sala riunione, per l’ennesimo scrutinio d’ammissione agli esami, cui partecipava nella sua vita: se non altro, anche se non mancavano ombre neppure nel nuovo tipo d’esame, almeno lui e i suoi colleghi si riunivano, per discutere quello che, dopo la riforma Fioroni, non era più scontato, anche se altamente probabile.

E cioè che tutti gli alunni fossero ammessi all’esame di Stato: beninteso, anche lui se lo augurava, ma, perlomeno, non era, e non doveva essere, del tutto acquisito. E questo, soprattutto nell’interesse degli studenti e del loro diritto ad essere equamente ed oggettivamente valutati: naturalmente, da loro insegnanti all’altezza professionale del proprio compito. Ma, come tutti gli altri scrutini della sua vita, anche questo vide prevalere, in più d’un caso, il “buonsenso”, proprio così lo definì il Preside: infatti, grazie ad alcune psicosociologiche discussioni fra docenti, ma, soprattutto, grazie al tempestivo provvedimento che consentiva di ammettere agli esami, con la ‘media’ del 6, anche quei pochi studenti che tutte sufficienze, in cinque anni, non avevano mai inanellate, il Consiglio di classe dei professori della terza di quell’anno varò un bel quadro pieno di sole, beneauguranti “ammissioni”. E, di lì a qualche giorno, gli esami cominciarono: Virginio era, nella Commissione, fra i commissari (o membri) interni. Aveva, due giorni prima, insieme ad altri due colleghi, interni anche loro, di Arte e di Scienze, accolto con molta cordiale ospitalità gli “esterni” destinati alla sua scuola, insieme al Presidente, una Preside di un Istituto tecnico della periferia sud della città, che si erano, per fortuna, regolarmente presentati. Tanto che i ragazzi, sia quelli di Virginio sia quelli dell’altra classe con cui la sua era abbinata, entrati emozionati il giorno della prima prova scritta, quella di Italiano, nel vasto salone dell’Aula Magna, e sedutisi nei banchi allineati uno dietro l’altro, avevano trovato, com’è giusto e sempre auspicabile, la Commissione molto distesa e subito affiatata al proprio interno. Durante tuta quella prima giornata Virginio rimase in assistenza per tutte e sei le ore di durata della prova: le tracce proposte dal Ministero erano abbastanza varie e consentirono un po’ a tutti di metter su dei lavori dignitosi con sufficiente tranquillità. L’indomani, invece, per la seconda prova scritta, quell’anno una traduzione dal greco, Virginio fu di assistenza solo nella prima parte della mattinata, insieme ad una collega dell’altra classe abbinata alla sua, a due dei colleghi esterni e alla Presidente. Fu molto attento, nei limiti delle sue possibilità, a che i ragazzi non cedessero alla tentazione di copiare e di scambiarsi eventuali suggerimenti. Poi, tra le 11,30 e le 12, ebbe il cambio dai colleghi convocati dalla Presidente come assistenti fino al termine della prova. Per la verità, vedeva il nervosismo di molti ragazzi di fronte alle difficoltà del brano, che erano impegnati a tradurre, e già aveva richiamato un paio di loro, cercando di dissuaderli, con gentilezza, però, dai tentativi di consultarsi. Prima di quella seduta di esami Virginio aveva parlato ai suoi ragazzi dell’argomento e di come il copiare fosse un marchio negativo per l’Italia, ma molti di loro, lo aveva notato di sottecchi, si scambiavano sguardi, che significavano quasi totale incomprensione per il valore etico di quel discorso, sicuramente considerato una barbosa, inutile predica. È, d’altro canto, talmente connaturato negli italiani, purtroppo già anche nei più giovani, il sotterfugio, che, al contrario, di esso ci si fa un vanto: ricordava, al proposito, le interviste di un tg del giorno prima, in cui alcuni ragazzi interpellati davanti all’ingresso della propria scuola dichiaravano apertamente, con furbastri ammiccamenti, di sperare, per il giorno della seconda prova, quella, evidentemente, ritenuta più ostica, nella riuscita del loro sicuro tentativo di copiare, di scambiarsi soluzioni o di far copiare i compagni. Neanche concepibile, nelle loro menti, che quello fosse un comportamento amorale: figurarsi, tornava a pensare Virginio, quale doveva essere stata, anche, l’accoglienza interiore delle sue parole da parte degli studenti, coi quali, del resto, aveva pur condiviso tre anni, impegnandosi molto a dar loro insegnamenti etici, sostenuti da esempi quotidiani. Su quel punto, sicuramente, gli influssi negativi dell’ambiente esterno erano formidabili rispetto alla sua debole voce e ai suoi velleitari esempi: eppure, sentiva di non dover demordere, fosse stato anche solo uno dei suoi studenti ad accogliere il suo messaggio per l’onestà e la correttezza, che

sono beni inestimabili, diceva, di fronte ai quali accampare come pretesto, per eluderli, la corruzione generale è un misero alibi. Patetico, certo, poteva esser sembrato ai ragazzi l’aver fatto proprio, da parte sua, l’appello, diffuso pochi giorni prima degli esami, da un gruppo di insegnanti e presidi (cui avevano aderito la Uil Scuola e l’Associazione nazionale presidi), a non «chiudere un occhio», se qualcuno copia e, soprattutto, a non «fornire ai propri allievi traduzioni o soluzioni» durante le prove d’esame. Qui, sì, una grossa fetta di responsabilità di questa vergogna ricadeva sugli insegnanti stessi, molti dei quali, per un malinteso senso di buonismo e indulgenza, figlie di una pedagogia fondata solo su comprensione e dialogo, disgiunte, però, sempre dalla sanzione quando necessaria, non solo non puniscono di norma chi copia, ma essi stessi, a volte, “suggeriscono”. Uno di questi “buonisti”, insegnante, evidentemente, incapace, secondo Virginio, confessa, in un libro scritto da un sociologo, Ragazzi, si copia, la propria condotta di fronte a un alunno che aveva sorpreso a copiare: «Il mio atteggiamento è di confronto. Voglio capire perché lo sta facendo, voglio discutere con lui, capirne le ragioni, e poi prendere delle decisioni, anche lasciarlo copiare o smettere di copiare. Ecco, dipende dalla discussione che ne nasce». E così, mentre lui discute col suo alunno, aveva commentato Virginio con la classe, questi, dentro di sé, forse lo deride, e viene privato di un insegnamento morale: copiare non è lecito, e nemmeno è un atto di altruismo, come molti pensano, perché il copiare penalizza l’equità e il merito, in quanto distorce le regole necessarie per la corretta valutazione delle capacità di uno studente. Il quale, lui, proprio lui, ha bisogno di sapere quanto davvero valga, non valga e quanto abbia appreso o non abbia appreso nel suo percorso di studi: copiare vanifica il fatto stesso di andare a scuola. E che figura, che pubblica ignominia gli insegnanti che, l’anno prima, durante i test di italiano e matematica per la terza media, erano stati invitati dall’Invalsi a rimanere fuori dalle aule, per evitare che essi stessi suggerissero agli studenti le soluzioni, come era avvenuto l’anno precedente! E magari simili insegnanti sono gli stessi che, durante l’anno, organizzano, con soldi pubblici, incontri a scuola di “educazione alla legalità” per i propri ragazzi. […………………………] Invece, come seppe il giorno successivo alla seconda prova scritta da un genitore che era venuto a lamentarsene a scuola e che lui aveva casualmente incontrato mentre usciva, appena era avvenuto il cambio di assistenza dei professori, chi in quel compito di vigilanza aveva sostituito Virginio non era stato poi tanto vigile: molti ragazzi avevano così profittato di un certo, voluto, allentamento nel controllo e si erano abbondantemente consultati, affidandosi ai tre o quattro studenti che meglio riuscivano a tradurre e che erano, notoriamente, i più bravi. Anzi, sosteneva quel genitore, padre dell’unica alunna, che, a suo dire, insieme ad un altro compagno, non aveva copiato e che aveva preferito consegnare quasi in bianco, pure i commissari esterni s’erano mostrati particolarmente disponibili agli scambi di ‘aiutini’ fra i ragazzi, considerando che il brano proposto da tradurre era, perbacco!, riconoscevano, non certo facile. Prove, però, di irregolarità non c’erano: c’era la parola della ragazza contro quella di altri, cercò di stemperare Virginio l’indignazione di quel genitore. Giusta indignazione, certamente, se quello che diceva fosse corrisposto al vero. In ogni caso promise che, all’atto della correzione delle prove, sarebbe stato molto vigile e che avrebbe molto attentamente controllato se i compiti dei ragazzi fossero risultati troppo simili: occorreva, però, avere fiducia nella Commissione, che era un’équipe di persone qualificate, e nella deontologia professionale dei suoi componenti. Almeno, questo disse Virginio al genitore, ben già sapendo, però, in cuor suo, che, con molta probabilità, per non dire certezza, quello che gli aveva raccontato era vero; se non altro, non si sarebbe stupito che lo fosse, vista la sua lunga esperienza precedente. Perché lui sapeva che tutto si poteva dire della ragazza, peraltro persona di grande intelligenza e perspicacia, e cioè che fosse meno studiosa del dovuto, a volte anche spigolosa e aspramente polemica con gli insegnanti, spesso incline ad assenze strategiche e un po’ opportunista, cosa per

cui Virginio l’aveva sempre redarguita, ma mai nessuno avrebbe potuto sostenere che non fosse coerente con se stessa o che fosse un’ipocrita o una mentitrice. E lui, che aveva sempre più ammirato, in genere, la vivacità intellettuale e lo studio anche selettivo e non sistematico ma intuitivamente personale che non l’acquiescenza di molti a una ripetitività libresca e annoiata di formule e nozioni, era convinto che le cose erano andate proprio così, come lei, forse neanche spontaneamente, conoscendola, ma dietro pressanti richieste del padre, aveva finito per rivelare (e certo, ci avrebbe scommesso, quel genitore era venuto a scuola di sua iniziativa e anche senza che lei lo sapesse, ché non era tipo, quella sua alunna, da lamentarsi o da cercare appoggi, per carattere, orgoglio e caparbietà). Sicché, anche per la terza prova scritta, quella che si sostiene a due giorni di distanza dalla seconda e che, secondo Virginio, proprio perché predisposta dalle singole Commissioni, è la meno oggettiva di tutto l’esame, sebbene, forse, la più temuta dagli studenti, lui volle essere presente e fare assistenza dal primo all’ultimo minuto: del resto il tempo concesso ai ragazzi per lo svolgimento era di due ore e trenta. Il giorno dopo iniziarono le correzioni delle prove scritte: l’esito della prima e della terza prova, tutto sommato, corrispondeva abbastanza ai giudizi con cui la scuola aveva presentato i ragazzi agli esami, mentre la maggior parte delle seconde prove, effettivamente, mostrava un risultato complessivo ben al di sopra di quanto i commissari interni, che ben conoscevano la classe, potessero aspettarsi. E questa fu, per Virginio, la conferma di quanto temeva: e cioè che le voci di generale copiatura corrispondevano al vero. Così, non appena verificava, insieme ai colleghi, che a quel punto dovevano stare al gioco, la presenza di frasi od espressioni addirittura identiche fra un compito e l’altro, insisteva e otteneva che il punteggio non potesse essere il massimo: almeno questo, visto che non era pensabile annullare i lavori, la cui esecuzione non era stata contestata a tempo debito. In questo, per la verità, aveva tutto l’appoggio del suo collega di Scienze, che, peraltro, quell’anno aveva solo un incarico annuale, di supplente, nella scuola di Virginio: collega cui, però, lui riconosceva una grande serietà professionale, a differenza di altri, non altrettanto irreprensibili in quella tornata di esami. E così, andò a finire com’era prevedibile: tutti i candidati ebbero un punteggio almeno sufficiente, tranne i due ragazzi, che s’erano rifiutati di copiare o consultarsi tra loro, come, invece, avevano fatto tutti gli altri. Un altro motivo per far dire a Virginio, esaurite le correzioni delle prove scritte, che l’esame di Stato sarebbe stato credibile anche in Italia solo quando fossero state introdotte “tutte” prove oggettive, uguali per l’intero territorio nazionale e svolte dai ragazzi con l’esclusiva assistenza di professori esterni o, meglio, di personale ispettivo, burocratico o amministrativo. Anzi, aveva concluso un po’ provocatoriamente, ma fino a un certo punto, solo con l’ausilio di video-sorveglianza esterna per la regolarità delle prove, dato che molti docenti italiani sono afflitti dal morbo del “buon samaritano” e da quello del “sanbernardo” da soccorso d’alta montagna. Nonostante queste più o meno sottili venature polemiche, anche il colloquio si svolse in un clima di generale, fattiva collaborazione: certo, e questo non poteva addebitarsi ai docenti, l’impianto stesso dell’esame orale, che prevedeva la verifica in tutte le materie, ma riducendo il loro singolo spazio a pochissimi minuti, nell’ottica, molto velleitaria, di un colloquio per temi con agganci culturali spontanei e nati lì per lì ai diversi ambiti disciplinari, risultava tutto sommato debole. Molto spazio alcune Commissioni davano alla tesina o esposizione dell’argomento a piacere con cui il colloquio si avviava, mentre minore e più “veloce” era quello riservato ai temi proposti dai docenti esaminatori ai candidati: e anche qui, molti commissari interni, disonesti verso se stessi e verso i loro doveri etici e professionali, ponevano domande non precedentemente note ai ragazzi solo “ufficialmente” e ‘per finta’; ma spesso, in realtà, già programmate con loro prima dell’inizio del colloquio stesso, anzi nei giorni antecedenti.

E questo era un altro colpo, difficile negarlo, sosteneva convinto Virginio, alla presunta maggiore oggettività di questa formula d’esame rispetto alla precedente: oltretutto, era grave il messaggio di “corruzione” della prova, che, colpevolmente, molti insegnanti, ancora una volta solo in nome di un deleterio atteggiamento protettivo, inviavano ai ragazzi. E poi, si infervorava puntualmente Virginio ogni anno dopo la conclusione di ogni seduta d’esame, ci si stupisce se la corruzione generale in Italia è più estesa che altrove? È la scuola che deve educare, formare all’etica: è questo il suo compito, importante quanto, se non più, di quello della pura e semplice trasmissione dei saperi. Comunque, quell’anno, le cose andarono come dovevano andare ed erano andate altre volte: due studenti, che meritavano di non superare l’esame, ebbero il punteggio minimo, e, dunque, il diploma, grazie a una valutazione eccessivamente benevola del colloquio finale (a maggioranza, e con l’opposizione proprio di due loro professori interni, Virginio e il professore di Scienze), mentre i due studenti che si erano rifiutati di copiare la seconda prova ebbero sì il diploma, ma con un punteggio di almeno cinque punti inferiore a quello di alcuni altri che mai, durante i tre anni finali del liceo, avevano ottenuto più di loro. Dunque, nel caso particolare, i due studenti, contro la cui promozione Virginio e il collega di Scienze avevano votato nello scrutinio finale, risultarono aiutati addirittura due volte, alla faccia di chi s’era comportato più onestamente di loro: col colloquio giudicato sufficiente, quando non lo era, e col voto della seconda prova scritta, sufficiente solo perché ottenuto copiando. D’altronde, nella seduta finale di scrutinio dell’esame, Virginio non aveva avuto sostegno da parte della Presidente, che non voleva seccature, nell’assegnare almeno il punteggio minimo a tutti quei compiti che si fossero rivelati sospettosamente, per non dire sicuramente, “uguali”. Tanto che una collega, membro esterno, votata alla missione del “tutti diplomati”, come tanti altri docenti d’Italia, un po’ esasperata da quello che riteneva l’incomprensibile ostruzionismo di Virginio, aveva finito per dirgli: «Ma è incredibile! Vuoi che bocciamo per forza dei tuoi alunni! Ragioni come se tu fossi un commissario esterno!». Al che Virginio, più sconfortato che sorpreso, neanche replicò, né le rivolse lo sguardo. Ad ogni modo, le operazioni d’esame, anche quell’anno, finalmente per tutti, si conclusero, e i quadri con i risultati, come per prassi, con tanto di timbri e firme ufficiali di ciascun commissario, furono affissi nell’atrio della scuola il tardo pomeriggio del giorno di chiusura dei lavori della Commissione. E salutati, infine, con burocratica educazione, i colleghi, che non ringraziò più di tanto per la loro collaborazione, Virginio, due settimane dopo la conclusione degli esami, iniziò il suo periodo di ferie e partì per il mare, presso la famiglia di una sua amica, che da tanto tempo insisteva perché andasse a passare qualche giorno da loro. ………………………………………………………………………………………… L’opera completa, di cui lo stralcio qui presentato costituisce un breve saggio, è reperibile sia in libreria in formato cartaceo, sia on-line in formato e-book, entrambi editi dalla Società editrice Dante Alighieri. (www.societaeditricedantealighieri.it)