Comitato Collaborazione Medica - Newsletter 7/2009

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Comitato Collaborazione Medica [note a margine di interventi socio-sanitari] voci dal sud sudan N yadouth è una bella ragazza di 25 anni. Sul suo viso sono ben visibili tanti puntini che sono stati scolpiti nella pelle quando era una bambina, sono le scarnificazioni tradizionali della tribù Nuer. I buchi cicatrizzati adesso formano delle linee che hanno trasformato il giovane volto in una maschera antica. La ragazza siede assieme ad una ventina di altre donne Nuer nella sala d’aspetto dell’ospedale missionario di Turalei. Ciò che colpisce subito è il silenzio che regna nella grande stanza arredata con panche di legno e un grande tavolo. Nessuna delle donne accenna ad un sorriso, eppure si capisce dall’espressione dei loro occhi che sono curiose di conoscere la visitatrice con bloc-notes e penna che si siede in mezzo a loro. Nyadouth e le sue compagne hanno affrontato il lungo cammino dall’Upper Nile, le loro terre a nord, fino al Warab State, in territorio Dinka, per raccontare i loro problemi di donne emarginate. Il filo conduttore che unisce le loro storie è l’impossibilità 7 2009 T U R A L E I MARINA RINI RACCONTA LE DIFFICOLTA’ DELLE DONNE EMARGINATE A CAUSA DELLA STERILITA’. SEGUE LA STORIA DI ANGELINA, INFERMIERA SUD-SUDANESE FOTOGRAFIE DI RICCARDO GANGALE PAG.2 B U N A G O K LE TESTIMONIANZE RACCOLTE DA CRISTIANA LO NIGRO SULL’ULTIMA MISSIONE EFFETTUTA CON UN GRUPPO DI NUOVI E VECCHI COLLABORATORI PAG.5

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Le testimonianze delle ultime missioni compiute a Bunagok e Turalei.

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ComitatoCollaborazioneMedica[note a margine d i intervent i socio-sani tar i ]

voci dal sud sudanNyadouth è una bella ragazza di 25 anni. Sul suo

viso sono ben visibili tanti puntini che sono stati scolpiti nella pelle quando era una bambina,

sono le scarnificazioni tradizionali della tribù Nuer. I buchi cicatrizzati adesso formano delle linee che hanno trasformato il giovane volto in una maschera antica. La ragazza siede assieme ad una ventina di altre donne Nuer nella sala d’aspetto dell’ospedale missionario di Turalei.Ciò che colpisce subito è il silenzio che regna nella

grande stanza arredata con panche di legno e un grande tavolo. Nessuna delle donne accenna ad un sorriso, eppure si capisce dall’espressione dei loro occhi che sono curiose di conoscere la visitatrice con bloc-notes e penna che si siede in mezzo a loro.Nyadouth e le sue compagne hanno affrontato il lungo cammino dall’Upper Nile, le loro terre a nord, fino al Warab State, in territorio Dinka, per raccontare i loro problemi di donne emarginate.Il filo conduttore che unisce le loro storie è l’impossibilità

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T U R A L E IMARINA RINI RACCONTA LE DIFFICOLTA’ DELLE DONNE EMARGINATE A CAUSA DELLA STERILITA’. SEGUE LA STORIA DI ANGELINA, INFERMIERA SUD-SUDANESE fotografie di riccardo gangale

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B U N A G O KLE TESTIMONIANZE RACCOLTE DA CRISTIANA LO NIGRO SULL’ULTIMA MISSIONE EFFETTUTA CON UN GRUPPO DI NUOVI E VECCHI COLLABORATORI

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di mettere al mondo figli, l’isolamento al quale sono state condannate senza possibilità di appello, la voglia di capire il perché della loro sterilità e la grande speranza di riuscire ad essere donne normali in futuro.La giovane Nyadouth e le sue compagne raccontano di essere state restituite ai loro padri perché non sono riuscite a fare figli. I mariti che le avevano sposate non hanno avuto esitazioni nel giustificare la riconsegna alla famiglia: sono sterili, non servono a nulla, abbiamo diritto alla restituzione delle mucche che avevamo pagato per sposarle.Una volta tornate in famiglia, le ragazze finiscono per fare i lavori più umili e faticosi come raccogliere la legna per il fuoco o percorrere ogni giorno diversi chilometri per prendere l’acqua dai pozzi.«La tradizione impone alle donne di partorire quanti più figli possibile per badare alle mucche – spiega Elisabeth – io sono stata sposata due volte, ma non sono riuscita a fare bambini. Tutti e due i mariti mi hanno ricacciata da mio padre. Ora non so più cosa fare, spero che i dottori di questo ospedale riescano a capire perché. Prego per loro da una settimana, è la mia ultima possibilità».Dopo aver superato timidezza e timore, si inserisce nel gruppo anche qualche donna Dinka con alle spalle anni di umiliazioni e sconfitte. Da sempre i Dinka e i Nuer, le due tribù principali che abitano il Sud Sudan, sono in lotta tra loro. Il perenne conflitto non nasce dalla supremazia sul territorio e neanche dalla conquista del potere, discende da una credenza ancestrale che pone al centro della loro esistenza le mucche.Le vacche determinano la ricchezza di una famiglia, permettono agli uomini di prendere moglie, sono alla base dei rituali tradizionali, nutrono con il latte, la loro urina è usata per lavarsi. Una mucca non sarà mai sacrificata da un Dinka o un Nuer per sfamare la

famiglia, a meno che l’animale non muoia di malattia o vecchiaia, solo allora la sua carne verrà mangiata.Il numero di vacche che il padre riceve in cambio della figlia data in moglie serve per cementare alleanze e affermare diritti e doveri. Dall’età di due anni i bambini devono seguire le proprie mucche al pascolo. Spesso, i giovani guerrieri armati delle due tribù fanno razzia di bovini dei nemici, innescando vendette e battaglie sanguinose.Vedere le donne di due tribù rivali sedute insieme a parlare è già una grande vittoria, segno che l’ospedale riesce a superare certe barriere ed è visto anche come luogo di riunione e di incontro.A poco a poco le storie di queste donne impaurite esplodono con una forza tale che è impossibile persino scrivere tutti i dettagli sul bloc-notes. C’è chi non ha mai avuto un ciclo mestruale in vita sua, chi non ha mai avuto la possibilità di curare una banalissima infezione, chi ha continui dolori addominali e semplicemente non sa a chi rivolgersi, la maggior parte non conosce neanche come funziona il sistema riproduttivo femminile.

Basterebbe avere un laboratorio per le analisi, un’ostetrica che insegni come prendersi cura del proprio corpo o dei farmaci ginecologici per aiutare queste donne ad evitare atroci sofferenze.«Sono stanca – racconta Mary – mio padre continua a darmi in moglie a tanti uomini credendo che prima o poi farò figli, puntualmente mi riportano a casa. Nessuno mi porta da un medico per vedere cosa c’è che non va. Anche perché un medico dei bambini neanche c’è».«E’ vero – ammette Resy Taliente – le donne sono le più emarginate, basterebbe un laboratorio di analisi e più formazione per aiutare queste donne. L’anno scorso, una nonna ci ha portato la nipotina con un braccio

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retratto a causa di una gravissima ustione con l’acqua bollente. Noi le abbiamo raccomandato di tornare tutti i giorni per le medicazioni ma l’anziana donna ci ha detto che non l’avrebbe più riportata perché anche se fosse rimasta con un braccio immobile, un vecchio che l’avrebbe sposata lo trovava sempre».

«Nei programmi del CCM a Turalei ci sarà la possibilità di intervenire in favore delle donne – assicura la dottoressa Ada Merolle, Regional Medical Coordinator – non solo per garantire l’accesso alle cure sanitarie, ma anche per ridare loro la dignità perduta».

Angelina Ngong è l’infermiera più brava e capace dell’ospedale missionario di Turalei. Ha 27 anni, un sorriso luminoso, uno sguardo dinamico ed è alta, molto alta. Per fotografarla con i pazienti, o in sala operatoria, il fotografo è costretto a chiederle di chinarsi o, addirittura, sedersi.Circa 7 anni fa, Angelina fu offerta in sposa ad uomo molto più vecchio di lei che aveva già otto mogli. La vita famigliare cominciò nel peggiore dei modi: il marito era un comandante militare e restava spesso lontano da casa per settimane, e lei, ultima arrivata, doveva sobbarcarsi tutti i lavori pesanti di casa. Un giorno scoprì di aspettare un bambino. Per alcune settimane le altre donne di casa sembravano rispettarla, ora che stava per mettere al mondo un altro figlio. Purtroppo, il bambino nacque prematuramente già morto. Per Angelina iniziò un incubo. Le otto mogli cominciarono a trattarla ancora peggio, accusandola di essere buona a nulla per non riuscire a fare figli.Un giorno trovò tutto il coraggio di cui era capace e ritornò nel suo villaggio natale: Turalei. Il 2001 fu per la ragazza l’inizio di una nuova vita. Incontrò sorella Rio che la invitò a seguire dei corsi di alfabetizzazione e di inglese. In pochissimo tempo Angelina divenne la più brava dei 30 studenti del corso. «Non fu semplice – ricorda l’infermiera – mia madre ogni tanto veniva a scuola e mi portava via perché dovevo cucinare per i miei fratelli. Ma io sono

sempre tornata, la voglia di imparare e conoscere era troppo forte».Nel 2003 la svolta. Sorella Rio e il dottor Giuseppe Meo cercano dei ragazzi da formare per l’ospedale. Angelina viene assunta immediatamente e si dà da fare come addetta alle pulizie.«Quando entravo con stracci, spazzolone e candeggina nel teatro delle operazioni mi fermavo a sognare – ricorda la giovane infermiera – immaginavo di poter indossare gli abiti verdi e di poter curare la mia gente». Nel 2004 sbarcano nell’ospedale di Turalei il chirurgo Peter Taliente e sua moglie Resy, fondatori di Terre Remote e organizzatori delle annuali missioni chirurgiche in Sud Sudan nelle strutture sanitarie gestite dal CCM.Tra la coppia e Angelina si stabilisce immediatamente una stima reciproca. I coniugi decidono di formare Angelina come infermiera. La donna ha sete di imparare e si distingue per bravura. Nel giro di tre anni la ragazza diventa così competente che guadagna un meritato posto come assistente del chirurgo in sala operatoria. «Un giorno abbiamo deciso di investire su di lei perché abbiamo capito che aveva un potenziale enorme, non è stata una scommessa, come per gli altri infermieri che abbiamo formato. Angelina è una forza della natura, lo si vede subito, nell’ospedale di Turalei non c’è altro infermiere

L’IMPORTANZA DELLA FORMAZIONE DEI GIOVANI PER USCIRE DALLA SPIRALE DELLA POVERTA’. ANGELINA, UN CASO ESEMPLARE

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così esperto da eseguire anestesie spinali come lei», conferma Resy.«Adoro il mio lavoro – racconta Angelina, orgogliosa della sua uniforme verde – mi piace preparare i pazienti per le operazioni, mi piace il senso di responsabilità che assumo quando infilo l’ago tra le vertebre o sul dorso della mano per addormentarlo. Non ho paura del sangue perché la soddisfazione di aiutare le persone

prevale su tutto. So che la vita dei pazienti dipende, in certa parte, da me ma non ho paura, e poi ho avuto dei maestri meravigliosi come Peter e Resy».«Oggi, grazie a loro e al CCM, sono una donna che lavora, indipendente – conclude Angelina – lo sai che i pazienti accettano di essere operati solo se ci sono io?».

Marina rini

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GENNAIO/FEBBRAIO 2009, BUNAGOK, LAKES STATE, SUD SUDANPubblichiamo qui di seguito le testimonianze di Ornella Albesano,

Ambrogio Botto, Umberto De Bonis, Guido Giustetto, Alberto Kiss

e Zelda Vannucchi raccolte da Cristiana Lo Nigro, responsabile

del Laboratorio Oncologia Translazionale dell’Ospedale S. Croce

e Carle di Cuneo attiva nei gruppi d’appoggio “Amici di Nanni” di

Cuneo e “Gli Amici del CCM” di Arenzano (GE)

Con la mia passione per la ricerca e il mio entusiasmo per ogni singola piccola conquista o nuova possibilità intuita, non ho mai invidiato un medico o un’infermiera per la loro professione, che pure rispetto e avverto come assolutamente necessaria.Durante i giorni che ho condiviso con Zelda, Ornella, Guido, Alberto, Ambrogio e Umberto, in missione chirurgica nell’ospedale del CCM a Bunagok, in Sud Sudan, ho, però, invidiato l’immediatezza del loro intervento e il loro autocontrollo, che non permetteva cedimenti. Sono persone di questa grande qualità umana e a loro che ho chiesto quali ragioni li spingano ad andare in un paese come il Sud Sudan, una delle regioni più martoriate della terra, dove alla guerra civile, durata decenni, si aggiungono carestie endemiche e devastanti epidemie e dove non vi è alcuna disponibilità di servizi di chirurgia.Perché andare in Sud Sudan oggi? Rispondono i medici e le infermiere che in 15 giorni di indefesso lavoro, con professionalità ed amore, aiutati dal Dr. Elijia, da Catherine, Philips e Jacob, personale sudanese istruito dal CCM, ansiosissimi di imparare, hanno condotto interventi d’elezione e di chirurgia di base.

Essenzialità e solidarietà

La medicina attuale, come è vissuta da medici e pazienti, nella società occidentale ad alto

reddito, presenta molti aspetti di tipo commerciale e consumistico che spesso oscurano quelle che dovrebbero essere le finalità dell’agire medico: prendersi cura dei bisogni di salute dell’uomo.Un modo per riscoprire l’essenza del curare è cercare di portare le cure e l’assistenza a chi ne è totalmente sprovvisto. Il Sud Sudan, uscito da una delle più lunghe guerre civili dell’Africa, sta faticosamente cercando di ricostruire il tessuto sociale distrutto dalla guerra. L’assistenza sanitaria, insieme con l’istruzione, l’approvvigionamento idrico e di cibo, è uno dei punti critici.In questo contesto abbiamo svolto una missione chirurgica presso l’ospedale rurale di Bunagok, per anni privo di alcuna assistenza medico specialistica.Abbiamo trovato patologie che i pazienti si portano dietro da anni, senza possibilità di intervento: ernie gigantesche, gozzi comprimenti la trachea che rendono la vita quotidiana ancora più penosa di quanto la natura, spesso ostile, di per sé determini.Alcuni capisaldi permettono di affrontare, in buona sicurezza per i pazienti, anche con risorse molto esigue, questi problemi.Sono sufficienti una semplice pentola a pressione per sterilizzare lo strumentario di base, un piccolo locale adibito a sala operatoria, l’acqua, un po’ di luce, la volontà e la capacità di portare a termine un buon

intervento.Durante questa missione, condotta insieme a colleghi dell’Ospedale Santa Croce di Cuneo, in due settimane abbiamo visitato centinaia di persone, operandone oltre 120, talvolta con pluri patologie.Questo è stato possibile anche per la presenza e la collaborazione di personale locale, con il quale si è stabilito un clima di grande cooperazione.Lavorare insieme sul campo è il miglior sistema per trasmettersi reciprocamente abilità, informazioni, “segreti del mestiere”, che nessun manuale sarebbe in grado di fornire e consente di superare problemi che metterebbero a dura prova strutture tecnologicamente avanzate.Condividere le sofferenze di un popolo tra i più poveri della terra ci aiuta a riscoprire le motivazioni vere del nostro essere medici e infermieri. E questa è forse la contropartita inaspettata, e ben più grande, per quel poco che faticosamente si è riusciti a fare.Con sorpresa al termine della missione ci viene offerto dalla comunità un bue, che rappresenta per quel popolo di allevatori al contempo una grande ricchezza e un segno di grande riconoscenza.

Guido Giustetto, Alberto Kiss e Zelda VannucchiOspedale di Chieri

Mi chiamo Ambrogio e faccio l’urologo da più di venti anni.

Sinceramente mi è molto difficile esprimere a parole ciò che ho provato e ciò che ho sentito nei venti giorni trascorsi in Africa, è una sensazione piacevole, di rilassatezza interiore e benessere, un’emozione intima, tutta mia, difficile da esternare. Razionalmente sono stato cosi felice in quanto ho trovato una compagnia bellissima, mai uno screzio, mai una cattiva parola e la salute mi ha sempre accompagnato durante il soggiorno, per mia fortuna, perché lo “star male” in quei luoghi sarebbe stato davvero problematico.Sono stato benissimo, ma non mi sono sentito né un missionario né un benefattore, è stato un periodo vissuto in serenità sia dal punto di vista umano che lavorativo.Certo che sono tornato volentieri, alla fine contavo le ore che mancavano al mio rientro, ma penso che questo sia naturale, in quanto qui c’è la mia vita, ci sono mia figlia Angelica e mia moglie Maria Grazia.Ricordo ancora che tutte le sere, in modo scherzoso e goliardico, ringraziavo prima di dormire il mio amico Umberto perché con tutti i suoi entusiastici racconti sulle sue esperienze africane mi aveva convinto a intraprendere questa avventura che per me é stata bellissima.

Ambrogio Botto

Mi chiamo Ornella e lavoro in questo ospedale (S. Croce e Carle) come infermiera. Quest’anno per

la prima volta ho avuto la possibilità di partecipare ad una missione umanitaria nel sud del Sudan, organizzata dal CCM di Torino del Dottor Meo.A Bunagok non c’è nulla. Tranne savana di terra secca, arbusti, sicomori, insetti e pipistrelli.La gente c’è: non capisci bene dove, ma c’é. E ci sono anche quelli che stanno male: molti, quasi tutti.

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A Bunagok c’è una struttura ospedaliera del CCM, dove noi siamo andati a lavorare per tre settimane… vedere di fare qualcosa. Dico noi perché, in quella realtà assolutamente indescrivibile nei parametri ai quali noi siamo abituati che riteniamo logici, specie in campo medico ed ospedaliero, se non sei un gruppo, non fai proprio nulla… se non guardare il cielo al tramonto. Invece, insieme agli altri, in qualità di infermiera, ho preso parte a 180 interventi effettuati in condizioni-limite. Cioè sfruttando al massimo le poche attrezzature, i materiali e le nostre conoscenze… e pure qualche cosa in “più”. Il “più” è fare qualcosa in quel momento, in quel luogo, assolutamente indispensabile e che altri non possono fare. E nel contempo ho imparato come si riesce a vivere ed essere utili dove pare possano sussistere solo la morte e il nulla.Forse quei 180 interventi sono stati un cucchiaio tolto al mare, ma chi lo dice… Abbiamo fatto quello che sapevamo. Quello per cui eravamo lì.

Ornella Albesano

Mi chiamo Umberto e faccio l’anestesista al S.Croce e Carle; anche quest’anno ho avuto

la fortuna di andare in Sud Sudan partecipando ad una missione chirurgica in uno dei tanti ospedali creati in questi anni dal CCM. L’ospedale è quello di Bunagok, nella regione del Bahar el Gazal, vicino al Nilo bianco. Risvegliandomi nella quotidianità del lavoro di tutti i giorni (come sempre al ritorno da queste missioni) ripenso con nostalgia al breve periodo passato lavorando in quei poveri luoghi, in quella caldissima

ma operosa e soprattutto serena sala operatoria, con colleghi medici e infermieri stupendi e preparatissimi; ripenso con nostalgia a quelle persone, bambini, donne, anziani, uomini che vivono sullo stesso pianeta in cui viviamo noi ma continuamente martoriati, uccisi, depredati, violentati, umiliati e dimenticati dal resto del mondo. Sono riflessioni che mi fanno anche capire quanto io, a differenza di questi miei fratelli, sia stato fortunato nascendo casualmente dalla parte giusta (???) della terra…. Con i miei amici e colleghi sono stato accanto a loro per un breve periodo, credo che quanto abbiamo fatto sia ancora troppo poco, tuttavia sono assolutamente convinto di essere nella direzione giusta, che è l’amore per il nostro prossimo, a partire dagli ultimi della terra.

Umberto De Bonis

Per la prima volta, dopo tanti anni di missioni chirurgiche svolte nel Sud del Sudan abbiamo

lavorato in équipe con colleghi di altri ospedali: il mio gruppo, proveniente da un piccolo ospedale di provincia, l’ospedale di Chieri, i colleghi amici provenienti dal S. Croce di Cuneo, un gruppo di Sud Sudanesi dell’ospedale di Billing. Nonostante le risorse così diverse da quelle cui siamo abituati, ci siamo subito ritrovati nei modi e negli intenti: riuscire, nonostante i pochi mezzi e la complessità dei problemi da affrontare, a mettere a disposizione di una delle popolazioni più povere e travagliate del mondo quelle conoscenze che nella nostra medicina vengono apprese con difficoltà in molti anni di professione. L’unico nostro obiettivo è “restituire qualcosa del

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molto e troppo” che abbiamo nella nostra società consumistica, anche nell’ambito scientifico. Le cure chirurgiche così come quelle mediche rappresentano un diritto umano universale e non un lusso per chi non ha accesso ad acqua, istruzione, giustizia.La condivisione anche solo in parte e per tempi brevi, il prendersi cura della sofferenza di poveri e lontani, rappresentano una delle finalità essenziali del nostro essere medici. Come recita R. Hamlin, padre del Fistula Hospital di Addis Abeba “ogni medico deve essere il migliore avvocato dei poveri”.

Alberto Kiss

«Grazie per averci permesso di operare con un’umanità che difficilmente troviamo nelle nostre sale, nella nostra quotidianità».

Con queste parole Guido ha concluso il discorso di ringraziamento e di saluto alle autorità locali nella serata che è stata organizzata per noi dalla comunità di Bunagok a conclusione della missione chirurgica.

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