Lezione n°1 di ONCOLOGIA MEDICA Prof. Ciardiello 4/03/2014 · -ONCOLOGIA MEDICA GENERALE...

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Lezione n°1 di ONCOLOGIA MEDICA Prof. Ciardiello 4/03/2014 Sbobinata da Angela Barillaro

INTRODUZIONE AL CORSO

COS'E' L'ONCOLOGIA MEDICA?

E' l'approccio clinico e, quindi, la gestione clinica, dei pazienti affetti da neoplasia. Non è, quindi,

una disciplina medica di patologia d'organo, come possono essere la gastroenterologia oppure la

pneumologia, ma è una disciplina fondamentalmente internistica che si occupa dei tumori maligni, e

principalmente dei tumori maligni solidi dell'adulto.

Come viene strutturato il corso?

-ONCOLOGIA MEDICA GENERALE

-ONCOLOGIA MEDICA SPECIALE

Inizieremo con l' oncologia medica generale, che è la prima parte del corso, per poi passare a quella

più specifica in cui andremo a studiare alcune patologie neoplastiche, che sono state selezionate in

base ad alcuni principi. Il principio più importante è la frequenza di neoplasie solide dell'adulto,

quindi tratteremo di alcuni tumori con un rilevanza epidemiologico - sociale come il tumore della

mammella, del polmone e così via. Altri tumori sono importanti perché ci permettono di capire

quale sia l'approccio o anche delle caratteristiche particolari. Tratteremo in particolare di quelli di

origine epiteliale, che rappresentano circa il 90% delle neoplasie solide dell'adulto. Alcuni tumori

non epiteliali sono tipici dell'età pediatrica e quindi non di nostra competenza, ma di una branca

specialistica della pediatria. Essi hanno una eziopatogenesi diversa, caratteristiche cliniche diverse,

e necessiteranno, quindi, di un comportamento terapeutico differente. Con la parte generale vi darò

le basi dell'oncologia medica di tipo concettuale ed alcune lezioni saranno dedicate alla

farmacologia clinica in oncologia. Essa non sarà di tipo specialistico, ma dovete comunque avere, a

prescindere dal tipo di medico che sarete, una conoscenza dei principi terapeutici di base.

ONCOLOGIA MEDICA GENERALE

DEFINIZIONE DI CANCRO

Dalla patologia generale, lo definiamo come una crescita inappropriata di cellule geneticamente

alterate. Esse, non seguendo il normale programma di proliferazione o differenziamento, crescono

fino ad assumere delle caratteristiche dannose per l'ospite. La principale caratteristica è, non solo la

crescita più rapida, ma la capacità di invadere le strutture vicine, invadere i vasi linfatici e

sanguigni, arrivando a tessuti lontani da quello di origine, dando metastasi. Il tumore maligno

diviene quindi una malattia sistemica, e questo è un grande problema. Se abbiamo un tumore

epiteliale che ancora non abbia infiltrato la membrana basale (la quale, ricordando l'anatomia

microscopica, è la zona che separa l'epitelio dallo stroma e dai vasi), abbiamo allora un tumore

maligno "in situ": la rimozione chirurgica porta alla guarigione, rendendolo identico, come entità

biologica, al tumore benigno (che è la crescita inappropriata che, però, avviene generalmente

all'interno di una membrana o capsula, che non infiltra i tessuti vicini). La terapia del tumore

benigno consiste quindi sempre nell'asportazione chirurgica, quella del tumore maligno invece non

sempre si esaurisce con l'asportazione radicale della neoplasia primitiva.

ORIGINE DEL TUMORE MALIGNO

Il tumore maligno origina sempre da alterazioni genetiche. In patologia generale avete studiato i

principali geni coinvolti nel controllo della proliferazione cellulare che, in seguito a mutazioni

puntiformi, delezioni eccetera possono dare prodotti proteici alterati i quali possono poi, ad

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esempio, provocare una attivazione costitutiva del prodotto proteico (nel caso degli oncogeni) o

inattivazione costitutiva del prodotto proteico (nel caso dei geni oncosoppressori).

Accumulando alterazioni genetiche, i geni chiave della proliferazione cellulare fanno sì che la

cellula iperproliferante diventi una cellula neoplastica, da cui poi deriva il clone maligno. E' un

processo di non ritorno.

Quindi, in origine, il tumore maligno è sempre monoclonale, cioè deriva da una singola cellula, ma

in realtà quando noi facciamo la diagnosi il tumore è già policlonale, localizzato nell'organo ma

formato già da miliardi di cellule. Se accumuliamo delle iniziali alterazioni genetiche, è più

probabile che poi ad ogni divisione cellulare si accumulino sempre più mutazioni, quindi da un

singolo clone derivi una serie di sottocloni, con alterazioni genetiche successive, se queste

alterazioni offrono un vantaggio selettivo alla cellula tumorale. Ad esempio, se l'alterazione

genetica di un sottoclone permette di vivere in ambiente ipossico (tenete presente che un qualsiasi

tumore ha bisogno di ossigeno e nutrienti) allora ha maggiori possibilità di sopravvivere. Se un

clone ha una mutazione che porta all'alterazione di un processo biochimico in modo tale da riuscire

ad invadere più facilmente la matrice extracellulare, o un tropismo maggiore per i vasi sanguigni e

linfatici, allora avrà un vantaggio selettivo rispetto ad altri perché riesce a crescere anche in un

ambiente diverso. A maggiore ragione questo può avvenire quando andremo a fare la terapia con

farmaci, perchè un'alterazione genetica che permetta in qualche modo di riparare il danno dal

farmaco, permette un enorme vantaggio selettivo. Nel tempo, si accumulano sempre più mutazioni e

quindi avremo un tumore dalle caratteristiche sempre più variabili. Questo è il motivo per cui,

quando il tumore diventa metastatico, è difficile poi riuscire a guarire completamente.

Ma quando avvengono queste mutazioni?

Nella stragrande maggioranza dei casi, si tratta di mutazioni somatiche, ambientali, cioè acquisite

nel corso della vita dell'individuo, e sono causate da sostanze cancerogene. Vedremo che nel tumore

del polmone il cancerogeno più potente è il fumo di sigaretta. Altro esempio è l'esposizione a

sostanze cancerogene in un ambiente di lavoro industriale, ad esempio un ambiente ricco in

amianto. Altra causa di mutazioni sono le radiazioni ionizzanti. Queste cause sono, fortunatamente,

oggi altamente controllate. Ve ne sono altre, invece, di più difficile controllo, come le sostanze

presenti nell'atmosfera. Anche l'abuso di alcool, che di per sé non è un cancerogeno, può essere un

importante cofattore, soprattutto nei pazienti fumatori.

A proposito del fumo di sigaretta, dobbiamo porci un obiettivo molto importante, e cioè di smettere

tutti di fumare e far smettere le persone che conosciamo. Siete studenti di medicina e dovete dare

l'esempio. La migliore arma terapeutica è data dalla prevenzione. Eliminando il fumo di sigaretta

facciamo la migliore prevenzione primaria perché il rischio di ammalarsi di cancro, per un

fumatore, è direttamente proporzionale al numero di sigarette fumate nel corso della giornata e al

numero di anni in cui ha fumato; quindi, se avete iniziato a fumare in età adolescenziale (fumate

cioè da qualche anno) potete rendere il processo reversibile, anche nel giro di qualche anno,

arrivando ad avere un rischio equivalente ad un soggetto che non ha mai fumato.

Il fumo di sigaretta incide molto di più rispetto all'inquinamento ambientale ed altri cancerogeni.

In realtà esiste anche la trasmissione ereditaria, quindi per via germinale. Tutte le cellule

dell'individuo avranno quindi la stessa copia del gene alterato e che in alcune situazioni porta ad

una predisposizione all'insorgenza di neoplasie. Lo vedremo quando parleremo del tumore alla

mammella, del tumore del colon-retto e del tumore dell'ovaio. Possiamo avere una trasmissione con

penetranza completa, autosomica dominante o recessiva oppure può trattarsi più semplicemente di

un incrementato rischio di neoplasia. Tutto dipende dall'alterazione iniziale, presente dall'inizio

della vita dell'organismo, da cui derivano le successive alterazioni che portano al cancro. L'esempio

più semplice è quello del retinoblastoma del bambino, in cui l'alterazione riguarda il gene RB, che

controlla la progressione del ciclo cellulare. Inattivato in entrambi gli alleli può portare

all'alterazione nelle cellule retiniche. Il bambino può aver ereditato un allele malato dalla madre ed

uno dal padre, in questo caso la malattia si manifesta molto precocemente; oppure potrebbe avere

un solo allele mutato e sviluppare la malattia in seguito ad una successiva mutazione; ancora, nel

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caso del rarissimo retinoblastoma sporadico, tutti e due gli alleli vengono mutati nel corso della

vita.

Passando al cancro della mammella, sappiamo che nel 10% dei casi si sviluppa sulla base di una

predisposizione ereditaria. In genere, i tumori familiari insorgono più precocemente: se il tumore

della mammella si sviluppa generalmente dopo i 50 anni di età, quello di tipo familiare ha

un'insorgenza al di sotto dei 40 anni, questo perché la donna fin dal concepimento aveva quel gene

alterato, e quindi le eventuali successive mutazioni si sono accumulate molto presto e ne sono state

necessarie molte di meno per arrivare alla trasformazione neoplastica.

APPROCCIO CLINICO

Non è che un paziente viene da voi e vi dice "salve, ho il cancro", è quindi necessario un adeguato

approccio clinico al paziente. Quali sono i segni del cancro? Quelli iniziali purtroppo sono molto

sfumati, possono facilmente essere confusi con quelli di altre patologie benigne oppure, addirittura,

possono non essere proprio presenti fino a che la malattia non si manifesti in maniera molto

avanzata. Al minimo sospetto dovete essere in grado di sapere cosa fare per arrivare alla diagnosi.

Ci sono tumori che possono portare alla guarigione, altri invece che, o per motivi biologici, o per

motivi di ritardo dell'intervento clinico , o per mancanza di armi terapeutiche adeguate portano alla

morte del paziente. Ad esempio, se prendete il tumore germinale del testicolo maschile, che è quello

più frequente nella fascia di età di popolazione maschile presente in quest'aula, se si fa la diagnosi

nel modo giusto e si fa una adeguata terapia, si arriva nel 99,9% dei casi alla guarigione.

Se prendete, invece, pazienti con tumori maligni cerebrali, nonostante abbiano una malattia

localizzata solo al cervello, molto probabilmente essi muoiono. Ovviamente il progresso nella

terapia e nel successo terapeutico è molto variabile da tumore a tumore, in rapporto alla storia

naturale e biologica della malattia e alle tecniche terapeutiche che si sono sviluppate negli anni: ad

esempio nel caso delle leucemie, soprattutto linfoblastiche o del bambino (si tratta spesso di

bambini molto piccoli), nonostante necessitino di terapie molto aggressive, nella stragrande

maggioranza dei casi si arriva alla guarigione oggi, 20-30 anni fa invece esse portavano nella

maggioranza dei casi a morte, molto probabilmente.

Diagnosi di cancro non significa quindi diagnosi di morte!

Cosa dobbiamo fare noi? Allora, abbiamo di fronte a noi una persona che viene con un problema

clinico, con dei sintomi, segni clinicamente rilevabili all'esame obiettivo o ad un esame di

laboratorio, dobbiamo formulare un'ipotesi diagnostica, arrivare ad una certezza di diagnosi.

Nell'oncologia la diagnosi di certezza è istologica: cioè, fino a quando non avete un esame

istologico di anatomia microscopica di un campione adeguato, non avete una diagnosi di certezza.

Dovete poi riconoscere dove la malattia si è sviluppata ed estesa, perché, nel caso del tumore

maligno, è molto probabile che esso sia migrato a distanza; bisogna fare un processo che porta alla

stadiazione. Fatto ciò, avrete tutti gli elementi clinici utili per formulare un giudizio prognostico e

per formulare una pianificazione terapeutica, la quale, in oncologia, è spesso complessa, perché può

richiedere un approccio terapeutico sequenziale integrato, in cui possono avere un ruolo una serie di

trattamenti loco-regionali, oppure una serie di trattamenti e terapie sistemiche.

Quali sono le terapie loco-regionali? Sono essenzialmente la chirurgia e la radiografia. La chirurgia

consiste in un'asportazione, mentre la radiografia utilizza le radiazioni ionizzanti.

I trattamenti sistemici sono invece per definizione di tipo medico.

Questi trattamenti possono anche essere utilizzati in sequenza, seguendo una logica razionale

perché, una volta che abbiamo fatto diagnosi di certezza e fatto la stadiazione del tumore, dobbiamo

parlare alla nostra paziente e dire, ad esempio: "signora, lei ha un tumore alla mammella con queste

caratteristiche, le proponiamo questa terapia con questi obiettivi".

E allora, quali sono fondamentalmente gli obiettivi terapeutici?

Sono almeno due: o mettere in atto una serie di procedure terapeutiche che hanno come fine la

guarigione, oppure, purtroppo, abbiamo una malattia non più curabile portando alla guarigione e

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quindi l'approccio terapeutico viene definito di tipo esteso-palliativo, che ha come obiettivo quello

di far vivere meglio il paziente e più a lungo.

Tornando al principio, abbiamo una persona di fronte a noi che ci dice "ho una febbre di 38°-39°

intermittente - remittente da due settimane che non scende nonostante il cortisone". Visitate il

paziente, ed iniziate a pensare alla causa. Nel caso di tratti di un tumore maligno, voi dovete poi

arrivare a trovare l'indagine giusta. Se arrivate, ad esempio, all'esame istologico che vi dice di avere

un adenocarcinoma polmonare, dovete poi proseguire con ulteriori indagini per chiarire l'estensione

della malattia. A questo punto avrete una serie di parametri di valutazione prognostici, e a questo

punto potete dire al paziente se può guarire o meno, come può migliorare la sua qualità di vita.

Nel caso del cancro alla mammella, la presentazione clinica più frequente è la presenza di un

nodulo. E' proprio l'evidenza della presenza di una massa che porta la donna a consultare il medico,

ma non si tratterà di un oncologo o di un senologo, ma di un qualsiasi medico che conosce. Voi

sarete quindi, tutti, molto probabilmente il primo medico che un paziente con cancro incontra.

Avete quindi una grossa responsabilità, tanto più elevata quanto più il tumore è potenzialmente

guaribile! (Se voi avete un paziente anziano con tosse, versamento pleurico, febbre, con un tumore

metastatico al polmone e agli organi circostanti, anche se non arrivate alla diagnosi giusta, non fate

un grosso danno perché probabilmente quel paziente morirà comunque in un arco di tempo breve.)

Tornando all'esempio della signora, l'anamnesi è importantissima. Bisogna chiedere se la massa è

recente o no. Ci sono noduli mammari maligni ed altri che invece niente altro sono che lesioni

benigne. Se lei vi dice che già 20 anni fa, quando ha avuto la gravidanza, ha notato questa

masserella che poi nel tempo è cambiata, potrebbe, fortunatamente, trattarsi di una condizione

benigna. Se invece la signora vi riferisce di essere andata sei mesi fa dal ginecologo e di aver fatto

anche la mammografia (che era negativa), e poi aver notato un aumento di dimensioni di 1 cm della

massa, dovrete preoccuparvi di più, dovrebbe scattare in voi un campanello d'allarme.

L'anamnesi serve a capire l'evoluzione della lesione, cosa è successo nel passato della donna.

Impareremo l'esame obiettivo della mammella, come funzionerà l'esame istologico ecc. Farete fare

una biopsia incisionale che consiste nel prelevare una piccola porzione di nodulo rappresentativa

dello stesso; se, invece, faceste asportare tutto il nodulo, si tratterebbe di una biopsia escissionale.

Questo dipende dal caso in cui ci troviamo, se richiede l'asportazione in toto del nodulo oppure se è

più utile o semplice l'asportazione di una porzione con un ago sottile. Ci sono altri casi in cui anche

l'esportazione incisionale con ago non sia possibile in quanto ci sia molta difficoltà ad arrivare al

nodulo, con alto rischio di sanguinamento: in questo caso facciamo l'agoaspirato, o aspirazione per

citologia.

Qual è la differenza tra esame istologico e citologico? L'esame citologico viene eseguito su

materiale ottenuto mediante aspirazione con siringa, o preso per esfoliazione (come nel caso del

Pap-test) oppure preso da un liquido (ad esempio da un liquido pleurico), e consiste nell'analisi

delle singole cellule. Nell'esame istologico viene invece analizzato un pezzo di tessuto da un

anatomopatologo. L'esame citologico ha dei limiti: potrebbe trattarsi di un materiale inappropriato,

ad esempio potremmo aver preso poche cellule tumorali e molte dello stroma, dei vasi sanguigni;

non ci da indicazioni precise sulle caratteristiche del tumore. Ci sono infatti molte varietà

istologiche, come ad esempio nel caso del tumore polmonare a piccole, grandi cellule ecc.

L'analisi citologica ci dice che si tratta ad esempio di un tumore non-Hodgkin, ma senza aggiungere

ulteriori informazioni circa il tipo specifico.

Ogni volta che è possibile l'asportazione della massa sospetta, va fatta la biopsia. Se ciò non è

possibile, si fa l'esame citologico di cellule singole.

Se ci rendiamo conto che la signora ha un tumore maligno, dobbiamo comprenderne l'estensione,

cioè fare quello che tecnicamente è chiamato stadiazione. Bisogna mettere in campo tutta una serie

di esami di diagnostica per immagini. Nel caso del tumore alla mammella, ad esempio, verificare

innanzitutto la situazione dell'altra mammella. Ci accontenteremo, per un primo momento, di una

Rx diretta del torace e di una scintigrafia ossea, per poi passare ad indagini più specifiche di

approfondimento.

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Se, per esempio, l'ecografia epatica mostra 5 noduli metastatici nel fegato, andiamo a fare la TAC

dell'addome e troviamo altre lesioni, allora abbiamo una malattia che ha già dato metastasi per via

ematologica al fegato, quindi il processo terapeutico sarà un po’ più complicato, per tenere la

malattia sotto controllo. Non riusciamo ad arrivare rapidamente alla guarigione, ma cercheremo di

rendere la malattia cronica.

Studente: Se noi abbiamo già la diagnosi di tumore metastatico di origine mammaria, dobbiamo

fare anche una biopsia epatica?

Questa è una domanda molto intelligente, cioè quando dobbiamo fare biopsia nelle lesioni

metastatiche. Ciò dipende da caso a caso e da una serie di motivazioni cliniche. Se la lesione è

chiara, non vado a fare la biopsia al fegato, che sarebbe una seconda inutile biopsia. Però se ad

esempio nel paziente compare, dopo tre anni, una singola lesione epatica sospetta, in quel caso

potremmo dover fare la biopsia, innanzitutto perché voglio la diagnosi di certezza di malattia

metastatica, e poi anche perché vorrei valutare se ci sono una serie di caratteristiche biologiche,

anatomopatologiche, morfologiche, molecolari cambiate rispetto al tumore iniziale, per indirizzare

la scelta terapeutica.

SISTEMA TNM

Il T varia da tumore in situ, a tumore molto esteso. Non sempre il T peggiore è quello di un tumore

più grande: possiamo avere un T di 2 cm che invade i grossi vasi, più grave di un T di 4 cm che non

lo fa.

N indica lo stato di infiltrazione dei linfonodi. La malattia si trasmette per via linfatica verso il

linfonodi loco-regionali. M indica la presenza di metastasi a distanza o meno. Anche le metastasi

dal punto di vista prognostico sono differenti. Ovviamente, il TNM più preciso si ha in un secondo

momento. Tornando al solito esempio della signora, se avessimo fatto un intervento chirurgico sulla

ghiandola mammaria, avremmo potuto conoscere in maniera definitiva se c'era stato un

coinvolgimento dei linfonodi ascellari che sono i principali linfonodi di drenaggio della ghiandola

mammaria. Abbiamo, quindi un TNM clinico-strumentale, ed un TNM chirurgico-patologico.

FATTORI PROGNOSTICI

I fattori prognostici che abbiamo in oncologia sono tutti quegli elementi che ci permettono di

definire l'evoluzione della malattia. Vi sono fattori prognostici legati alla malattia e fattori

prognostici legati al paziente. Tra questi ultimi il più importante è la presenza di altre malattie o

comorbidità. Il sesso raramente influenza l'insorgenza di un tumore. Abbiamo poi l'età biologica:

con l'avanzare dell'età aumenta l'esposizione ad elementi cancerogeni, aumenta la possibilità di

presenza di altre malattie, e quindi con l'età si ha una prognosi peggiore. Ciò che può condizionare

la prognosi è la capacità di un paziente anziano di sopportare un intervento chirurgico lungo ed

esteso, o una terapia. Il paziente potrebbe avere una patologia neoplastica molto semplice, ma

accompagnata ad esempio da una cirrosi, oppure un tumore iniziale del colon (facilmente

asportabile mediante endoscopia) ma accompagnato da una situazione cardiovascolare molto

precaria. Non bisogna pensare che il tumore sia la patologia peggiore che possa esistere.

Quali sono invece i fattori prognostici legati alla malattia?

1) il tipo di malattia. Si tratta del tipo istologico che si arricchisce di tutte le caratteristiche

biologiche, morfologiche, di differenziazione, presenza di alterazioni molecolari.

Prima parlavamo di adenocarcinoma mammario duttale, infiltrante, nodulare, con eventuali recettori

ormonali, oncogeni, fattori di crescita, quindi tutto ciò che riguardava la biologia e le caratteristiche

della neoplasia indipendentemente dalle dimensioni.

2) Poi ci sono i fattori prognostici TNM, che prendono in considerazione le dimensioni del tumore,

il coinvolgimento linfonodale e le metastasi a distanza. Potremmo ad esempio avere un tumore

aggressivo biologicamente, anche con N0 ed M0, prognosticamente più sfavorevole di un altro

tumore con caratteristiche biologiche più moderate, cioè più a lenta crescita. Nel secondo caso si

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tratta di una patologia che si è estesa nel tempo, mentre nel primo caso il tumore è piccolo ma

aggressivo.

Alcuni di questi parametri possono assumere un significato anche predittivo di risposta specifica e

terapeutica.

Esempio: Nel cancro della mammella vedremo che una terapia medica molto efficace è quella

ormonale nel caso in cui vengano espressi recettori per gli estrogeni (si parla quindi di un tumore

estrogeno-dipendente o estrogeno-sensibile). La presenza del recettore per gli estrogeni ha, quindi ,

un valore predittivo prognostico di risposta alla terapia ormonale. Se invece il recettore non è

presente, allora questo tipo di terapia sarebbe praticamente inutile.

Il valore predittivo di risposta è, dunque, una caratteristica del tumore (presenza di un recettore, di

un gene mutato ecc.) che ci permette di identificare se quel tumore può rispondere bene o non

rispondere affatto alla terapia ormonale.

Alcuni fattori sono sia prognostici che predittivi. Ad esempio, nel cancro della mammella,

l'amplificazione del recettore per i fattori di crescita, come ErbB2/HER2, che si ha in circa 1/4 dei

cancri alla mammella, è un fattore prognostico sfavorevole, ma è anche un fattore predittivo di

risposta quando c'è questo bersaglio molecolare.

Ricapitolando, abbiamo visto una donna con un banale nodulo alla ghiandola mammaria, abbiamo

fatto un percorso logico che ce l'ha fatta visitare, ci ha fatto fare analisi istologiche, le caratteristiche

di eventuali altre malattie, per poter poi arrivare a dire alla signora "Sì, facendo questo tipo di

terapia potresti guarire".

PREVENZIONE

Passiamo a questo altro aspetto generale.

Se abolissimo il fumo, si tratterebbe di un tipo di prevenzione primaria. Esiste anche la prevenzione

secondaria, che consiste nell'individuare il tumore maligno in una fase iniziale di malattia

determinando la guarigione completa. Con la prevenzione secondaria, quindi, noi non ci poniamo lo

scopo che la malattia non avvenga mai, ma di trovare uno strumento che ci dica "la malattia è così

iniziale, così precoce che, ad esempio, tramite un intervento chirurgico, è possibile tranquillamente

far guarire il paziente". E' necessario uno strumento ad alta specificità e sensibilità che consenta il

cosiddetto screening oncologico, che sia semplice, poco costoso, riproducibile, estensibile su

un'ampia popolazione generale che fino a prova contraria sia sana ed in una popolazione a rischio.

Possediamo elementi efficaci di prevenzione secondaria? La risposta è "sì e no", perchè li abbiamo

per alcuni tumori, ma per altri no.

L'esempio più importante di prevenzione secondaria è il cancro alla cervice uterina. Possiamo oggi

individuare in una fase iniziale una malattia che sta per diventare cancro, o che è diventato cancro

da poco. Prendiamo cellule dalla cervice uterina per esaminarle e vedere se ci sono delle anomalie;

le classifichiamo in vari modi, da cellula epiteliale normale a cellula neoplastica. Si effettua il Pap-

test (test di Papanicolau) per due o tre anni in genere, iniziando dall'età in cui la donna inizia ad

aver rapporti sessuali, da ripetere ogni 2-3 anni. Se si scopre che c'è un carcinoma in situ, si fa un

piccolissimo intervento chirurgico, che da un punto di vista funzionale ha un effetto minimo

sull'utero della donna.

Un altro esempio è la mammografia bilaterale, cioè l'esame radiologico specifico della ghiandola

mammaria, da fare a tutte le donne dai 50 ai 70 anni, ogni anno oppure ogni due anni. Si tratta,

quindi, di uno screening oncologico fatto su una popolazione bersaglio, andando a ridurre la

mortalità per il cancro alla mammella di almeno un 20%. Queste donne guariscono decisamente

prima rispetto al caso in cui il tumore venga individuato tre anni dopo.

Inoltre, si consiglia vivamente, a tutte le bambine dagli 11 ai 15 anni, il vaccino contro i principali

tipi di papillomavirus, direttamente correlati all'insorgenza del cancro alla cervice uterina (possono

essere una concausa, oppure addirittura la causa principale).

Un altro tentativo di prevenzione è quello tecnicamente definito come chemioprevenzione: consiste

nella somministrazione, a soggetti predisposti al rischio di sviluppare un particolare cancro, di

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sostanze farmacologicamente attive, le quali permettono che il tumore non si sviluppi.

Immaginiamo di poter trovare una sostanza che, somministrata ad un forte fumatore che ha una

serie di cellule displastiche che stanno per dare origine ad un cancro, permetterebbe la reversione

delle alterazioni genetiche, evitando l'evoluzione verso il cancro. La chemioprevenzione è stata una

chimera che negli ultimi vent'anni sta dando grandi speranze, così come la terapia immunologica

dei tumori.

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Oncologia 14/03/14 D’Onofrio Ginevra

Prof.ssa Martinelli

Tumore della prostata

Il tumore della prostata è un "big killer" in oncologia insieme al tumore del polmone, della

mammella e a quello del colon. Dunque è una neoplasia molto comune rappresentando nell'uomo

la seconda causa di mortalità dopo il cancro del colon. Il tumore si presenta in età avanzata circa

60-70 anni,molto raro che ci sia un tumore prostatico sotto i 50 anni.

Spesso questa neoplasia viene scoperta durante autopsia essendo frequentemente del tutto

asintotica. L'incidenza è aumentata soprattutto grazie ai programmi di screening su pazienti sopra

i 60 anni come la misurazione del PSA (antigene prostatico specifico);tuttavia la mortalità non è

diminuita.

Ci sono tre zone dove la neoplasia si può sviluppare:

zona periferica (dove c'è la maggiore incidenza a sviluppare la malattia)

zona di transizione (dove c'è il tessuto perimetrale, qui 20% di possibilità di sviluppare questa

neoplasia)

zona centrale

Da un punto di vista istologico il tessuto prostatico è formato da cellule che fanno parte del

compartimento basale ,che sono cellule pluripotenti che si differenziano ,poi abbiamo l'epitelio

colonnare che ha un'attività secernente sotto stimolo ormonale degli androgeni. Il tumore della

prostata è un tumore ormone secernente come quello della mammella perché sull'epitelio

ghiandolare della prostata questi ormoni androgeni creano uno stimolo alla proliferazione.

Per quanto riguarda le cause della neoplasia vi sono evidenze che fattori di rischio sono

rappresentati :

-dalla predisposizione familiare infatti nel tumore della prostata quando si ha un familiare di

primo grado malato il rischio di sviluppare questa neoplasia aumenta, può raddoppiare oppure

può essere anche di 5 volte maggiore. Questo perché ci sono dei geni passati da padre in figlio che

potrebbero essere responsabili del cancro della prostata

-fattori ambientali é stato visto che l'incidenza è maggiore in Usa e in Nord Europa, basso rischio

invece in Asia.Si è potuto constatare che asiatici andati negli Stati Uniti sviluppavano la stessa

incidenza della popolazione autoctona da ciò si è potuto dedurre che lo stile di vita influenza la

malattia. Tra i fattori ambientali un ruolo importante è svolto dall'alimentazione: il consumo di

carni rosse rispetto a verdura e frutta potrebbe predisporre al tumore prostatico perché ci sono

agenti ossidanti responsabili della cancerogenesi.

PATOGENESI: Le cellule da normali si trasformano in neoplastiche. Queste proliferano in maniera

incontrollata rispetto agli stimoli che ricevono, stimoli che nel cancro della prostata sono

rappresentati dagli androgeni. Le cellule neoplastiche della prostata hanno un aspetto molto

simile a quelle colonnari del normale tessuto infatti mantengono l'espressione del PSA e sono

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sensibili ai recettori per gli androgeni .Il testosterone prodotto dal testicolo viene dalle cellule

prostatiche trasformato in diidrotestosterone forma più attiva. Questo interagisce con i recettori

degli androgeni che si trovano a livello citoplasmatico dove abbiamo una porzione N-Term che

lega il diidrotestosterone e una che interagisce con i frammenti di DNA. Una volta attivato, il

recettore si dissocia dalle hsp , dimerizza e lega sequenze specifiche del DNA. Da questa

interazione si attivano geni target che controllano elementi fondamentali per la crescita della

cellula tumorale:proliferazione ,differenziazione ,angiogenesi e apoptosi. Ma se inizialmente le

cellule hanno bisogno della stimolazione androgenica per crescere e proliferare ,successivamente

soprattutto quando la malattia dà metastasi diventano androgeno indipendente ( ad esempio in

seguito a mutazione a carico dei recettori che risultano costruttivamente attivi

indipendentemente dal legame con il ligando oppure perché si attivano altri pathway come

PI3K\Akt che regola la proliferazione delle cellule e RAS che regola la sopravvivenza).

ISTOPATOLOGIA Il tumore della prostata origina prevalentemente dalla zona periferica e nella

maggior parte dei casi parliamo di adenocarcinomi, spesso multifocali. In oncologia esistono dei

fattori prognostici legati al paziente e/o alla malattia che definiscono la prognosi. Il grading

istologico ci dice quanto la cellula è indifferenziata, più è indifferenziata la cellula maggiore è la sua

malignità e il potenziale proliferativo .

Esistono tre tipi di grading :

G1 cellule tumorali ben differenziate

G2 moderatamente differenziate

G3 indifferenziate

Per la prostata abbiamo un GLEASON SCORE che definisce il grading e che va da 1 a 5.Questo però

si complica perché il tumore della prostata è molto eterogeneo e si possono trovare pattern

ghiandolari diversi e perciò in questo caso si fa la somma tra i diversi pattern. Se il gleason score è

di 2-4 la prognosi è più favorevole, 5-6 prognosi intermedia ,7-10 prognosi sfavorevole

.Inizialmente i tumori invadono le strutture circostanti come le vescichette ,gli ureteri,l’ uretra poi

successivamente la rete linfatica con interessamento iniziale dei linfonodi loco regionali

(otturatori, ipogastrici..) poi extraregionali (ilari esterni iliaci comuni..) ,anche se a volte vi può

essere interessamento del linfonodi extraregionali senza che vi sia stato quello dei regionali. Infine

abbiamo le metastasi a distanza con interessamento di organo parenchimatosi. Da un punto di

vista probabilistico abbiamo metastasi che nel caso del tumore alla prostata interessano i polmoni

,il fegato ma soprattutto lo scheletro dove sono tipicamente osteoaddensanti ( il tessuto

neoplastico sovverte la struttura scheletrica però non induce lisi attivando osteoclasti ma lo

sostituisce ,questo è un vantaggio perché ad esempio nelle metastasi della colonna vertebrale non

si ha un crollo ma comunque si ha dolore) .La colonna vertebrale è spesso sede di metastasi per la

presenza di un plesso venoso di BATSON che mette in comunicazione i sistemi venosi

periprostatici con quelli vertebrali.

SINTOMI Dipende dalle dimensioni del tumore ,infatti spesso i tumori piccoli sono asintotici con

rilievo casuale. Quando però vi è interessamento delle vescichette,dell’ uretra possiamo avere

sintomi di tipo ostruttivo e irritativo come disuria ,pollachiuria che creano problemi di diagnosi

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differenziale con l’ipertrofia prostatica benigna invece l'ematospermia è un tipo di segno più

specifico di tumore. In caso di lesioni ossee il primo sintomo è il dolore. Nelle fasi più avanzate

possiamo riscontrare edema agli arti inferiori quando sono colpiti i linfonodi inguinali con ritorno

linfatico compromesso. Si può avere pancitopenia generalizzata per sovvertimento della struttura

ossea da metastasi .

DIAGNOSI Spesso pazienti con riscontro di elevati valori di PSA vanno dall'urologo che li sottopone

ad esplorazione rettale, quando questo esame è positivo significa che l'impegno della prostata è

importante ovvero la neoplasia è grande. Anche in questo caso abbiamo problemi di diagnosi

differenziale con l’ipertrofia, prostatiti. Successivamente viene fatto il dosaggio del PSA che è un

marker tumorale molto sensibile ma poco specifico perché può essere aumentato anche in caso di

patologia prostatica benigna, inoltre va sempre fatto prima dell'esplorazione rettale perché il

massaggio prostatico può far aumentare il PSA. Per rendere l'esame più specifico si calcolano il:

PSA VELOCITY calcolato in base alla variazione quantitativa su base annuale

PSA DENSITY calcolata dal rapporto tra il valore del PSA e le dimensioni prostatiche.

Il valore limite del PSA è di 4 ng/ml. Quanto più questo valore è aumentato tanto più è probabile

che ci troviamo davanti ad una patologia maligna. Il PSA è utilizzato anche a livello prognostico

dopo diagnosi di tumore per follow up oppure quando si fa una terapia ormonale.

CLASSIFICAZIONE TNM

T= grandezza del tumore

N= interessamento linfonodale

M= metastasi

Questa classificazione viene utilizzata per stadiare la malattia. T1 tumore molto piccolo non

palpabile nè visibile ;T2 tumore localizzato alla prostata che può interessare uno o entrambi i lobi

;T3 tumori che sono localmente più avanzati andando ad interessare le vescichette; T4 tumore più

esteso che va ad interessare anche la vescica.

N0 non interessamento dei linfonodi, N1 interessamento non >2 cm ,N2 tra 2 e 5 cm, N3 >5cm

M0 assenza metastasi M1 presenza di metastasi a distanza (non solo è un indice prognostico ma

anche terapeutico in quanto il paziente in stadio 4 non andrà incontro ad intervento chirurgico ma

ad un trattamento sistemico)

TERAPIA

Chirurgica-quando non ci sono metastasi e non vi è interessamento linfonodale la terapia

d'elezione è l'intervento di prostatectomia radicale che può essere oggi fatta anche per via

laparoscopica. Gli effetti collaterali sono rappresentati da disturbi urinari di incontinenza presenti

soprattutto nei primi mesi che possono talvolta durare per tutta la vita e la disfunzione erettile che

con la tecnica del nerve sparing è oggi sconfessata.

Radioterapia raggi a livello della loggia prostatica ,tecnica che può in alcuni casi anche sostituire

la chirurgia con vantaggi molto simili. Può essere inoltre utilizzata a scopo palliativo in caso di

metastasi ossee per ridurre la sintomatologia dolorosa.

Ormonale-primo approccio terapeutico nella fase di ormono-dipendente. Bisogna per prima

cosa deprivare il paziente degli androgeni che rappresentano uno stimolo alla proliferazione

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usando o analoghi del fattore LHRH o dando antagonisti dei recettori steroidei. In passato si

utilizzavano entrambi con un BLOCCO ANDROGENICO TOTALE ma con gli studi clinici è stato visto

che il vantaggio in sopravvivenza è simile a quando i farmaci sono somministrati separatamente.

Chemioterapia utilizzata nella fase ormone-indipendente

SCREENING DEL PZ

Dopo i 60 anni si utilizza il PSA nei programmi di screening insieme all'esplorazione rettale(EDR).

Se EDR -/PSA>4 follow up annuale; EDR+ e/o PSA>10 biopsia transrettale sotto guida ecografica

CASO CLINICO :Pz di 70 anni con varie comorbidità (ipertensione arteriosa ,epatopatia..). si rivolge

all'urologo per NICTURIA. Viene fatta l'EDR poi ecografia transrettale con biopsia e gli esami

ematochimici con il PSA.

DIAGNOSI PSA=80 ng/ml ;all’esame istologico abbiamo diagnosi di adenocarcinoma della prostata

con gleason di 8(prognosi più sfavorevole) .Già da queste prime informazioni possiamo pensare

che il pz ha metastasi a distanza perché il PSA è molto elevato e il gleason anche. ESAMI DI

STADIAZIONE Mentre la Tc total body mdc è negativa la scintigrafia ossea mostra lesioni

compatibili con metastasi

Tumore del rene

Il tumore del rene rispetto a quello della prostata è meno frequente e non rappresenta un “big

killer”perché è il settimo tumore per incidenza e soprattutto è il quattordicesimo per quanto

riguarda la mortalità per neoplasia; una volta era il secondo. Mentre il tumore alla prostata è un

problema che riguarda solamente il sesso maschile, il tumore del rene mostra un incidenza nei

maschi maggiore rispetto a quello delle femmine. Anche questo tumore non è un tumore della

gioventù, è un tumore che soprattutto tende ad interessare più gli uomini che le donne verso i 50-

60 anni. Come per tutti i tumori anche per quello del rene dobbiamo ricercare le cause e i fattori di

rischio. Sicuramente ci sono dei fattori genetici che intervengono nello sviluppo di questa

patologia, come per esempio il carcinoma renale ereditario papillare che è legato ad una

mutazione del gene che codifica per il recettore C. Questo recettore si trova sulla membrana

cellulare ed è mutato nel suo dominio tirosin-chinasico che quando è attivato media la

proliferazione e la transizione delle cellule in cellule mesenchimali ,per cui attiva la crescita

cellulare. Un’altra sindrome è quella di Von Hippel Lindau legata alla mutazione del gene VHL. Il

gene che è verosimilmente un oncosopressore quando è mutato induce un’iperattivazione del

fattore (non capisco come si chiama) che media ipossia e che, quando è molto presente, stimola

fattori proangiogenetici come IGF-receptor e il vascular endotelial grow factor, per cui c’è una

spinta alla crescita e all‘angiogenesi.

Ci sono poi dei fattori ambientali: il fumo di sigaretta per esempio, che chiaramente non è così

importante come nel carcinoma polmonare, ma comunque ha un ruolo nello sviluppo della

patologia. Altri fattori sono stile di vita: una dieta ricca di grassi e proteine rispetto ad una dieta

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sana povera di queste sostanze; l’ obesità perché abbiamo un’iperproduzione di Insulin-like Grow

Factor, anche questo considerato importante fattore di proliferazione.

Il tumore del rene dal punto di vista anatomico possiamo dire che origina sopratutto dalle cellule

tubulari del tubulo contorto prossimale. Ci sono della varianti istologiche che hanno una prognosi

differente. La maggior parte dei carcinomi renali ha questa istologia cioè carcinoma renale a

cellule chiare (che è l’istologia più frequente), poi abbiamo altre varianti come la variante papillare

e la variante cromofoba che rispetto a quello a cellule chiare hanno una prognosi migliore. Anche

in questo caso l’esame istologico ci dà una prima indicazione su quella che è la prognosi del

paziente.

I sintomi sono un molto variabili. Tenete presente che molte volte la patologia si manifesta già in

fase avanzata. Il primo sintomo può essere sicuramente ematuria: un paziente che viene da voi

con un ematuria imponente ha sicuramente un problema, dobbiamo fare una diagnosi

differenziale con calcoli renali se si accompagna all‘ematuria dolore e febbre; diagnosi

differenziale con problemi vescicali, anche il tumore alla vescica si accompagna ad ematuria. Però

poi molto spesso possiamo avere una massa palpabile quando ovviamente il paziente è molto

magro altrimenti è un po’ difficile palpare un tumore renale; e qualche paziente può presentare

varicocele acuto per trombosi della vena renale, un fatto che a 50-60 è molto poco frequente per

altre cause. Quello che ci capita vedere è sicuramente dei pazienti con dei sintomi generali non

specifici che non hanno nemmeno ematuria, che è già un segno che ci fa pensare al rene e alle vie

urinarie, ma hanno febbricola, febbre, astenia, anemia, perdita di peso. Quindi hanno quest’

insieme di sintomi aspecifici che ci fa ritardare la diagnosi perchè nessuno di questi sintomi è un

segno specifico della neoplasia renale come lo è invece l’ematuria. Anzi molto spesso in questi

pazienti sono evidenti anche sintomi di sindromi paraneolplastiche:

l’ ipercalcemia a causa della produzione da parte del tumore di una sostanza paratormone-like

ipertensione, perché c’è un aumentata produzione di EPO

sindrome di Stauffer, molto rara ma descritta, caratterizzata da epato-splenomegalia

accompagnata ad insufficienza renale.

La storia naturale della malattia dipende da quanto è grande il tumore e da quanto ha invaso le

strutture vicine. Il rene non è come la prostata che è circondata da molti organi e subito da segni

della sua infiltrazione. Il tumore del rene prima invade la capsula renale, la fascia del Gerota e da

qui si porta in circolo. Si può portare in circolo attraverso i vasi linfatici e raggiungere i linfonodi

regionali cioè i linfonodi ilari, poi successivamente quelli paraotici e cavali. Si possono formare

anche dei trombi neoplastici nella vena renale che possono attraverso la cava inf. arrivare fino

all’atrio dx. Infine le lesione metastatiche possono interessare organi distanti: principalmente

vengono colpiti i polmoni, il fegato e anche in questo caso possiamo avere delle lesione

scheletriche. Tenete presente che quando noi parliamo di metastasi, in tutti i tumori, parliamo di

probabilità, ma tutte le neoplasie sono capaci di dare metastasi anche nei posti più inattesi. Infatti

oltre alle metastasi che vediamo più di frequente, abbiamo visto metastasi a localizzazione

cutanea, cosa molto strana e inattesa.

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La diagnosi come si fa? L‘ecografia è la cosa più semplice, meno invasiva e costosa da fare ad un

paziente che mostra un quadro sospetto.Ha il vantaggio che ci può far distinguere le cisti semplici

renale che sono frequenti in età avanzata, dalle cisti più complicate che possono nascondere dei

tumori renali. Però diciamo che se l’ ecografia ci evidenzia la malattia e ci fa sospettare la malattia,

successivamente vengono chieste delle indagini di secondo livello, indagini più appropriate per

farci capire se la malattia è rimasta confinata al rene o se abbia interessato i linfonodi o se abbia

già dato metastasi a distanza. Il paziente con metastasi per esempio al polmone non va operato a

meno che non abbia un emorragia franca (questo è l unico caso in cui va operato). Chiediamo

quindi una TAC addome e pelvi e TAC torace per vedere l’eventuali metastasi e per definire la

malattia cioè vedere se ci sono linfonodi interessati a livello addominale. Chiediamo inoltre una

Risonanza dell’ addome e della pelvi che serve principalmente al chirurgo per vedere quanto la

malattia si sia estesa cioè vedere se il tumore ha infiltrato la capsula, il tessuto del Gerota o

linfonodi ilari e paraotici ecc..

Gli esami di laboratorio che vengono chiesti sono la calcemia perché molto spesso un’

ipercalcemia maligna può essere legata ad una sindrome paraneolplastica di origine renale.

Terminiamo la stadiazione chiedendo anche una scintigrafia perché dobbiamo verificare che tutti i

siti metastatici siano puliti dalla malattia.

La stadi azione viene fatta utilizzando il TMN che può essere ricavato radiologicamente chiedendo

esami come TAC, RMN ecc.. per stabilire caratteristiche del tumore, linfonodi e metastasi. Un altro

modo è invece quello di fare un TNM applicato dopo l ‘intervento chirurgico, cioè il TNM

patologico e in questo caso per ogni tumore è diverso. Nel caso del rene T1 parliamo di tumore

confinato al rene più piccoli di 4cm o più grandi ma sempre inferiori a 7cm; T2 superiore a 7cm ma

sempre confinato al rene; T3 tumore che ha invaso il surrene, T3a è un tumore che invade la

porzione perineale o che interessa la porzione cavale al di sotto del diaframma o fino all’atrio dx

(emboli neoplastici); T4 che ha invaso oltre la fascia del Gerota.Invece per quanto riguarda l’ N

abbiamo: N1 il tumore ha interessato i linfonodi regionali; N2 più linfonodi regionali. E poi

abbiamo la definizione di M che sono le metastasi a distanza che possono essere localizzate in

qualsiasi organo a distanza soprattutto polmone osso e fegato.

Una volta che abbiamo fatto diagnosi e abbiamo stabilito le caratteristiche del tumore e verificato

che il tumore non abbia dato metastasi a distanza possiamo fare l’ intervento chirurgico “la

nefrectomia radicale allargata ai linfonodi logoregionali” . Molto spesso si può fare anche una

“nefrectomia parziale”evitando la dialisi permanente al paziente quando il tumore è minore di

5cm. Nel caso ci siano emboli metastatici si può fare un’asportazione di un frammento cavale.

Soltanto in un caso al paziente metastatico viene fatta la nefrectomia totale e cioè quando ha

problemi di emorragia importanti. Quando invece la malattia è avanzata si possono fare vari

trattamenti con vari farmaci. Ricordiamo che i tumori renali hanno un alto grado di

vascolarizzazione e quindi risultano efficaci farmaci a bersaglio molecolare che inibiscono l’

angiogenesi; l’ immunoterapia ha dato alcuni vantaggi. Nei tumori renali non vengono usati i

chemioterapici, che non hanno dato risultati importanti, ma i farmaci a bersaglio molecolare come

il Sorafenib, l’ Sunitinib e il Bevacizumab che hanno tutti un bersaglio angiogenico. Infatti il

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Bevacizumab è un anticorpo monoclonale diretto contro il VEGF; il Sunitinib anche esso inibisce i

recettori per la crescita vascolare ma ha anche altri target; il Sorafenib oltre ad inibire l

angiogenesi perché blocca i recettori per VEGF e per il TGF (??), ma ha anche altri target perché

blocca C-raf, C-bif(???), B-raf che sono invece delle proteine coinvolte nella crescita cellulare.

Quindi qua abbiamo un doppio effetto antiangiogenico e antiproliferativo. Esistono altri farmaci

(due farmaci ???) che inibiscono il pathway di m-Tor coinvolto sempre nella proliferazione

cellulare.

Non esistono per quanto riguarda il rene dei programmi di screening e il pz con pregressa diagnosi

di tumore renale deve essere sottoposto a dei programmi di follow up con frequenza semestrale

inizialmente e poi con frequenza annuale degli esami come ecografia, TAC, esami del sangue e a

differenza del tumore alla prostata non esiste nessun marcatore specifico, abbiamo tutti

mancatori aspecifici.

Sul libro troverete anche la classificazione di Mozen(???) per quanto i fattori prognostici che non

spiego e la capirete dopo la lezione generale sui fattori prognostici tanto sul libro la trovate.

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19/3/2014ONCOLOGIA prof. Ciardiello

Farmaci antineoplasticiChe cos’è una neoplasia? È una malattia su base genetica in cui una serie di geni alterati che hanno un ruolo

chiave nella proliferazione cellulare, nell’invasione, nel differenziamento cellulare quando sono alterati ed in nu-mero signi"cativo, rendono una cellula incapace di rispondere agli stimoli che normalmente ne regolano l’attività, quindi una crescita disregolata.

La terapia medica del cancro si basa su gruppi di farmaci che sono riconducibili a 4 classi funzionalmente di-verse:

1. Farmaci chemioterapici o citotossici cioè farmaci che agiscono determinando la morte cellulare, quindi causando nella gran parte dei casi apoptosi ed esplicando l’effetto terapeutico distruggendo le cellule neoplastiche. Costituiscono ancora oggi i farmaci più spesso utilizzati nelle neoplasie umane, sia ematologiche che solide dell’adulto;

2. Farmaci per terapia ormonale o ormonoterapia o terapia endocrina dei tumori che è basata sull’uso di sostanze ormonali o anti-ormonali che interferiscono con la proliferazione di neoplasie che da un punto di vista etiopatogenetico e del comportamento sono ormono-sensibili e ormono-dipendenti, quindi la loro terapia è di tipo medico utilizzabile solo in alcuni tipi di neoplasie. Esempio di terapia ormonale efficace: cancro della prostata e cancro della mammella;

3. Farmaci per immunoterapia o terapia immunologica delle neoplasie: sappiamo certamente che il nostro S.I. costituisce un ottimo baluardo di difesa su tutto quello che è estraneo ad ogni "siologica reazione e quindi attua dei meccanismi di difesa nei confronti di patogeni per esempio ma viene atti-vato anche per proteggere da alterazioni funzionali non normali, quindi patologiche del nostro orga-nismo. Molto spesso la sorveglianza del S.I. permette di evitare lo sviluppo di neoplasie del nostro organismo perché meccanismi immunitari possono distinguere cellule che stanno per diventare neo-plastiche o cloni inizialmente neoplastici. Se facciamo una terapia che attiva o potenzia o permette un migliore funzionamento del S.I. potremmo avere un efficace trattamento anti-neoplastico. Fino a qualche anno fa questa via non era molto efficace sia perché si usavano sostanze ad ampio spettro di attività del S.I. ma poco speci"che e selettive (interferoni, IL-2 per attivare il S.I. di fronte ai tumori) si usavano per lo più per tumori del rene e melanoma ma in ogni caso insoddisfacenti.Si è pensato poi ad utilizzare i cosiddetti vaccini antitumorali partendo dal principio che alcuni tumo-ri possono esprimere preferenzialmente delle molecole alterate, ad esempio un oncogene alterato co-me proteina o degli antigeni più speci"ci oppure più selettivi o più espressi nel tumore. Prelevando quindi una porzione di antigene e ottenere una risposta immunitaria utilizzando questo frammento come fonte di vaccinazione. Anche come prevenzione primaria si possono usare vaccini che normal-mente utilizziamo per preparare una R.I. prima che l’agente patogeno venga a contatto con noi. È risultato efficace in almeno due esempi: nella vaccinazione contro il virus dell’epatite B e più recen-temente contro alcuni ceppi di papillomavirus che sono maggiormente responsabili allo sviluppo del cancro alla cervice uterina. Questo però è un meccanismo di tipo attivo-preventivo rispetto alla vacci-noterapia anti-tumorale propriamente detta che si inizia alla comparsa del tumore.

4. Farmaci a bersaglio molecolare chiamati anche farmaci intelligenti, rappresentano una via più mo-derna, entrati nella corrente pratica clinica. Selettivamente interferiscono, bloccandone la funzione, con molecole che sono attivate in quel determinato tumore, con quella particolare via metabolica. Gli esempi più utili sono i farmaci contro alcuni fattori di crescita come l’angiogenesi indotta da tumore.

Dunque la terapia medica può avvalersi di 4 vie di intervento, con obiettivi diversi, differenziandosi da una

terapia loco-regionale (la chirurgia è quella per eccellenza seguita dalla radioterapia). La terapia medica è prepon-derante quando la malattia diventa sistemica e metastatica. Essa può essere usata secondo tre modalità:

• modalità terapeutica precauzionale, terapia adiuvante: a seguito di intervento chirurgico e/o radioterapia ab-biamo eradicato la malattia loco-regionale (es: tumore mammario primitivo);

• modalità terapeutica di supporto, adiuvante: in presenza di indicazioni prognostiche che ci fanno pensare ad una probabilità di micro-metastasizzazione a distanza, dopo l’intervento regionale si effettua una terapia me-dica sistemica per un certo tempo che serve a consolidare la guarigione della paziente (in questo caso);

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• modalità terapeutica preparatoria, neoadiuvante: per ridurre le dimensioni della massa tumorale prima di intervenire chirurgicamente con un intervento meno invasivo o per lo meno per migliorare la preservazione dell’organo.

FARMACI CITOTOSSICI

Il termine chemioterapia è storico, è meglio de"nirli citotossici proprio per l’uccisione per apoptosi della cellula tumorale. Questi farmaci agiscono in attiva proliferazione cellulare, in fase S G2 M perché agiscono su meccani-smi chiave. Il fatto che questi agiscano in proliferazione cellulare costituisce da una parte un elemento di forza e di efficacia dei farmaci citotossici ma anche di maneggevolezza e potenziale tossicità perché sono farmaci estre-mamente speci"ci per le cellule in attiva proliferazione ma non sono selettivi per le cellule neoplastiche in pro-gressione. Essi sono ugualmente attivi in qualsiasi altra cellula in proliferazione del nostro corpo come le cellule della mucosa gastroenterica, quelle del bulbo capillifero, della cute ma soprattutto i precursori del midollo osseo. Essi sono dunque dotati di notevole potenza ma potenziale e rilevante tossicità.

Scoperti per caso, durante sperimentazioni avvenute durante la seconda guerra mondiale da parte dell’esercito degli Stati Uniti che stava sviluppando armi chimiche, il gas tossico era niprite che non era altro che il precursore di tutti i farmaci citotossici, una classe chiamata agenti alchilanti, la mostarda azotata. A seguito di un’esplosione su una nave militare molti marinai risultarono contaminati e cominciarono ad avere alterazioni "no ad una apla-sia midollare signi"cativa, effetti gastroenterici importanti, dunque si capì che queste sostanze potessero uccidere cellule in proliferazione. Alla "ne degli anni ’40 alcuni farmacologi come Goodman e Gilman assieme ad oncolo-gi a New York al Memorial Hospital dimostrarono per la prima volta che ad alcuni dei pazienti affetti da linfoma non-Hodgkin che la somministrazione per un certo tempo di una mostarda azotata determinava una regressione tumorale (in questo caso una regressione della massa linfonodale). Da questo iniziarono gli studi che portarono alla ricerca di farmaci che avessero anche un’efficacia terapeutica.

Se le cellule tumorali proliferassero continuamente e incondizionatamente, da una cellula con fenotipo tumorale si avrebbe un aumento lineare nel tempo, quindi direttamente proporzionale al tempo, simile alla crescita dei batteri. Se questo fosse possibile la stragrande maggioranza delle cellule tumorali sarebbe sensibile ai farmaci citotossici.

La realtà non è così perché questo avviene in tempi molto brevi, in una fase iniziale, poi da progressione lineare si arriva ad un plateau. Questo gra"co descrive molto meglio la curva di crescita di un tumore nel-l’organismo umano. Abbiamo un momento in cui la gran parte delle cellule tumorali sono in attiva prolife-razione, quasi il 100% delle cellule all’inizio quando abbiamo poche cellule quindi quando i nutrienti e i vasi sono sufficienti a dare sostegno alla proliferazione continua, poi succede che la cellula va incontro a fenomeni di ipossia, quindi deve essere attivato un sistema per produrre vasi che portano nutrienti e ossigeno. Una massa tumorale diventando grande all’interno può essere po-co vascolarizzata, può andare incontro a fenomeni di necrosi, un certo numero di cellule va comunque incontro a differenziazione terminale per cui soltanto una componente può continuare a proliferare, quindi succede che può esserci un equilibrio tra cellule tumorali in quiescenza, cellule che muoiono e cellule che proliferano per cui se idealmente nel caso A avessimo avuto il 100% delle cellule che sono in attivo, gran parte di loro sono in fase S G2 o M, quindi gran parte di loro sono suscettibili e possono essere uccise da un farmaco nel tempo. Nel caso B in-vece la quantità di cellule in attiva proliferazione è estremamente variabile. Un primo problema intrinseco all’effi-cacia di una terapia con farmaci citotossici è la popolazione bersaglio potenzialmente sensibile e maggiore è la massa tumorale, maggiore è il numero di metastasi, più è lunga la storia clinica maggiore è la probabilità che si possa instaurare un equilibrio sulla parte destra della curva che si chiama Modello di Gompertz. Se noi usassimo un far-maco efficace esso risulterebbe tale soltanto sul 5, 10 o 30% dipende dallo stato di crescita del tumore con effetto dunque minimo sulla terapia. Da qui deriva un primo importante messaggio: è impossibile che con una singola

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somministrazione del farmaco citotossico abbiamo un effetto terapeutico importante e duraturo, perciò la terapia deve essere per forza prolungata nel tempo. Possiamo però fare una terapia con un farmaco citotossico per un lungo tempo? No, ci sarebbero effetti collaterali importanti, allora noi siamo costretti a fare un equilibrio tra effetto tera-peutico e tossicità e dunque possiamo fare una terapia inter-mittente o ciclica quindi nella realtà noi faremo una terapia di questo tipo. Mettiamo che cominciamo la terapia quando le cellule tumorali sono a t0 ipotizzando un 20% di cellule sensibili a questo farmaco trattandole col farmaco A. Però non possiamo ripetere il giorno dopo il trattamento quindi succede in generale che una quota di cellule tenderà a cresce-re. Poi si somministra una nuova dose e se ne uccide un altro 20%. Quindi poi se fate periodicamente queste operazioni per un certo numero di volte dovreste trovarvi con il numero di cellule che si riduce sempre di più e o si arriva ad un punto in cui non si hanno più cellule tumorali avendo quindi la guarigione totale o il numero di cellule responsive a quel farmaco si azzera ma nel frattempo abbiamo altre cellule che proliferano, quindi si riotterrà una curva crescente, lineare o esponenziale.

Problemi derivanti dall’uso dei farmaci citotossici: sono molto speci"ci ma poco selettivi per le cellule tumora-li e pertanto difficili da trattare, quindi si continuano ad usare dosaggi tollerati dall’organismo per minimizzare gli effetto collaterali e utilizzare il farmaco in maniera ciclica per dare il tempo all’organismo di riprendersi; altro problema è quello della resistenza al farmaco da parte delle stesse cellule tumorali in quanto è intrinseca la capaci-tà di accumulare mutazioni dato che non ha più i freni inibitori di controllo che riparano il DNA alterato e tende col tempo a fare più mutazioni che possono comparire anche in assenza di trattamento. Queste mutazioni posso-no essere letali e quindi la cellula tumorale muore, inin$uenti oppure mutazioni che danno un vantaggio selettivo (esempio: la cellula con"nata nell’epitelio ghiandolare adesso è capace di digerire la matrice extracellulare e me-diante un vaso linfatico/ematico va a metastatizzare a distanza). Pertanto le cellule tumorali ad un tempo diverso da t0 possono essere considerate una miscela di clone A, B, C, D ecc ecc che hanno una serie di mutazioni base più mutazioni accumulate, diverse per ogni clone. Ciò si è sempre ipotizzato e saputo ma solo recentemente è stato dimostrato con recenti metodiche di genetica e diagnostica molecolare con un lavoro uscito sul NEJM un paio di anni fa in cui un gruppo di studiosi su 5-6 pazienti affetti da cancro al rene ha prelevato in varie aree del tumore primitivo del rene e varie metastasi in organi diversi ed mediante un’analisi genetica so"sticata che preve-deva il sequenziamento di centinaia di geni hanno scoperto che esisteva certamente un clone iniziale ma da que-sto clone iniziale anche all’interno della massa primitiva del rene c’erano dei sottocloni tanto che addirittura si poteva fare un albero genealogico con una derivazione ogni volta che avveniva una mutazione. Questo signi"ca purtroppo che quando andiamo a trattare un paziente con una neoplasia non andiamo a trattare una malattia omogenea.

L’esposizione a farmaci di un solo tipo uccide sì le cellule di quel tipo ma espone gli altri cloni a vantaggio selettivo di tipo darwiniano che favorisce la crescita, un po’ come succede con l’antibioticoterapia verso i batteri che è concettualmente la stessa cosa seppur con meccanismi molto diversi chiaramente.

Se facciamo una terapia ciclica del tipo A -> A -> A -> A -> A questa potrebbe essere efficace per un certo tempo ma poi diventa inefficace. Come possiamo riuscire a renderlo più efficace? Alternanza di diversi farmaci non cross-resistenti cioè con meccanismo di azione diverso; altre modalità terapeutiche di modalità non citotossi-che da usare in alternanza con la chemioterapia; aumentare la dose è stato fatto in alcuni casi ed è molto comples-so in quanto aumentano anche il rischio e la tossicità sui tessuti normali; la via più semplice e più utilizzata è quella che prevede una polichemioterapia sequenziale che empiricamente è quella che può offrirci maggiore pro-babilità di successo. Presupposti pratici: usare farmaci non cross-resistenti ma che hanno una minima possibilità di incrementare la tossicità l’un dell’altro ma per arrivare a questo purtroppo si deve arrivare sempre ad un com-promesso terapeutico cioè le dosi dei diversi farmaci non sarà mai il 100% per tutti in quanto si ampli"cherebbe il danno ai tessuti normali, diventando inaccettabili (esempio: tossicità midollare, ciò che gran parte dei farmaci hanno) per questo spesso si “ricicla” il trattamento almeno 2-3 settimane dopo.

Dal punto di vista statistico i trattamenti iniziali sono sempre quelli più efficaci! Cioè quella che noi chiamia-mo prima linea di trattamento.

Potenzialmente possiamo avere 3 situazioni: immaginiamo che una donna, paziente metastatico, che ha 5 me-tastasi epatiche di certe dimensioni, 2 metastasi al polmone dx, 2 al polmone sx e metastasi ossee. Fate una terapia con alcuni farmaci citotossici, dopo un certo numero di cicli pari a circa 2-3 mesi andremo a ripetere gli esami di laboratorio, di diagnostica, se si trovano le metastasi di ridotte dimensioni allora signi"ca che la donna ha avuto

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una risposta parziale ma non signi"ca che il tumore sta guarendo ma che noi stiamo controllando la malattia. Se andassimo a fare una TAC dopo 6 cicli non vediamo più nessuna lesione questo non signi"ca che avremo quasi mai guarigione completa ma risposta completa perché le dimensioni della metastasi possono scendere al di sotto del potere di risoluzione della TAC. Se invece avremo una comparsa di una nuova lesione o ingrandimento di precedenti lesioni (esempio: alla signora compaiono linfonodi laterocervicali che prima non aveva oppure una delle lesioni epatiche che prima era 2 cm ø ora è diventata 7 cm ø) si avrà progressione della malattia e fallimento terapeutico. È proprio l’eterogeneità tumorale a volte può farci trovare in situazioni in cui delle 5 metastasi epati-che 3 sono scomparse alla TAC, 2 sono diventate più grandi e al livello polmonare si sono ridotte moltissimo. Questo perché avendo il tumore la caratteristica di adattarsi geneticamente molto rapidamente perché può fare tutte le mutazioni che vuole con meccanismi di selezione darwiniana si adatta all’ambiente e l’ambiente è l’ospite e il trattamento che gli fate, per questo è molto più semplice far guarire un paziente con tumore benigno localiz-zato e mediante un intervento chirurgico vengono asportate tutte le cellule maligne tumorali ma nel caso di un tumore maligno non sempre l’apparente guarigione loco-regionale corrisponde ad una guarigione de"nitiva per-ché c’è il rischio che il tumore abbia già dato micrometastasi per via ematica/linfatica ed è il motivo per cui la terapia medica anche nelle prime fasi è spesso indispensabile. Per quanto riguarda la serie rossa i globuli rossi sono quelli che hanno l’emivita più lunga per cui la tossicità si manifesta solo dopo un lungo periodo, le piastrine sono in attiva proliferazione sebbene variabile; per la serie bianca invece i granulociti neutro"li, la cui emivita è di 7-10 giorni allo stadio maturo, sono gli elementi che hanno turn-over più rapido, quindi signi"ca che ogni 7-10 giorni il 50% dei nostri neutro"li viene ripopolato e quindi la componente staminale committed che sta per dare attiva proliferazione sarà quella che riceverà maggior danno citotossico dei farmaci tanto che dopo la somministrazione abbiamo il punto più basso della concentrazione dei neutro"li tra i 7 e i 14 giorni, dipende dalla dose, quindi è per questo motivo che noi rifaremo un secondo ciclo dopo 3 settimane permettendo la ripopolazione dei neutro-"li. Rappresentando questi la prima difesa aspeci"ca contro gli antigeni esterni, quindi la più importante è molto probabile che in questo intervallo il paziente subisca infezioni importanti anche da germi opportunisti. Fare dun-que un trattamento ciclico permette alle difese alla loro funzione accettabile.

Se usiamo per esempio farmaci A, B e C assieme potrebbero creare una severa neutropenia e potrebbe anche non esserci un recupero funzionale, questo è il motivo per cui si riducono le dosi. Gran parte degli schemi per la terapia sono nati da regole empiriche perché non possiamo sapere le percentuali di ogni clone tumorale diverso. Anche la radioterapia dà resistenza con danno tossico diretto sul DNA anche se i meccanismi di resistenza alla terapia possono essere diversi (attivazione pathways di riparo del DNA da radiazioni ionizzanti) ma il concetto può essere considerato lo stesso.

I farmaci ad azione citotossica sono quasi sempre per somministrazione endovenosa, con la siringa o più spes-so diluiti e somministrati in maniera cronomodulata per un certo tempo, alcuni farmaci sono somministrabili anche come soluzione orale. Quando parliamo quindi di ciclo chemioterapico parliamo sempre di infusione en-dovena. Come stabiliamo la dose? Ciò deriva da un’estesa sperimentazione di fase 3 che hanno permesso di stabi-lire quale sia la massima dose tossica, quella attiva e quella efficace. Si è pensato quindi di non dare un dosaggio uguale a tutti gli individui né basarsi semplicemente sul peso corporeo ma di utilizzare un parametro che è la su-per!cie corporea. In base ad un algoritmo molto semplice che è possibile fare a mano si può calcolare la super"cie corporea partendo da alcuni parametri molto banali come il sesso, l’altezza e il peso, pensate bastano 50 mg in più o in meno ad un paziente che ha una super"cie corporea diversa a determinare più o meno gli effetti terapeu-tici o la comparsa o meno di effetti tossici.

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CATEGORIE E GRUPPI DI FARMACI CITOTOSSICI

Cosa sono le mostarde azotate? Sono agenti alchilanti, cioè sostanze che in maniera covalente determinano sostituzione di un gruppo alchilico in genere -CH3 su una base azotata del DNA, più frequentemente sull’azoto 7 della guanina. Quando succede un’alchilazione del DNA succede che se ne altera la struttura quindi se siamo in fase S abbiamo un errore di lettura e di accoppiamento, per cui la cellula cerca ma non riesce a ripararlo, fram-menta il DNA, va in apoptosi e muore. Uccidono in fase S determinando quindi errori irrecuperabili al DNA. Ovviamente se la cellula riesce a riparare, prolifera. Questi farmaci sono i primi ad aver avuto un’efficacia terapeu-tica soprattutto per le malattie ematologiche e poi via via per i tumori solidi.

Farmaci chiave: • ciclofosfamide può essere somministrata anche ad alte dosi e anche per os perché assorbita in maniera

abbastanza adeguata dal tratto gastroenterico, con questa caratteristica è uno dei pochi farmaci citotossici che può essere somministrato anche oralmente. Nella pratica clinica però viene usata endovena. Utilizzata in numerose neoplasie ematologiche (linfomi Hodgkin e non-Hodgkin) e in numerosi tumori solidi (mammella, ovaio). Effetti collaterali in genere comuni ad altri farmaci citotossici tranne che per eccezioni tra cui: 1. Alopecia. Caduta dei capelli essendo il bulbo capillifero una zona ricca di cellule in attiva prolifera-

zione. Effetto collaterale più legato nell’immaginario comune anche cinematogra"co. Completa-mente reversibile! Ciò è importante quando facciamo la terapia adiuvante nel cancro della mammel-la perché per la donna è estremamente rassicurante. Ci sono stati molti tentativi per prevenire l’alo-pecia ma c’è forte variabilità individuale;

2. Tossicità midollare. Effetto collaterale correlato alla tossicità ed è dose limitante, maggiore implica-zione sulle complicanze possibili e sulla gestione dell’ulteriore terapia. È cumulativa, non possiamo certamente dire che sia completamente reversibile, se la terapia si protrae a lungo la ripresa midollare è certamente minore;

3. Nausea e vomito. Nella quasi totalità dei casi con trattamento di farmaci citotossici, entro alcuni mi-nuti o ore dalla somministrazione del farmaco. Si usa fare una prevenzione utilizzando farmaci anti-emetici e quelli più attivi sono gli inibitori serotoninergici perché bloccano i recettori H3 in maniera molto efficace;

4. Diarrea per cause chimiche.

Questi effetti collaterali sono condivisi anche da altri farmaci citotossici. Ogni farmaco può avere tossi-cità d’organo dipendente dal proprio meccanismo d’azione o di quello dei suoi metaboliti: ciclofosfamide e il suo derivato ifosfamide, molto utilizzato nella terapia dei sarcomi, sono metabolizzati nel fegato ed escreti dalle vie renali e questi metaboliti sono particolarmente irritanti per la mucosa vescicale per cui quando si somministrano questi farmaci, generalmente ad alte dosi, dobbiamo avere adeguata idratazione del pazien-te per permettergli una diuresi rapida e forzata in modo che i metaboliti potenzialmente tossici stiano in vescica meno tempo possibile, altrimenti si potrà determinare una cistite su base chimica o, nei casi più gravi, anche diventare una cistite emorragica.

Dunque per la ciclofosfamide si usa indurre la diuresi, per l’ifosfamide si usa un antidoto inerte che costi-tuisce quasi un "lm protettivo chiamato mesna.

Esistono tantissimi altri agenti alchilanti che non tratteremo qui. Possiamo calcolare anche l’intensità di dose nel tempo: se noi facciamo A di 100 ogni 4 settimane ci ritroviamo con una dose settimanale di 25, se invece facciamo A ogni 4 settimane seguito da B ogni 4 settimane avremo 12,5 settimanale di A e 12,5 settimanale di B. In alcuni casi si è pensato nei tumori ematologici che l’intensità di farmaco considerando la quantità di farmaco nell’intervallo di tempo (per esempio ogni settimana) è un valore importante per l’efficacia terapeutica. Ciò è relativamente valido per tumori ad alta frazione di crescita in cui si usano più farmaci per cercare la guarigione, questo però non risulta così importante per alcuni tumori solidi a bassa frazione di crescita.

Altre domande? No? Ok, siete pronti per il pranzo!

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FARMACI CITOTOSSICI

Tutti i farmaci citotossici con modi o meccanismi diversi hanno bersaglio la sintesi del DNA o meccanismi inerenti la replicazione o proliferazione cellulare. I citotossici non sono selettivi per le cellule tumorali ma semplicemente sono attivi su cellule in fase S e M del ciclo cellulare, creando un danno strutturale al DNA.

Altri farmaci che creano danni a livello del DNA sono i derivati del platino.

Si chiamano cosi perchè contengono un atomo di platino nella loro struttura e hanno un meccanismo d’azione misto: sono alchilanti e intercalanti, si legano in varie zone del DNA

intercalandosi tra le basi azotate e a volte inducendo anche un’alchilazione.

Cisplatino

Inorganico, molto attivo nel trattamento di parecchie neoplasie dell’adulto ma qualche volta anche

nel caso di linfomi o neoplasie ematologiche. Più frequentemente: ovaio, polmone (microcitoma e tumori non a piccole cellule), tumori dell’esofago, dello stomaco, della vescica e tumori a cellule germinali del testicolo.

Pur avendo molti effetti collaterali, entra anche in schemi di polichemioterapia perchè molto efficace nel contrastare le suddette neoplasie.

Effetti collaterali: tossicità midollare: neutropenia, anemia, piastrinopenia; oltre a questa, ha anche potenziale nefrotossicità, perchè essendo escreto nel rene, se il flusso ematico renale non è elevato, ha alta probabilità di precipitare nel tubulo renale e causare danno chimico diretto o necrosi tubulare acuta per poi portare ad insufficienza renale acuta o cronica. La somministrazione è molto delicata: quando si fa il bolo endovena di cisplatino, si deve eseguire una buona idratazione del paziente, anche un litro di soluzione fisiologica o salina, dopo, l’infusione di

cisplatino e successivamente ancora idratazione con un altro litro di soluzione fisiologica o salina per poi concludendo con un diuretico dell’ansa come la furosemide. In questo modo tutto il cisplatino in eccesso viene rapidamente eliminato senza causare alcun danno renale. Va da sé che in pazienti con problemi renali, si deve fare la terapia attentamente altrimenti nel caso di una filtrazione glomerulare eccessivamente bassa, tale paziente non risulta essere un buon candidato per il trattamento con cisplatino. Per quanto sia un farmaco fondamentale, ha anche una forte neurotossicità di tipo sensoriale. Dal punto di vista clinico ha una riduzione di sensibilità alle mani, accentuata dal caldo o dal freddo, tuttavia si tratta di un fenomeno reversibile. Possibili concause possono essere un’ arteriopatia periferica coadiuvata da ipertensione e problemi di vascolarizzazione. Di solito è reversibile ma in un 5-10% dei pazienti dopo l’interruzione della terapia, resta come effetto collaterale anche per più di 6 mesi. Nell’ambito della neurotossicità, in pazienti anziani soprattutto, può risultare anche ototossico. In qualche caso, può portare anche fino alla sordità se agisce su un substrato già patologico. In ultimo, ma non per importanza, l’induzione di nausea e vomitosia precoce che ritardata; va fatta prima una buona medicazione con

anti-emetici serotoninergici e cortisonici.

Carboplatino

Per cercare di ovviare a tutti questi effetti collaterali si è cercato di sviluppare un farmaco meno tossico ma efficace allo stesso modo (o quasi) introducendo un analogo: il carboplatino.

Si tratta di un farmaco di seconda generazione. A dosi efficaci può essere utilizzato al posto del cisplatino in tutte le neoplasie in cui quest’ultimo è attivo. Si tratta di un farmaco estremamente

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efficace. Certamente non c’è bisogno di idratare il paziente, è emetizzante ma non come il cistplatino. Tuttavia è molto più tossico sul midollo specialmente per quanto riguarda le piastrine e globuli rossi. Ha minore neurotossicità e soprattutto non ha tossicità renale diretta, ma non si deve sottovalutare tale cosa in quanto il carboplatino è escreto esclusivamente per via renale per cui se in pazienti con riduzione della funzionalità glomerulare viene somministrato tale farmaco, a causa della meggiore permanenza in circolo, si manifesterà sicuramente una maggiore tossicità midollare. Come si può ovviare a tale problema? Per tutti i citotossici, il dosaggio viene calcolato in base alla superficie corporea, ma in questo caso oltre a tale parametro, è tenuta in considerazione anche la clearance della creatinina, in modo tale da avere una determinata AUC per rendere efficace l’azione farmacologica. Carboplatrino può sostituire il cisplatino ma molta attenzione.

Oxaliplatino

Quello che si è cercato di fare è stato trovare un farmaco con una buona maneggevolezza ma anche una buona attività ed efficacia in altre neoplasie in cui i precedenti due non hanno ampio utilizzo, da qui l’oxaliplatino.

Molto simile agli altri due, ma con alcune peculiarità. Prima di tutto anch’esso viene somministrato

endovena, in base alla superficie corporea. Non risulta essere nefrotossico. Per quanto riguarda lo spettro d’azione, non sostituisce i primi 2 analoghi ma viene utilizzato in: tumore del colon retto, sia

in terapia adiuvante che neoadiuvante, tumore del pancreas, tumore delle vie biliari.

Effetti collaterali: grosso modo gli stessi dei precedenti, ma soprattutto neurotossicità sensoriale periferica, che può diventare davvero fastidiosa interferendo con la qualità della vita dei pazienti, soprattutto se si protrae per lunghi periodi.

INIBITORI DELLE TOPOISOMERASI

Un altro meccanismo farmacologico usato in terapia anti - neoplastiche è quello che agisce sugli enzimi coinvolti nella strutturazione del DNA: da qui i farmaci attivi sulle topoisomerasi.

Cosa sono le topoisomersai? Sono enzimi fondamentali che tagliano e ricuciono segmenti di DNA in modo da srotolare e riavvolgere le 2 eliche. Le topoisomerasi 1 tagliano un filamento per volta, invece le topoisomerasi 2 tagliano insieme entrambe le eliche del DNA.

Si è scoperto che farmaci attivi su questi enzimi possono essere utilizzati in terapia anti - tumorale, perché gli inibitori delle topoisomerasi 1 e 2 si legano covalentemente all’enzima e come se lo

congelassero nella sua fase di clivaggio, facendolo funzionare in fase di taglio ma non nella fase di ricucitura.

Inibitori della topoisomerasi 2

Gran parte di questi farmaci derivano da sostanze naturali, per esempio tra gli inibitori della topoisomerasi 2 c’è la doxorubicina (o adriamicina) (unico farmaco anti neoplastico scoperto in italia negli anni ’60) utilizzata in leucemie acute, linfomi, tumori della mammella, tumori dell’ovaio e

sarcomi. Si tratta di un farmaco citotossico, appartenente alla classe delle antracicline, e funziona come inibitore della topoisomerasi 2.

Effetti collaterali: cardiotossicità, provocando morte dei cardiomiociti, per cui prima di trattare un qualsiasi paziente deve essere eseguito un buon studio della funzione cardiaca. In particolare la FE del ventricolo sinistro deve essere superiore al 50%. La tossicità potrebbe essere anche

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cumulativa, quindi aumentando la dose aumenta il rischio di tossicità cardiaca, ma si può incrementarla fino alla dose cumulativa di 500-550 mg/m2 di superficie corporea.

Epidoxorubicina

Alcuni analoghi successivi sono stati sviluppati per avere una minore tossicità cardiaca essendo comunque efficaci farmacologicamente, quindi epidoxorubicina. In gran parte di tumori è sostituibile alla doxorubicina.

Una nuova strategia è stata studiata dalla farmacologia, data dall’utilizzazione di liposomi, che sono dei sacchetti attraverso i quali si puo formire un farmaco in maniera efficiace. Nel caso della doxorubicina, se somministrata con liposomi, risulta essere meno cardiotossica, probabilmente perché il farmaco si concentra molto meglio localmente piuttosto che andare a creare danni a livello cardiaco. Tuttavia queste preparazioni sono molto più costose rispetto alla normale formulazione della doxorubicina.

Etoposide

Classico inibitore della topoisomoreasi 2, utilizzato nel trattameno del microcitoma. Ha purtroppo tutte le tossicità anche se ovviamente in misura minore, tuttavia spicca la mielotossicità.

Inibitori della toposiomerasi 1

Sono farmaci derivati dalla camptotecina, il cui capostipite è dato dall’irinotecano che viene utilizzato soprattutto nel trattamento dei tumori dello stomaco, del colon retto, del pancreas e delle vie biliari. Si tratta di un induttore della diarrea, per danno diretto della mucosa intestinale (effetto un po’ comune di tutti i farmaci anti – neoplastici) ed in maniera indiretta attraverso la stimolazione riflessa vagale, anche dopo pochi minuti dopo somministrazione.

Topotecano

Inibitore della topoisomerasi 1, utilizzato nel trattamento del tumore dell’ovaio chemioresistente e del microcitoma polmonare. Si tratta di un farmaco in disuso perchè estremamente mielotossico.

ANTIMETABOLITI (METABOLITI FRAUDOLENTI)

Si tratta di farmaci che o inibiscono enzimi chiave per la sintesi dei precursori degli acidi nucleici che faranno parte del DNA o sono farmaci che si sostituiscono specificamente ai precursori del DNA in modo tale da indurne mal funzionamento. Vengono adoperati in tumori ematologici e in quelli solidi. In particolar modo devono essere considerati il metotrexate e il 5-fluorouracile.

Metotrexate

Si tratta di un farmaco molto vecchio ormai che mima la tetraidrofolato reduttasi, blaccando la sintesi degli acidi nucleici. Ormai è utilizzato solo per il trattamento dei sarcomi e di alcune forme del cancro del polmone.

5-fluorouracile

Appartiene alla classe dei metaboliti fraudolenti delle pirimidine, è un farmaco estremamente utile nel trattamento del cancro della mammella ma soprattutto nella terapia di neoplasie del tratto gastrointestinale nelle quali viene somministrato quasi sempre in associazione con altri farmaci. Si

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presta molto bene alla somministrazione a lungo termine ed essendo poco mielotossico può essere facilmente associato ad altri farmaci con spiccata tossicità midollare. Viene somministrato con bolo endovena o in infusione prolungata e continua. Più è esposta la cellula tumorale a tale farmaco, maggiore probabilità c’è di andare a colpire la cellula neoplastica.

Capecitabina

Esiste tuttavia una formulazione analoga, in realtà profarmaco del 5-fluorouracile somministrabile per os, rappresentata dalla capecitabina. Teoricamente presenta innumerevoli vantaggi poiché evitando l’infusione o il bolo endovena, si riducono i suoi effetti tossici. In genere viene somministrata continuamente per os per 2 settimane. Tutte le volte che dovremmo usare 5-fluorouracile, possiamo usare la capecitabina. Trattandosi di un profarmaco, dopo il primo passaggio epatico, viene creato un metabolita intermedio che entra prima in circolo e poi nelle cellule, dove verrà trasformato in 5-fluororuracile ad opera della timidina-fosforilasi. Nella cellula tumorale ciò avviene più frequentemente perchè nelle cellule neoplastiche c’è una maggiore espressione di tale enzima. Anche questa può dare diarrea, ma la sua tossicità principale è data dalla sindrome mano-piede che da’ dolori alle estremità, arrossamento, ridotta sensibilità che porta alla ridotta mobilità ed autosufficienza deambulatoria del paziente.

Gemcitabina

Metabolita fraudolento purinico, dotato di scarsa tossicità midollare, buona maneggevolezza ed è spesso associato a derivati del platino per il trattamento del microcitoma, del cancro della vescica e del pancreas.

Pemetrexed

Inibitore enzimatico e metabolita fraudolento utilizzato nel trattamento del tumore polmonare non a piccole cellule e del mesotelioma pleurico.

INIBITORI DELLA MITOSI

Vengono suddivisi in 2 categorie: gli alcaloidi della vinca e i taxani (derivati dal tasso). I microtubuli ed il fuso mitotico sono fondamentali per la corretta migrazione cromosomica e quindi divisione cellulare e vengono citati in quanto costituiscono il bersaglio farmacologico di questa classe di anti-neoplastici.

Alcaloidi della vinca

Essi distruggono i microtubuli, per cui la cellula in fase M non potendosi più dividere muore. Il farmaco più importante di questa classe è rappresentato dalla vincristina utilizzato soprattutto in tumori ematologici e la sua particolarità sta nel fatto che non ha mielotossicità ma causa stipsi. Quello che in ogni caso si usa più frequentemente è la vinorelbina. Viene adoperata nel tumore della mammella e del polmone non a piccole cellule. Quest’ultima non causa stipsi ma presenta

una mielotossicità non sottovalutabile.

Taxani

Farmaci che distruggono il fuso mitotico legando la beta-tubulina e la congelano in una forma che non è più depolimerizzabile o polimerizzabile. I farmaci facenti parte di questa classe sono il

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paclitaxel ed il docetaxel che sono adoperati nel trattamento del tumore del polmone, della mammella, dell’ovaio e dello stomaco.

Hanno tutti gli effetti collaterali dei farmaci antineoplastici ma presentano spiccata tossicità neuronale che si esplica nel coinvolgimento del motoneurone, che si manifesta con una classica algia diffusa molto simile quella influenzale. In ogni caso a questa tipologia di neurotossicità può essere accoppiata la neurotossicità sensoriale dovuta combinazione terapeutica che prevede molto spesso l’associazione dei derivati del platino.

ORMONOTERAPIA

Si può effettuare una terapia ormonale selettiva perché abbiamo alcune neoplasie che sono sotto stimolo proliferativo ormonale. Quindi nel momento in cui interrompiamo lo stimolo ormonale, la crescita si blocca. Si tratta di una considerazione molto importante in quanto i tumori ormono-dipendenti sono il tumore della mammella e quello della prostata, per cui dal punto di vista epidemiologico importanti cause di mortalità.

In oncologia andremo ad intervenire con una terapia ormonale che possa interferire nella normale sintesi e secrezione di ormoni sessuali.

La produzione di estrogeni viene regolata da una serie di feedback ormonali che coinvolgono molti organi rappresentati soprattutto da ipotalamo che rilascia fattori che stimolano o inibiscono l’ipofisi

anteriore e quest’ultima avrà effetti su organi produttori di ormoni sessuali in periferia.

L’ormonoterapia però agisce più sull’ospite piuttosto che su cellule tumorali.

Il primo approccio ormonale alla terapia antineoplastica era rappresentato dalla chirurgia escissionale di organi produttori di ormoni.

Ora non si interviene più chirurgicamente bensì si procede attraverso via farmacologica introducendo analoghi strutturali che bloccando i recettori, inibiscono la produzione ormonali.

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ONCOLOGIA 04.04.2014

Prof. Ciardiello seconda lezione

la parte iniziale della seconda lezione riprende l'ormonoterapia.

Ormonoterapia ablativa alle donne in menopausa con cancro della mammella.

Ormoni steriodei di tipo estrogenico vengono prodotti anche in menopausa in minori quantità ma

sufficienti per stimolare la crescita del tumore della mammella principalmente nel surrene e nel

tessuto adiposo.

La steroidogenesi nel surrene e nel tessuto adiposo avviene partendo da precursori androgenici

attraverso enzimi che aggiungono gruppi idrossilici, le idrossilasi, chiamate anche aromatasi. Se

utilizziamo inibitori delle aromatasi (enzimi che normalmente convertono precursori steroidei in

estrogeni nel tessuto adiposo o nella ghiandola surrenalica), avremo un'ablazione estrogenica.

Quando studieremo il tumore della mammella, studieremo piccole molecole che sono responsabili

dell'inibizione reversibile dell'attivita aromatasica (farmaci utilizzati per os nel trattamento

adiuvante del cancro alla mammella ma anche nella malattia metastatica) che determinano quindi

inibizione della produzione estrogenica.

Terapia adiuvante ormonale va fatta per 5 anni

darà come effetti collaterali:

nella donna in premenopausa la comparsa della menopausa

nella donna in menopausa aumentiamo ulteriormente la fragilità ossea e il rischio

cardiovascolare

sia in premenopausa che in menopausa possiamo bloccare la funzione dell'ormone bloccando

recettore degli estrogeni, principio di azione del TAMOXIFEN (derivato non steroideo che agisce

da antiestrogeno legandosi nelle cellule tumorali al recettore per gli estrogeni a localizzazione

nucleare).

Mentre farmaci che bloccano la produzione di ormoni steroidei agiscono sull'ospite, il tamoxifene

agisce sulla cellula tumorale funzionando sia sulla donna in premenopausa che in menopausa.

prerequisito per il funzionamento del tamoxifene è che la donna abbia sulle cellule tumorali il

recettore per gli estrogeni. A complicare le cose dobbiamo aggiungere che il tamoxifene non è un

antiestrogeno puro, infatti in realtà c'è un'azione similestrogenica in alcuni tessuti sani (alcuni effetti

positivi come il favorire il metabolismo lipidico abbassando colesterolemia e aumentando

lipoproteine ad alta densità, altri effetti potenzialmente dannosi a livello dell'endometrio

determinando iperplasia benigna che con lo stimolo continuo, dovuto ad una terapia che può durare

fino a 5 anni, può determinare displasia fino ad arrivare al carcinoma dell'endometrio). Nel

trattamento con tamoxifene dobbiamo sempre valutare spessore della parete endometriale, indice di

proliferazione, tramite ecografia transvaginale 1 volta l'anno. Nel caso di ispessimento elevato o

iperplasia/displasia si sospende il trattamento.

Ormonoterapia si fa solo alle donne il cui cancro è potenzialmente ormonosensibile. Per sapere se

tumore è ormonodipendente ricerchiamo un biomarcatore, che diventa fattore predittivo di risposta

alla terapia. Il biomarcatore è la presenza del recettore per estrogeni nel nucleo, ricercato durante

l'esame istologico, mediante un esame di immunoistochimica.

Circa 2/3 dei tumori della mammella sono estrogeno-dipendenti, 1/3 è ormonoindipendente per cui

fare ormonoterapia sarà inutile.

Quindi prima di fare ormonoterapia nel tumore alla mammella dobbiamo valutare se ci sarà risposta

agli estrogeni, eventualmente anche al progesterone, al momento della diagnosi istologica.

Nel cancro della prostata invece il recettore per gli androgeni è presente nel 100% dei casi e ,

almeno inizialmente, tutti i tumori della prostata sono ormonodipendenti quindi ormonosensibili. Si

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comincia quindi con ormonoterapia e si passa poi eventualmente ad altri tipi di trattamento che

saranno trattati nella lezione sul tumore prostatico.

La terapia di tipo ablativo é basata su analoghi di LHRH (è ormai superata la castrazione

chirurgica), è possibile anche utilizzare degli antiandrogeni sullo stesso principio del tamoxifene,

che vanno a legarsi al recettore per gli androgeni sulla cellula prostatica con effetto antitumorale

diretto. L'antiandrogeno più frequentemente utilizzato è la BICALUTAMIDE.E' possibile anche

usare in combinazione un analogo di LHRH e un antiandrogeno per il tumore della prostata (o un

antiestrogeno per il tumore della mammella).

FARMACI A BERSAGLIO MOLECOLARE

classe di farmaci della terapia medica più innovativa e recente nell'oncologia e nell'ematologia

basata sulla conoscenza dei meccanismi biomolecolari alle base della trasformazione neoplastica.

Prodotti alterati derivati da geni modificati possono essere la chiave di attivazione di un cancro o di

alcune fasi della crescita tumorale (proliferazione, migrazione, differenziazione, metastatizzazione).

Nei tumori ematologici vi sono minori alterazioni geniche, probabilmente una singola mutazione,

meccanismo meno evidente nei tumori solidi in cui vi sono più mutazioni che concorrono alla

trasformazione neoplastica quindi bloccando solo una delle proteine modificate non sempre si

ottiene un effetto antitumorale importante.

Con i farmaci a bersaglio molecolare cerchiamo di individuare quelle mutazioni che sono specifiche

di quel tumore in modo da effettuare una terapia mirata (come avviene nell'ormonoterapia),

individualizzata per quel tipo di tumore che abbia il minor numero possibile di effetti collaterali e il

massimo di efficacia.

Seria di problemi legati alla terapia a bersaglio molecolare:

tumori sono malattie molto eterogenee anche dal punto di vista delle alterazioni chiave del

tumore stesso (non avremo il 100% di cellule con recettore per estrogeni o la specifica

mutazione x)

variabilità nel tempo del bersaglio

capacità della cellula tumorale che si adatta sempre per sopravvivere (ad esempio capacità di

resistere al trattamento farmacologico)

bisogna inquadrare nel trattamento il gruppo di pazienti che è sensibile (nel cancro della mammella

valutiamo al microscopio se c'è almeno il 10% di cellule che hanno il recettore per estrogeni)

non abbiamo fattori predittivi di risposta per tutti i farmaci a bersaglio molecolare ma solo per

alcuni.

Cerchiamo bersagli molecolari validi (ad esempio in molti tumori risulta mutato p53, ma al

momento non abbiamo alcun farmaco anti p53, come non abbiamo farmaci attivi e specifici per le

mutazioni di ras).

I migliori esempi di farmaci a bersaglio molecolare sono attivi su fattori di crescita e recettori per

fattori di crescita, che intervengono su meccanismi di regolazione autocrina e paracrina alla base

della crescita tumorale o della neoangiogenesi. esempi più recenti sono inibitori di molecole chiave

della trasduzione del segnale. Via che dalla membrama cellulare attraverso fattori di crescita e

recettori per fattori di crescita tirosina kinasi trasduce il messaggio al nucleo attraverso una cascata

di messaggeri come ras, raf, mek, erk che porta al nucleo il segnale di proliferazione, l'altra via che

sempre attraverso recettori per fattori di crescita e ras porta segnali di sopravvivenza cellulare e

metabolismo il cui ha un ruolo chiave la chinasi fosfatidil inositolo dipendente, akt e il complesso

mTOR.

Queste due vie di trasduzione del segnale sono frequentemente attivate nei tumori umani per

mutazioni attivanti o inattivanti (come nel caso di pten). Molte di queste vie sono oggetto di farmaci

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ancora in sviluppo.

I farmaci per i quali si è avuto un cerco successo terapeutico sono:

-inibitori di braf mutato (mutazione molto frequente nel melanoma)

-inibitori del complesso mTOR ( tumore del rene e in alcuni casi di tumore della mammella)

farmaci che bloccano attivazione, a livello della membrana cellulare della cellula tumorale, di

fattori di crescita e recettori per fattori di crescita

farmaci che bloccano l'angiogenesi mediata da VEGF e VEGFR

farmaci che bloccano enzimi chiave nella via di trasduzione del segnale per la proliferazione (raf) o

per la sopravvivenza (mTOR)

RECETTORI PER FATTORI DI CRESCITA

esempi migliori della famiglia di farmaci che bloccano recettori per fattori di crescita appartengono

alla famiglia del recettore del fattore di crescita epidermico (EGFR). Scoperto da Stanley Cohen

negli anni '60 fu osservato per la prima volta nelle cellule epidermiche della cute, poi osservato

anche in altri tessuti epidermici.

EGFR appartiene ad una famiglia di quattro recettori (HER O ErbB, rispettivamente numerati da 1 a

4) molto simili tra loro (porzione extracellulare, porzione transmembrana e porzione intracellulare

con attività tirosino-kinasica sulla quale avviene l'autofosforilazione formando dimeri e quindi

l'attivazione della cascata del segnale che porta all'attivazione della proliferazione cellulare).

Bersagli importanti nella terapia farmacologica sono EGFR e HER2 (o ErbB2).

EGFR è un bersaglio importante nel cancro del colon retto e in un sottogruppo di pz con cancro del

polmone non a piccole cellule.

HER2 è u bersaglio molecolare importante per la terapia in un sottogruppo di pz con cancro della

mammella e in un sottogruppo di pz con cancro dello stomaco.

ErbB2 nel cancro della mammella è bersaglio molecolare della terapia quando in gene ErbB2 è

amplificato e come conseguenza si ha un'iperespressione della proteina corrispondente. Questa

condizione è presente nel 20-25% dei cancri della mammella. L'individuazione avviene attraverso

FISH (ibridazione in situ con immunofluorescenza). L'iperespressione di ErbB2 è un fattore

predittivo di risposta nei confronti di una terapia a bersaglio molecolare. Quindi quando

caratterizziamo un tumore della mammella dobbiamo verificare la presenza del recettore per gli

estrogeni (per ormonoterapia) e se amplificato e iperespresso ErbB2 (per terapia a bersaglio

molecolare). Possiamo avere un farmaco che blocca l'attività del recettore dalla porzione

extracellulare limitandone la sua attività enzimatica tirosinokinasica andando ad esempio a bloccare

l'interazione con il ligando, oppure un farmaco che entra nella cellula, si lega alla porzione

recettoriale con attività tirosinokinasica bloccandone la funzione.

Per bloccare la cellula dall'esterno possiamo utilizzare un anticorpo monoclonale (anticorpi diretti

contro uno specifico antigene che possono essere prodotti in laboratorio) che legandosi alla

porzione extracellulare del recettore ne impedisce l'attivazione. L'anticorpo monoclonale viene

prodotto in una cellula murina (un ibridoma) in grado di produrre un'immunoglobulina umana.

Anticorpi originali sono molecole di topo, quindi l'organismo crea anticorpi per neutralizzare questa

proteina, quindi i primi anticorpi monoclonali murini dopo la prima somministrazione diventavano

inefficaci. Per ovviare a questo problema, mediante tecniche di ricombinazione genica, si sono

umanizzati gli anticorpi monoclonali, si è sostituita la porzione fc che non riconosce l'antigene con

l'equivalente porzione umana, costruendo un gene ibrido che contiene l'80-90% di

immunoglobulina umana lasciando la porzione ipervariabile solo nella regione che riconosce

l'antigene.

Anticorpi chimerici contengono 20-25% di DNA murino

Anticorpi umanizzati contengono 5-10% di DNA murino

Anticorpi monoclonali completamente umani sono stati ottenuti recentemente grazie alla possibilità

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di utilizzare topi transgenici.

Maggiore sarà la componente umana, minori saranno le reazioni avverse al trattamento con

anticorpi monoclonali, ricordando che sono farmaci che richiedono un lungo trattamento (mesi).

TRASTUZUMAB: anticorpo monoclonale umanizzato anti ErbB2, che riconosce la porzione

extracellulare del recettore, inattivandolo. Utilizzato nel trattamento del cancro della mammella in

cui si abbia un'amplificazione di ErbB2 (20-25% casi) e anche nel cancro dello stomaco (10-15%

casi).

Trastuzumab è stato il primo anticorpo monoclonale ad essere utilizzato in un tumore solido,

attualmente utilizzato sia nella terapia adiuvante che nella terapia metastatica del cancro della

mammella.

Attualmente anticorpi monoclonali si somministrano endovena. Sono in sviluppo delle preparazioni

sottocute ma al momento ancora non vengono utilizzate nella terapia. Gli anticorpi monoclonali

sono somministrati ciclicamente e la periodicità di somministrazione è correlata con la

biodisponibilità e con la permanenza in circolo dell'anticorpo (un anticorpo chimerico verrà

somministrato quindi più frequentemente di un anticorpo umanizzato o completamente umano).

La somministrazione del trastuzumab varia da una volta a settimana a una volta ogni 2 o 3

settimane(attualmente negli schemi di terapia viene utilizzato ev ogni 3 settimane).

In generale la somministrazione è in associazione con altri farmaci, per esempio in donne con

cancro della mammella metastatico responsivo ad ErbB2 vi è una buona risposta terapeutica in

associazione con farmaci citotossici (politerapia con farmaci con meccanismo d'azione diverso che

possono agire sulla stessa cellula, avendo un effetto sinergico, bloccando in maniera maggiore le vie

di fuga della cellula tumorale che andrà incontro a morte).

Effetti collaterali: non sono gli stessi effetti collaterali dei farmaci citotossici (per esempio

mielotossicità, vomito). L'effetto tossico più importante del trastuzumab è la cardiotossicità, in

quanto recettore ErbB2 è importante per il miocardiocita (diversa dal punto di vista molecolare

dalla cardiotossicità da antracicline ma richiede lo stesso tipo di monitoraggio (valutazione della

frazione di eiezione ed ecocardio). Possiamo anche associare antracicline con trastuzumab

potenziandone l'attività sul cancro della mammella, ma come conseguenza avremo anche un

aumento della tossicità cardiaca. In genere quindi nell'associazione di questi due farmaci viene

intrapresa una terapia sequenziale per ridurre la tossicità. Cercare di associare farmaci con profili di

tossicità non sovrapponibile come ad esempio trastuzumab + taxani o aminolevulina. Purtroppo non

può essere associato con le antracicline se non aumentando la tossicità cardiaca, condizione che

nella pratica clinica viene difficilmente accettata. Nelle forme più avanzate di tossicità potremmo

arrivare ad un'insufficienza cardiaca congestizia e ad uno scompenso cardiaco.

Più recentemente è stato sviluppato un altro anticorpo monoclonale anti ErbB2 detto

PERTUZUMAB, molto simile al trastuzumab ma si lega ad una porzione diversa del recettore

sempre al di fuori della membrana cellulare. Sono quindi 2 anticorpi monoclonali contro lo stesso

recettore ma contro porzioni diverse che possono essere utilizzati insieme per aumentare la

funzionalità inibendo maggiormente la formazione della strutture recettoriale dimerica utile alla

trasduzione del segnale. Pertuzumab è un farmaco più recente e ancora in sperimentazione nella

terapia adiuvante.

Altro modo di utilizzare gli anticorpi monoclonali è un coniugato con un alchilante, sfruttiamo

l'effetto citotossico del farmaco alchilante e la capacità dell'anticorpo monoclonale di trasportare

l'alchilante direttamente sulla cellula bersaglio (il coniugato si chiama T-DM1).trastuzumab blocca

recettore ErbB2, segue una endocitosi del complesso recettore-ligando quindi verrà rilasciato nella

cellula l'alchilante legato. Questa associazione viene utilizzata nel trattamento della malattia

metastatica.

Non è detto che pazienti positivi alla mutazione per estrogeni o di ErbB2 rispondano nel 100% dei

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casi alla terapia, poiché la cellula potrebbe avere meccanismi di resistenza intrinseca nonostante

abbia il bersaglio molecolare. La cellula può tanto essere resistente all'inizio del trattamento, tanto

può acquisire la resistenza. Non tutte le associazioni tra anticorpo monoclonale e citotossico sono

tra l'altro possibili, in quanto potrebbero non essere somministrabili poiché, semplicemente, non si

riesce ad ottenere una preparazione farmacologica idonea.

Altra modalità di funzionamento è bloccare direttamente la funzione enzimatica del recettore.

In presenza di ATP, il recettore aggiunge un gruppo fosfato su specifici gruppi di tirosina,

autofosforilandosi. Possiamo utilizzare ATP-mimetici che si inseriscono nella tasca tridimensionale

enzimatica al posto dell'ATP. In genere sono inibitori reversibili, sono però in sviluppo inibitori

irreversibili che si legano covalentemente e distruggono il recettore. Sono molecole piccole (come

ATP, 500-600 Da), entrano per diffusione all'interno della membrana, riconoscono sito del recettore

e ne bloccano la funzione. Sono chiamate PICCOLE MOLECOLE INIBITORI DELLA TIROSIN

KINASI. Uno dei vantaggi di queste molecole è l'assorbimento a livello del tratto gastroenterico

(somministrati per os). Appartiene a questa categoria di molecole il LAPATINIB, usato nel cancro

della mammella dopo fallimento della terapia con trastuzumab. Vi sono anche studi di associazione

più funzionali ma certamente anche più tossici. Anche il lapatinib è gravato da cardiotossicità.

EGFR importante nei tumori del distretto cervico-facciale (sono tumori squamosi), nel tumore del

colon retto e nel tumore del polmone. EGFR è molto simile a ErbB2 però per EGFR conosciamo i

quattro ligandi (EGF, ma più importanti nei tumori umani sono TGF alfa, epiregulin e anfiregulin),

che in genere la cellula tumorale è in grado di autoprodursi determinando una regolazione autocrina

della crescita. Anticorpi monoclonali contro EGFR si legano alla porzione extracellulare del

recettore impedendo il legame con il normale ligando. la successiva endocitosi del recettore

diminuisce la concentrazione recettoriale di membrana che a lungo tempo determinerà una

riduzione dell'espressione del recettore.

Nel tumore del colo retto possiamo utilizzare due anticorpi monoclonali anti EGFR (ancora non

sono utilizzati nel tumore del polmone) CETUXIMAB (anticorpo chimerico anti EGFR) e

PANITUMUMAB (anticorpo completamente umano)

suffissi indicano

-ximab anticorpi chimerici

-zumab umanizzato

-mumab completamente umano.

Cetuximab e panitumumab cancro del colon retto (cetuximab anche nei tumori del distretto cervico-

facciale). Monoterapia, associati alla chemioterapia o alla polichemioterapia. Utilizzati nel tumore

del colon retto metastatico. Dobbiamo cercare fattori predittivi di risposta. nel trastuzumab

pertuzumab e lapatinib abbiamo detto che abbiamo fattori predittivi di risposta positivi., nel tumore

del colon retto EGFR raramente viene amplificato come gene è poco utile valutare i livelli di

espressione del recettore o se c'è l'alterazione molecolare del recettore (in genere non c'è). si

selezionano pazienti i cui tumori sono sicuramente resistenti alla terapia con anticorpi monoclonali

anti EGFR, escludendo questi pazienti dal trattamento, è quindi molto probabile che pz che non

hanno questo fattore di resistenza siano responsivi alla terapia. escludendo questi pazienti evitiamo

loro di somministrare una tossicità inutile al paziente.

Fattore predittivo di risposta negativo: cerchiamo un determinato fattore nel tumore del paziente e

se presente sappiano che non risponderà alla terapia al 100%, somministriamo invece il farmaco ai

pazienti che non presentano il fattore perché potrebbero essere responsivi.

Unione ligando recettore, dimerizzazione recettoriale, si autofosforila, arrivano proteine di

ancoraggio (es grab), enzima che porta al reclutamento della proteina ras che quando funziona è

legato al GTP e attiva la serina treonina kinasi raf, segue mek quindi erk che va al nucleo e attiva

geni iniziali della trascrizione (fos jun ecc). Normalmente se utilizziamo cetuximab o panitumumab

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blocchiamo questo processo impedendo quindi che arrivi un segnale al nucleo ma potremmo avere

una mutazione costitutiva di ras (da protooncogene a oncogene), e il blocco del recettore non ferma

la proliferazione cellulare. Quindi in pazienti con tumore del colon retto metastatico che hanno una

mutazione di ras,che sono il 50-55% dei pz con questo tipo di cancro (sono importanti nel colon

retto i geni k-ras e n-ras), il trattamento con anti EGFR non sarà efficace. Se pz ha ras wild type

(configurazione normale), possiamo somministrare cetuximab e panitumumab, se geni sono mutati

non effettueremo questo trattamento.

Effetti collaterali: tossicità più importante è cutanea, anche da un punto di vista psicologico.

L'EGFR è localizzato negli strati basali della cute.

Dopo 3-4 settimane la cute diviene secca, può divenire pruriginosa e insorge un processo

infiammatorio nelle aree con follicoli piliferi, fino ad assomigliare ad un rash cutaneo di tipo

acneiforme (l'acne ha un altro tipo di meccanismo fisiopatologico dovuto ad una sovrainfezione

batterica) dovuto ad un'alterata funzione dell'attivazione cellulare. Aree maggiormente colpite sono

la porzione superiore del tronco e il volto. Per evitare questo effetto collaterale possiamo utilizzare

creme emollienti o l'effetto antiinfiammatorio di una tetraciclina, la doxiciclina a basse dosi per os.

Possiamo usare antibiotici locali nel caso di una sovrainfezione batterica, quando c'è prurito

utilizziamo antiistaminici e nella reazione infiammatoria importante possiamo utilizzare il

cortisone.

Altro effetto collaterale molto importante è la diarrea.

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Riassunto dei farmaci trattati dal professore a lezione

ORMONOTERAPIA TAMOXIFENE

lega recettore per gli estrogeni, bloccandolo

ha però un effetto similestrogenico, non essendo un antiestrogeno puro in alcuni tessuti sani:

effetto positivo: abbassa colesterolemia e aumenta HDL

effetto negativo: iperplasia endometriale che se sostenuta per 5 anni (durata della terapia

ormonale) può determinare displasia fino al carcinoma endometriale

per sostenere ormonoterapia dobbiamo valutare ormonosensibilità ricercando recettore per estrogeni

tramite immunoistochimica.

2/3 dei tumori della mammella sono ormonosensibili, 1/3 sono ormonoindipendenti quindi il

trattamento con antiestrogeni è inutile.

Nel cancro della prostata 100% casi è inizialmente ormonodipendente

BICALUTAMIDE

antiandrogeno che come funzionamento può essere assimilato al tamoxifene.

FARMACI A BERSAGLIO MOLECOLARE cerchiamo di effettuare una terapia mirata, individualizzata per quel tipo di tumore, cercando di

ridurre effetti collaterali e di massimizzare l'efficacia.

Problemi:

tumori sono eterogenei, anche nelle alterazioni chiave del tumore stesso

variabilità nel tempo del bersaglio

capacità adattativa della cellula tumorale

importante inquadrare pz che sono sensibili al trattamento (es nel tumore della mammella

ormonodipendente valutiamo al microscopio che almeno il 10% delle cellule abbiano il recettore

per estrogeni)

RECETTORI PER FATTORI DI CRESCITA

TRASTUZUMAB: anticorpo monoclonale umanizzato anti ErbB2 (o HER, famiglia di EGFR), che

lega la porzione extracellulare del recettore, inattivandolo.

Trattamento del tumore della mammella con amplificazione di ErbB2 (20-25% casi) sia in terapia

adiuvante che nella terapia del tumore metastatico e del cancro dello stomaco (10-15% casi)

somministrazione endovena (sono in sviluppo somministrazioni sottocute) attualmente una volta

ogni 3 settimane.

Buona associazione con farmaci citotossici

effetti collaterali: cardiotossicità

PERTUZUMAB: altro anticorpo monoclonale anti ErbB2, che lega una porzione diversa del

recettore rispetto al trastuzumab

PICCOLE MOLECOLE INIBITORI DELLA TIROSIN KINASI

LAPATINIB: ATP-mimetico che blocca la funzione autofosforilante del recettore determinando

inattivazione.

Trattamento del cancro della mammella dopo fallimento della terpia con trastuzumab

Vantaggi correlati alla somministrazione per os

effetti collaterali: cardiotossicità

ANTI EGFR

CETUXIMAB: anticorpo chimerico anti EGFR utilizzato nel cancro del colon retto e nei tumori del

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distretto cervico facciale (ancora non utilizzato nel tumore del polmone).

PANITUMUMAB:anticorpo umanizzato anti EGFR.

Trattamento del cancro del colon retto

sia cetuximab che panitumumab possono essere somministrati in monoterapia o nella

polichemioterapia.

Effetti collaterali:

-tossicità cutanea che ha un impatto importante anche dal punto di vista psicologico.

-diarrea

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9/04/2014

Prof. Ciardiello

Abbiamo parlato dei farmaci antineoplastici a bersaglio molecolare cioè farmaci che sono stati, in

maniera mirata (con tecniche di DNA ricombinante, anticorpi monoclonali, sintesi chimica), diretti

contro specifiche proteine che hanno una funzione importante nei meccanismi di proliferazione

cellulare, trasformazione neoplastica, invasione neoplastica, vascolarizzazione, quindi idealmente

tutti i geni la cui alterazione porta ad una proteina alterata, che hanno un ruolo nello sviluppo e nella

progressione della neoplasia, potrebbero essere ideali bersagli molecolari con l'obiettivo di utilizzare

il blocco di questi bersagli come effetto citotossico diretto nei confronti delle cellule e quindi fare una

terapia.

I prodotti proteici però hanno funzione fisiologica anche in cellule normali.

I farmaci a bersaglio molecolare più utilizzati sono quelli che bloccano i recettori per fattori di

crescita come Erb o EGFR, in particolare farmaci che bloccano ErbB-2 nel cancro della mammella o

dello stomaco, farmaci che bloccano EGFR nel cancro del colon e nel tumore del polmone.

Questo tipo di terapia è utile perché blocca una via metabolica fondamentale per l'autonomia

proliferativa delle cellule neoplastiche, i cosiddetti circuiti autocrini proliferativi, cioè l'attivazione

mediante uno specifico recettore per fattori di crescita, che nel caso della famiglia Erb è un recettore

con attività tirosino chinasica, che attivato si autofosforila e porta alla trasmissione del segnale

all'interno della cellula fino allo stimolo proliferativo. Abbiamo visto che è possibile bloccare il

recettore con un anticorpo monoclonale che blocca l'interazione con il ligando impedendo la

dimerizzazione del recettore, oppure costruendo una molecola che entra nella cellula sostituendosi

all'ATP ed impedendo così l'autofosforilazione del recettore.

Il cetuximab e panitumumab vengono utilizzati principalmente per il tumore del colon retto

metastatico.

Gli effetti collaterali di farmaci anti ErbB-2 (tipo trastuzumab) sono la cardiotossicità.

Nel tumore del colon retto metastatico per poter selezionare i pazienti nei quali è più probabile che i

farmaci antiEGFR funzionino dobbiamo conoscere lo stato mutazionale dei geni ras perché, quando i

geni ras sono mutati, la proteina prodotta dal gene attivo non è bloccabile se non blocchiamo il

recettore. Le proteine ras hanno attività GTPasica e sono attive quando legate a GTP.

Alcuni farmaci anti-EGFR si usano in alcune forme di tumore del polmone e, soprattutto nel tumore

del polmone non a piccole cellule, alcuni geni sono mutati e per alcuni esistono farmaci specifici. La

prima scoperta su questo fronte è avvenuta quando ci si rese conto che, in un gruppo di circa 10-15%

di pazienti con tumore del polmone non a piccole cellule, la somministrazione di farmaci anti-EGFR

specifici (gefitinib ed erlotinib) si avevano risposte terapeutiche durature anche in pazienti trattati

con farmaci chemioterapici tossici, quindi malattie sicuramente chemioresistenti. Si pensò che

probabilmente o si trattava di un istotipo di adenocarcinoma del polmone, oppure di soggetti che non

avevano fumato. L’85-90% di tumori del polmone insorgono in pazienti che hanno fortemente

fumato nel corso della loro vita, c'è però un 10-15% di persone che sviluppano il tumore del polmone

pur non avendo mai fumato. Poiché molti di questi pazienti erano donne non fumatrici si pensò che

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gli adenocarcinomi di donne non fumatrici erano geneticamente diversi e rispondenti a terapia anti-

EGFR. Quando si iniziarono a fare gli studi nei paesi occidentali e nei paesi orientali, si vide che in

Cina, in Giappone, in Corea, c'erano molte più donne non fumatrici con adenocarcinoma che

rispondevano alla terapia anti-EGFR e per alcuni anni non si capirono i motivi per cui questo

avveniva finché, nel 2004, si fece uno studio andando a guardare i casi clinici. C'era un'infermiera

<40 anni con adenocarcinoma resistente e le somministrarono gefitinib e questa donna, che era a letto

in condizioni molto gravi, nel giro di un paio di settimane tornò al lavoro ed ebbe una risposta

positiva per più di un anno. Questa era una donna non fumatrice e scoprirono così che in circa il 10-

15% di tumori (quasi tutti sono adenocarcinomi e qualcuno anche carcinoma squamoso) è presente

una mutazione attivante del gene EGFR, perché la cellula con la mutazione ha un segnale più

prolungato e forte. Questo rappresenta un vantaggio selettivo per la cellula e infatti questa mutazione

è probabilmente la mutazione più importante che determina, in questo 10-15% di casi con tumore del

polmone non microcitoma, il tumore stesso. Gefitinib ed erlotinib sono molto attivi quando il gene è

mutato in determinate posizioni, probabilmente da un punto di vista molecolare c'è una maggiore

affinità e il farmaco funziona bene per cui in questi pazienti si ha una citotossicità diretta e quindi

l'effetto terapeutico. La mutazione avviene nella zona che codifica la porzione TK ed esiste anche

una mutazione di resistenza per cui il farmaco funziona di meno.

I tumori del polmone che presentano una mutazione attivante del gene dell’EGFR, che avviene in

genere nell’esone 19 e 21, utilizzano un farmaco anti-EGFR come gefitinib ed erlotinib e questa è

una terapia più utile della chemioterapia con farmaci citotossici che è molto tossica. Invece gli effetti

collaterali dei farmaci anti-EGFR sono principalmente rash cutanei e poi un altro vantaggio di questi

farmaci è che sono farmaci orali quindi somministrabili a casa però senza gli effetti collaterali dei

farmaci citotossici, quindi la terapia con platino o un altro farmaco che è la terapia standard nei

tumori del polmone senza mutazione dell’EGFR è nettamente più tossica e anche meno attiva della

terapia con gefitinib o erlotinib. Quindi probabilmente l'associazione con il sesso femminile e i paesi

asiatici, è casuale e legata alla maggiore frequenza. La carcinogenesi non da fumo di sigaretta è

caratterizzata da una mutazione nell’EGFR, invece nei pazienti in cui il tumore ha una patogenesi

legata al fumo di tabacco ci sono mutazioni in altri geni per esempio in Kras. Le mutazioni di ras

costituiscono un meccanismo di resistenza ai farmaci anti-EGFR quindi o ci sono mutazioni in ras

oppure in EGFR per cui si dice che le due mutazioni sono mutuamente esclusive. Per quanto riguarda

i farmaci usati nel tumore del polmone per mutazioni attivanti di tipo somatico cioè acquisite e non

trasmesse a livello germinale, gli effetti collaterali sono reazioni cutanee di tipo rashiformi legate alla

fisiopatologia della cute e diarrea. Altri farmaci che bloccano i recettori importanti in alcuni tumori

umani e che sono stati anche dei grossi successi terapeutici? In realtà il primo farmaco con attività

anti-TK è stato l’imatinib che fu introdotto in terapia perché si scoprì, una quindicina di anni fa, che

in pazienti affetti da una rara forma di leucemia mieloide cronica caratterizzata dell'alterazione

citogenetica (cromosoma philadelphia che contiene un riarrangiamento genico) è l’inibitore TK che

blocca il genere riarrangiato nella LMC e tuttora è la terapia standard di questa patologia. Qualche

anno dopo casualmente si scoprì che in un tumore mesenchimale raro gist, cioè un tumore stromale

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associato al tratto gastroenterico, imatinib funzionava benissimo. Questo è un tumore estremamente

chemioresistente in cui soltanto la chirurgia è efficace poi si scoprì che gran parte dei gist sono

tumori in cui c'è un’alterazione in un recettore per fattori di crescita che si chiama Kit e imatinib

inibisce Kit attivato.

Un'altra classe di farmaci utili sono i farmaci che bloccano in maniera diretta o indiretta i processi di

angiogenesi quindi i farmaci antiangiogenetici fanno parte del gruppo di farmaci a bersaglio

molecolare. L’angiogenesi è un processo complesso che deriva dall'interazione tra cellule tumorali e

cellule normali del paziente, è un processo dinamico multifattoriale. L’angiogenesi indotta dal

tumore o neoangiogenesi è un processo necessario e indispensabile per la crescita locale, invasione e

localizzazione a distanza delle cellule tumorali, attivato nelle fasi precoci della trasformazione

neoplastica. Quando avviene? Quando le cellule tumorali maligne raggiungono una massa critica che

non permette una sopravvivenza adeguata perchè non permette l'arrivo di nutrienti e ossigeno a meno

che non si formino nuovi vasi. Le cellule tumorali maligne producono fattori di crescita che attivano

una serie di cellule normali endoteliali e quindi ne favoriscono la migrazione, la proliferazione, la

differenziazione funzionale. Perchè i vasi neoformati sono diversi da quelli normali? Perché sono più

permeabili, più tortuosi, più aggrovigliati. A questo processo partecipano non solo le cellule

endoteliali ma anche le cellule stromali tra cui i periciti, i miociti e tutte queste cellule migrano e

proliferano attorno ai vasi perché le cellule tumorali producono o inducono fattori di crescita pro

angiogenetici, tra questi il più importante è il VEGF. Il VEGF è una famiglia di fattori di crescita

quello che noi comunemente indichiamo con VEGF è il VEGFa che sulla cellula endoteliale attiva il

recettore più importante per la migrazione, proliferazione e differenziazione delle cellule tumorali

stesse, il VEGFR2. Il recettore di tipo 1 è importante nella migrazione, quello di tipo 3 nella

linfoangiogenesi. Abbiamo quattro fattori VEGF di tipo a,b,c,d e poi è stato scoperto anche un quinto

fattore Placental growth factor (PGF) e questi attivano vari recettori sempre formando dimeri e

trasmettendo i segnali con gli stessi pathway molecolari (Ras, Raf, Mek, MAPK, oppure la via della

sopravvivenza cellulare attraverso AKT). Se la cellula tumorale non attiva questo processo, il tumore

non va avanti e si è pensato che l'angiogenesi fosse un processo fondamentale per la crescita, lo

sviluppo, la metastatizzazione per cui bloccare l’angiogenesi era il miglior modo per bloccare in

maniera decisiva la neoplasia. Si arrivò così ad individuare delle possibilità terapeutiche in alcuni tipi

di farmaci per alcune patologie, il primo farmaco antiangiogenetico di successo è stato un anticorpo

monoclonale umanizzato contro il VEGFa, il bevacizumab, che è il prototipo di farmaci sviluppati

contro l’angiogenesi indotta da tumore. Questo è attivo contro i fattori di crescita e non contro il

recettore quindi quando facciamo terapia con bevacizumab noi andiamo a neutralizzare il VEGFa,

prodotto principalmente dalle cellule tumorali e impediamo che il VEGFa attivi il recettore sulle

cellule endoteliali. Questa è una terapia a lungo termine cronica, noi togliamo in questo modo uno

stimolo cronicamente necessario al mantenimento di vasi all'interno del tumore perché il VEGFa non

solo induce le fasi iniziali ossia la migrazione, la proliferazione, ma è indispensabile per il

mantenimento dello stato attivo funzionale per cui, se noi togliamo il VEGFa, i vasi all'interno del

tumore regrediscono e ritornano allo stato di quiescenza simile ai vasi normali nel resto

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dell'organismo. Quindi, una terapia cronica con anticorpi anti-VEGFa, permette un ritorno ad un’

angiogenesi normale con distruzione dei neovasi indotti dalle cellule tumorali, questa non è una

terapia rivolta direttamente contro il tumore ma comunque, distruggendo la neovascolarizzazione

indotta dal tumore, riduciamo anche l'apporto di ossigeno e nutrienti al tumore stesso e quindi in

ultima analisi ha un effetto anti tumorale. Quando tratto con bevacizumab non abbiamo una morte

delle cellule tumorali come principale effetto, ma il blocco della vascolarizzazione che, a lungo

termine, porta alla necrosi tumorale perché non abbiamo vasi che portano ossigeno e nutrienti al

tumore. Il bevacizumab viene usato in associazione ai farmaci citotossici perché potenzia il loro

effetto in quanto, probabilmente, bloccando la neoangiogenesi permette una migliore distribuzione

dei farmaci citotossici nel tumore stesso. Il bevacizumab entra in associazione con la chemioterapia

nel caso di tumore del colon retto metastatico, in alcuni tipi di tumori del polmone di tipo

adenocarcinoma, tumori dell'ovaio, nel carcinoma della mammella metastatico, in alcuni tipi di

tumori del surrene. Gli effetti collaterali del bevacizumab sono legati al suo meccanismo d'azione.

Un aspetto importante, per fortuna controllabile, è l’induzione dell'ipertensione arteriosa, quindi

ipertensione arteriosa lieve, moderata e grave può essere individuata nella maggioranza dei pazienti

trattati a lungo termine con bevacizumab, raro invece è il rischio di distruzione dei vasi intratumorali

con emorragia o trombosi arteriosa o venosa. Per cui, in alcuni casi, è controindicato l’uso di

bevacizumab, per esempio in pazienti che hanno avuto recentemente (per es. sei mesi precedenti alla

terapia) un accidente cardiovascolare acuto o una patologia cardiovascolare cronica importante (una

trombosi arteriosa o venosa profonda o che hanno avuto un recente infarto) non vanno trattati con

bevacizumab per il rischio di avere importanti effetti collaterali. Pazienti poi che hanno masse

tumorali già sanguinanti alla diagnosi non devono essere trattati con bevacizumab, perché si può

peggiorare. Si è visto che in alcuni tumori del polmone che istologicamente sono squamosi e che in

genere hanno una localizzazione centrale cioè ai grossi bronchi, spesso con cavitazione e con

infiltrazione dei grossi vasi, il trattamento con bevacizumab può portare a emorragie importanti per

distruzione dei grossi vasi, per cui il bevacizumab non si usa nei tumori squamosi o nei tumori

localizzati centralmente. L'ipertensione arteriosa non è tanto una controindicazione perché in genere

viene controllata abbastanza facilmente da un punto di vista farmacologico e l'ipertensione da

antiangiogenetici viene trattata normalmente come viene trattata l'ipertensione arteriosa. Il VEGFa

controlla le cellule muscolari lisce dei vasi quindi abolendolo si ha un incremento della pressione

arteriosa. Un altro effetto collaterale importante è la tossicità renale che si manifesta con un danno

tubulare renale, si valuta poi la proteinuria delle urine per valutare il danno renale. Successivamente

al bevacizumab si è cercato di individuare altre molecole che potessero bloccare il processo di

angiogenesi, soprattutto piccole molecole anti-TK per bloccare il VEGFR2 e molte di queste

bloccano recettori di tipo 1,2 e 3 si è visto che gran parte di questi farmaci vengono utilizzati in un

tumore maligno come il tumore a cellule chiare del rene perché nei tumori renali la neoangiogenesi è

particolarmente sviluppata ed è resistente ai farmaci citotossici. Piccole molecole orali ad azione anti-

TK che bloccano il recettore del VEGF sulle cellule endoteliali sono varie, in uso in un cancro del

rene. Il più famoso, il primo ad entrare in commercio, è stato il sunitinib che blocca il recettore del

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VEGF ed è un farmaco di elezione per la terapia del cancro del rene metastatico. Farmaci simili come

meccanismo d'azione al sunitinib, sono il sorafenib ed il pazopanib che si usano nel tumore del

rene. Bloccare solo il recettore VEGFR2 può essere più efficace che bloccare i recettori 1,2,3 o il

recettore Kit (importante per i fibroblasti e cellule perivascolari). Quando utilizzate inibitori di più

recettori avete due problemi, perchè non sapete bene la potenza relativa all’inibizione dei vari

bersagli e poi in genere più il farmaco ha più bersagli e maggiore è l’incidenza degli effetti

collaterali. Per es. il sorafenib blocca molti recettori tra cui il recettore per il VEGF di tipo 1, 2, 3, il

PDGFR, il recettore Kit e inibisce anche l'enzima serin-treonin chinasi Raf quindi il sorafenib è attivo

su un ampio spettro di bersagli però è potenzialmente più tossico, è stato il primo farmaco attivo per

il trattamento dell’epatocarcinoma metastatico mentre inibitori più selettivi del VEGFR non sono

attivi nell’epatocarcinoma metastatico quindi quando usate farmaci a più bersagli è probabile che ci

possano essere effetti collaterali maggiori ma anche effetti terapeutici che altri farmaci più selettivi

non hanno. Purtroppo però questo lo scopriamo in maniera empirica perché tutti gli inibitori dell’

angiogenesi, dal bevacizumab a piccole molecole, non s usano in base a una selezione delle

caratteristiche (anatomiche,ecc.) del tumore cioè tutt’oggi non abbiamo marcatori che risultino fattori

predittivi o di resistenza ai farmaci antiangiogenetici di una determinata neoplasia. Non vi è nessun

fattore predittivo per l’angiogenesi che possiamo utilizzare prima di iniziare la terapia. L’angiogenesi

è un processo multifattoriale controllato dal tumore, ma che deriva da un interazione importante tra

ospite e tumore e che coinvolge diversi mediatori e numerose cellule effettrici.

DOMANDA: se c'è un gruppo di cellule tumorali abituato a condizioni di ipossia non si rischia di

selezionarle per una crescita maggiore con un antiangiogenetico?

RISPOSTA: uno dei meccanismi di progressione tumorale è l'acquisizione di un genotipo che

permette un fenotipo meno dipendente dall’apporto di ossigeno. Si è visto che la terapia

angiogenetica non causa questo tipo di effetto collaterale.

Probabilmente la resistenza al bevacizumab può essere data da meccanismi alternativi che attivano

l’angiogenesi.

Moltissimi farmaci a bersaglio molecolare sono ancora in sviluppo.

Un altro inibitore che non blocca la funzione di un recettore di membrana o di un fattore di crescita,

ma blocca direttamente una proteina di trasduzione del segnale. Molti tumori umani presentano

mutazioni di geni che codificano per proteine chiave per il meccanismo di trasduzione del segnale

(attraverso la via di AKT o Ras). Inibitori selettivi di Ras mutato non ci sono ancora, il primo gruppo

di farmaci a bersaglio molecolare studiato furono gli inibitori dell'enzima farnesil trasferasi. Perché?

Perché Ras è una proteina che viene farnesilata per essere ancorata alla membrana sulla porzione

interna, quando Ras è ancorata si può accoppiare a delle proteine adattatrici come i recettori per

fattori di crescita e può funzionare. Si pensò che se avessimo inibito l'enzima farnesil trasferasi, Ras

non arrivava in membrana, sia essa mutata sia normale, e così in tutti i tumori Ras dipendenti con Ras

mutato potevano avere un effetto anti tumorale ma la cellula tumorale è molto più intelligente e

trovava altri meccanismi per ancorare Ras in membrana per es. gli enzimi geranil trasferasi quindi

non esistono oggi inibitori diretti di Ras attivato così come non esistono inibitori diretti di p53.

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La mutazione di p53 è la più frequente, è presente nel 40,50,60% di tumori e quando è mutata in

alcune zone calde del gene la proteina non controlla più il ciclo cellulare e si ha duplicazione

cellulare. Però negli ultimi 5-6 anni siamo riusciti ad avere farmaci anti-Raf mutato (BRAF è mutato

in circa il 50-60% di pazienti affetti da melanoma metastatico, in genere in alcuni punti caldi del gene

una mutazione puntiforme cioè la sostituzione di un nucleotide che porta un codone a codificare un

altro aminoacido). BRAF mutato, a valle di Ras, diventa costitutivamente attivo; noi abbiamo

inibitori selettivi per BRAF mutato.

Un altro es. è dato da inibitori selettivi di mTOR; mTOR è una proteina a valle di AKT, importante

per segnali anti apoptotici. Si sapeva che gli inibitori selettivi di mTOR avevano anche una funzione

di immunosoppressione e un inibitore di mTOR che si chiama everolimus si usa nella terapia del

cancro del rene metastatico dopo fallimento con una terapia con farmaci antiangiogenetici ed

everolimus si può usare anche in donne con tumore alla mammella in associazione con

l’ormonoterapia dopo fallimento dell’ormonoterapia stessa.

Ci sono una serie di problemi relativi non solo ad individuare i farmaci antitumorali, qualunque sia la

categoria di appartenenza, che funzionino, in quali tumori agiscono, a quale dose funzionano e poi

quando li dovete utilizzare, per fare tutto questo si usano le conoscenze che derivano dalla

sperimentazione clinica dei farmaci oncologici.

Le fasi della sperimentazione clinica sono 4 nell'uomo e tutto quello che viene prima è

sperimentazione preclinica cioè sperimentazione in vitro, in sistemi cellulari in laboratorio, negli

animali da laboratorio (topo, ratto, cane, scimmia).

La fase I è una fase di tollerabilità generale, di farmacocinetica che viene fatta non in pazienti ma in

volontari sani mentre in oncologia, tranne in rarissimi casi, la fase 1 si fa in pazienti neoplastici

perché i farmaci neoplastici sono farmaci dotati di effetti collaterali importanti. L'unico farmaco in

cui fu fatta la fase iniziale nel volontario sano fu gefitinib quindi l'obiettivo della fase 1 in oncologia

è valutare la fattibilità della somministrazione del farmaco a una dose potenzialmente efficace e

relativamente poco tossica, in modo tale che, una volta saputi quali sono gli effetti collaterali

principali e come possono essere controllati e saputa la dose potenzialmente utile di questo farmaco,

si passa alla fase 2.

Nella fase II abbiamo acquisito più conoscenze su tollerabilità, tossicità ed effetti collaterali ed

usiamo quella dose che nella fase 1 è risultata una dose utile per andare a vedere se questo farmaco

ha un attività antitumorale. Quindi la fase 1 serve per la valutazione della tossicità, tollerabilità e

l'individuazione della dose potenzialmente attiva, la fase 2 serve per individuare l'effettiva attività

antitumorale.

Dopo la fase II, dei 100 farmaci partiti in fase I, dei 20 passati in fase II, dei 5 che hanno superato la

fase II, si valuta l'efficacia in una determinata malattia in studi di fase III che sono in genere studi di

confronto in cui noi diciamo: abbiamo evidenza dagli studi di Fase I e II che il farmaco X

probabilmente può essere un ottimo farmaco per una donna con tumore della mammella metastatico

dopo fallimento con altri farmaci tra cui abbiamo un farmaco Y che è poco attivo perché solo il 30%

delle donne hanno l'effetto terapeutico e dopo 3 mesi vanno in progressione. Come si fa a scoprire se

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il nuovo farmaco è migliore del farmaco precedente? Si fa uno studio di confronto o randomizzato di

fase III. Se il farmaco, dopo la fase III, si dimostra più efficace del farmaco precedente, le aziende

farmaceutiche avviano tutta una serie di progetti che passano attraverso le autorità regolatorie che

vigilano sulla commercializzazione dei farmaci (in Europa abbiamo l’EMA).

Dopo l'immissione in commercio si fa una valutazione post marketing di Fase IV, si vedono gli

effetti collaterali anche rari, i problemi che possono insorgere e che non si conoscevano, gli effetti

terapeutici diversi, perché quando noi tratteremo patologie frequenti invece di trattare poche decine,

centinaia, migliaia di pazienti trattiamo centinaia di migliaia, milioni di pazienti in vari mesi, per cui

anche un effetto collaterale che accade un caso su un milione noi potremmo non averlo mai visto.

Esistono centri specifici di farmacovigilanza che monitorano l'immissione in commercio e per i

farmaci oncologici sono particolarmente stringenti, perché i farmaci oncologici sono

particolarmente tossici. La fase I è la fase più complessa perché per esempio noi abbiamo una

molecola che sappiamo, da tutti gli studi preclinici, che è un ottimo inibitore dell’EGFR ed è molto

più attiva dei farmaci già in commercio (perché per esempio blocca anche recettori con una

mutazione di resistenza o perché il farmaco può essere dato a dosaggi bassissimi oppure perché

blocca l'enzima invece che in maniera reversibile in maniera irreversibile, ecc.).

La sperimentazione è molto complessa nell'uomo perché non sappiamo in quali pazienti farla e a

che dose farla quindi in fase I selezioniamo pazienti con tumori per i quali non esistono alternative

terapeutiche valide, pazienti per i quali noi speriamo di dargli un potenziale beneficio, pazienti con

una malattia avanzata (in genere metastatica), pazienti per i quali già sono state eseguite tutte le vie

di trattamento (chirurgica, chemioterapica), per cui soltanto la via sperimentale con un farmaco

nuovo può essere una speranza di vita. Tranne che se stiamo sviluppando un farmaco che agisce con

un meccanismo specifico, tipico di una patologia, in genere nei pazienti in sperimentazione di Fase

I non ho un tumore in particolare perché se sto sviluppando un nuovo farmaco citotossico lo

facciamo in pazienti con tutte le malattie. Diverso è il discorso se stiamo sviluppando un nuovo

inibitore del recettore per estrogeni: faccio lo studio di Fase I solo in pazienti con tumore della

mammella positivo per il recettore degli estrogeni. Lo sviluppo di Fase I è orientato ad una

determinata malattia se c'è un meccanismo funzionale che lo lega a una determinata malattia o ad

un determinato bersaglio molecolare, per es. se ho un farmaco anti-Ras mutato lo faccio nei pazienti

con mutazioni di Ras, oppure se il meccanismo è più esteso lo faccio in pazienti indipendentemente

dalla neoplasia. E’ difficile la scelta della dose iniziale per uno studio di Fase I, si fa in genere un

compromesso tra il dosaggio ottenibile nell'uomo, corrispondente al dosaggio che in vitro determina

negli animali in sperimentazione l'efficacia temporale, quindi se noi sappiamo che una

concentrazione di 1 µM in laboratorio funziona, noi cercheremo di fare una somministrazione nel

paziente tale per cui almeno 1 µM sia la concentrazione plasmatica ottenuta. Inizio a trattare il

paziente con una dose non a rischio ma neanche bassissima altrimenti è inutile. Più abbiamo notizie

di Farmacologia preclinica, maggiore è la possibilità di predire la dose. Poi in maniera empirica

usiamo l'incremento progressivo della dose, per es. decidiamo che il farmaco in questione lo

sperimentiamo inizialmente a 50 mg/m² endovena per 3 settimane perché è un farmaco citotossico,

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tratto un certo numero di pazienti con questa dose per un certo tempo e andiamo a registrare gli

effetti collaterali importanti, gli effetti antitumorali importanti e se dopo 3 pazienti non si ha una

tossicità importante vuol dire che probabilmente possiamo aumentare la dose. Questo viene fatto

soprattutto con i farmaci chemioterapici citotossici dove maggiore è la dose, più probabile è

l'attività; per i farmaci a bersaglio molecolare non è sempre così, quando la tossicità è inaccettabile

si fa lo stesso trattamento in altri pazienti e se si conferma, la dose immediatamente precedente è la

dose raccomandata per gli studi successivi di Fase II. Quindi, se noi abbiamo cominciato con 50

mg/m² per 3 settimane, i primi 3 pazienti sono passati a 60, poi siamo passati a 70, poi a 80, a 90

iniziamo a vedere tossicità e ci rendiamo conto che 90 non è fattibile e diciamo: 80 mg/m² in 3

settimane è la dose massima tollerata e quindi la dose raccomandata per gli studi successivi di Fase

II. Se questo farmaco è particolarmente utile e attivo, avremo in alcuni di questi pazienti anche

evidenza di attività antitumorale tipo per es. riduzione di metastasi, di dimensioni. A questo punto

supponiamo che noi abbiamo evidenza che con 80 mg/m² in tumori dell'ovaio resistenti alla

chemioterapia (5-6 tumori) abbiamo avuto risposte. Decidiamo allora di fare uno studio di Fase II

con una dose di 80 mg/m² per 3 settimane, in donne affette da cancro dell'ovaio che hanno fatto una

prima linea di trattamento con terapia standard e che hanno una forma diventata refrattaria e allora

diciamo: vogliamo vedere se in questo donne il farmaco è efficace. Per cui in Fase II rivalutiamo

meglio il numero di pazienti, la tossicità, e andiamo a misurare l'attività antitumorale quindi la

percentuale di donne che hanno una risposta per es. possiamo dire: in questa linea di terapia, dopo

fallimento della terapia con platino, soltanto il 20% di donne hanno risposto a qualsiasi farmaco

citotossico. Se tratto 50 donne e ottengo almeno il 40% di risposte, questo è un farmaco

potenzialmente interessante (cioè 20 donne devono rispondere) e se io ho una risposta in 22 donne

questo studio ha dimostrato che la percentuale è clinicamente importante e quindi questo farmaco è

potenzialmente utile, confermando la tossicità accettabile, perché non è particolarmente citotossico.

Dopo la fase I e II, abbiamo un nuovo chemioterapico potenzialmente utile nel cancro dell'ovaio.

Per poter far diventare la terapia con questo farmaco la terapia standard nelle donne con cancro

dell'ovaio, dopo fallimento della terapia con platino, dobbiamo fare uno studio di confronto di fase

III o studio randomizzato e diciamo: qual è la terapia attuale standard per queste donne? Il farmaco

A che ci dà il 20% di risposte e una sopravvivenza di 1 anno, il nostro farmaco nuovo B ci dà un 40

% di risposte, allora dobbiamo fare un confronto, devo fare un'ipotesi biostatistica. In base alle

caratteristiche di B se avessi un nuovo trattamento che, invece di dare il 20% di risposte, dà il 40%

cioè il doppio e, invece di un anno medio di sopravvivenza, dà 1,5 anni cioè un incremento del

50%, allora è un trattamento molto importante. Allora faccio un calcolo statistico e dico: dando

l’ipotesi di un incremento dal 20 al 40% di risposte e da 1 anno a 1,5 anni di sopravvivenza globale,

per darmi i margini di confidenza tali per cui l’esperimento mi dia un risultato statisticamente

valido, quanti eventi devo osservare in questo studio? Per es. devo osservare 300 donne che

muoiono o di queste 400 donne che muoiono, in quante donne devo cominciare il trattamento? Per

es. 400. E quindi in quanto tempo devo seguire lo studio? In 3 anni.

Allora faccio uno studio in vivo randomizzato e 200 donne saranno trattate con il farmaco standard

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A e 200 donne con il farmaco standard B e verranno seguite nel tempo. Alla fine dello studio

quando almeno 400 di queste donne saranno morte, io avrò il potere statistico per andare a valutare

se la mia ipotesi che B andava ad incrementare del 50% la sopravvivenza rispetto ad A sia vera. Se

è vera, io potrò dire che B è il nuovo standard terapeutico nella donna con cancro dell'ovaio.

Naturalmente per fare questo devo fare uno studio di confronto randomizzato, cioè non posso fare il

trattamento standard A e il trattamento con B a caso ma si fa una randomizzazione veramente

casuale indipendentemente dal tempo o dall'osservatore e quindi esistono dei programmi matematici

al computer per il trattamento così si riduce al massimo il rischio di selezionare un gruppo di

pazienti a prognosi migliore. Quindi per lo studio randomizzato si valutano i criteri di inclusione:

tutte le donne con una data età, che hanno una malattia metastatica che si evolve, che hanno fatto

una terapia antitumorale, ecc. Fatto questo, abbiamo un gruppo abbastanza omogeneo. Alla fine

potremo dire: B è meglio di A oppure B, nonostante tutte le promesse di fase I e II, effettivamente

al confronto è uguale ad A, forse è peggio di A o è uguale ma meno tossico di A. Se è uguale ad A

con la stessa tossicità non ci interessa, se è peggio di A non ci interessa, se è uguale ad A ma meno

tossico potrebbe essere una valida alternativa terapeutica in pazienti che hanno un rischio di

tossicità. Certamente noi andiamo a trovare un farmaco migliore di A in tutti i suoi aspetti e diventa

il nuovo standard. Questo processo è estremamente lungo, costoso, complesso. Dal momento in cui

una molecola viene ipotizzata dal chimico e viene sintetizzata al momento in cui tutte le fasi

precliniche e cliniche sono andate bene possono passare 10-15-20 anni. Quindi il processo di

evoluzione terapeutica in oncologia è molto lento e spesso un processo con fasi piuttosto negative e

frustanti perché probabilmente delle 100 molecole che partono, solo 1-2 arrivano. Le cellule

tumorali si possono attivare, i tumori possono essere eterogenei, difficilmente troviamo un farmaco

che ha un effetto specifico su un bersaglio molecolare veramente importante in quel tumore e non

sempre riusciamo in fase di sperimentazione a sperimentare i farmaci nel paziente giusto. Per

esempio quando si è cominciata la sperimentazione per i farmaci a bersaglio molecolare questa

venga fatta in tutti i pazienti. Il primo caso in cui la sperimentazione fu fatta in maniera selezionata

furono le donne con cancro della mammella con tumore erbB2 positivo (cioè con amplificato). Se

trastuzumab fosse stato sviluppato già in fase I e II in tutti i tumori della mammella non

concentrandosi su donne in cui il bersaglio molecolare amplificato era estremamente importante Il

trastuzumab non sarebbe mai arrivato in commercio, perché le donne con erbB2 amplificato sono il

20-25%. Il trastuzumab funziona nel 30- 40% di queste donne.

I farmaci anti-EGFR del polmone sviluppati nella popolazione generale dava una percentuale di

risposte del 10-15% però erano pazienti per i quali non esisteva nessun trattamento e quindi anche

quel 10-15% era migliore dello 0% di risposte. Però ad esempio una mutazione molto rara che

esiste solo nel 4-5% di adenocarcinomi del polmone dove c'è un riarrangiamento genico con

traslocazione del gene ALK4 presente in alcuni linfomi (TK di membrana che quando riarrangiata,

traslocata, produce la proteina attiva che è la causa del tumore). Se non si fosse scoperto che una

delle molecole in sviluppo bloccava questo riarrangiamento, non si sarebbe mai sviluppato questo

farmaco. Si scoprì la presenza di questa mutazione, si sapeva che esisteva un farmaco che si chiama

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crizotinib che blocca anche questo recettore alterato e sin dagli studi di Fase I si ebbero risposte nel

50-60%. Poi si è scoperto che i pazienti con tumore del polmone ALK4 positivo sono pazienti con

adenocarcinoma polmonare non fumatori in cui il gene EGFR è mutato. Quindi in un paziente con

adenocarcinoma non fumatore andiamo a vedere se c’è EGFR mutato che lo troviamo nel 10-15% e

ALK4 alterato nel 4-5%. Quindi sono circa il 20%, 1 su 5, pazienti con tumore del polmone non

legato al fumo, con adenocarcinoma, che hanno una mutazione genetica che è attaccabile con un

farmaco specifico.

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Lezione del 9/04/2014

- Cancro del colon-retto –

I tumori del colon retto sono estremamente importanti dal punto di vista

sociale,perché rappresentano uno dei 4 big killers (i tumori solidi più diffusi del

mondo occidentale) : i big killers sono il t. del polmone, della prostata, della

mammella e t. del grosso intestino (come quello del colon retto).

Questo tumore è ugualmente diffuso nell’ uomo e nella donna e attualmente

rappresenta la seconda causa di morte per tumore nell’uomo(1°= t.polmone) e

tra seconda e terza(meglio terza) nella donna (1°= polmone 2°= mammella) : in

alcuni paesi la mortalità per i tumori del colon è superiore di quella per cancro

alla mammella. Attualmente la maggior parte delle neoplasie solide maligne

nell’ adulto sono localizzate nel grosso intestino,il che significa che in Italia

abbiamo 40000-45000 nuovi casi per anno. La malattia non sempre insorge o

viene diagnosticata come malattia localizzata ma in circa ¼ dei casi insorge già

come malattia metastatica,con minore possibilità di guarigione. Inoltre i tumori

del colon e i tumori del retto hanno delle presentazioni cliniche diverse e

diverso è anche il trattamento. Queste malattie, quando non ancora diffuse e

limitate a livello loco regionale danno possibilità di guarigione completa con un

trattamento di tipo chirurgico. Quando invece la malattia è metastatica, è molto

più importante la terapia sistemica, accanto ad una terapia loco regionale o

come unica terapia.

Per fortuna nel cancro metastatico del colon retto una percentuale che arriva

anche al 20-30% dei casi sviluppa metastasi solo in un organo: il fegato

(attraverso la circolazione portale queste neoplasie hanno una via privilegiata

verso il fegato). In una percentuale importante di pz. ,dunque, è possibile una

escissione delle metastasi epatiche(considerando che è possibile intervenire

anche con escissioni che lascino il solo 20-25% di fegato sano!).

Nell’ 80% dei casi,quelli del colon retto, sono tumori sporadici.

In queste forme il fattore protettivo è la dieta mediterranea,ricca in legumi

verdure, povera in carni rosse e grassi animali. Una dieta ad alto contenuto di

grassi e proteine animali è invece una dieta sfavorevole tanto che i tumori del

grosso intestino erano inizialmente più frequenti nei paesi anglosassoni. Il

cambiamento delle nostre abitudini alimentari ha oggi portato un aumento del

rischio dietetico appianando le differenze. WWW.SUNHOPE.IT

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Esistono poi delle lesioni preneoplastiche che si presentano come displasie e

precedono in molti casi il carcinoma. Queste lesioni spesso sono chiamate

polipi adenomatosi, formazioni peduncolate che crescono dalla mucosa verso il

lume del grosso intestino e a seconda delle caratteristiche istologiche possono

essere:

- Tubulari : sono le lesioni più differenziate

- villosi

- tubulo villosi:sono le lesioni più indifferenziate

non sempre gli adenomi diventano carcinomi, ma quasi sempre sono la

lesione preneoplastica iniziale. Esiste un differente percorso evolutivo dal

punto di vista istologico nella sequenza adenoma-carcinoma che differenzia i

tumori benigni e maligni e che in realtà è legato al numero di mutazioniu

accumulato nelle cellule. Fin quando non si raggiunge un numero elevato di

mutazioni che favorisca i geni proliferativi, non si arriva ad un cancro

avanzato.

Per quanto riguarda le forme familiari: vi sono alcune malattie genetiche che

aumentano significativamente il rischio di cancro del colon-retto. Quella che

porta cancro nel 100% degli individui affetti è la

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poliposi adenomatosa familiare: il gene APC sul cromosoma 5(braccio

lungo) è responsabile di questa condizione a trasmissione autosomica

dominante. In questi individui ,sin dalla nascita, in tutto il grosso intestino, si

sviluppano dei polipi adenomatosi che sono più di un centinaio di migliaia e

capite bene quanti di essi possano andare incontro a trasformazione

neoplastica. Unica terapia efficace (in età adolescenziale o all’ inizio dell’

età adulta) è la pancolectomia.

Vi sono invece almeno 2 sindromi di Linch che portano tumori con

caratteristiche diverse perché questi sono tumori non poliposi e hanno una

penetranza minore. Quindi circa il 50% dei pz. con gene alterato per la s. di

Linch sono quelli che svilupperanno il tumore.

Dal punto di vista istologico i tumori del colon derivano dalle ghiandole

epiteliali (sono appunto adenocarcinomi) e sono più o meno differenziati.

Diffondono sia localmente, sia attraverso la via ematica e linfatica. La prima

stazione linfatica è quella dei linfonodi locoregionali. come abbiamo detto la

prima tappa della via ematica è invece il fegato (30% dei casi). Oggi

vediamo sempre più spesso comparire metastasi cerebrali perché

chiaramente la sopravvivenza di questi pazienti è aumentata molto quindi il

tumore ha più tempo per diffondere.

SCREENING E PREVENZIONE SECONDARIA

Dal momento che i 2/3 dei pz. hanno oltre 60 anni si può ipotizzare in

intervento di prevenzione secondaria(screening) dai 50 anni in poi.

Ricerca di sangue occulto nelle feci:è la metodica più semplice ma la meno

sensibile. Una microlesione della mucosa può dare un microsanguinamento

ed essere indice della presenza di un tumore metastatico.

Pancolonscopia: l’unica metodica di screening affidabile.

- Più costosa

-richiede esperienza

-fastidiosa e con un minimo di morbilità.

-Richiede preparazione intestinale 12-16 ore prima

- richiede blanda sedazione

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Ciascuno di noi, raggiunti i 50 anni di età dovrebbe farla. Perché è così

importante? Perché consente di esplorare tutto il grosso intestino(dall’ano al

cieco) e soprattutto in caso di anomalie o lesioni,consente di fare una biopsia

diagnostica. La endoscopia inizialmente esplorativa può essere addirittura

terapeutica se, riscontrata una piccola lesione poliposa begnigna la si

asporta. Se l’endoscopia è negativa a 50 anni, le linee guida dicono di

ripeterla dopo 5-10 anni. Altre indagini sono sostanzialmente di supporto

alla colonscopia ed utili ad una successiva stadiazione.

SINTOMATOLOGIA

È molto aspecifica e molto tardiva e si confonde con molte altre patologie

del grosso intestino:

- alterazioni dell’alvo

- dolori addominali

Inoltre il pz. sottostima questi sintomi e va dal medico solo quando essi

divengono più importanti. Questa sintomatologia ,in particolare, diventa più

evidente soprattutto a destra (sigma-retto). Infatti, un tumore che protrude

nel sigma o nel retto,oltre a dare più facilmente sanguinamenti, da più

facilmente alterazioni dell’alvo con difficoltà nell’emissione delle feci, fino

al completo blocco gastrointestinale. Spesso un pz. si presenta al pronto

soccorso per occlusione o perforazione intestinale.

I tumori del retto metastatizzano più precocemente per via ematica al fegato

di quanto non facciano i tumori del colon ascendente. In conclusione, è più

probabile che la malattia al colon dx venga diagnosticata tardivamente e

quindi che sia già metastaticamente avanzata,perché si manifesta più

tardivamente (astenia cronica,lenta anemizzazione)ed è meno evidente, più

subdola. Anche per questo generalmente i tumori destri sono

prognosticamente più sfavorevoli.

Il colon destro e sinistro hanno una diversa embriogenesi

(il colon destro è l’intestino prossimale, il colon sinistro fino al retto è un

intestino distale. I 2 intestini sono separati dal c. trasverso) e quindi le

cellule, a seconda della localizzazione(dx/sn), possono accumulare diverse

mutazioni:per esempio sono più frequenti le mutazioni di Ras e B-Raf nei

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tumori destri( in particolare quelle di B-Raf sono mutazioni estremamente

sfavorevoli).Oltre a questo è probabile anche che in generale le attuali

metodiche di screening siano più idonee ad individuare più facilmente i

tumori del colon a destra che a sinistra. Sicuramente importante è ricordare

che fino a quando si interviene su una malattia in fase precoce non ancora

infiltrante la guarigione è possibile al100%.

STADIAZIONE

Una volta fatta la diagnosi istologica mediante prelievo bioptico (durante

colonscopia) è necessario procedere alla stadiazione per assodare se il

tumore è ancora in fase loco regionale, cosa che consentirebbe un intervento

curativo radicale, o se la malattia è già metastatica. Nell’ ambito della

malattia metastatica,resta poi da stabilire se sia multimetastatica (e quindi

non più trattabile dal punto di vista della guarigione) o metastatica

esclusivamente al fegato che in alcuni casi risulta trattabile soprattutto con

l’aiuto della terapia chirurgica.

Per la stadiazione ci si avvale di altre metodiche di diagnostica di immagine

che ci consentono di valutare l’entità delle lesioni:

- TC addomino-pelvica: può evidenziare eventuali ispessimenti della parete

dell’intestino che può portare ad un sospetto di neoplasia, tuttavia non è

l’indagine più accurata e non evidenzia lesioni peritoneali come la

disseminazione diffusa, definita carcinomatosi peritoneale. Il discorso è

diverso per le metastasi epatiche perché la TC è capace di individuare

lesioni anche piccole nel fegato.

- Scintigrafia ossea: nella maggioranza dei casi,fortunatamente, non si

evidenzia infiltrazione ossea (presente solo in casi più avanzati)

- Risonanza magnetica della pelvi: è molto importante per valutare i livelli

di infiltrazione della parete e del grasso perirettale (mesoretto) e dei

linfonodi,nonché la compressione di vasi(specie da parte delle metastasi

epatiche).

Un tipo di stadiazione molto semplice è la stadiazione di Hooks(??),

prettamente chirurgica che stabilisce 4 stadi:

A = tumore in fase iniziale. Si estende fino alla sottomucosa

B = malattia che va fino agli organi pericolici senza coinvolgere i linfonodi

C = qualsiasi tumore con coinvolgimento dei linfonodi WWW.SUNHOPE.IT

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D = malattia metastatica

NB: gli stadi A e B evidenziano una malattia loco regionale facilmente

asportabile.

La classificazione TNM è simile e T prevede gli stadi 1(malattia

localizzata),2,3,4(m.metastatica). Una fase fondamentale nell’ evoluzione

della malattia è l’infiltrazione dei linfonodi loco regionali perché determina

un notevole cambiamento dal punto di vista prognostico. Nella

classificazione TNM distinguiamo

N0 = non si ha coinvolgimento linfonodale

N1 = fino a 3 linfonodi coinvolti

N2 = 4 o più linfonodi sono coinvolti

N3 = tutti i linfonodi asportati sono infiltrati

È possibile fare questa stadiazione (specie per N) solo dopo intervento

chirurgico.

Sbobinata da Nello Esposito

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CANCRO DEL POLMONE

Il cancro del polmone è una patologia a prognosi particolarmente infausta., questo perché è un

tumore che non sempre risponde ai trattamenti chemioterapici , nella maggior parte quasi nessun

tumore, però voglio precisare questo quasi perché oggi ci sono dei tumori che grazie al trattamento

riescono a guarire e scomparire, primo tra questi il cancro del testicolo, oggi cancro curabile.

Tutti conoscete la correlazione con l’esposizione al fumo, che è stato riconosciuto il principale

fattore di rischio per il cancro del polmone. È la principale causa di morte per cancro nel mondo.

Tra tutti i tumori quello che porta più frequentemente a morte è il cancro del polmone; addirittura

da poco ha superato anche le malattie cardiovascolari come causa di morte nei soggetti fumatori.

È la principale causa di morte per cancro nell’uomo e nella donna. Ovviamente è cosa diversa dire

frequenza del tumore e mortalità. I tumori più frequenti sono il cancro della mammella e della

prostata, sono quei tumori che hanno un risvolto nella società più importante; oggi si fa screening

per cancro della mammella e si tenta anche a fare screening per il cancro della prostata. Sebbene

siano i più frequenti non sono talmente mortali come lo è il cancro del polmone. Da un lato c’è un

comportamento biologico della malattia che è molto meno aggressivo, dall’altro le scoperte

riguardo i nuovi approcci terapeutici , la nuova gestione dei pazienti affetti da cancro di mammella

e prostata hanno consentito un notevole miglioramento dei tempi di sopravvivenza.

Per il cancro del polmone nell’ultimo decennio stiamo assistendo a notevoli miglioramenti,

importanti scoperte, importante decifrazione del codice con cui è stata scritta la malattia, stiamo

assistendo a dei miglioramenti dei tempi di sopravvivenza , ma è ancora troppo presto per ritenerci

soddisfatti come nel caso del cancro della mammella.

La patologia è infausta, difficile da gestire perché è particolarmente aggressiva , tende ad invadere i

linfonodi loco-regionali, non sempre esplorabili, a differenza per quanto può avvenire nel colon, in

cui il pz che viene operato per cancro del colon l’asportazione dei linfonodi è ormai una regola, un

minimo di 15 linfonodi devono essere asportati, le estrazioni linfonodali sono ben definite. Per il

cancro del polmone i linfonodi sono molti di più, sono dislocati in aree anatomiche difficili da

raggiungere e non è possibile sperare in una dissezione linfonodale completa se paragonata a quella

del cancro del colon. D’altronde dal punto di vista anatomico è molto più complicato questo perché

l’arrivo del sangue ai segmenti polmonari avviene tramite una dettagliata rete arteriosa, ma il flusso

venoso è comune tra i segmenti dei lobi polmonari, quindi la cellula tumorale che parte da un

focolaio primitivo facilmente tende a diffondersi nei segmenti vicini. È una malattia , quindi, che

evolve molto più rapidamente.

Ha dal punto di vista biologico un comportamento molto più aggressivo e fino ad oggi solo su

particolari fette di pazienti sono stati individuati i geni responsabili della carcinogenesi di questa

patologia.

In generale, dal punto di vista istologico il cancro del polmone non è un’unica entità.

Nell’80% dei casi il cancro del polmone non è un cancro a piccole cellule, nel restante 20 % è a

piccole cellule. La piccola cellula è una cellula linfocitosimile, è una cellula piccola che ha un

origine neuroendocrina . Il microcitoma. ha un comportamento biologico completamente diverso,

inteso in genere come malattia sistemica fin dall’inizio: non si riesce ad identificare un primo o

secondo stadio nel microcitoma, è talmente rapido che in genere nella maggior parte dei casi la

malattia è già metastatica. Nel microcitoma fino a poco tempo fa ( dico fino a poco tempo fa perché

la visione sta un po’ cambiando ) l’intervento chirurgico non era fattibile quasi mai e si andava

direttamente con un trattamento sistemico, endovena.

Parliamo invece oggi e la prossima volta, del cancro del polmone non a piccole cellule, ovvero il

cancro del polmone che prende origine dalle cellule di rivestimento dell’epitelio bronchiale o dalle

cellule degli alveoli , che quindi non ha le caratteristiche neuroendocrine del microcitoma ed è

quello comunemente legato a fattori ambientali ( fumo, inquinamento , etc) .

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Nell’ambito del tumore del polmone non a piccole cellule si distinguono 3 sottoentità:

adenocarcioma, carcinoma squamoso, carcinoma a larghe cellule; quest’ultima entità è un entità

istologica che va scomparendo perché si è visto che dal punto di vista patogenetico e biologico

tende ad accomunarsi all’adenocarcinoma. Quindi le due principali entità sono carcinoma squamoso

e adenocarcinoma. Il carcinoma squamoso è di solito localizzato in una sede centrale, ovvero quella

a diretto contatto con i principali bronchi; è quel tumore che nasce probabilmente perché più

correlato all’esposizione al carcinogeno ambientale che viene inalato e che raggiunge per prima la

regione centrale. Per tumore periferico, adenocarcinoma, intendiamo quel tipo di tumore che

insorge in parenchima polmonare, un po’ più distante dai bronchi, che è legato al fumo però ci sono

probabilmente altri eventi che scatenano la trasformazione neoplastica.

Fattori di rischio: ci sono predisposizioni genetiche, ci sono delle sindromi per esempio la Li

Fraumeni, deficit della p53, che predispongono al rischio di tante altre neoplasie. Ad oggi i fattori di

rischio fondamentali sono : fumo di sigaretta, carcinogeni ambientali, l’ambiente lavorativo(

l’asbesto, l’amianto correlati non solo al rischio di mesotelioma, quindi cancro della pleura , ma

dello stesso cancro del polmone).

Che cosa succede durante la trasformazione neoplastica? Vi ricordo che l’epitelio che riveste i

bronchi è un epitelio epiteliale a funzione ghiandolare, in quanto secernenti muco, non a caso hanno

una struttura cilindrica e sono ciliate all’apice proprio perché hanno la funzione di produrre muco e

di spingerlo verso l’esterno. Per quanto riguarda invece i pneumociti che tappezzano gli alveoli

polmonari sono anche esse delle cellule di origine epiteliale a funzione ghiandolare, questo perché

dobbiamo distinguere l’epitelio ghiandolare da quello di rivestimento come per esempio

l’epidermide.

In oncologia medica ogni nome ha un suo significato, per cui nella maggior parte dei casi i tumori

benigni terminano con il suffisso – oma e prima l’origine cellulare da cui il tumore prende origine.

Ad esempio un tumore benigno che prende origine da un epitelio ghiandolare si chiamerà adenoma

( perché adeno significa per l'appunto ghiandola) . Il polipo che si ritrova durante una colonscopia è

una lesione benigna che prende origine da un epitelio di rivestimento di tipo ghiandolare come è per

l’appunto l’epitelio del colon, per cui si chiama adenoma.

Qualora invece non siamo di fronte ad un tumore benigno ma ad un tumore maligno non si parla più

di adenoma ma di adenocarcinoma.

Quando invece parliamo di epitelio di rivestimento, un epitelio che non produce muco ma che ha

solo funzione di proteggere, quindi l’epidermide o l’epitelio di rivestimento dell’esofago, in quel

caso nel caso di lesione benigna parliamo di epitelioma e nel caso di lesione maligna di carcinoma

squamoso.

Nel caso del cancro del polmone abbiamo detto che le cellule che rivestono l’epitelio bronchiale e

gli alveoli polmonari sono cellule di origine ghiandolare, in quel caso il tumore maligno si chiamerà

adenocarcinoma. E a quel punto come vi spiegate la presenza anche di un’entità rappresentata anche

dal carcinoma squamoso nel polmone, non essendoci un epitelio di rivestimento all’interno del

polmone? Che cosa succede nel polmone affinché vi sia un evoluzione verso un carcinoma

squamoso? Allora abbiamo detto che nel carcinoma squamoso soprattutto il fattore di rischio

principale è il fumo. Senz’altro ci sono dei carcinogeni legati al fumo di sigaretta che determinano

alterazioni della catena del DNA e un’alterazione della catena genetica, ma il fumo di per sè è un

AGENTE INFIAMMATORIO e alla fine la principale causa di trasformazione neoplastica è la

famosa FLOGOSI CRONICA. L’infiammazione cronica è un processo di danneggiamento continuo

della struttura a cui l’organo cerca di riparare proliferando, tentando di cicatrizzare e di fronte ad

una flogosi cronica la proliferazione diventa cronica. Più aumenta il tasso di proliferazione più

aumenta la probabilità che compaiano nuove mutazioni o alterazioni genetiche che comportano poi

la trasformazione neoplastica. Lo stesso concetto di quello che accade nel fegato: nel fegato

epatitico, nei soggetti affetti da HCV almeno il 5 % di questi va incontro a cancro del fegato.

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Questo perché l’epatite cronica, allo stesso modo attraverso la flogosi cronica, stimola una serie di

meccanismi di riparazione e proliferazione che portano nel corso del tempo prima alla cirrosi e poi

allo sviluppo del cancro.

La flogosi cronica indotta dal fumo, o al soggetto esposto cronicamente per ragioni lavorative

all’asbesto, all’inquinamento ambientale, ad altri carcinogeni comporta un danno continuo lungo

l’epitelio bronchiale. Man mano che continua l’esposizione cronica al fumo e quindi continua la

flogosi cronica le cellule continuano a proliferare, quasi che volessero proteggere le strutture

sottostanti dall’insulto dell’infiammazione. Se prima avevamo un solo strato successivamente

diventa pluristratificato, questo è un processo reversibile e benigno, definito iperplasia,

semplicemente aumento della proliferazione delle cellule. Col il passare degli anni la flogosi

continua, l’epitelio si deve difendere, l’iperplasia continua e subentra il fenomeno della metaplasia.

La metaplasia come definizione è data da quel processo per cui una cellula epiteliale con una data

specializzazione, in questo caso ghiandolare, cambia verso un altro tipo di specializzazione. In

questo caso l’epitelio da ghiandolare si trasforma in epitelio di rivestimento. Vedete che qui

(riferendosi alle slides) le cilia non ci sono più, le cellule non hanno più l’aspetto cilindrico, qui le

cellule si appiattiscono per proteggere gli strati sottostanti dall’agente contenuto nell’aria. Questa si

chiama metaplasia squamosa. È un processo benigno e reversibile: nel senso che se il soggetto nella

fase della metaplasia squamosa interrompe il fumo e fa un buon trattamento con antinfiammatori il

processo ritorna indietro verso l’epitelio normale ghiandolare. Che cosa succede però se non si

smette di fumare e non si riduce l’esposizione all’agente dannoso? La flogosi continua, la

proliferazione continua, nell’ambito della metaplasia squamosa lì cominciano ad esserci i primi

danni sul codice genetico e si manifestano le prime alterazioni della cellula, ovvero la displasia. La

displasia è il punto di non ritorno, nel momento in cui compare una displasia non si può più tornare

indietro, il processo può solo andare avanti. La displasia è rappresentata da un alterazione non solo

nelle sequenze delle basi azotate del DNA ma anche nell’alterazione della struttura stessa cellulare (

comincia a perdere la famosa inibizione da contatto, comincia ad avere più nucleoli, un aspetto più

addensato della cromatina…). Avremo alterazioni di tutte caratteristiche morfologiche che ci fanno

indicare un quadro di displasia che può essere lieve, moderato o grave. Quando si arriva alla

displasia grave parliamo già di cancro in situ, oramai l’evoluzione a cancro è avvenuta.

Quindi tutto è reversibile fino alla metaplasia, dalla displasia in poi non si può più tornare indietro.

In genere si dice che chi smette di fumare deve attendere 15 anni di sospensione dal fumo per

ritornare al rischio originario del non fumatore, perché dalla metaplasia per tornare indietro ci

vogliono fino a 15 anni.

Per quanto riguarda l’adenocarcinoma evolve direttamente dalla cellula epiteliale con funzione

ghiandolare, si ha un passaggio un po’ più rapido, forse anche per questo l’adenocarcinoma è un po’

più aggressivo che passa attraverso l’iperplasia adenomatosa atipica che precede l’adenocarcinoma.

Dal punto di vista clinico è importante distinguere tra adenocarcinoma e carcinoma squamoso

perché il comportamento clinico cambia: il carcinoma squamoso ha un evoluzione molto lenta, il

classico tumore del polmone nel soggetto anziano che ha fumato tutta una vita, tende a localizzarsi

a livello toracico e dare metastasi in fase molto più tardiva; mentre l’adenocarcinoma è un po’ più

aggressivo, un po’ meno legato al fumo ma può essere legato all’esposizione al fumo, ha una

localizzazione periferica , in pieno parenchima, lontano dai bronchi e tende a dare metastasi molto

più precocemente.

La prossima volta vedremo anche come l’adenocarcinoma è un’entità presente pure nei soggetti non

fumatori e si è visto in che questi soggetti la principale causa è rappresentata da mutazioni

genetiche, le quali però possono essere colpite con specifici farmaci e che migliorano notevolmente

la sopravvivenza, cosa che non avviene per esempio nel pz fumatore con carcinoma squamoso in

cui è più difficile individuare una singola mutazione, è difficile tra le diverse mutazioni individuare

quella più importante. In alcuni sottogruppi di soggetti non fumatori sono state individuate singole

mutazioni capace da sole di guidare la crescita dell’intero tumore.

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Oggi considerate che la sopravvivenza di un soggetto a cui viene diagnosticato il cancro del

polmone in fase 4, quindi metastatico, dalla diagnosi arriva a stento ad un anno.

I soggetti non fumatori che presentano quel particolare aspetto biologico , quelle specifiche

mutazioni che vengono trattati con quei determinati farmaci raggiungono una sopravvivenza che

arriva anche a 3 anni. La sopravvivenza , quindi, viene completamente triplicata.

Dal punto di vista clinico, purtroppo non vi sono sintomi specifici , ovviamente i sintomi più

frequenti sono : dispnea, tosse ed espottarazione, emottisi e l’emoftoe, cianosi.

Sono sintomi totalmente aspecifici. La cronicizzazione di questi sintomi, la persistenza di questi

sintomi nonostante i comuni trattamenti antinfiammatori devono porre l’attenzione verso un

approfondimento diagnostico.

- La Dispnea può essere legata non solo ad un problema polmonare, ma anche ad un problema

cardiologico, ad uno stato anemico importante…..

- Tosse .Il cancro del polmone può presentare sia una tosse stizzosa, irritativa, dovuta ad uno

stimolo bronchiale, sia una tossa produttiva, caratterizzata da espettorato muco-purulento, magari

perché la massa ostruisce il deflusso dei muchi, favorendo la sovrainfezione batterica, quindi si

sovrappongono bronchiti classiche che sottendono un tumore di base.

- L’emottisi e l’emoftoe forse sono i principali segni di allarme, cioè l’emissione di sangue con

l’espettorato prevalentemente rappresentato da sangue, questo è quello che spaventa per lo più il

paziente. Queste sono evenienze che possono essere anche in concomitanza di vari quadri di

atelettasia, tbc, embolie polmonari, bronchiectasie , etc. Nel caso di cancro la perdita di sangue

nell’espettorato è causato dall’erosione della parete bronchiale, il cancro sta iniziando ad erodere il

bronco.

- Dolore toracico. Sapete tutti che la pleura viscerale e il polmone non sono forniti di innervazioni

nervose, quando c’è dolore c’è l’interessamento della pleura parietale, quando il dolore è molto più

importante vi è l’interessamento anche della parete toracica ( parliamo di muscoli, nervi intercostali,

coste) o addirittura interessamento dei plessi brachiali come nel tumore dell’apice polmonare,come

nel caso del tumore del Pancoast.

-Cute e mucose. In genere il soggetto è pallido ( per un alterato scambio,un’alterata ossigenazione),

magari cianotico ( per un inadeguato scambio di ossigeno sia a livello centrale che a livello

periferico); mani: dita a bacchetta di tamburo e a vetrino di orologio, segni patognomonici di una

sofferenza polmonare e spesso il soggetto anziano, fumatore da tempo presenta questo quadro.

A seconda di dove insorga il tumore possiamo aspettarci una diversa sintomatologia.

-Per tumori a sede centrale, quindi a diretto contatto con i bronchi, potremmo avere tosse, stizzosa

nelle iniziali fasi quando il tumore irrita il bronco, poi produttiva, muco-purulenta quando il tumore

blocca il flusso delle normali secrezioni mucose, quindi si avrà una sovrainfezione batterica con

l’insorgenza della vera e propria polmonite e bronchite lobare; tale quadro potrà sovrapporsi a

quello di un ascesso polmonare qualora la sovrainfezione tenda ad essere circoscritta. Inoltre

potremmo avere l’emottisi per erosione della parete bronchiale e dispnea.

-Per tumori a localizzazione più periferica la sintomatologia insorgerà un po’ più tardi perché non

essendoci bronchi non avremo segni iniziali di interessamento, il tumore dovrà raggiungere

dimensioni tali da dar fastidio magari alla pleura parietale e quindi evocare dolore, stimolare anche

essa la tosse quando darà poi localizzazioni più vicine ai bronchi, provocare allo stesso modo

dispnea o la formazione di ascessi polmonari.

-E poi invece abbiamo delle localizzazioni particolari quando la malattia neoplastica si va a

caratterizzare in determinate regioni: tumore di Pancoast ( interessa sia il plesso brachiale sia il

simpatico cervicale) , la sindrome di Claude Bernard- Horner , o magari un tumore in sede para-

mediastinica che va ad infiltrare la vena cava superiore. In una sindrome del genere la vena cava

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superiore non riesce a scaricare il sangue refluo per cui si avrà un quadro di vera e propria

emergenza , con il famoso edema a mantellina, turgore delle giugulari, etc etc.

Altro caso è rappresentato dall’infiltrazione da parte del tumore di strutture nervose importanti

come il nervo frenico, in questo caso avremo 2 fasi: una prima fase irritativa, caratterizzata dal

cosiddetto singhiozzo patologico, incoercibile, resistente ai vari farmaci contro il singhiozzo e una

seconda fase, terminale in cui si avrà la paralisi diaframmatica.

Altro caso è l’interessamento del nervo laringeo con il famoso abbassamento della voce per poi

averne la scomparsa per interessamento della motilità di entrambe le corde vocali.

Accanto ai sintomi sopraccitati, possiamo avere le famose sindromi paraneoplastiche, cioè la

comparsa di corredi sintomatologici e sindromici che compaiono in organi a distanza rispetto a

quello in cui insorge il tumore e che sono più frequentemente associate al cancro del polmone.

Possiamo avere sindromi dermatologiche come l’ Acanthosis nigricans, la CID, quadri di

eritrocitosi o addirittura di anemia, piastrinosi o piastrinopenia, sindrome da secrezione

inappropriata di ADH o di ACTH,etc . Sono quadri molto variabili, talvolta inspiegabili.

Poi vi sono le indagini da fare di fronte ad un pz che presenza questi sintomi, questi segni che non

scompaiono con i normali farmaci antinfiammatori o che sono sorti all’improvviso in una

condizione di relativo benessere. Prima di tutto si parte da esami di primo livello, meno aggressivi,

come per esempio l’analisi dell’espettorato ( nella maggior parte dei tumori squamosi, ovvero

centrali, quando vi è tosse ed espettorato parte delle cellule neoplastiche vengono sfaldate e quindi è

possibile andarle a ricercare al microscopio) e una radiografia del torace, anche se poco sensibile se

ben fatta e ben interpretata riesce ad individuare lesioni al di sopra di determinate definizioni.

Quando il sospetto è confermato da una radiografia o la radiografia fatta non è sufficiente per

escludere un’ipotesi di cancro, si procede poi con la TAC. La TAC è molto più sensibile, consente

di visionare bene sia le strutture del mediastino, sia le strutture del parenchima polmonare, sia

trachea e bronchi. Qualora noi dovessimo avere la conferma di una massa si procederà poi con una

TAC total body perché poi dobbiamo capire questo tumore in che stadio è , quindi una TAC

stadiativa proprio per la ricerca di eventuali ricerche metastiatiche ; inoltre dobbiamo procedere con

una scintigrafia ossea per la ricerca di metastasi ossee.

Il cancro del polmone presenta come principali sedi metastatiche: l’encefalo, il fegato, il surrene e

l’osso.

In oncologia medica però la diagnosi non è radiologica , la diagnosi in oncologia medica è sempre

cito-istologica. Per effettuare l’esame cito-istologico è necessario prendere un po’ di materiale per

analizzarlo e per analizzarlo ci aiuta molto la broncoscopia che è l’esame di elezione per i tumori

centrali a contatto con i bronchi o anche la biopsia percutanea eventualmente TAC guidata per

quei tipi di tumori più periferici che non si possono raggiungere tramite l’approccio broncoscopico.

Talvolta quando il pz è anziano e non riesce a fare la broncoscopia né tanto meno la fnab si

preferisce pungere l’eventuale sede metastatica – quella più semplice è quella epatica che tramite

una semplice ecografia va ad essere punta- e quindi si preleva del tessuto della metastasi che se

abbastanza differenziato ci consente di fare diagnosi definitiva.

Allora qui vi sono degli esempi di radiografia del torace ( riferendosi alle slides) vedete il lobo

superiore di sinistra presenta una radio-opacità, qui abbiamo un versamento a destra, qui abbiamo

un’opacità al lobo medio del polmone di destra… Nella TAC vedete questa è una “finestra per

parenchima “ riesce quindi a farci studiare bene il parenchima polmonare, i vasi sanguigni, gli osti

bronchiali etc; mentre invece questa, sempre alla TAC, è una “ finestra mediastinica” che ci rende

nero il parenchima polmonare ma ci consente di analizzare linfonodi, vasi , bronchi, etc. Questa è

la massa polmonare, notate vi sono aree più nere, queste sono aree di necrosi colliquativa ; in queste

aree più centrali è difficile che arrivi sufficiente ossigeno, per cui le stesse cellule tumorali vanno in

ipossia e muoiono .

Quindi attraverso l’analisi isto-citopatologica dobbiamo sapere se è un cancro prima di tutto, perché

vi possono essere anche delle regioni radio-opache che non rappresentano lesioni tumorali come ad

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esempio aree di atelettasia ; poi dobbiamo scoprire se è un tumore benigno o maligno ( non è raro

un condroma all’interno del parenchima polmonare ) ; se di origine polmonare o espressione

metastatica di un tumore con un’altra sede ; poi se di origine polmonare se è un tumore a piccole

cellule; qualora non fosse di piccole cellule dobbiamo sapere se è un tumore a cellule squamose o

un adenocarcinoma. Quindi la diagnosi di certezza è l’analisi anatomo-patologica. L’esame

istologico ci deve dare l’istotipo ( adenocarcinoma o carcinoma a cellule squamose) e il grading (

grado di differenziazione) . Durante la trasformazione neoplastica dalla cellula normale a quella

cancerosa vi è una sorta di “ sdifferenziazione” , vale a dire la cellula perde le caratteristiche

classiche che aveva in origine.

Ogni cellula ha lo stesso corredo genetico nel nostro organismo, ciò che le differenzia è

l’attivazione o lo spegnimento di geni che determinano la specializzazione funzionale. Durante la

trasformazione neoplastica si ha un evoluzione all’indietro : la cellula oramai differenziata va

incontro a “ retro-differenziazione”, perde le caratteristiche della cellula da cui ha preso origine e da

monopotente comincia ad acquisire le caratteristiche della cellula multipotente. Il Grading ci dice a

che livello la cellula è arrivata in questa fase di “sdifferenziazione”. Possiamo avere tumori che

sono ben differenziati ( tumori quindi meno aggressivi) e tumori scarsamente differenziati ,

maggiormente aggressivi e invasivi. Quindi i tumori di origine epiteliale devono essere

differenziati in tumori ben differenziati, mediamente differenziati e scarsamente differenziati (

rispettivamente G1, G2 e G3 ). L’anatomo patologo quindi dovrà darci informazioni sulla presenza

o meno di cancro, sulla benignità o malignità, sull’istotipo, microcitoma o non microcitoma ( se

siamo nel non microcitoma ci dovrà dire se è squamoso o è adenocarcinoma e anche quanto è

differenziato), il grading.

Il gradind e l’istotipo sono fattori diagnostici , indicatori dell’aggressività della malattia.

Le strutture ghiandolari generalmente presentano al loro interno anche dei vacuoli di muco, questa è

una struttura ben differenziata in cui si vedono ancora gli acini mucosi , la produzione di muco, etc ,

quindi ha un organizzazione simile all’organo da cui ha preso origine ; nello scarsamente

differenziato la capacità di produrre muco è persa, quindi la malattia è estremamente aggressiva

perché poco differenziata.

Per ottenere una diagnosi di certezza, quindi, gli approcci possono essere rappresentati dalla

broncoscopia, dalla biopsia percutanea TAC guidata, dall’esame dell’espettorato oppure ,nel caso

in cui ci troviamo di fronte ad un versamento pleurico neoplastico, dalla toracentesi ( raccoglimento

di liquido nel cavo pleurico nel quale vengono cercate cellule neoplastiche).

La broncoscopia ci permette sia di ispezionare, sia di prelevare tramite biopsia con pinza, mediante

spazzolamento o mediante lavaggio bronchiale; inoltre in caso in cui il tumore sia adiacente al

bronco e non sia nel lume l’agobiopsia trans-bronchiale ci permette di prelevare tessuto patologico

dalla sede vicina.

La stadiazione

La stadiazione è importante perché consente di rispondere alle sole due domande che interessano

veramente al paziente: la prognosi e la terapia. La prognosi sarà diversa per un pz al primo stadio,

rispetto ad uno al quarto stadio così come sarà diversa la terapia: nel primo stadio sarà chirurgica

all’ultimo sarà ablativa, cioè una terapia per cui non possiamo garantire la guarigione,

prevalentemente un trattamento sistemico per via endovenosa, che mira a palliare i sintomi,

tentando di prolungare la sopravvivenza ma il tentativo principale è garantire la qualità di vita del

pz.

TNM . T definisce la massa principale, le dimensioni, il contatto con le strutture adiacenti ; N ci da

informazioni sull’aspetto linfonodale : n1 = linfonodi peribronchiali ovvero più vicini alla

neoplasia, n2= sottocarenali, centrali, n3 = linfonodi controlaterali, criterio di inoperabilità , nel

momento in cui il tumore ha superato la linea mediana siamo nell’ambito della palliazione .

Ovviamente ogni stadio è correlato ad una prognosi diversa: nel primo stadio A abbiamo una

sopravvivenza a 5 anni del 50 %, nel quarto stadio del 2 %. Anche quando la malattia viene

diagnosticata in fase estremamente iniziale comunque il 50% dei pz muore a 5 anni.

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Questo significa che la malattia è di per sé aggressiva , molto pericolosa con alto tasso di recidiva

anche dopo intervento chirurgico potenzialmente guaritivo. Questo giustifica l’utilizzo anche nei

primi stadi del cosiddetto trattamento adiuvante, il trattamento chemioterapico che adiuva la

chirurgia, che si fa dopo una chirurgia effettuata con intento radicale per ridurre il rischio di

recidiva di malattia.

La stadiazione nel polmone si fa con la TAC total body, scintigrafia ossea e risonanza magnetica.

Nella TAC PET abbiamo quindi la combinazione dell’indagine morfologica e di quella funzionale

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Tumore del colon-retto: Terapia 14/04/14

Ogni qual volta che noi abbiamo un sospetto clinico di tumore del colon o del retto l’esame

diagnostico fondamentale da fare è una colonscopia con esecuzione di biopsie mirate che ci

permetterà di capire se si tratta di un carcinoma e quanto questo abbia infiltrato la parete, ma non ci

darà nessuna indicazione sui linfonodi o sulla presenza di eventuali metastasi. Per cui eseguito il

prelievo bioptico bisogna sempre fare una TAC addomino pelvica con contrasto endovena (nella

pratica clinica si fa anche una TAC del torace anche se per fortuna lesioni a livello toracico sono

rare in questo tipo di tumore). Raramente è possibile vedere alla TAC linfonodi, in genere la loro

presenza alla TAC si ha quando i linfonodi sono già abbastanza ingrossati e quindi la malattia è già

un po’ più avanzata. Difficile da vedere alla TAC la presenza di micro metastasi a livello

addominale. In seguito a questi esami sarà possibile effettuare una prima stadiazione clinico

strumentale che in base alle caratteristiche ci permette di capire se la malattia è potenzialmente

resecabile a livello loco regionale o se ci sono già metastasi a distanza. Quando ci sono metastasi a

distanza quasi sempre l’interessamento linfonodale verrà scoperto se e quando faremo l’intervento

chirurgico.

Prima di un eventuale intervento chirurgico ci troviamo di fronte a tre scenari possibili:

Una malattia che è apparentemente localizzata all’intestino con assenza di segni e sintomi

clinici e strumentali

Una malattia in cui oltre un tumore primitivo localizzato all’intestino ci sono metastasi

multiple

Una malattia in cui oltre un tumore primitivo localizzato all’intestino abbiamo

esclusivamente metastasi epatiche

Capite bene che da un punto di vista prognostico il primo caso è quello in cui probabilmente è

possibile porsi come obiettivo la guarigione, il secondo caso l’obiettivo è quello di cercare di

prolungare la vita del paziente e il terzo caso,solo per una certa quantità di pazienti, possiamo

sperare nella guarigione.

Tumore del colon localizzato:

Mettiamo caso che abbiamo una malattia localizzata dal cieco fino alla giunzione retto-sigmoidea.

L’ intervento essenziale è un intervento chirurgico che consiste nell’asportazione di circa metà

colon (emicolectomia) che sarà destra o sinistra a seconda del tratto interessato dalla neoplasia in

blocco con tutti i vasi e i linfonodi perivascolari presenti. Un tempo questo intervento veniva

eseguito in laparotomia, oggi nella maggior parte dei casi vengono eseguiti in laparoscopia con

ottimo recupero funzionale e una breve ospedalizzazione. Quasi sempre il chirurgo può optare per

una ricanalizzazione facendo un’anastomosi termino terminale tra il tratto a monte e a valle del

pezzo asportato. In alcuni casi il chirurgo può fare una colostomia di scarico temporaneo e poi mesi

dopo ricostituisce la pervietà del transito intestinale. A questo punto dopo l’emicolectomia

avremmo l’esame istologico definitivo che ci permetterà di conoscere meglio le caratteristiche

anatomo-patologiche, i gradi di differenziazione ma soprattutto ci permetterà di valutare eventuali

infiltrazioni metastatiche dei linfonodi loco regionali. Nel corso di una emilcolectomia vengono

asportati da 20 a più di 30 linfonodi di cui ne devo essere analizzati almeno 12 ed è molto

importante per un’eventuale terapia precauzionale da effettuare o meno, poiché se vi è la presenza

di 1 o più linfonodi metastatici è indicata una terapia adiuvante post chirurgica.

Tutti i pazienti che hanno almeno un linfonodo metastatico devono fare una terapia chemioterapica

adiuvante post chirurgica di durata fissa di almeno 6 mesi, con due farmaci. Uno è uno dei derivati

del platino ed è l’ Oxaliplatino e l’altro è il farmaco cardine delle fluoropirimidine ed è il

5Fluorouracile e la terapia viene chiamata FOLFOX. È una terapia endovena effettuata ogni 2

settimane per 6 mesi per una durata di 12 cicli. Questa terapia riduce del 20-25% il rischio di

recidiva e di morte del paziente. Oppure un’altra terapia alternativa è costituita dal 5fluorouracile

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con l’Irinotecan e la terapia viene chiamata FOLFIRI. In alcuni casi l’Oxaliplatino viene combinato

con il precursore del 5fluorouracile che è la Capecitabina e in questo caso la terapia verrà chiamata

XENOX: l’Oxaliplatino viene somministrato ogni 3 settimane in infusione breve e la Capecitabina

viene somministrate per os. 2 settimane si e una no per circa 6 mesi.

La scelta tra FOLFOX e XENOX è basata fondamentalmente su una serie di considerazioni cliniche

e non sulla loro efficacia in quanto sono equamente efficaci nel ridurre questa malattia.

Ovviamente può succedere che durante l’intervento chirurgico il chirurgo scopra delle lesioni

metastatiche che non erano visibili prima che possono essere tanto asportabili quanto no.

Se il chirurgo asporta e quindi vengono analizzati un numero di linfonodi minore di 8, questo può

essere ritenuto un campionamento insufficiente e quindi anche in questo caso viene fatta una terapia

adiuvante.

Tumore del retto:

Nel tumore del retto invece l’approccio terapeutico iniziale è diverso. Innanzitutto la chirurgia è

diversa: nella maggior parte dei casi l’intervento viene eseguito per via laparoscopica ma poichè il

retto è extraperitoneale ed è circondato da un tessuto fibroadiposo circondato da una fascia (la

fascia mesorettale), l’intervento chirurgico di asportazione completa del tumore localizzato del retto

deve essere un intervento di asportazione in blocco del tratto di retto interessato insieme con il

mesoretto e la fascia integra, quindi si chiama escissione mesorettale totale o completa e nella

maggior parte dei casi, grazie alle tecniche chirurgiche moderne e alle cucitrici meccaniche è

possibile preservare la continuità funzionale dell’organo facendo un’anastomosi termino-terminale

fra il tratto a monte e il tratto a valle della lesione.

Importante è l’asportazione del mesoretto perché contiene la zona dove più facilmente c’è la

diffusione della malattia per continuità, con infiltrazione dei linfonodi.

Diciamo che più è prossimo alla linea anale più difficile è fare l’anastomosi termino-terminale con

conservazione della funzionalità, per cui tumori del terzo inferiore del retto possono richiedere più

volte una colostomia esterna.

Quando vi è un tumore T3 o T4, o tumori che alla TAC pelvica o meglio alla RMN hanno un

sospetto d’infiltrazione dei linfonodi o coinvolgimento della fascia mesorettale, non sono più

trattabili inizialmente solo con l’intervento ma bisogna affiancare una terapia neoadiuvante

preoperatoria con radioterapia. Questa radioterapia può essere effettuata in due modi:

una usata spesso nei paesi scandinavi, ed è una radioterapia ad alte dosi per 5 giorni

consecutivi che permette di arrivare più rapidamente all’intervento chirurgico;

un’altra usata in Italia e negli USA ed è una radioterapia effettuata per 5 giorni a settimana

per 4-5 settimane prima dell’intervento.

Se fatte bene entrambe riducono il rischio di una recidiva loco regionale.

Che si fa dopo l’intervento chirurgico se è stato preceduto da una terapia adiuvante?

Se il paziente aveva linfonodi metastatici si fa una chemioterapia adiuvante con la stessa modalità

della terapia adiuvante che si fa nel tumore del colon. In alcuni casi questa chemioterapia adiuvante

si fa in combinazione con somministrazione di dosi medio basse di 5fluorouracile o di Capecitabina

per 6 mesi.

Tumore colon/retto multi metastatico:

Il caso peggiore è quando abbiamo già la presenza di metastasi multiple. In questo caso non c’è una

grossa differenza tra i tumori del colon e i tumori del retto.

La terapia della malattia metastatica si basa fondamentalmente su alcuni farmaci cardine che sono:

5fluorouracile o capecitabina + oxaliplatino (FOLFOX)

5fluorouracile + irinotecan (FOLFIRI)

La durata del trattamento non sarà fissa ma dipenderà dal nostro obiettivo per il paziente.

Ogni due mesi con una TAC total body si valuterà il grado della malattia, e fin quando la malattia è

sotto controllo si continua con la terapia, sempre che il paziente la tolleri da un punto di vista

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tossicologico. Circa il 40-50% dei pazienti ha una buona risposta di riduzione delle masse

neoplastiche. Però quello che è cambiato negli ultimi 10 anni è stata l’integrazione alla terapia con

farmaci citotossici con farmaci a bersaglio molecolare: questi farmaci bloccano i recettori del

fattore di crescita epidermico quindi un farmaco anticorpo monoclonale antiEGFR (Cetuximab e

Panitumumab) entrambi si usano in combinazione con la chemioterapia. Si somministrano

endovena, ogni settimana il cetuximab e ogni 2 il panitumumab.

Tutti i paziente con un tumore metastatico del colon retto traggono beneficio dalle combinazioni di

queste terapie? No. Infatti prima di iniziare questa terapia dobbiamo valutare alcuni fattori che ci

dicono se il paziente ha una patologia potenzialmente responsiva e quindi sensibile a questi farmaci

o meno, andiamo quindi a cercare se esiste un fattore di resistenza a questi farmaci. Si è scoperto

che mutazioni dei geni che codificano per la proteina RAS rendono il tumore resistente ai farmaci

antiEGFR. Si vanno a misurare in questo tumore i geni KRAS in quanto sono le mutazioni più

frequenti (in circa il 40% dei tumori del colon/retto si ha una mutazione attivante KRAS). La

mutazione di tale gene non solo è predittiva di non risposta al trattamento con farmaci antiEGFR ma

ha anche un valore prognostico individuando una popolazione a prognosi sfavorevole. Se RAS è

mutato, o usiamo la chemio da sola o più frequentemente associamo un altro farmaco a bersaglio

molecolare che agisce con modalità completamente diversa; questo farmaco è il Bavacizumab che è

un anticorpo antiVEGF che potenzia l’azione e l’efficacia del FOLFIRI o del FOLFOX. È

importante anche in questo caso fare il trattamento il più a lungo possibile.

Quindi nel caso in cui abbiamo un paziente multi metastatico e nel caso in cui l’intervento

chirurgico sul tumore primitivo non sia indispensabile si fa una terapia sistemica che poi è uguale a

quella che si fa se la malattia diventa metastatica successivamente.

Circa il 5% dei tumori del colon retto presenta mutazioni del gene BRAF (presente nel 50% dei

melanomi).

Purtroppo i farmaci antiBRAF non funzionano nei tumori del colon/retto, lo stesso vale per i

farmaci antiEGFR e antiVEGF. Per questo i pazienti con malattia BRAF mutata metastatica sono

pazienti con una prognosi molto infausta (12 mesi o poco più di vita).

Allora un’altra domanda che ci dobbiamo porre è che prima o poi la prima linea di terapia con

FOLFIRI o FOLFOX non funziona più e questo succede in tutti i tumori metastatici perché a un

certo punto le cellule diventano resistenti a questi farmaci. In genere si è visto che se un paziente ha

fatto FOLFIRI nella prima linea di terapia si fa come seconda linea di terapia FOLFOX e viceversa.

Ovviamente la seconda linea di terapia dura di meno perché il paziente ha già subito una tossicità

importante. Per quanto riguarda i farmaci biologici se non li abbiamo fatti in prima linea

aggiungiamo il Bevacizumab o il suo analogo attualmente entrato in commercio che è l’Aflibercept

che viene usato in associazione a FOLFIRI in seguito al fallimento della prima linea di terapia. Si è

visto che in un paziente con mutazione RAS se nella prima linea hanno risposto bene al

Bevacizumab possiamo mantenerlo anche nella seconda linea cambiando il chemioterapico.

Dopo il fallimento di una seconda linea di terapia nel tumore del colon/retto per molti anni si è fatta

una terapia sperimentale. Da poco tempo, circa 1 anno, è entrato nella pratica clinica corrente un

altro farmaco che è una piccola molecola che blocca vari recettori tirosin-chinasi e una serin tirosin-

chinasi che si chiama Regorafenib che blocca anche RAF e può essere usato come terza linea di

trattamento. In rari casi dopo il fallimento della seconda linea di terapia si può ripetere la terapia

della prima linea come terza linea di trattamento (se questa era stata sospesa per tossicità).

Tumore localizzato con metastasi esclusivamente epatiche:

Pazienti con tumore localizzato al retto e metastasi epatiche fino a 10-15 anni fa venivano trattati

esattamente come pazienti multi metastatici. Al giorno d’oggi i chirurghi epato-biliari hanno

affinato le loro tecniche chirurgiche permettendo una esportazione radicale delle metastasi epatiche

(elevata percentuale di guarigione).

Se si tratta di una singola metastasi epatica il chirurgo nella stessa seduta operatoria farà entrambi

gli interventi (al fegato e a livello del tumore primitivo).

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Se invece si tratta di più metastasi epatiche il chirurgo non può intervenire per cui il paziente verrà

trattato come un paziente multi metastatico perché si è visto che per avere chance di guarigione da

malattia metastatica al fegato l’intervento deve essere radicale ma deve lasciare almeno il 20-25%

di fegato sano.

Vi può essere un terzo caso in cui il paziente presenti più lesioni metastatiche non asportabili subito.

In questo caso viene fatto un trattamento sistemico con farmaci citotossici per 2-4 mesi, perché il

nostro obiettivo è rendere più piccola la malattia per asportarli.

(Quasi tutti gli interventi al fegato si eseguono in laparotomia).

Dopo l’intervento radicale si continua per altri 2-4 mesi la terapia che è stata fatta prima

dell’intervento.

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ONCOLOGIA 16/04/14

CANCRO DELLA MAMMELLA

Il tumore della mammella è socialmente molto rilevante, perché è il tumore più frequente nella

donna adulta dei paesi occidentali con un’incidenza di circa 1 donna su 10, superato di recente

solo dal tumore al polmone a causa della sempre più frequente abitudine al fumo. Negli ultimi

anni si è assistito ad una riduzione graduale della mortalità da cancro della mammella grazie al

miglioramento sia della diagnosi, in fase sempre più precoce, sia dei vari approcci terapeutici

(secondo alcuni ha giocato un ruolo molto importante anche la prevenzione secondaria con

mammografia bilaterale), con una percentuale di sopravvivenza del 70%. Ovviamente con una

diagnosi molto precoce si avranno maggiori possibilità di guarigione.

La ghiandola mammaria è un organo bilaterale tipico dei mammiferi che si sviluppa soprattutto

durante il periodo dell’allattamento. Il fisiologico sviluppo, la differenziazione funzionale e la

maturazione di questa ghiandola sono sotto uno stretto controllo ormonale, che sia coinvolge

numerosi ormoni a produzione sistemica in organi specifici, sia numerose proteine e fattori di

crescita prodotti localmente.

Alla nascita la ghiandola mammaria ha una fase di quiescenza che perdura fino alla pubertà, punto

in cui inizia una fase di sviluppo, basata fondamentalmente sulla presenza di estrogeni (che

stimolano la proliferazione) e progesterone (che ha un ruolo nella differenziazione). La ghiandola si

trova in uno stato silente finché la donna non giunge alla prima gravidanza. Durante questo

periodo una serie di altri ormoni, tra cui la prolattina e fattori di crescita che agiscono a livello

locale, fanno sì che la ghiandola possa proliferare e differenziare in maniera funzionale per

produrre latte durante la seguente fase di allattamento. Dopo l’allattamento si ha una funzionale

regressione della ghiandola che torna nel suo stato di quiescenza fino ad un’eventuale seconda

gravidanza.

Tutto questo ciclo, regolato in maniera molto stretta, consta di una serie di fasi, alcune delle quali

maggiormente a rischio per lo sviluppo di una eventuale displasia fino alla crescita abnorme, fasi in

cui c’è uno stimolo di tipo prevalentemente estrogenico, e una serie di fasi in cui lo stimolo

diventa protettivo con ormoni quali il progesterone o la prolattina.

Infatti l’esposizione cronica ad ormoni estrogeni è un fattore di rischio molto importante per lo

sviluppo del cancro della mammella, che infatti è più frequente nelle donne che non hanno avuto

figli, con menarca precoce e una menopausa tardiva, situazioni in cui aumenta l’esposizione

fisiologica agli estrogeni e soprattutto si riduce l’effetto protettivo della lattazione.

Circa il 90% dei tumori alla mammella sono di tipo sporadico, non associato a trasmissione

ereditaria. Vi sono però alcune sindromi, su base genetica ereditaria, in cui si ha una forte

predisposizione all’insorgenza di cancro alla mammella, responsabili soprattutto dell’insorgenza

del tumore in età giovane; la più frequente mutazione genetica associata a questo cancro è quella

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del gene brca1, con un aumento del rischio di sviluppare cancro alla mammella fino all’80%.

Questo gene è associato anche allo sviluppo di cancro all’ovaio. Anche il gene brca2 può essere

mutato e provocare cancro alla mammella. È doveroso dunque, una volta diagnosticato cancro alla

mammella associato alla mutazione del gene brca1, effettuare uno studio su tutte le donne della

stessa famiglia per ricercare la presenza della stessa mutazione. Utile, in questi casi, diventa

effettuare una procedura di screening molto precoce e frequente in donne che hanno mutazioni di

questo tipo. Un’altra sindrome molto rara associata all’aumento dell’incidenza di cancro alla

mammella è la sindrome di Li-Fraumeni, associata alla mutazione del gene p53.

Vi sono vari tipi istologici caratteristici del tumore della mammella, il più frequente dei quali è

senza dubbio l’adenocarcinoma: sono principalmente adenocarcinomi duttali (70%), con una

minoranza di adenocarcinomi lobulari. Tra questi due tipi di carcinomi non vi sono grosse

differenze dal punto di vista prognostico e terapeutico, si differenziano soprattutto per quanto

riguarda l’anatomia patologica e l’aggressività biologica.

Questi carcinomi, come tutti i tumori di origine epiteliale, si distinguono in due tipi:

Carcinomi in situ: le cellule completamente maligne non hanno attraversato la membrana

basale, senza infiltrazione loco-regionale e potenzialmente non hanno dato lesioni a

distanza

Carcinomi infiltranti: le cellule hanno attraversato la membrana basale, potenzialmente

hanno già dato metastasi a distanza

Nella stragrande maggioranza dei casi si riesce a fare diagnosi clinica di carcinoma della mammella

quando questo è un adenocarcinoma infiltrante (duttale o lobulare).

Presentazione clinica

Frequentemente il cancro della mammella viene sospettato prima dalla donna e poi diagnosticato

dal medico, come la presenza di un nodulo nel parenchima della ghiandola. Rari sono i casi in cui è

asintomatico e solo lo screening mammografico dà diagnosi della presenza di cancro al seno.

La donna avverte la presenza di una massa in maniera quasi sempre casuale; nella maggioranza dei

casi, a meno che la donna non abbia un seno molto piccolo, la massa ha un diametro di almeno

1cm, al di sotto di questo volume raramente si riesce ad individuare clinicamente un nodulo

(questo è uno dei motivi per cui ha perso ogni ruolo la visita senologica esclusivamente clinica e

l’autopalpazione mensile consigliata alle donne). Infatti l’unica efficace modalità di prevenzione

secondaria è l’esecuzione di una mammografia bilaterale a partire dai 50 anni di età, ripetendola

una volta ogni due anni almeno fino a 70 anni, perché in questo periodo c’è l’incidenza massima di

cancro alla mammella.

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Anamnesi: deve essere effettuata adeguatamente, chiedendo quando la donna ha notato

per la prima volta il nodulo, se il nodulo ha avuto una comparsa recente e si è ingrandito

velocemente, valutare se abbia già effettuato asportazioni precedenti di altri noduli.

Esame Obiettivo: in genere si effettua in due posizioni: eretta, di fronte al medico, o

sdraiata.

Ispezione: raramente si osserva un’alterazione evidente; infatti, oltre alla fisiologica

asimmetria delle mammelle, solo tumori di grado avanzato provocano evidenti

manifestazioni (una ghiandola molto più grande dell’altra, erosioni cutanee, tumefazioni

sospette, sanguinamento, fuoriuscita di liquilo siero-ematico alla spremitura dei capezzoli);

quando vi è infiltrazione del derma fino alla cute si ha l’aspetto tipico di cute a buccia

d’arancia, oppure si può osservare una recente retrazione del capezzolo quando viene

infiltrata l’areola. Bisogna differenziare queste alterazioni associate alla presenza di

carcinoma della mammella da quelle che si associano ad infiammazioni locali quali una

mastite. Bisogna osservare accuratamente anche la regione ascellare e il collo, per valutare

la presenza di eventuali ingrossamenti nelle stazioni linfonodali di queste regioni.

Palpazione (bimanuale con le mani a piatto): bisogna valutare grandezza e consistenza

(dura, elastica, soffice, se aderisce ai piani sovrastanti e sottostanti) del nodulo in esame, i

margini (ben definiti o sfumati e di tipo infiltrativo), l’eventuale presenza di altri noduli;

non è raro infatti incontrare casi di donne con cancro multifocale o addirittura bilaterale.

La palpazione viene effettuata su tutti i quadranti. Caratteristiche di un nodulo maligno

sono quelle tipiche di una massa a crescita infiltrante, più o meno duro, in genere non

dolente e a margini sfumati che infiltrando le regioni adiacenti, lo fanno aderire alle fasce

muscolari o ai piani superficiali. Opposte sono le caratteristiche del nodulo benigno, infatti

può sembrare una lesione a margini lisci, con una superficie ben delimitata, non aderisce ai

piani sottostanti, infatti si muove più liberamente, può essere dolente in quanto può non

essere solido, ma presentarsi in forma cistica, si manifestano in età più giovane (30-35

anni), con una crescita molto lenta; questi noduli possono essere di due tipi: tumori benigni

che non sono assolutamente precursori di cancro alla mammella (fibroadenoma

mammario) in genere singolo e monolaterale, oppure cisti dal contenuto liquido o

semisolido, nell’ambito di una patologia cronica benigna definita mastopatia fibrocistica,

caratterizzata dalla presenza in entrambe le ghiandole mammarie di cisti dal contenuto

solido, liquido o misto, che insorge soprattutto in età giovanile, che però possono evolvere

nel tempo in quanto non permette di identificare un eventuale nodulo maligno. Con la

palpazione vanno esplorate anche le stazioni linfonodali che sono sedi più frequenti di

metastatizzazione del cancro della mammella; alcune di queste non sono esplorabili, come

i linfonodi della catena mammaria interna, le stazioni di gran lunga più importanti sono

quelle della regione ascellare: esistono tre livelli di stazioni linfonodali ascellari costituiti da

circa 30-35 linfonodi di piccole dimensioni che hanno una spiccata reattività a infezioni o a

patologie infiammatorie croniche. Queste raramente sono palpabili in fase precoce di

tumore alla mammella, infatti la presenza di linfonodi di dimensioni aumentate e di

consistenza dura omolateralmente al nodulo è un fattore prognostico negativo con

diffusione metastatica del tumore primitivo, soprattutto se questi sono confluenti e adesi

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alla cute. Altre stazioni linfonodali minori, che si manifestano nelle fasi ancora più avanzate

della malattia, sono quelle sovraclaveare e laterocervicale omolaterali.

Il tumore della mammella metastatizza più frequentemente per via ematica al polmone, al fegato

e all’osso, gravi segni che si associano ad una malattia in fase molto avanzata.

Diagnostica per immagini

Molto importante in quanto si accompagna all’analisi clinica per avere diagnosi di certezza.

Ecografia mammaria bilaterale: esame ecografico specifico della mammella, permette di

identificare il nodulo ed eventuali lesioni non evidenti all’esame obiettivo. Dà informazioni

sulla morfologia del nodulo, se è di tipo solido, di tipo cistico, a contenuto liquido, si

possono osservare bene i margini (nodulo capsulato, margini lisci, infiltrativi ecc.); è molto

importante anche quando accompagna l’esecuzione di una biopsia.

Mammografia bilaterale: esame radiologico specifico; in caso di tumore maligno mette in

evidenza la presenza di un nodulo radiopaco a margini sfumati e infiltrativi, con la presenza

spesso di micro calcificazioni; si rende molto utile per evidenziare la presenza di lesioni

anche molto piccole; durante gli esami di screening con la mammografia è possibile

eseguire una biopsia mirata in lesioni anche molto piccole

Questi esami sono molto importanti in quanto vanno a confermare la diagnosi clinica e sono utili

per effettuare prelievi bioptici.

Biopsia

Questo esame è fondamentale per studiare istologicamente le lesioni riscontrate già durante

ecografia e mammografia. Molto spesso viene eseguita con l’ausilio di guida radiologica

(mammografia) o ecografica.

Biopsia incisionale: tecnica che viene utilizzata nella maggior parte dei casi; con una siringa

di diametro più o meno piccolo si estrae un cilindro di tessuto per l’esame istologico.

Biopsia escissionale: viene preferita quando il nodulo sia molto probabilmente benigno o

molto piccolo, oppure quando si ritiene necessario avere l’intero nodulo per un esame

istologico di maggiore certezza; con un piccolo intervento chirurgico si asporta interamente

il nodulo sospetto

Istologicamente il nodulo può essere formato da tessuto sano, può avere cellule displastiche

tipiche di un tumore benigno, o può essere un carcinoma. In quest’ultimo caso, mediante

differenziazione istologica si può valutare se è un adenocarcinoma duttale (nella maggior parte dei

casi) o lobulare. A questo punto si ha diagnosi di certezza.

Dal punto di vista prognostico e terapeutico bisogna valutare ulteriormente una serie di fattori

necessari per il raggiungimento di una terapia adeguata.

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Bisogna dunque valutare il grado di aggressività locale, se il tumore è più o meno differenziato,

mediante una classificazione che va da g1 (molto differenziato) a g3 (meno differenziato). In linee

generali, minore è la differenziazione e maggiore è l’aggressività del tumore.

In seconda analisi bisogna valutare l’eventuale infiltrazione di sedi adiacenti, come piccoli vasi,

infiltrazione perineurale.

La valutazione della frazione di crescita delle cellule è un altro fattore prognostico fondamentale

per valutare l’aggressività del tumore: questa metodica studia la quantità di cellule che sono in

fase di proliferazione al momento del prelievo istologico valutando la presenza di una specifica

proteina detta ki67. Ovviamente quanto più è alta la frazione di crescita (espressa in %) tanto più è

alta l’aggressività delle cellule tumorali.

Essenziale nel processo prognostico e soprattutto terapeutico è la ricerca di alcune proteine

chiave: importanti sono, nel nucleo, i recettori per estrogeni e progesterone (la presenza del

recettore del progesterone è un indice funzionale di attivazione del recettore degli estrogeni

perché la sintesi della proteina del recettore del progesterone è indotta dal recettore degli

estrogeni attivato). La presenza di almeno il 10% di cellule il cui nucleo è colorato per la presenza

di questi due recettori indica una potenziale ormono-dipendenza e ormono-sensibilità del tumore

stesso. Ovviamente tumori ormono-sensibili sono prognosticamente vantaggiosi in quanto

possono essere manipolati dalla concentrazione di estrogeni e progesterone, con una risposta

terapeuticamente efficace all’ormone attivo.. Viceversa, l’assenza di questi recettori controindica

l’uso dell’ormonoterapia. Circa ¼ di donne ha un tumore in cui è amplificato il gene erB2 che si

traduce in una iperespressione della proteina di membrana codificata da questo gene; questo

consente di effettuare terapie mirate per tumori in cui il gene erB2 sia amplificato. Vi è una classe

di tumori maligni della mammella detti triple negative, i quali non non sono sensibili agli estrogeni

e al progesterone, né presentano una iperespressione di erB2:questi sono i tumori

prognosticamente più sfavorevoli e aggressivi da un punto di vista biologico, per i quali, come

arma terapeutica, abbiamo solo farmaci citotossici (sono tipici delle donne più giovani).

Circa 2/3 di tumori della mammella sono ormono-sensibili, in cui il gene erB2 non è amplificano e

non vi sono iperespressioni della proteina di memebrana: questi sono i tumori a prognosi migliore,

in quando presentano cellule abbastanza differenziate e con una frazione di crescita molto bassa.

Una minima percentuale di tumori maligni sono caratterizzati da una certa sensibilità per

estrogeni e progesterone associata all’iperespressione di erB2: sono molto importanti da

conoscere in quanto, per una serie di modificazioni biochimiche, l’antiestrogeno tamoxifen in

questi tumori funziona poco. Questi tumori hanno una prognosi abbastanza infausta.

Ricapitolando quindi possiamo dire che vi sono:

15% tumori erB2 negativi e ormono-indipendenti (prognosi più sfavorevole)

15% tumori erB2 positivi e ormono-indipendenti

15% tumori erB2 positivi e ormono-sensibili

50% tumori erB2 negativi e ormono-sensibili (prognosi più favorevole)

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Ovviamente la scelta terapeutica più adeguata dipenderà principalmente dalle evidenze

istologiche.

Una volta avuta una diagnosi certa (paziente con nodulo unico di cancro alla mammella) si procede

alla stadiazione. Gli esami di stadiazione minimi sono: radiografia del torace (con proiezioni PA e

LL), un’ecografia addominale (per l’eventuale presenza di metastasi epatobiliari) e una scintigrafia

ossea (per valutare la presenza di metastasi ossee). Se questi esami di stadiazione minimi sono

negativi, non si procede con ulteriori esami, almeno in una paziente con un nodulo mammario

unico; se invece vi sono lesioni sospette allora bisogna approfondire con ulteriori esami diagnostici

specifici (HRTC, TC con mdc, RMN, molto raramente una PET TC, in casi selezionati bisogna

effettuare una biopsia della lesione).

Domanda: se una donna con un nodulo non diagnosticato ha una gravidanza, il nodulo come

reagisce?

La gravidanza può permettere la scoperta di un cancro o addirittura accelerarne la crescita,

soprattutto se il tumore è ormono-dipendente, in quanto aumentano i livelli di ormoni in circolo. Il

problema maggiore si riscontra soprattutto nella scelta terapeutica, perché la donna non può fare

terapie che possano interferire con la crescita del feto: se la scoperta del cancro avviene al

termine della gravidanza si può anticipare un po’ il parto e dopo eseguire una terapia mirata.

Raramente la malattia può, in gravidanza, esplodere sistemicamente e la donna può trovarsi

repentinamente con metastasi diffuse. Per fortuna però è un fenomeno raro, in quanto le donne

gravide sono spesso giovani, non a rischio di insorgenza di cancro al seno.

La scelta terapeutica più indicata dipende principalmente dal tipo istologico e dalla presenza di

infiltrazioni a breve e lunga distanza.

Storicamente la terapia più utilizzata, che si riteneva necessaria, era l’asportazione chirurgica.

Successivamente si è scoperto che molte donne, soprattutto quelle in cui vi era stata infiltrazione

metastatica di linfonodi ascellari, avevano un’altissima possibilità di ripresa della malattia,

soprattutto di morire di malattia metastatica. Molto più indicato infatti è il trattamento sistemico,

in modo da poter attaccare anche eventuali micrometastasi a distanza.

Domanda: è più probabile avere una localizzazione bilaterale del tumore o che l’altra mammella

sia interessata da infiltrazione metastatica?

Una metastatizzazione dell’altra ghiandola mammaria è possibile, più spesso quando si ha una

localizzazione bilaterale si tratta di due tumori diversi, perché essendo la ghiandola mammaria un

organo bilaterale ed essendo la cancerogenesi a cui è sottoposta la stessa, se una donna ha una

predisposizione a sviluppare il cancro, sia su base familiare o perché è esposta a sostanze

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cancerogene, probabilisticamente può avvenire lo sviluppo del tumore in più punti della ghiandola

o in entrambe. Questo è il motivo per cui una donna che ha avuto un cancro alla mammella, ha

fatto terapia ed è guarita, ha una probabilità di sviluppare nuovamente cancro alla mammella

maggiore rispetto ad una donna che non lo ha mai avuto.

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TERAPIA DEL CANCRO DELLA MAMMELLA Per il trattamento del cancro della mammella dobbiamo innanzitutto

conoscere : la presentazione clinica (quadro loco regionale, sistemica o

metastatico e intermedio) e caratteristiche biologiche del tumore gia al

momento della diagnosi. Distinguiamo:

Tumori luminali A, sono i più differenziati, bassa frazione di

proliferazione (ki-67 basso), esprimono recettori per estrogeni e

progesterone ad alto livello, ErbB2 normoespresso, sono i tumori

più vicini alla ghiandola mammaria normale e più ormono-

dipendenti e ormono-sensibili, l’ormonoterapia gioca un ruolo

chiave

Tumori luminali B, esprimono recettori per estrogeni e

progesterone, ki-67 elevato, possono essere sia ErbB2 negativi sia

ErbB2 positivi ed elevati, la terapia ormonale ha un ruolo

importante, ma non basta

Tumori ErbB2 dipendenti, i recettori per gli estrogeni e progesteroni

sono bassi (tumore ormono-indipendente e ErbB2-dipendente,

terapia anti ErbB2 indispensabile, ormonoterapia inutile)

Tumori basal-like o triplamente negativi, prognosticamente

sfavorevoli, ad alta aggressività biologica, in cui né il sistema

recettoriale per gli estrogeni e progesterone è attivo, ne il sistema

ErbB2 è attivato dall’amplificazione dell’espressione, sono i tumori

meno responsivi al trattamento non rispondendo all’ormonoterapia

e alla terapia anti- ErbB2

Presentazione clinica più frequente:

Nodulo mammario singolo in una delle due ghiandola mammaria,

esame obiettivo negativo (assenza di linfonodi palpabili nella cavita

ascellare o laterocervicale, assenza di apparenti metastasi a distanza

negli organi chiave) tuttavia la chirurgia anche estesa all’intero

emitorace colpito, con rimozione del nodulo non è scevra da

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manifestazioni metastiche a distanza( il tumore della mammella a

differenza degli altri tumori,può presentare una latenza biologica di

manifestazione metastatica anche di dieci anni).

Si era visto negli anni che circa il 70% delle donne che avevano uno

o più linfonodi ascellari metastatici all’intervento chirurgico di

asportazione, se non avessero fatto terapia post chirurgica sistemica

avrebbero sviluppato una metastasi a distanza e che il numero di

linfonodi coinvolti naturalmente è proporzionale al rischio di ripresa

di malattia. Già negli anni ’70, si iniziò ad ipotizzare, dunque, che

nelle donne che risultavano positive alle metastasi ai linfonodi

ascellari fosse indispensabile una terapia post-chirurgica sistemica

adiuvante (all’epoca si chiamava prevenzione terziaria). Per

moltissimi anni invece le donne i cui linfonodi ascellari risultavano

Liberi da metastasi venivano considerate a prognosi migliore, per le

quali probabilmente non si considerava necessario una terapia post-

chirurgica adiuvante, perche il rischio di ripresa di metastasi era

molto basso. In realtà considerano le casistiche in maniera più

estesa si vide che il 30 % delle donne con tumore primitivo

asportato, asportazione di linfonodi ascellari e assenza di metastasi

in questi ultimi , si aveva ripresa di malattia metastatica entro dieci

anni dall’intervento chirurgico. Per cui nella pratica clinica corrente

si può prendere in considerazione una terapia post-chirurgica

sistemica. Si valutano però anche altre caratteristiche biologiche del

tumore: la presenza o l’assenza di recettori ormonali, l’espressione

e l’amplificazione di ErbB2

Qual è la terapia di un TUMORE PRIMITIVO DELLA MAMMELLA

APPARENTEMENTE LOCOREGIONALE alla ghiandola mammaria?

Anche qui c’è stata un’evoluzione enorme negli ultimi 50 anni. In

passato si adottava una chirurgia estremamente demolitiva, la

mastectomia radicale allargata( allargata perché si asportava tutta

la ghiandola mammaria compresa la cute sovrastante, il capezzolo,il

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muscolo piccolo e grande pettorale, e tutti i linfonodi del cavo

ascellare), ma oggi è in disuso essendo una terapia estremamente

mutilante e aggressiva provocando danni funzionali importanti

(distruggendo il deflusso venoso e linfatico dell’arto superiore

interessato andando incontro a linfedemi) oltre che psicologici. Dal

punto di vista oncologico quest’intervento non aveva possibilità di

guarigione, in quanto la partita si giocava sulla presenza o meno, a

livello di guarigione, di micro metastasi a distanza. Con il tempo si è

passati ad interventi chirurgici meno aggressivi, mutilanti e radicali:

si è passati così dalla mastectomia radicale allargata risparmiando il

piccolo pettorale o il grande pettorale o entrambi, fino alla

mastectomia radicale semplice con asportazione della cute

sovrastante e quando è possibile si accompagna ad una chirurgia

plastica ricostruttiva nello stesso tempo chirurgico o in un secondo

intervento.

La mastectomia viene effettuata sul quadrante mammario in cui è

localizzata la neoplasia, asportando la zona di ghiandola mammaria

che contiene neoplasia compresa la cute sovrastante e anche il

capezzolo se è interessato: QUADRANTECTOMIA.

Con la mastectomia radicale allargata asportavamo anche il

pacchetto linfonodale, ora se effettuiamo una quadrantectomia

interna non vi è la possibilità di asportare i linfonodi ascellari

omolaterali. Anche per questi ultimi viene utilizzata una tecnica

chirurgica mini-invasiva : si asporta chirurgicamente un linfonodo

campione detto “sentinella”, questo perché quando asportiamo

tutto il pacchetto linfonodale ascellare, questo consente di avere

un’ informazione prognostica ma non è un risultato terapeutico, ci

dice se dobbiamo fare una terapia adiuvante o meno e ci dice

quanto aggressiva debba essere. Con la chirurgia mini-invasiva

conservativa invece durante la quandrantectomia, il chirurgo inietta

un colorante vitale nel quadrante dove vi è il nodulo maligno

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,questo penetra nella massa tumorale, viene assorbito e defluisce

lungo i vasi linfatici che vanno verso l’ascella, il chirurgo vedrà

colorato il linfonodo, quest ultimo sarà asportato e analizzato

istologicamente, se è libero da infiltrazione metastatica è molto

improbabile che i linfonodi a valle siano infiltrati, perché i vasi

linfatici raggiungono prima questo linfonodo e poi gli altri a valle,

quindi in questo caso avremmo risparmiato a questa donna una

linfoadenectomia ascellare inutile.

Se il linfonodo sentinella è positivo, anche quelli a valle saranno

interessati e si procederà, dunque, con una linfoadenectomia

radicale. In realtà la ghiandola mammaria è sede potenziale di

cancerogenesi e come è insorto un tumore in quadrante può

insorge nere anche in un altro, anche se non sono visibili ,

potrebbero essere presenti dei micro focolai metastatici non

evidenti alla mammografia e ecografia, per evitare il rischio di

recidiva si fa eseguire la radioterapia sulla ghiandola mammaria

residua per avere a un effetto antitumorale sul resto della ghiandola

mammaria (può essere eseguita anche durante l’intervento

chirurgico, intraoperatoria quindi , a singola seduta).

Quand è che non si può eseguire questa chirurgia conservativa?

Quando il nodulo è molto grande, è tecnicamente impossibile

fare una quadrantectomia radicale della ghiandola mammaria,

quindi faremo o una mastectomia o, più frequentemente, una

terapia sistemica neoadiuvante pre-operatoria (con farmaci

,per renderlo potenzialmente operabile, riducendolo di

dimensioni)

Tumore multicentrico, in questo caso faremo una mastectomia

radicale semplice

Problema funzionale: donna con mammelle troppo piccole,

non è possibile eseguire una quadrantectomia , si esegue una

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mastectomia radicale semplice con ricostruzione della

ghiandola mammaria con protesi definitiva.

Quindi ogni qual volta che il tumore è potenzialmente asportabile, il

primo intervento è quello chirurgico, quando questo non è possibile

si utilizza una terapia sistemica con farmaci chemioterapici

citotossici.

Esempio: donna con piccolo nodulo ( <1cm ), grading istologico basso G1

o G2, recettori per gli estrogeni e progesteroni espressi ad alti livelli, ki-67

basso, erbB2 negativo, questo è un tumore luminale A , T1 piccolo <1 cm,

N zero e M zero, linfonodi ascellari negativi. Questa donna farà la

radioterapia post chirurgica sui quadranti residui e non parte nessuna

terapia neoadiuvante, perché queste donne hanno dei tumori con delle

caratteristiche biologiche e anatomopatologiche con comportamento di

reversibilità e più favorevoli, con rischio di recidiva a distanza < 10% .

Probabilmente, questo è l’unico gruppo di donne a cui non facciamo

terapia neoadiuvante.

Tutta via se le stesse caratteristiche sopracitate si presenteranno in una

donna di età avanzata, la terapia neoadiuvante sistemica va fatta,

essendo ormono-sensibile e ormono-dipendente il tumore, offriremo una

ormonoterapia adiuvante

Esempio :donna con recettori ormonali positivi(parliamo sempre di una

donna con N zero e M zero , perché se una donna presenta linfonodi

ascellari positivi faremo sempre una terapia neoadiuvante)

, indice di proliferazione elevato, linfonodi ascellari negativi, assenza di

erbb2 a queste donne faremo sicuramente una terapia adiuvante e

valutare se la ormonoterapia adiuvante da sola è sufficiente o bisogna

aggiungere anche una chemioterapia adiuvante con farmaci citotossici, se

sono donne giovani è più probabile che noi faremo una doppia terapia

adiuvante. Nel fare la doppia terapia adiuvante, si fa prima il blocco di

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chemioterapia con farmaci citotossici adiuvante e poi il blocco

dell’ormonoterapia, non si eseguono insieme. A maggior ragione se

questo è un tumore luminale B ed esprime anche Erb-B2 amplificato,

questo è un tumore aggressivo, qui probabilmente l’ormonoterapia

funzionerà anche di meno, quindi a questa donna faremo :chemioterapia

,ormonoterapia e una terapia anti Erb-b2

Esempio : donna con tumore con recettori degli estrogeni e progesterone

negativi, ErbB2 positivo, a questa donna non facciamo l’ormonoterapia

ma chemioterapia e terapia anti erbb2.

Infine c’è il gruppo prognosticamente sfavorevole 15- 18% dei casi il cui

tumore è triplo negativo, a queste donne non potremmo fare né

l’ormonoterapia, né la terapia anti erbb2 ma solo chemioterapia.

La chemioterapia dura dai 4 ai 6 mesi, quella ormonale 5 anni e che la

terapia anti ErbB2 in genere si comincia alla fine della chemioterapia e

dura 1 anno.

Terapia:

ORMONOTERAPIA si fa in base allo stato menopausale della donna.

Nella donna in post menopausa, l’ormonoterapia di prima scelta è con un

inibitori reversibili dell’aromatasi (letrozolo, anastrozolo e exemestane

sono farmaci che vengono assorbiti a livello gastroenterico e

somministrati come compresse una volta al giorno per 5 anni) , che

annullano i livelli endogeni di estrogeni prodotti in menopausa dal

surrene e dal tessuto adiposo, si può usare anche il tamoxifene,

antagonista recettoriale degli estrogeni, per os una volta al gg per 5 anni.

C’è chi preferisce fare una terapia con switch : i primi due anni in terapia

con tamoxifene e gli altri tre con inibitori dell’aromatasi.

Nella donna in età fertile, pre-menopausa, il tamoxifene (per 5 anni) è

l’antiestrogeno usato e non si usano gli inibitori dell’aromatasi, nel caso

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in cui si vuole avere un blocco estrogenico completo si usa da 2 a 5 anni, a

seconda dell’età, l’analogo dell’ LHRH per via intramuscolare

CHEMIOTERAPIA

La chemioterapia consiste nell’impiego di farmaci, che, attraverso il

circolo sanguigno, possono raggiungere le cellule tumorali in ogni parte

dell’organismo. I farmaci utilizzati appartengono ad alcune categorie:

alchilanti (ciclofosfamide) , i derivati del fluoro (5-fluorouracile),

antracicline (doxorubicina, daunorubicina) , taxani (docetaxel, paclitaxel) .

La loro somministrazione avviene attraverso cicli di trattamento a

cadenza variabile (settimanale o trisettimanale )

La loro somministrazione (tipicamente per via endovenosa ) avviene

attraverso cicli di trattamento a cadenza variabile (settimanale,

trisettimanale)

Il trastuzumab, è un anticorpo monoclonale umanizzato utilizzato per combattere il carcinoma mammario avanzato, recidivante o diffuso ad altri organi (carcinoma mammario secondario).

Il target molecolare del farmaco è l'antigene nonché recettore HER2/neu, che legandosi specificamente al fattore di crescita umano dell’epidermide, determina la crescita tumorale. Il farmaco impedisce questo legame bloccando il recettore, che in molti casi di tumore mammario risulta sovra-espresso.[1] Questo impedisce alle proteine HER2 difettose di provocare una divisione cellulare incontrollata, e quindi al cancro di crescere

Effetti collaterali : alopecia (evento reversibile ) ,nausea, vomito, infezioni

batteriche opportunistiche , neutropenia , stanchezza, dolori ossei,

articolari o crampi muscolari , alterazioni della funzionalità cardiaca (le

antracicline sono farmaci cardiotossici), alterazioni del ciclo mestruale con

possibile menopausa precoce.

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TRATTAMENTO METASTATICO

Sede di metastasi: cute ,linfonodi ,ossa, fegato, polmone, sistema

nervoso centrale

La sede di ripresa di malattia è quella che può influenzare maggiormente

la prognosi. In passato si definivano tumori metastatici a prognosi

migliore quelli che davano metastasi ai tessuti molli : cute ,linfonodi o

ossa, da malattia a prognosi peggiore con metastasi viscerali: fegato,

polmone o sistema nervoso centrale .

Uno dei tumori mammari che può dare maggiormente metastasi al SNC è

il tumore erbB2 amplificato, probabilmente perché è un tumore

aggressivo biologicamente ed è possibile che si abbiano localizzazioni

all’encefalo ma anche perché il trastuzumab, anticorpo monoclonale ,è

una grossa immunoglobulina e non attraversa la barriera

ematoencefalica, e quindi non arrivano concentrazioni di farmaco tali da

bloccare la crescita delle metastasi al cervello, a meno che la barriera

ematoencefalica non sia distrutta o danneggiata.

Il trattamento della malattia metastatica si basa sulla conoscenza:

sede della metastasi , malattia ancora erbb2 positiva o no, efficacia della

terapia adiuvante precedente o meno , recettori per gli estrogeni positivi

o meno.

Può avere un ruolo nella malattia sistemica metastatica, la chirurgia

palliativa o la radioterapia, soprattutto nelle lesioni ossee lunghe dove c’è

rischio di frattura avrà un effetto antalgico e di bloccare il

rimaneggiamento e la distruzione ossea.

I bifosfonati, vengono usati per distruggere a livello della metastasi osseo

il microambiente che favorisce il rimaneggiamento osseo, e quindi

favoriscono la ricalcificazione.

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Denosumab, anticorpo monoclonale agisce complessando il RANKL o

(RANK Ligand), proteina che agisce come segnale primario nella

promozione della rimozione ossea legandosi al recettore RANK.

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Oncologia 28/04/2014 Prof.ssa Erika Martinelli

Oggi vi parlerò dei tumori dell'ovaio e dei tumori del testicolo.

Le neoplasie dell'ovaio sono per incidenza le seconde della sfera ginecologica e ad alta mortalità

perché spesso vengono scoperte quando la neoplasia è in fase avanzata. Hanno massima incidenza

nella fascia 50-60 anni. Vi è una multifattorialità per quanto riguarda l'eziologia del tumore

dell'ovaio:

1-siccome la maggioranza delle neoplasie si forma a partire dall'epitelio di rivestimento potete

capire come le ovulazioni frequenti possono essere una causa scatenante portando a traumi ripetuti

che col tempo possono dare origine ad una neoplasia, una donna che non sta ovulando perché ad

esempio in gravidanza o in allattamento è in una fase di “protezione” mentre le donne che non

hanno figli sono più a rischio. Di conseguenza la nulliparità è un fattore rischio ,così come un

menarca precoce ed una menopausa tardiva

2- Ci sono poi fattori esterni come i farmaci,donne che non riesco ad avere una gravidanza fanno

delle cure ormonali con farmaci che stimolano l'ovulazione e questo rappresenta un fattore di

rischio,al contrario l'uso di anticoncezionali estroprogestrinici costituisce un fattore protettivo

3-Fattori genetici:la maggioranza dei cancri è sporadica,ci sono però dei fattori genetici che

possono portare ad aumento di incidenza di questa patologia in alcuni nuclei familiari. Le principali

patologie a basa genetica sono:

Breast-ovarian cancer syndrome dovuta a mutazione di brca1 e brca2 con predisposizione

raddoppiata ad un cancro ovarico o ad un cancro della mammella

Sidrome di Lynch dove per mutazione di geni predisposti al riparo del dna “mismatch repair genes”

si ha una maggiore predisposizione a tumori del colon,della mammella e dell'ovaio

Dal punto di vista istologico si riconoscono tumori dell'epitelio,delle cellule germinali e dello

stroma. Gli epiteliali rappresentano il 75 per cento di tutte le neoplasie che si differenziano a loro

volta in

Sierosi:più frequenti e spesso bilaterali

Mucinosi: producono mucina

endometriali e a cellule chiare: queste due forme sono a prognosi più sfavorevole,tendono ad

essere monolaterali e non sono sensibili al platino

I tumori a cellule germinali che possono originale sia dall'ovaio che da tessuti embrionali

extragonadici. Questi tumori producono marcatori specifici che sono l'alfafetoproteina e la betahcg.

Queste neoplasie hanno incidenza maggiore nell'infanzia (5% delle neoplasie ovariche).Si dividono

in:

-disgerminoma

-carcinoma embrionale

-coriocarcinoma

-teratoma

I tumori dello stroma sono rappresentati dai fibromi,sarcomi,linfomi

L'elevata mortalità di queste neoplasie è dovuto al fatto che la clinica si manifesta quando la

neoplasia è in uno stadio avanzato e per questo viene definito killer silenzioso. Per capire la

sintomatologia bisogna capire come diffonde la neoplasia: si può avere diffusione intraperitoneale

infatti per caduta le cellule possono interessare il peritoneo,l'omento e la superficie peritoneale del

diaframma,per via linfatica vengono coinvolte anche diverse stazioni linfonodali come gli

intraortici,i periaortici gli iliaci e poi abbiamo la più rara diffusione ematica e tramite questa via

vengono coinvolti soprattutto il fegato,il polmone e l'apparato scheletrico. Si possono avere sintomi

aspecifi riferiti all'addome come dolore,meteorismo,stipsi oppure aspecifici generali come anoressia

e calo ponderale. Si può avere sanguinamento vaginale in caso di importante interessamento pelvico

con invasione della vagina.

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Per quanto riguarda la diagnosi se si è magri con palpazione bimanuale si può rilevare una massa

palpabile e nel caso di malattia avanzata ascite. L'esame strumentale più semplice è l'eco pelvica

transvaginale con valutazione color-doppler della vascolarizzazione. Per quanto riguarda gli esami

di laboratorio abbiamo il ca125 sia per diagnosi che per follow up,il CEA che è tipico della variante

mucinosa ed è simile ai tumori del colon

La diagnosi di certezza si fa con laparoscopia esplorativa con asportazione della massa ed è

diagnostica e stadiativa poiché il chirurgo vede se ci sono linfonodi interessati ed eventulmente

gettoni peritoneali che se presenti vengono bioptizzati. Se i gettoni non sono presenti fa comunque

biopsie random. Si fa inoltre un lavaggio peritoneale.

La classificazione segue sia la TNM che la classificazione ? utilizzata dai ginecologi ed in tutti gli

stadi c'è sempre la valutazione delle cellule neoplastiche nel lavaggio peritoneale .Nello stadio 1A

1B 1C c'è interessamento del solo ovaio e nel 1a ed 1b la capsula è integra. Nello stadio 1c c'è

rottura della capsula

nello stadio 2 vi è interessamento della pelvi e nello stadio iniziale può occludere la tuba mentre nel

2b e 2c anche altre strutture

nel terzo stadio vi è coinvolgimento linfonodale

Anche nel tumore dell'ovaio vi sono i fattori prognostici

-Stadio Nei primi stadi vi è sopravvivenza al 90%

-istologia ad esempio gli endometriali e quelli a cellule chiare sono sensibili in maniera ridotta ai

chemioterapici,

-l'età

-grading istologico,

-malattia residua post-chirurgica si può avere infatti residuo microscopico con lavaggio positivo,

residuo macroscopico minore o superiore a 2cm se non si può asportare tutto (ovviamente a

prognosi peggiore). L'intervento prevede sempre annessiectomia bilaterale, (colpo di tosse non si

sente)e appendicectomia. L'annessiectomia va valutata in donne giovani che vogliono avere figli.

La stadiazione cambia l'atteggiamento oncologico:

1a e 1b si può fare solo intervento e non fare terapia adiuvante

nell' 1c o nel 2a dopo l'intervento da 3 ai 6 mesi di carboplatino o cisplatino e taxolo

nel 2b e 2c spesso il chirurgo non leva tutto con successiva chemioterapia e reintervento.

Negli stadi più avanzati solo terapia di salvataggio con 6 cicli di cisplatino o carboplatino e taxolo o

doxorubicina.

Se recidiva si utilizzano altri chemioterapici: se recidiva dopo sei mesi vengono definiti platino

sensibili e in questi si può riutilizzare cis/carboplatino in associazione ad altri farmaci come la

gemcitabina e la menorebina(?) . Se recidivano prima vengo definiti platino resistenti e non si

possono utilizzare derivati del platino e si utilizzano altri farmaci come taxani gemcitabina

menorebina ed il topotecano (N.B. Lo xaliplatino non si usa nel tumore dell'ovaio).

Non esistono programmi di screening per questa neoplasia nella popolazione generale se non eco

transvaginale e ca125 una volta l'anno (quest'ultimo può essere elevato anche in casso di

endometriosi e cisti ovariche).Fondamentale screening in pazienti con sindromi genetiche

Per quanto riguarda la neoplasia del testicolo è la più comune tra i 20 e i 35 anni e nel 90 95% dei

casi porta a guarigione con incidenza di 3 su 100000 abitanti. I fattori di rischio sono diversi:

familiarità (rischio aumentato di 6 volte per familiare di primo grado affetto),il criptorchidisimo

(aumento del rischio din 20-40 volte), klinefelter, traumi al testicolo, parotite epidemica, atrofia

testicolare

Il 95 % sono germinali mentre il 5% non germinali .I germinali si dividono istologicamente in

seminoma e non seminoma. Nell'ambito del seminoma vi è il seminoma tipico, lo spermacitico

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che produce betahch e l'anaplastico che è più aggressivo

Tra i non seminomi vi è il carcinoma embrionale che èil più frequente,il tumore del sacco vitellino

dell'infanzia che produce alfa feto ed il corioncarcinomona molto raro e molto aggressivo che

produce betahcg ed infine il teratoma.

Il 5 % sono neoplasie non germinali che possono originare dalle cellule di Lyedig, di sertoli e le

forme stromali come sarcomi e linfomi testicolari.

La sintomatologia è aspecifica,la tumefazione scrotale è il segno più importante e se coinvolge i

linfonofi retroperitoneale vi può essere dolore addominale sordo, se coinvogle i polmoni vi può

essere dolore toracico e tosse.

Per la diagnosi il primo step è l'ecografia con visualizzazione di massa che non si transillumina e

analisi dei marcatori,in particolare alfafeto per i tumori del sacco, betahcg per i germinali non

seminomatosi e LDH sia per i seminomatosi che non seminomatosi. Per la diagnosi non si fa MAI

agoaspirato per possibile disseminazione della malattia.

I marker sono sia diagnostici che terapeutici per il follow up del paziente. Soprattutto è importante

notare in quanto tempo si dimezzano dopo l' intervento per scongiurare la presenza di un residuo di

malattia.

L'intervento è l'orchifunicolectomia con approccio attraverso canale inguinale e non scrotale per

evitare diffusione,si fa anche la linfadenectomia in particolare per i germinali non seminomatosi.

Per stadiare è fondamentale la rx torace, l'eco addomino-pelvica e soprattutto tac per visualizzare

linfonodi locoregionali e metastasi a distanza. Ultimamente si utilizza anche la pet che può dare

informazioni importanti sui linfonodi.

Se interessa solo testicolo stadio 1 se linfoadenopatia non supera 2 cm stadio 2a ,2b se

linfadenopatia tra 2 e 5cm ,2c se superiore a 5cm,nello stadio terzo e quarto abbiamo malattia

polmonare. La prognosi è molto buona.

Nel caso di seminoma in stadio 1 si opera e si possono avere tre opzioni: vigile attesa(viene seguito

con tac e marcatori),radioterapia profilattica sui linfonodi lombo-aortici,due cicli di chemioterapia a

base di cisplatino

nel caso di stadio 2 con metastasi inferiori ai 5 ai linfonodi si fa la radio,se maggiori di 5 chemio

con 3-4 cicli a base di peb (combinazione di cisplatino etoposide bleomicina) seguita da

radioterapia

La bleomicina ha come reazione avversa la fibrosi polmonare e si fa fare spirometria pretrattamento

e dopo due cicli.

Nello stadio 3-4 si fa polichemioterapia sempre con peb

Nei non seminomi non c'è radiosensibilità si fa orchifunicolectomia con eventuale rimozione dei

linfonodi retroperitoneali (può comportare dei rischi),se non si fa la rimozione dei linfonodi si

osserva il paziente con controlli periodici (wait and watch) mentre se il paziente è in alto rischio si

fa la chemioterapia.

Nello stadio 2c chemioterapia e linfoadenectomia.

Negli stadi 3 e 4 i pazienti sono divisi in base alla prognosi data dai valori dei markers e dalla

malattia linfonodale ed extragonadica: se a buona prognosi 3 cicli di chemio se a cattiva prognosi 4

cicli. Si possono avere a questo punto 3 situazioni

-Scomparsa dopo chemio delle lesioni e si segue malattia con tc

-se c'è residuo nel teratoma follow up e ripartire con la chemio se la malattia si ripresenta,nel

carcinoma embrionale invece essendo chemiosensibile si fa la chemioterapia

-se non c'è risposta si usano farmaci di seconda scelta alla terapia peb

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