C’era una volta il reportage. E la pellicola.

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C’era una volta il reportage. E la pellicola. A guardare la storia del reportage fotogiornalistico, penso sia innegabile che il bianco e nero sia stato il colore dei sentimenti e degli avvenimenti. Il reportage, il fotogiornalismo è nato con il bianco e nero, il bianco e nero chimico, quello della camera oscura, delle bruciature e delle mascherature in fase di stampa, le stesse che i programmi di ritocco fotografico propongono in maniera digitale. A me il digitale comincia a darmi un po’ sui nervi, perché il fotoritocco digitale (quello spinto), il fotomontaggio tolgono realtà alla fotografia, la rendono meno incisiva. La fotografia è reale: nel senso che quello che fotografi esiste nella realtà, non è un sogno, un’astrazione, un prodotto della fantasia, c’è, esiste: il fotografo si limita a raccogliere. Questo fa il fotografo: attende e raccoglie, come se fosse (si fa per dire) al servizio della realtà. Certo è un’attesa consapevole, attenta, mai noiosa, anche se poi scopre che ci sono scatti che non sa neanche lui come sono saltati fuori. Lui era lì. E questo basta. Fotografare, in fondo, è un tentativo di raccontare storie. C’è chi lo fa con le parole, chi con i cortometraggi, chi con i fumetti e chi con un libro fotografico. Ma qualunque modo si voglia usare per dire una cosa sul mondo bisogna «possedere» un minimo l’idea di quel che si fa, avere in mano il progetto. Perché la fotografia si fa sul campo, sporcandosi le mani, mettendosi in gioco, faticando. «Ottica fissa e stai sul posto», dicevano i vecchi fotografi, ponendo l’accento sull’attesa che precedeva lo scatto. Non si tratta di fare i nostalgici: raccontare storie è un mestiere duro. Lo sanno bene i giornalisti, i romanzieri, gli sceneggiatori, i registi, i fumettisti. Speriamo in tempi più autentici, senza troppi effetti speciali, perché il vero effetto speciale deve trovarlo chi racconta, nel soggetto. Luca Pelusi

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C’era una volta il reportage. E la pellicola.

A guardare la storia del reportage fotogiornalistico, penso sia innegabile che il bianco e nero sia stato il colore dei sentimenti e degli avvenimenti. Il reportage, il fotogiornalismo è nato con il bianco e nero, il bianco e nero chimico, quello della camera oscura, delle bruciature e delle mascherature in fase di stampa, le stesse che i programmi di ritocco fotografico propongono in maniera digitale. A me il digitale comincia a darmi un po’ sui nervi, perché il fotoritocco digitale (quello spinto), il fotomontaggio tolgono realtà alla fotografia, la rendono meno incisiva. La fotografia è reale: nel senso che quello che fotografi esiste nella realtà, non è un sogno, un’astrazione, un prodotto della fantasia, c’è, esiste: il fotografo si limita a raccogliere. Questo fa il fotografo: attende e raccoglie, come se fosse (si fa per dire) al servizio della realtà. Certo è un’attesa consapevole, attenta, mai noiosa, anche se poi scopre che ci sono scatti che non sa neanche lui come sono saltati fuori. Lui era lì. E questo basta. Fotografare, in fondo, è un tentativo di raccontare storie. C’è chi lo fa con le parole, chi con i cortometraggi, chi con i fumetti e chi con un libro fotografico. Ma qualunque modo si voglia usare per dire una cosa sul mondo bisogna «possedere» un minimo l’idea di quel che si fa, avere in mano il progetto. Perché la fotografia si fa sul campo, sporcandosi le mani, mettendosi in gioco, faticando. «Ottica fissa e stai sul posto», dicevano i vecchi fotografi, ponendo l’accento sull’attesa che precedeva lo scatto. Non si tratta di fare i nostalgici: raccontare storie è un mestiere duro. Lo sanno bene i giornalisti, i romanzieri, gli sceneggiatori, i registi, i fumettisti. Speriamo in tempi più autentici, senza troppi effetti speciali, perché il vero effetto speciale deve trovarlo chi racconta, nel soggetto.

Luca Pelusi