Dalle montagne alla pellicola. Bàrnabo tra Buzzati e Brenta

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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di Laurea Magistrale in Italianistica, Culture Letterarie Europee, Scienze Linguistiche DALLE MONTAGNE ALLA PELLICOLA: BÀRNABO TRA BUZZATI E BRENTA Tesi di laurea in Linguistica italiana con laboratorio di scrittura Relatore Prof.: Fabio Atzori Correlatore Prof.: Mario Brenta Presentata da: Nico Marchiori Seconda Sessione Anno Accademico 2012/2013

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tesi specialistica

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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

Corso di Laurea Magistrale in

Italianistica, Culture Letterarie Europee, Scienze Linguistiche

DALLE MONTAGNE ALLA PELLICOLA: BÀRNABO TRA BUZZATI E BRENTA

Tesi di laurea in

Linguistica italiana con laboratorio di scrittura

Relatore Prof.: Fabio Atzori Correlatore Prof.: Mario Brenta Presentata da: Nico Marchiori

Seconda Sessione

Anno Accademico 2012/2013

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INDICE

INTRODUZIONE �

1. DALLE MONTAGNE AL TESTO

1.1. Avere le montagne nel sangue 1.2. Bàrnabo delle montagne tra romanzo di formazione e sentimento del

tempo 1.3. Buzzati di quali montagne?

1.3.1. Alto e basso in Bàrnabo delle montagne 1.3.2. Bàrnabo e I miracoli di Val Morel 1.3.3. Il paesaggio pre-dolomitico in Bàrnabo delle montagne 1.3.4. Il paesaggio dolomitico in Bàrnabo delle montagne

2. DAL TESTO ALLE MONTAGNE

2.1. Buzzati, Bàrnabo e la lingua come comunicazione visiva 2.1.1. Bàrnabo delle montagne: commentativo e narrativo

La parte commentativa in Bàrnabo delle montagne La parte narrativa in Bàrnabo delle montagne

2.1.2. Il montaggio buzzatiano in Bàrnabo Le relazioni verbali nel testo, o il testo come movimento unitario Le oscillazioni nell’unicuum: l’importanza dei soggetti nelle proposizioni di Bàrnabo

2.2. Mario Brenta e l’appropriazione cinematografica di Buzzati 2.2.1. Il tempus della sceneggiatura, il tempus del film 2.2.2. Il mondo commentativo e narrativo nella pellicola di Mario

Brenta 2.2.3. Prima del film: gli influssi di Buzzati nella sceneggiatura di

Bàrnabo delle montagne 2.3. Adattare il Bàrnabo di Buzzati: problemi tecnici e scelte estetiche

2.3.1. Problemi tecnici 2.3.2. Scelte estetiche

Adattamento degli esistenti buzzatiani nel Bàrnabo di Mario Brenta Considerazioni sugli eventi nel Bàrnabo di Mario Brenta

APPENDICE

Confronto sceneggiatura – romanzo Intervista a Mario Brenta: 01 febbraio 2012 Intervista a Mario Brenta: 26 aprile 2012 Filmografia

BIBLIOGRAFIA

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INTRODUZIONE �����

Spesso, volendo confrontare un adattamento cinematografico con il testo originario, ci si limita ad osservare le differenze e le somiglianze dell’uno rispetto all’altro, evidenziando come il prodotto finale corrisponda alle aspettative del pubblico lettore, oppure si allontani in modo evidente da esse. Nel nostro lavoro, che intende analizzare i rapporti che intercorrono tra il romanzo Bàrnabo delle montagne di Dino Buzzati (1933) e la sceneggiatura dell’omonimo film di Mario Brenta (1994), abbiamo seguito un percorso differente, ragionando non tanto sul romanzo di Buzzati come “testo iniziale” e l’opera di Brenta come “testo finale”, ma cercando di capire se ciò che preesisteva al romanzo (la nostalgia milanese per quei paesaggi montani che porterà Buzzati a voler scrivere una storia di montagna) si può ritrovare nelle immagini del Bàrnabo filmico.

In questo sistema “uroborico”, in cui l’inizio (la montagna bellunese dove Buzzati trascorre gran parte della giovinezza e dell’adolescenza) e la fine del percorso (la montagna bellunese in cui Brenta ambienta il suo film) sembrano coincidere, ha grande importanza come l’immaginario buzzatiano sia capace di penetrare nella sceneggiatura e nelle riprese della pellicola di Mario Brenta: lontano dall’essere una semplice trasposizione di parti dal Bàrnabo originario, il testo filmico del regista veneziano viene permeato in profondità dal linguaggio buzzatiano, che va a incidere non solo sulle scelte narrative che costruiscono la sceneggiatura, ma anche sulle modalità di struttura sintattica del testo e sulle scelte di inquadratura del paesaggio e dei personaggi.

Cercando di ricostruire le modalità secondo le quali l’adattamento di Mario Brenta dà vita all’immaginario contenuto nel Bàrnabo di Buzzati, abbiamo diviso il nostro lavoro in due capitoli, “Dalle montagne al testo”, e “Dal testo alle montagne”. Nel primo capitolo ci soffermeremo sul modo in cui la montagna dolomitica entra nella pagina del Bàrnabo buzzatiano, filtrata attraverso i resoconti e i disegni riportati nelle lettere che Dino Buzzati inviava all’amico Arturo Brambilla, e vista in maniera diversa a seconda dei tratti geografici considerati: le valli, i boschi e il paesaggio tipicamente pre-dolomitico da un lato; le pareti, le cengie, le cime: le dolomiti vere, dall’altro. Nel secondo capitolo, infine, vedremo come la struttura data dalla variatio temporale dei verbi nel romanzo buzzatiano costituisca la base della sceneggiatura di Mario Brenta e Angelo Pasquini; successivamente, sarà interessante notare come alcune scelte legate alla sintassi dell’adattamento e alcune particolari inquadrature siano profondamente influenzate da elementi appartenenti alla letteratura buzzatiana.

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1. DALLE MONTAGNE AL TESTO

1.1. “Avere le montagne nel sangue”

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Nel celebre Autoritratto edito da Mondadori nel 1973, Dino Buzzati racconta ad Yves Panafieu la nascita, l’idea fondante Bàrnabo delle montagne, suo primo romanzo: “Quando sono andato al Corriere, durante i primi anni, non scrivevo, perché non sapevo di che cosa scrivere. Non avevo idea di cosa volessi dire. A un certo momento, però mi è venuta la voglia di scrivere una storia di montagna. Allora avevo le montagne nel sangue”1. Allo stesso modo del guardiaboschi Bàrnabo, che in pianura – dopo la sparatoria con i briganti – riapre la ferita ormai cicatrizzata per ricordare i tempi sulle crode (“Gli sembra, rinnovando il male, di tornare indietro, di respingere il tempo, d’essere ancora quello di prima”2), l’autore bellunese sembra provare soprattutto negli anni precedenti ed immediatamente successivi il 1928, anno dell’assunzione presso il Corriere della Sera e della Laurea in Giurisprudenza, un fortissimo senso di nostalgia – diremmo, usando un termine rubato alla letteratura e alla musica di marca portoghese, saudade – per le montagne, unito a un sentimento di sfiducia verso la propria vita futura, probabilmente legato al suo permanente risiedere nell’ambiente cittadino.

Bruno Mellarini, analizzando l’influenza avuta su Bàrnabo delle montagne dello scambio epistolare tenuto da Buzzati con l’amico Arturo Brambilla, ricorda come “Il futuro scrittore […] alterna momenti di esaltazione a momenti di profondo sconforto, passando continuamente dalla fase euforica alla fase disforica: «Qualche volta […] ho avuto molta fiducia in me e ho pensato: quando avrò fatto l’università e anche prima devo combinare qualcosa di bello. Ma ora comincio a capire che non ho quello che avevo creduto e che per fare qualcosa di grande bisogna potere più di me» [12 ottobre 1924]”3; sfogliando le lettere dell’epistolario buzzatiano prendendo come data iniziale il 1924 – anno della fine degli studi superiori, è effettivamente rintracciabile nei testi uno scoraggiamento legato a fattori quali la carriera universitaria, la spasmodica ricerca di una ragazza, l’aridità creativa:

Io non studio quasi niente e faccio paura a me stesso. Le riunioni scapolari, alle 6, sotto ai portici o in galleria, sono di una monotonia esasperante. È proprio vero quello che dici tu, che la vita a Milano è d’una monotonia e d’una piattezza speciali. Sarà perché noialtri non abbiamo abbastanza intraprendenza e coraggio, [oltre ad avere io una timidezza spaventosamente ridicola]. Mi persuado sempre più che in qualsiasi ramo, per combinare qualcosa di notevole, occorre avere prima di tutto coraggio e fregarsene degli altri. (Milano, sabato 10 ottobre 1925)4

��������������������������������������������������������������Yves Panafieu, Dino Buzzati: un autoritratto, Milano, Mondadori, 1973, p.31.� ��Cfr. D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, Milano, Mondadori, 2010, p.53.���Cfr. Bruno Mellarini, Dalle Lettere a Brambilla al Bàrnabo delle Montagne:una proposta di lettura, «Studi buzzatiani» a. 4. 2000, pp.42-43. Cit. da: D. Buzzati, Lettere a Brambilla, Milano, De Agostini, 1985, pp.169-170.���D. Buzzati, Lettere a Brambilla, op. cit., p.175. �

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Il fatto è che io, il quale, ti confesso, mi ero creduto un giorno capace di compiere cose grandi, dico “cose grandi”, ora mi accorgo di una completa mancanza di volontà, in secondo luogo di una completa mancanza di genialità. Aggiungi a ciò 20 anni, la assenza di ogni cultura e di passione per gli studi. Rimane una carriera grigia come un topo, una carriera di impiegato che mi farà crepare, crepare sì. Oh! Avessi almeno l’amore […] nessuna pupa al mondo sa che io esisto, io l’uomo più degno d’amore che sia sulla faccia del mondo. […] E aspetto sempre, aspetto di giorno in giorno, la pupa che mi possa far fare grandi cose. Così non faccio niente, non suono, non disegno [ho pensato perfino una volta di avere le attitudini per diventare un grande artista, e dico poco]. (Milano, martedì 20 luglio 1926)5

Molte volte è rintracciabile nelle lettere, anche successive al 1928, un forte senso di angoscia, spesso legato a un presentimento di incomprensione da parte dei colleghi del giornale; allo stesso modo sembra nascere in Buzzati un sentimento di noia “esistenziale” derivante da una prospettiva di vita proiettata sull’impasse, sull’immobilità:

Ne ho conosciuti tanti di uomini in questi ultimi tempi, ma l’incomprensione di tutti è una cosa immensa. Il vero è che più si lavora, più si pensa solo a sé stessi, alle proprie preoccupazioni, e le sere passano gelide, perché le felici malinconie d’un tempo non possono tornare. Così l’animo sembra che si inaridisca a poco a poco […]. (Milano, 11 novembre 1929)6 Io nel Corriere sono un incapace; non so più come mi tengano. Sono lento terribilmente; per far presto faccio, nella cronaca nera, dei pezzetti che poi mi correggono, mi cambiano, talvolta rifanno completamente. Scorgo sorrisi di compatimento e silenzi imbarazzanti, mi chiudono fuori dalle confidenze. […] A poco a poco, senza accorgermi, ingannato anche dal prossimo, mi sono ridotto allo tato di un quidam qualsiasi, non fallito perché costretto a scegliere una professione non adatta, ma bocciato alla prova da lui stesso desiderata. (Milano, 15 febbraio 1930)7 Sento di non sapere, non dico classificare, ma nemmeno pensare i valori spirituali; passo da attimi di orgoglio, più o meno fatuo, a soventi periodi di abiezione in cui ammiro supinamente, invidiandole, le opere altrui e mi sento in procinto di chiudere in un cassetto ogni velleità artistica, per cercare di distinguermi nel più grigio campo della mediocrità. (Milano, 26 maggio 1930)8

Lontano dalle Dolomiti e stabile per necessità lavorative a Milano, Dino Buzzati sembra condividere con Bàrnabo, protagonista del suo libro in fieri, la stessa inquietudine, la stessa paura della svolta abitudinaria della propria vita verso direzioni in realtà non desiderate: se il futuro scrittore si trova a scrivere all’amico Illa9 della propria insoddisfazione per eventi della propria vita che sembrano sfociare nella mediocrità (qual peggior male per artisti consci delle proprie capacità!), il giovane guardiaboschi Bàrnabo in esilio forzato presso i campi del Bersaglio – lontano dalla Valle delle Grave e dalle Montagne di San Nicola – sembra consumare la propria vita nell’assiduo lavorare nei campi sotto il sole. I sentimenti di Bàrnabo sembrano così, nei terreni di cui il cugino

��������������������������������������������������������������D. Buzzati, Lettere a Brambilla, op. cit., p. 178. I corsivi sono miei.���Ivi, p. 193. Il corsivo è mio.���Ivi, p. 197.��Ivi, p. 200.��Si tratta del diminutivo dato da Buzzati all’amico Arturo Brambilla, così chiamato – dopo il giovanile Artuêris – in molte lettere dall’adolescenza fino alla morte dello stesso destinatario.

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Giovanni è proprietario, ricalcare le stesse pulsioni milanesi di Buzzati: mai come nella campagna si sente tanto il tempo passare (“Ora sono passati due anni. I guardiaboschi non sono mai esistiti. Il tempo buono è passato e Bàrnabo l’ha lasciato andare”; “Bàrnabo […] lascia passare i giorni”; “I giorni fanno presto a fuggire e sono già passati quattro anni”; “è una di quelle notti in cui sembra di sentire il tempo che passa” si afferma per tutto il capitolo 1410), e a risaltare sulla pagina rimane la consapevolezza della solitudine, dove “Bàrnabo si sente inchiodato sulla sedia; in mezzo alla pianura, nella casa silenziosa, capisce di essere solo, completamente abbandonato”11, unita ad una percezione di inerzia, un’impossibilità fisica di poter mutare il proprio destino: “Era tutto quello un mondo diverso: anche la bottega, anche quella campagna. Era entrato così nel petto di Bàrnabo un affanno, non c’era più aria da respirare. Ritornato poi fuori, sulla via, Bàrnabo si accorse di aver perduto qualcosa ma non riusciva a ricordare. Sentiva una mano vuota e questa sensazione gli toglieva ogni coraggio”12.

Di fronte all’inquietudine, all’ossidazione intellettuale – prima che fisica – che investe il nostro doppio soggetto, il Buzzati-Bàrnabo,13 ecco la reazione dell’autore bellunese volta a compiersi nella montagna con la sua prima opera di finzione; lo stesso scrittore lo ricorda per due volte ad Yves Panafieu14 ripetendo una formula che non lascia intuire alcuna indecisione: Buzzati scrive Bàrnabo delle montagne perché nel 1930, a ventiquattro anni, ha “le montagne nel sangue”. Scrivere una storia diventa così un obbligo per il Buzzati di quegli anni che, come abbiamo visto, “ammira le opere degli altri” e deve trovare – per provare la sua essenza di artista – il guizzo di genialità che lo riporti a sé stesso: lo scrivere una storia di montagna, proprio perché fatta sua propria, diventa naturalmente il fine ultimo dello scrittore bellunese, che sente il dovere di trasmettere attraverso il linguaggio il suo vissuto alimentato dalla finzione. Fa bene quindi Patrizia Dalla Rosa ad affermare che Dino Buzzati scrive con la consapevolezza che “prima della soglia che invita all’avventura c’è il mondo piatto e sicuro dell’anonima vita borghese” e che soprattutto “da giù, da sotto la parete, da prima della porta/finestra/limite che protegge si può mentire a sé stessi. Oltre, no. Oltre, è la verità”15; a riprova di ciò, richiamando quel concetto, quel sentimento di nostalgia frammista a rimpianto qual è quello di saudade, ci sembra corretto riportare alcune testimonianze dall’epistolario buzzatiano in cui diventa evidente la sensazione propria all’autore bellunese di avere le crode “nel sangue”, nel sentire – anche e soprattutto emotivamente – quella linea di demarcazione che divide la monotonia e la mediocrità della vita milanese dall’esperienza profondamente esistenziale data dalle montagne: ai fini del nostro discorso diventano così importanti le esternazioni di contentezza di Buzzati nel pensare di passare del tempo sulle montagne, magari con l’amico Brambilla16, così come sono rilevanti – oltre naturalmente i disegni

���������������������������������������������������������������Cfr. D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., pp. 55-58.����D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., p.58.����Ivi, p.56. ����Si legga, a proposito della duplicità tra Dino Buzzati e il suo personaggio Bàrnabo, B. Mellarini, op. cit., p.45; è importante, ai fini della nostra osservazione, il fatto che Mellarini stesso riconosca come Buzzati crei un alter-ego di sé stesso per rivivere l’ “esperienza biografica che l’aveva così profondamente segnato”. ���Si può leggere in Y. Panafieu, op. cit., a p.31 e 213.�15 Cfr. Patrizia Dalla Rosa, “«Al di sopra dei lucernari e delle guglie»: gli «altrove» intravisti da Dino Buzzati”, in P.Dalla Rosa, Dove qualcosa sfugge: lingue e luoghi di Buzzati, Pisa-Roma, IEPI, 2004, p. 63. ���Si legga,a questo proposito, la lettera del 12 ottobre 1924 dove Dino Buzzati, in previsione di un’ascensione nel lombardo, scrive ad Arturo Brambilla queste parole: “Giovedì sera sarò a Milano. Tu non sai quanto piacere e gioia mi dai venendo in Grigna […]. E ora pensiamo piuttosto alle guglie della Grigna che, anche se non sono classiche crode, ci

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che sono allegati alle lettere, talvolta senza alcuna connessione col testo – le considerazioni malinconiche che l’autore bellunese mette nero su bianco dal paese natale e da Milano, sua residenza e luogo dove inizia l’esperienza del servizio militare:

E stasera il mio Schiara è meravigliosamente rosso e io ci voglio proprio bene eccetera eccetera e tutta la tristezza e il desiderio di crode che viene quando scende la notte. E così ho finito. (S. Pellegrino – Belluno, domenica 12 ottobre 1924)17

Ma basta. Ora sono qui in questa specie di prigione in cui bisogna lavorare senza requie dalla mattina alla sera. Orribilmente ricoperti come forzati, sempre sotto la minaccia di punizioni. Così che le pupe, le montagne, la musica, la libertà appaiono cose così straordinariamente belle che sembra non si potranno mai avere. (Milano, 8 settembre 1926 – Caserma Teullé […])18 Uno spappolamento celebrale: ecco quello che mi fa questa vita noiosa. Non posso studiare = La vita futura sembra uguale a quella così bene passata in tante gloriose imprese; mi cadono le braccia insieme colle mie povere risorse. Quando penso alle crode immerse nelle nebbie, quando ricordo quello che avrei potuto fare non fatto (…). (Merano, 6 settembre 1927)19

Ma torniamo per un momento a Bàrnabo: lavorando al Bersaglio, non riesce a sentire –

Buzzati usa la parola “ricordare” – ciò che ha perduto vivendo così a lungo nei campi. Ma un giorno ecco la visita del vecchio amico guardiaboschi Bertòn, e all’improvviso passa sopra i campi “il respiro della montagna. Forse senza accorgersi, Bàrnabo era stato ricondotto indietro nel tempo. Era tornato il tormento di certe sere. […] Egli si era rifugiato nella campagna, nella grassa pianura e forse gli toccava consumare la vita, pigramente, in un’inutile attesa”20. Proprio come il suo protagonista, Buzzati sente – chiuso, come abbiamo visto, nella monotonia della vita presente – il “respiro” delle crode, il bisogno di scrivere di una geografia che sia legata al suo passato, alle emozioni del passato; ecco perché siamo quindi d’accordo quando Patrizia dalla Rosa ribadisce come, nell’opera di Buzzati – ed in particolare nel Bàrnabo, ci sia “una «geografia» dove si è aperto il suo immaginario, e dove Dino vorrebbe sempre tornare. E c’è […] una lingua che dice questa geografia, una lingua che pure vorrebbe tornare a questo luogo ma anche a questo tempo originari […], la nostalgia di un luogo-tempo”21; una geografia che, a tutti gli effetti pulsa nelle vene del Buzzati ventiquattrenne più che mai deciso a scrivere la sua storia di montagna, lui che – come ribadirà poi a Panafieu quarant’anni dopo – si esprime così nel 1930 con l’amico Brambilla: “Nelle mie ambizioni letterarie pensavo che unico argomento libero e vergine è la montagna, motivo che bisognerebbe innestare a qualche passione umana perché non rimanesse freddo o inesprimibile”22.

�����������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������potranno lo stesso fare felici. E le notti divine al rifugio, e i canti e quelle incomparabili gioie che potremo avere”: in D.Buzzati, Lettere a Brambilla, op. cit., p. 169.

���D. Buzzati, Lettere a Brambilla, op. cit., p.170.���Ivi, p.182. ���Ivi, p.184. ����Ivi, p.73. ����Cfr. P. Dalla Rosa, op. cit., pp. 13-14.����D. Buzzati, Lettere a Brambilla, op. cit., p.203.�

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Giunti a questo luogo, nasce in noi un interrogativo: con quali passioni Dino Buzzati intendeva dare un’anima alla storia e alle montagne che andava costruendo? In attesa di una risposta, proviamo ad indirizzarci al prossimo punto.

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1.2. Bàrnabo delle montagne tra romanzo di formazione e sentimento del tempo

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Per riuscire a comprendere in che modo le “pulsioni umane” descritte poco sopra da Buzzati riescano ad entrare nel primo romanzo in maniera così forte, è necessario secondo noi riassumere in tre snodi fondamentali la vicenda narrata in Bàrnabo delle montagne:

a. La violazione di Bàrnabo ai propri doveri nel primo scontro a fuoco che lo potrebbe vedere protagonista: il giovane, dapprima minacciato da un individuo posizionato sulle rocce poco più sopra di lui, sceglie di nascondersi e osservare la sparatoria, senza parteciparvi. Cessato il pericolo (e dopo aver lasciato che i briganti colpissero l’amico Bertòn), Bàrnabo decide di ritornare nei boschi per fare ritorno alla Casa dei guardiaboschi a sera inoltrata.

b. Un lungo periodo d’attesa che coincide dapprima con il tempo trascorso al Bersaglio, nei campi del cugino, dove Bàrnabo si è ritirato a lavorare dopo essere stato cacciato da Marden, e poi con la decisione di fare ritorno alla Casa Nuova, col ruolo affidatogli di sorvegliare l’edificio.

c. La decisione di Bàrnabo di non sparare ai briganti nel finale, una contentezza latente nella sua decisione di non fare fuoco: “Bàrnabo in silenzio ha un sorriso, il suo fucile si abbassa, le sue mani si sono allentate. Si sente un’aria felice, tra le crode inondate di sole”23.

Ilaria Crotti, nel suo volume dedicato all’intera opera di Buzzati24, suggerisce che in Bàrnabo esista una sorta di progressione che porta dal punto a. al punto c.; tale progressione – che segue l’intreccio dell’opera – sarebbe dovuta alle diverse motivazioni che portano Bàrnabo a non sparare all’inizio e alla fine della sua avventura: nel primo caso, l’astensione è da imputarsi alla vigliaccheria, mentre nel secondo caso, una presa di coscienza di Bàrnabo marcherebbe la sua rinuncia:

Bàrnabo è un donchisciottesco anti-eroe che attende con tenacia e a lungo un nemico invisibile; quando la realtà concreta lo metterà alla prova sarà capace di due reazioni egualmente negative: astenersi per vigliaccheria ed astenersi una seconda volta per pudore. Il segno negativo è qui individuato solo in relazione alla prassi; in effetti, la seconda è la scelta positiva, quindi eroica per eccellenza.25

Secondo Ilaria Crotti, l’astensione dalla scelta ovvia è la qualità più importante per Dino Buzzati, per il quale l’eroe sarebbe “chi rinuncia consapevolmente ad una vittoria facile, per pura eleganza interiore; è la facilità, che disturba; astenersi, quindi, è un segno di superiorità”26; d’altro canto,

���������������������������������������������������������������D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., p. 95. ����Cfr. Ilaria Crotti, Dino Buzzati, Firenze, La Nuova Italia, 1977, pp. 4-14. ����Ivi, p. 12. ���Ibidem. �

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come sarebbe possibile sparare a nemici “magri e patiti in faccia”, senza “espressione cattiva”, per di più in una posizione assolutamente favorevole? In questi termini, dove la condotta di Bàrnabo si rifà alla scelta di non sparare al più debole (malgrado la consapevolezza di trovarsi davanti agli assassini del proprio capoguardia), sarebbe giusto accettare la tesi di Ilaria Crotti, che definisce la storia di Bàrnabo un “Bildungsroman, un romanzo d’avventura metamorfosato in forme novecentesce, dove le vicende si collocano essenzialmente su un piano interiore”27. Ma se la tesi di Ilaria Crotti limita lo studio del testo buzzatiano ai punti a. e c. della triade compositiva che costituisce il “percorso esistenziale” di Bàrnabo, è tuttavia necessario prendere in considerazione anche la seconda fase, fatta da noi coincidere con il lungo periodo d’attesa di vendetta iniziato dal momento dell’espulsione di Bàrnabo dal corpo dei guardiaboschi fino al ritorno alle Montagne di San Nicola.

Alla fine del capitolo 12 troviamo Bàrnabo in procinto di allontanarsi dalla Casa Nuova; a dargli l’addio non c’è alcun compagno eccetto Bertòn, che accompagna l’amico verso il bosco. Prima di lasciarlo andare, Bertòn chiede a Bàrnabo quanto tempo è passato dall’inizio della sua avventura presso il corpo dei guardiaboschi: «Tre anni, non ti ricordi, e pareva…» risponde l’altro; riprendendo il primo capitolo, in cui il narratore idealmente fa sfilare i dodici guardiaboschi tra cui compare già il nostro “eroe”, sembra quasi che quei tre anni (anzi, realisticamente meno di quei tre anni!) siano trascorsi nei primi dodici capitoli del romanzo di Buzzati. Ora, ritornando al punto b., che riflette nella nostra lettura il periodo in cui Bàrnabo comincia la sua nuova vita in pianura e trascorre i suoi giorni lavorando nelle campagne del Bersaglio – e che quindi, stando al testo, è compreso interamente nel capitolo 14 –, vorremmo porre l’attenzione sulla scelta dello scrittore bellunese di concentrare ben quattro anni della vita del suo protagonista28 in appena quattro pagine, tanto è lungo il capitolo da noi osservato. Scorrendo il suddetto capitolo29 non sarà quindi difficile reperire, come abbiamo già detto in precedenza, dei segnali testuali che ci fanno percepire il senso di noia, ripetitività, di abitudinarietà che traspare dalle pagine di esso: la frase nominale che costituisce l’incipit dà al lettore un senso di status che viene dato per inamovibile, e rimanda con la sua fermezza (“Vita da contadini”, recita il testo) ad una serie di operazioni ridondanti che sono parte fondamentale del lavoro in campagna; lo stesso tempo imperfetto che ci informa sull’attività di Bàrnabo (“Lavorava tutto il giorno”) non ci chiarisce, vista anche la natura del tempo verbale che tende a trattare di azioni continue, per quanto tempo Bàrnabo effettivamente lavori – sembra si ritrovi a fare la stessa attività per un tempo illimitato – ed anzi sembra aumentare la sua efficacia accompagnandosi all’espressione “e il sole scoloriva i ricordi”. Se il protagonista del libro di Buzzati inizialmente voleva ricordare l’ambiente in cui fino al capitolo precedente era vissuto – egli infatti “nei primi tempi […] cercava qualche cosa che ricordasse le montagne” – cercando anche in un simbolo il ricordo delle crode30, bastano al lettore le espressioni date al presente (“Ora sono passati due anni. I guardiaboschi non sono mai esistiti. Il tempo buono è passato e Bàrnabo l’ha

���������������������������������������������������������������Ivi, p. 12. ��Abbiamo già ripreso precedentemente l’affermazione “I giorni fanno presto a fuggire e sono già passati quattro anni”, proprio a metà del capitolo 14 in D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., p. 56. ��Ivi, op. cit., pp.55-58.����Intendiamo per “simbolo” il fucile che Bàrnabo riesce a comperare con i risparmi ottenuti dal lavoro in pianura: se inizialmente “sentiva una mano vuota e questa sensazione gli toglieva ogni coraggio”, ora, grazie all’arma da fuoco che compare in questa parte del libro del tutto priva di ogni caratterizzazione originaria – piuttosto la chiameremmo, nell’accezione francese di “ricordo” da cui essa proviene, un souvenir dei tempi andati – Bàrnabo “lascia passare i giorni e qualche volta gli pare di essere ancora contento”.�

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lasciato andare”; “I giorni fanno presto a fuggire e sono già passati quattro anni”) per dare l’impressione al lettore che Bàrnabo abbia visto volare quegli anni quasi da non averli vissuti, come se la noia della vita in campagna e la ripetitività del lavoro avessero reso il tempo trascorso impalpabile. Dice bene quindi Thomas Mann ne La montagna incantata quando, immedesimandosi nel protagonista Hans Castorp in riflessione sulla natura del tempo, afferma che

si sono fatte strada molte idee variamente false sulla natura della noia. Si crede in generale che l’interesse e la novità del contenuto «faccia passare» il tempo, vale a dire lo abbrevi, mentre la monotonia e la vacuità ne appesantisca e ostacoli il corso. Questo non è sempre e in via assoluta vero. Vacuità e monotonia possono, è vero, prolungare il momento e l’ora, renderli «noiosi», ma i grandi e i grandissimi periodi di tempo ne vengono abbreviati, possono risolversi perfino in quantità trascurabili. Al contrario, un contenuto ricco e interessante è capace di abbreviare l’ora ed anche la giornata, mentre sul tempo, preso a grandi periodi, influisce conferendogli peso, solidità, lunghezza; così che anni densi di avvenimenti trascorrono molto più lentamente di altri poveri, leggeri, che il vento soffia via. Ciò che si chiama noia è dunque in realtà una brevità morbosa del tempo causata da monotonia; una uniformità ininterrotta abbrevia grandi periodi di tempo in un modo incredibile e spaventoso. La vita più lunga in una completa uniformità verrebbe ad essere più breve, trascorrerebbe inavvertita. L’abitudine è un addormentarsi o un ottundersi del senso del tempo e se gli anni della bella giovinezza sembrano lunghi mentre la vita ulteriore scorre via presto, ciò dipende certamente dall’abitudine.31

Nella seconda parte del capitolo, ecco la storia cambiare; primo segnale evidente all’occhio del lettore è la variazione di tempo verbale usato da Buzzati, che dall’imperfetto con cui narrava la monotonia della vita del protagonista attraverso la cronaca delle sue abitudini passa all’uso del tempo presente, quasi ad inquadrare una scena che si svolge davanti agli occhi: “Una sera, stanco per aver lavorato, Bàrnabo va in camera sua a riposare. È cominciata la primavera e nel cielo c’è un quarto di luna, mezzo velata da tenui nebbie. […] Bàrnabo si rigira inquieto tra le coperte. Ecco là, contro la debole luminosità della finestra, la sagoma della sua cornacchia”; andando avanti con la lettura, sembra che Buzzati intenda riportare Bàrnabo nella sua stanza (all’hic et nunc) per farlo rendere conto della salute del suo animale, quella cornacchia che, ferita dai cacciatori, venne ritrovata dal giovane nella (fatale) discesa dalla Cima della Polveriera il giorno della sparatoria tra guardiaboschi e briganti; lo stesso uccello che poi, stranamente, lo vedemmo accompagnare Bàrnabo nel suo esilio forzato ai campi del Bersaglio ed infine, in questo capitolo, abbandonarlo per ritornare verso le Montagne. Ma andiamo con ordine e ripercorriamo, testualmente, i vari momenti che segnano il rapporto del protagonista con il suo animale, dal ritrovamento di esso sulle montagne fino al ritorno – nel capitolo 14 – dell’uccello alle crode di San Nicola:

cap.10 “Allora una cornacchia dello stormo comincia a stridere disperatamente, rimane indietro alle altre, benché batta più presto le ali. […] Mentre le sue compagne si allontanano, la bestia si mette a volare disordinatamente, è stata ferita, si dirige verso la montagna”.32

cap.11 “Barnabo sente improvvisamente un grido, qualche cosa che non gli è nuovo. […] È il grido della cornacchia ferita, udito l'altra sera”. “Lui che è andato in cima a quella montagna ha paura di ammazzare un uccello? Eppure, con la

���������������������������������������������������������������Cfr. Thomas Mann, La montagna incantata, Milano, TEA, 1924, 2005, pp. 93-96.����D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., p. 47.

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cornacchia in mano, Barnabo si è fermato, pensieroso, a guardare le sovrastanti pareti”. “C'è un grandissimo silenzio, che fa udire lontanissimi rombi da valli sconosciute. La cornacchia è diventata immobile. Forse sta per morire. Barnabo la introduce nella grande tasca posteriore della giacca e continua la discesa”.33

cap.12 “Un gemito tormentoso attraversa d'un tratto il silenzio. Gli viene in mente che la cornacchia non sia davvero morta. Si leva adagio dal letto e si avvicina alla sua giacca appesa al muro. Introdotta una mano nella tasca, sente qualcosa di caldo. La bestia non è morta”. “Bàrnabo, nella stanza deserta, prepara il sacco per partire. La cornacchia che ha ripreso la vita si è appollaiata su un piolo di legno infisso nel muro e sembra osservare immobile”. “Preso da una lieve stanchezza, Barnabo si è seduto nella sala del pianterreno. Ha i gomiti sulla tavola, guarda fisso davanti e non si è accorto che la cornacchia, da lui dimenticata, è scesa in silenzio dietro a lui e si è appollaiata su una spalla”. “I due guardiaboschi camminano per il prato […]. Nessuno dei due si è accorto che la cornacchia vien loro dietro saltando faticosamente”.34

cap.13 “Un passo, due passi, adagio. Solo allora Barnabo si ricordò della cornacchia e si voltò indietro per vedere se essa lo avesse seguito. Ma tutto era perfettamente deserto. Anche quella bestia, si capisce, era rimasta lassù. Da quel momento Barnabo proseguì la discesa più rapidamente”. “Era ancora la cornacchia. Per tutta la notte, dopo averlo seguito non vista, sbattendo faticosamente l'ala spezzata, essa l'aveva atteso fuori dell'osteria, su di un ramo, sotto la tempesta”.35

cap.14 “Barnabo si rigira inquieto tra le coperte. Ecco là, contro la debole luminosità della finestra, la sagoma della sua cornacchia. Si è addormentata sul piolo col becco rivoltato sotto l'ala e Barnabo, guardando, si accorge che la bestia è cambiata”. “A guardare però da vicino si vede che ha un piccolo tremito che la scuote ininterrottamente. Appena Barnabo entra nella stanza, la cornacchia socchiude il becco, voltando verso di lui la testa. Adesso il tremito si fa più intenso. Fuori c'è un cielo sereno con i riflessi del tramonto. […] Allora con uno sforzo la cornacchia si getta fuori dal davanzale, fino a raggiungere il ramo di un pero”. “Attorno è la verde campagna nella larghissima pianura. Si vede la cornacchia scuotersi improvvisamente, poi riprendere i colpi d'ala, alzarsi a poco a poco nell'aria, allontanarsi sempre più. Una fuga disperata verso le nubi del settentrione. La bestia si fa sempre più piccola finché si perde all'orizzonte. Ma ancora per un pezzo echeggia lamentoso quel grido”.36

Si noterà, come abbiamo evidenziato in corsivo in ogni ripresa dal romanzo, che la presenza della cornacchia porta Dino Buzzati a ricondurre le vicende del suo Bàrnabo in un tempo presente; a nostro parere, in seguito a questa osservazione “temporale”, sembra che il misterioso uccello salvato dalla morte e quindi in fuga verso i monti vada oltre il ruolo di simbolo che si fa, secondo Ilaria Crotti, “emblema della condizione di prigionia del personaggio, quando sconta la colpa della sua trasgressione nella piatta pianura”37; d’altro canto, pensiamo che la cornacchia rivesta nel

���������������������������������������������������������������Ivi, pp. 40 e 41.����Ivi, pp. 46, 47, 48 e 49.����Ivi, pp. 51 e 53.����Ivi, p.57. ����Cfr. I. Crotti, op. cit., p. 9.�

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romanzo dell’autore bellunese un ruolo ancora più importante, laddove è d’aiuto a Bàrnabo nel prendere coscienza di

un tempo soggettivo attraverso il continuo alternarsi del ricordo del passato con la realtà del presente. Si ottiene così l’atmosfera generale di tutto il romanzo: da un lato si coglie il senso d’angoscia proprio del rimpianto di un tempo ormai irrecuperabile, da un altro si avverte l’ansia di un futuro grigio e chiuso ad ogni luce di speranza. Si realizza così una terza concezione del tempo, 38 non più fluire cronologico, né arresto quasi trascendente, bensì dimensione intima e sottile che emersa dalla coscienza dell’uomo sotto forma di ansia, attesa, paura, speranza costantemente delusa, determina la realtà temporale più autentica e drammatica, espressione estrinsecata degli affanni di un Bàrnabo che è qui simbolo di tutti gli uomini.39

È nel presente quindi che si rivela l’essenza della storia in Bàrnabo: nel “qui ed ora” vi è il riconoscimento immediato di quei sentimenti che inevitabilmente provoca la fuga della cornacchia: e quando l’agire nel tempo della contemporaneità era garantito dalla presenza dell’animale, ecco che il suo addio crea nel protagonista un varco, ritornano in lui i “vecchi ricordi di un turbine senza fine”40. Se, con Ilaria Crotti, fossimo propensi ad intendere allora il romanzo di Buzzati come un Bildungsroman, saremmo obbligati a ricrederci quando, alla fine del capitolo 14, si afferma che i pensieri di Bàrnabo non si concentrano sulla possibile vendetta da consumare nei confronti di quei banditi che misero a nudo la propria paura, ma confluiscono nei ricordi causati dalla perdita dell’uccello 41: perché “quella cornacchia era venuta con lui dalle montagne e di quella vita era l’unica cosa rimasta, l’ultima continuazione”42.

Davanti a sensazioni come “ansia”, “attesa”, “paura”, “speranza” prima citate da Laganà Gion per descrivere “la realtà temporale più autentica e drammatica” che, in un certo senso, caratterizza la realtà soggettiva del romanzo, troviamo dunque che l’addio della cornacchia riesca a scardinare, nell’inconscio del protagonista, la necessità di tornare ai monti anche attraverso il ricordo, per ricercare quella vita di cui, per Bàrnabo e per il Buzzati milanese che si divideva – come abbiamo visto nel paragrafo precedente – tra Corriere, università e spleen esistenziale, solo la montagna era massima rappresentazione.

��������������������������������������������������������������Nel testo l’autrice si riferisce alle altre due “concezioni di tempo” in Bàrnabo parlando dapprima dell’alternanza dei fenomeni naturali e delle usuali attività umane, quindi trattando del misterioso fluire del tempo statico, segnato fortemente dalla presenza delle montagne. ���Antonella Laganà Gion, Dino Buzzati. Un autore da rileggere, Venezia-Belluno, Corbo e Fiore, 1983, p. 16. ����D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., p. 58. ����“A Bàrnabo viene in mente che esiste una vecchia strada, ormai piena di erbacce, che sale verso i ghiaioni. Sopra si elevano le crode immense dove qualche volta crollano delle frane facendo strani rumori. Ecco, le ripensa ancora, con il bianco sole del mattino, in una quiete meravigliosa”. Così prendono vita i ricordi di Bàrnabo quando “capisce di essere solo, completamente abbandonato”. Cfr. D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., p. 58.����Ibidem���

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1.3. Buzzati di quali montagne?

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“La centralità della montagna nell’opera di Buzzati è un fatto ormai consolidato dalla critica. Rispetto a una decina di anni fa, quando, chiedendomi «quale montagna», avevo sentito l’esigenza di specificare che la montagna in Buzzati è essenzialmente dolomitica”, afferma Patrizia Dalla Rosa in un intervento sulla natura della geografia dei testi buzzatiani43. A tutti coloro che si apprestano a leggere il primo romanzo di Buzzati, conoscendo il paesaggio dolomitico e le sue diversità rispetto al classico panorama alpino, Bàrnabo delle montagne rinvia nel suo unicuum a quella singola ambientazione; fra gli altri, il regista Mario Brenta, che intervistai sulla produzione del suo Bàrnabo, mi disse che senza ombra di dubbio il paesaggio che si celava dietro le “Montagne di San Nicola” era necessariamente quello delle Dolomiti: secondo Brenta, esse “sono le montagne d’elezione di Buzzati: si leggono in filigrana nel romanzo e anche se la topografia dei luoghi è inventata, è comunque presente un’operazione di prelievo, un collage che Buzzati fa, dove prende dei nomi reali (la Pala dei Marden, per esempio) e li mette assieme nella geografia del suo testo”44.

Considerando l’importanza dell’universo dolomitico nell’economia del primo romanzo buzzatiano, credo che sia importante definire in che modo e quali Dolomiti entrino a far parte di Bàrnabo delle montagne: una sorta di texture interiore in Dino Buzzati che si rivela essere sfondo dell’ambientazione immaginaria di San Nicola, oppure ambientazione reale travestita dalla toponomastica inventata del testo? Sulla base della suddivisione alto/basso del paesaggio in Buzzati, cercherò in questo paragrafo di fare luce su questa problematica; in aggiunta sarà utile inoltre cercare di comprendere le diversità del paesaggio dolomitico e come queste diversità si inseriscano all’interno del testo.

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1.3.1. Alto e basso in Bàrnabo delle montagne

Come abbiamo già visto, l’esperienza di Bàrnabo è scandita soprattutto da spostamenti nella verticalità: ciò che salta maggiormente all’occhio, è il movimento che il guardiaboschi compie scendendo dall’alto della montagna per giungere alla pianura (e viceversa, superata la metà del romanzo). Il lettore ha di fronte due tipologie di vita completamente differenti: una componente diremmo “avventurosa” carica l’esperienza montana di Bàrnabo, mentre la vita fondata sul lavoro va invece a contraddistinguere l’esistenza in pianura. Ancora, il passare del tempo sembra essere sentito da Bàrnabo in maniera differente a seconda di dove egli si trovi, e le giornate passano veloci, tutte uguali nel loro incedere abitudinario, durante il periodo di vita in campagna. La critica conferma l’impressione del lettore: tra gli altri, Ilaria Crotti analizza dal punto di vista narratologico il dualismo alto/basso affermando che “l’opposizione-simbolo più evidente in Bàrnabo è quella tra la montagna e la pianura”, dove si può vedere come ne “la prima trama [della montagna] ne filtri in trasparenza un’altra […] di diretta filiazione biblica; […] la seconda significazione della trama si colloca in un rapporto di esegesi cattolica, senza tuttavia sottovalutare influenze letterarie [ad

���������������������������������������������������������������Cfr. P. Dalla Rosa, op. cit., p.113. ���Vedi intervista del primo febbraio 2012 a M. Brenta in Appendice, p. 144.�

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esempio quella dostoevskiana]” e dove, nel connubio alto/basso, viene a ricrearsi questo schema significante: “felicità iniziale, trasgressione-colpa, cacciata, punizione, purificazione, riammissione degradata”45. Se Ilaria Crotti tratta il dualismo montagna/pianura come un teatro in cui si sviluppa la pluralità di trame che costituiscono l’ossatura del discorso narrativo in Bàrnabo, è interessante notare come la suddivisione alto/basso vista da Nella Giannetto rivesti questa volta l’ “alto”, la montagna, di svariati significati: “la montagna è simbolo e figura di tutto ciò che mette a nudo l’uomo nella sua essenza più autentica, costringendolo a gettare via ogni maschera e mettendo alla prova le sue reali capacità”; è “sogno, avventura, ricerca del nuovo e dell’inesplorato”46.

Nell’ambito della nostra analisi riguardante l’ambientazione montana nel primo romanzo di Buzzati, un apporto fondamentale è dato da Patrizia Dalla Rosa, che tratta della suddivisione alto/basso in Bàrnabo non soltanto nel confronto tra montagna e pianura, ma relativamente al solo paesaggio montano:

in Bàrnabo, ma credo in tutta la letteratura buzzatiana, non è sufficiente una lettura che contrapponga montagna/pianura [opposizione tra l’altro sempre evidenziata dalla critica], in quanto nell’estremamente complessa struttura dello spazio immaginario buzzatiano, la montagna è a sua volta composta da un alto, da un luogo di mezzo, da un basso47.

La suddivisione dello spazio buzzatiano data da Patrizia Dalla Rosa è reso in maniera ottimale dal film di Mario Brenta, in cui si possono individuare – anche grazie alle diverse tecniche di ripresa – il “basso” (ovvero la zona in cui si trova la caserma dei guardiaboschi), il “luogo di mezzo” (reso principalmente con gli uomini visti sulle cengie, dove l’uso del teleobiettivo rende la montagna un fondale che occupa l’intero schermo) e la cime delle crode a contatto con le nuvole.

Considerando l’importanza di trattare della montagna non solo come unicuum ma come il prodotto di una stratificazione che rispetta l’andamento verticale alto/basso, mi sono chiesto se fosse stato possibile andare al di là di una semplice stratificazione spaziale del paesaggio montano, cercando di cogliere alcuni aspetti per i quali la marcata suddivisione alto/basso avrebbe comportato anche un’indagine sull’aspetto contenutistico: perché, nella montagna di Bàrnabo, la parte bassa e quella alta sono rese in maniera diversa? Ilaria Crotti, in un suo intervento dedicato alle montagne in Buzzati, si accorgeva che, nella contrapposizione montagna-pianura, “si profila […] una più sottile antitesi tra montagna tout court geografica e montagna in quanto insieme di prospettive e di significati aperti […]. Si tratta di un’operazione che partecipa in uguale misura di procedimenti realistici e tensioni analogiche”48. Secondo il mio punto di vista che cercherò di spiegare nei paragrafi successivi, la situazione descritta da Ilaria Crotti è visibile soprattutto quando parliamo della suddivisione spaziale della montagna; si può notare infatti come le “tensioni analogiche” di

���������������������������������������������������������������I. Crotti, op. cit., p.11.�����N. Giannetto, op. cit., p.158. ���P. Dalla Rosa, op. cit., p. 45. La suddivisione è resa evidente nel testo attraverso l’uso di un linguaggio iperbolico soprattutto nelle due estremità della montagna. La studiosa porta come esempi due passaggi, uno tratto dal cap.11, Bàrnabo e Bertòn sulla Cima della Polveriera: “Lassù nessuno li avrebbe potuti toccare […] tutto era lontanissimo”. L’altro esempio, invece, è ripreso dal cap.9: Bertòn è steso sul prato a guardare le montagne, immagina che la popolazione di San Nicola non sia mai salita sulle montagne e tutti si siano fermati alle ghiaie, non potendo così ascoltare “il rumore del vento sulle altissime creste” (Cfr. Dino Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., pp. 40 e 29). ��I. Crotti, “Le montagne geografiche e metafisiche di Dino Buzzati”, in I. Crotti, Tre voci sospette – Buzzati, Piovene, Parise, Milano, Mursia, 1994, pp. 36-37.�

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cui parla la studiosa vadano a costituire l’ossatura degli avvenimenti e, più in generale, delle descrizioni nella parte bassa della montagna: si pensi alle pagine relative agli accadimenti che avvengono subito prima la morte di Del Colle, o, più semplicemente, alle visioni delle crode da punti di vista tutt’altro che elevati. D’altro canto, con i protagonisti aggrappati alle pareti delle crode di San Nicola o addirittura in cima alle montagne, ecco che la visione delle azioni si fa molto più realistica e, addirittura, nel passo relativo alla prima ascesa di Bertòn e Bàrnabo, il panorama che si vede dalla cima della croda appena scalata riporta fedelmente la geografia della cartina che apre il testo di Buzzati49, negando in parte l’affermazione della Crotti stessa, per la quale la funzione geografica della Pianta delle montagne di San Nicola, “ribadita dall’ossessione onomastica di appellare ogni luogo col proprio nome, viene quindi accostata alle vibrazioni di un testo che aspirerebbe ad arricchire quel livello geografico tramite una valenza di semanticità più complessa ed ambigua”50.

Nella visibile differenziazione dei livelli alto/basso della montagna in Bàrnabo, credo a questo punto sia molto importante valutare allora quali paesaggi montani – o per meglio dire, dolomitici – siano intervenuti nello scritto di Buzzati: allo stesso tempo è utile definire come essi hanno contribuito a creare la stratificazione che caratterizza le Montagne di San Nicola, partendo tuttavia da una curiosa premessa che rileva le somiglianze – non solo paesaggistiche – tra due testi cronologicamente agli antipodi nella produzione buzzatiana, Bàrnabo delle montagne e I miracoli di Val Morel.

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1.3.2. Bàrnabo e I miracoli di Val Morel

Bàrnabo delle montagne e I miracoli di Val Morel sembrano, agli occhi del lettore, porsi agli antipodi nella produzione letteraria di Dino Buzzati; innanzitutto, nella cronologia delle opere buzzatiane, i due testi si trovano agli opposti: come ben sappiamo, Bàrnabo è pubblicato dalla casa editrice Treves-Treccani-Tumminelli nel 1933, mentre I miracoli di Val Morel, dipinti nel corso del 1970, escono nel 1971, anno della morte dello scrittore bellunese, per i tipi di Garzanti. A livello contenutistico, il primo libro di Buzzati narra la storia del guardiaboschi Bàrnabo, seguendolo temporalmente nell’arco di un tratto della sua vita; I miracoli nascono addirittura come dipinti di singoli ex-voto, pensati per la galleria veneziana Il Naviglio di Renato Cardazzo, e qui esposti nel settembre 1970. Ad una prima lettura, sembra che oltre ai personaggi, nemmeno i paesaggi dei due testi siano accostabili: Bàrnabo, come abbiamo visto, è “delle montagne”, il suo territorio d’elezione sembra essere quello delle crode di San Nicola; le figurine che compongono i Miracoli – tranne alcune eccezioni – sono invece assimilabili ad un paesaggio altro rispetto a quello montano del libro del 1933. Scavando più a fondo, tuttavia, le somiglianze tra i due testi sembrano emergere in superficie.

��������������������������������������������������������������“Sono giunti a un grande anfiteatro. A sinistra, la Cima della Polveriera, a destra la Pagossa; nel fondo, sopra ripidi gradoni, si possono scorgere i Lastoni di Mezzo e un pezzo della torre da cui partiva la fumata” (D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., p. 34). ����I. Crotti, Tre voci sospette – Buzzati, Piovene, Parise, op. cit., p.36.

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Nella Prefazione ai Miracoli Indro Montanelli scherza sulla duplice figura del Dino Buzzati autore letterario:

Sono ormai molti anni, forse qualche decennio, che Buzzati Dino ha messo alla porta Dino Buzzati con l’ingiunzione di mai più presentarsi. Gli disse che non aveva più testa per i trastulli e gingillamenti, era tempo ormai di cose serie. E di cose ne ha fatte, ne fa. […] Ma ecco che ogni tanto, quatto quatto e in punta di piedi, Dino Buzzati gli torna in casa e, senza che lui se ne accorga, gli prende la mano. È di certo uno di questi momenti che sono nati questi Miracoli di Val Morel, ma lui non lo sa, e speriamo che nessuno glielo dica […]. Si proponeva di comporre un album di scherzi, e invece ha scritto col pennello la sua poesia più bella.51

Patrizia Dalla Rosa, recuperando il pensiero di Montanelli, pone l’accento sulla fase produttiva dei Miracoli, e, riferendosi a Buzzati, afferma che “mi piace pensarlo, in questa fase della sua vita, come un artista assolutamente libero. Del tutto affrancato da pesantezze di scrittura doverista, egli qui smette i panni seriosi del giornalista, non si preoccupa più della chiarezza e manipola a suo piacere l’impasto molle di mille materiali narrativi”52. Quella di cui parla Dalla Rosa è una libertà che ricorda molto quella libertà di cui parlava lo stesso Buzzati con Yves Panafieu, che ammetteva di aver scritto il suo primo romanzo senza pensare che il testo venisse pubblicato: “Cercavo di fare un a cosa che piacesse a me, come un bambino che si mette a fare un giocattolino di legno, così…”, spiegava al magnetofono dell’intervistatore francese.53 Ma non solo: pensiamo all’accompagnamento figurativo. È noto che Buzzati creò il suo Bàrnabo con un corredo di disegni54, gli stessi disegni che, da La famosa invasione degli orsi in Sicilia (1945) passando per il Poema a Fumetti (1969), giungono ad essere il tessuto fondativo dei Miracoli di Val Morel, in grado di liberare la fantasia dell’autore che può sbizzarrirsi nell’usare “acrilici, pennelli, parole, filastrocche, fumetti e fiabe, e poi nomi, cognomi, colori, citazioni letterarie. Come liberamente gioca con accostamenti audaci [il viola e il rosso di certe tavole], costruisce barchette che trasportano in mari lontani, e popola le immagini di animali e casette ed eros pieno di ironia [su prati di genzianelle]”55.

La libertà creativa, la libertà dell’uso dei mezzi espressivi che accomuna i due testi riporta la fantasia di Buzzati a un tempo ormai perduto: ai tempi della scrittura di Bàrnabo delle montagne, in cui – citando Montanelli – il Buzzati Dino affermava che “quando sarò sopra le bellissime pareti penserò che non vale la paura di cadere, che a Milano c’è un’esistenza quieta, e si va in giro vestiti puliti, e dopo colazione, mi metto su una poltrona a fumare. […] Poi, se arriverò in cima, non godrò più nulla perché avrò terrore che nella discesa avvenga qualcosa e che la corda non tenga”56, l’unica salvezza per ritornare Dino Buzzati era esprimere attraverso delle “pulsioni umane” la malinconia per quelle montagne che sarebbero divenute così “argomento unico e vergine” della propria opera. Ne I miracoli di Val Morel, allo stesso modo del romanzo del 1933, la libertà espressiva fa ritornare

������������������������������������������������������������51 Indro Montanelli, Prefazione a D. Buzzati, I miracoli di Val Morel, Milano, Mondadori, 2012, p.5. ���P. Dalla Rosa, op. cit., p.101������Cfr. Y. Panafieu, op. cit., p. 211. ���Cfr. P. Dalla Rosa, op. cit., p.38�����P. Dalla Rosa, op. cit., p.101. Non è un caso, come vedremo più in dettaglio nel prossimo capitolo, che Mario Brenta, girando il suo Bàrnabo delle montagne, utilizzi nelle inquadrature del film alcune immagini e dettagli tratti dai quattro testi citati. ����D. Buzzati, Lettere a Brambilla, op. cit., p. 204.��

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lo scrittore bellunese ai tempi della sua infanzia: attraverso i colori e i disegni che rappresentano i paesaggi dei suoi quadri, Buzzati ritorna idealmente alla sua Val Belluna: ecco perché, secondo Marie-Hélène Caspar, questa valle diventa uno “spazio interiore, psicologico, uno «spazio poetico» che si innalza a geografia intima”57. Del resto, riprendendo l’intervista con Yves Panafieu, è lo stesso Buzzati che afferma molto candidamente che “la montagna fa rinverdire l’adulto, perché riporta questo senso di fantastico di cui […] ho parlato quando abbiamo evocato l’universo che da ragazzo mi vedevo intorno a Belluno”58.

In definitiva, se la montagna evocata in Bàrnabo conduce il ventiquattrenne Buzzati ai tempi dell’adolescenza (periodo in cui si consuma anche la grande amicizia con – tra gli altri – il caro amico Arturo Brambilla e Sandro Bartoli), il ritorno al paesaggio della Val Belluna non riporta alla mente tanto i ricordi legati a quell’ambiente, bensì le sensazioni fantastiche che particolari circostanze legate a quei luoghi facevano nascere nel Buzzati bambino: così, anche il dover cercare una strada per poter salire alla montagna, rammenta Buzzati, “ha sempre rinnovato in me quei sentimenti che si aveva da bambini quando si giocava in un prato e il cespuglio, in fondo, rappresentava la foresta vergine…”59. Giunto a questo punto, mi sono però chiesto se queste sensazioni, questi sentimenti infantili non siano presenti, oltre che ne I miracoli di Val Morel, anche in Bàrnabo delle montagne; più precisamente, considerando la “forza propulsiva” del paesaggio della Val Belluna sul Buzzati bambino, mi sono chiesto dove in Bàrnabo quel particolare fattore ambientale fosse presente.

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1.3.3. Il paesaggio pre-dolomitico in Bàrnabo delle montagne

In che cosa si differenzia il paesaggio della Val Belluna da quello dolomitico? Da che cosa è caratterizzato? Patrizia Dalla Rosa, nel suo intervento sulla Geografia intima di Buzzati, riprende le parole del geologo Lando Toffolet per spiegare non solo l’eccezionalità delle Dolomiti bellunesi nel panorama montano classico, ma anche la natura eccezionale del paesaggio pre-dolomitico: “Le selvatiche montagne […] costituiscono un sistema orografico-ambientale di transizione, crocevia di morfologie dolomitiche, prealpine e carniche. In questo scenario […] eterogeneo e mutevole, si alternano ambienti rupestri e selvaggi, paesaggi morbidi e spaziati, altopiani carsici aridi e desolati, valli appartate e solitarie”60.

Secondo Patrizia Dalla Rosa, ancor prima delle alte montagne, è stata la geografia dei luoghi natali pre-dolomitici a influenzare nel profondo l’immaginazione di Buzzati; in particolare, l’impressione data – sin dall’età infantile – da ambienti così stranamente diversi tra loro, ha determinato in Buzzati la creazione di una particolare visione del mondo ad essi legata:

���������������������������������������������������������������Marie-Hélène Caspar, L’espace imaginaire dans les romans de Buzzati: tentative de topo-analyse, in «Cahiers Dino Buzzati» n.6, 1985, p. 216; cit. da P. Dalla Rosa, op. cit., p. 103. ���Y. Panafieu, op. cit., pp. 53-54. ��Ibidem. ���Lando Toffolet, “Alla periferia delle Dolomiti”, in Danilo Giordano, Lando Toffolet, Il paesaggio nascosto. Viaggio nella geologia e nella geomorfologia del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi, Feltre, Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi, 2002, pp. 115-116 cit. in P. Dalla Rosa, op. cit., p. 114.

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Questo è lo spazio che lui ha conosciuto, intimamente e spiritualmente, prima delle grandi Dolomiti. Questa, credo, è la heimat dello scrittore. E i tratti metafisici dello spazio «montagna» e dello spazio «deserto» che conosciamo nell’opera di Buzzati nascono da un immaginario che parte da questi luoghi, da questo paesaggio, il quale, intuisco, contiene montagna e deserto assieme. Quello che affascina Buzzati della sua valle è, in particolare, «quel senso intraducibile di lontananza, solitudine, leggenda». Descrivendo le valli intorno, così egli si esprime: «con la stessa solitudine, gli stessi inverosimili dirupi mezzo nascosti da alberi e cespugli […] commoventi per […] l’aria di altri secoli, per la solitudine paragonabile a quella dei deserti».61

Questo territorio, corrispondente al paesaggio dell’infanzia e della prima giovinezza, è un paesaggio spirituale così radicato nell’immaginario dell’autore bellunese da potersi ritrovare in tanta parte della sua opera, laddove insistono, per esempio, tematiche come il mistero, il perturbante, il fantastico: “È in questi luoghi, in questi valloni e valloncelli sperduti e misteriosissimi che si è incuneata [in Buzzati] una naturale inclinazione al senso del mistero e, di conseguenza, l’interrogazione sul mistero”62.

Quando Dino Buzzati scrive – nelle sue opere – di paesaggi che ricordano la valle della sua infanzia, si ritrova quindi a parlare del mistero che l’ambientazione pre-dolomitica gli riporta alla coscienza, ma in un modo prettamente realistico, filtrato sicuramente dall’atteggiamento adulto, probabilmente derivato dall’apprendistato giornalistico63; se si prendono come esemplari del nostro discorso i Miracoli di Val Morel (in cui è chiara l’ambientazione pre-dolomitica bellunese dell’opera), l’abilità narrativa di Buzzati sta nel creare una cortina di incertezza nello spirito del lettore: Dino Buzzati infatti disorienta l’individuo che sta sopra la pagina, narra di eventi del tutto meravigliosi o perturbanti (legati alla visione infantile dei luoghi in cui gli avvenimenti sono ambientati), ma nel modo più realistico possibile; illustra gli eventi, addirittura commentando gli ex-voto egli fa parodie delle spiegazioni scientifiche.

Vediamo ora alcuni casi del testo da noi preso in considerazione, Bàrnabo delle montagne, in cui si possono rintracciare delle forme caratteristiche di paesaggio pre-dolomitico; partiamo dall’incipit:

Nessuno si ricorda quando fu costruita la casa dei guardiaboschi del paese di San Nicola, nella Valle delle Grave, detta anche la Casa dei Marden. Da quel punto partivano cinque sentieri che si addentravano nella foresta. Il primo scendeva giù per la valle verso San Nicola e a poco a poco diventava una vera strada. Gli altri quattro salivano fra i tronchi, sempre più incerti e sottili, fino a che non rimaneva più che il bosco, con gli alberi secchi rovesciati per terra e tutte le sue vecchissime cose. E sopra, a Nord, c'erano le bianche ghiaie che fasciano le montagne.64

La Casa dei Marden, con quel “Marden” che allaccia l’edificio alla quotidianità reale in quanto esistente sia come cognome che come nome appartenente alla toponomastica bellunese, è inserito in un ambiente di fantasia; quest’ambientazione, il paese di San Nicola e, ancor di più, la Valle delle

���������������������������������������������������������������Ivi, p. 115.����Ivi, p. 116.��� “Affinchè una storia fantastica sia efficace, bisogna che sia raccontata nei termini più semplici e pratici. […] La cosa”, dice il bellunese a Panafieu, deve avvicinarsi “alla maggiore verosimiglianza. […] Il fantastico deve sboccare su una forma di realtà. Se no si spappola. Il fantastico che funziona artisticamente è proprio quello che è rappresentato in una forma quanto più possibile reale”. Cfr. Y. Panafieu, op. cit., pp.164-176. ����D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., p.3.��

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Grave, diventano soggetto dell’incipit: da un lato, le montagne di Bàrnabo sono citate solo nel finale, in cui è ribadito il fatto che esse si trovano più sopra, “a Nord”; d’altro lato, la casa dei guardiaboschi e tutta l’ambientazione della Valle sembra avere quell’aspetto enigmatico che serve a Buzzati per rendere interessante il suo testo.

La casa dei guardiaboschi è caratterizzata da un aspetto direi ancestrale, perché nessuno si ricorda quando essa fu costruita; ancora, la stessa casa dei guardiaboschi assume quel ruolo che, nell’ottica di Altieri-Biagi, ha “quel passaggio dalla normalità all’ambiguità, dalla realtà all’allucinazione” che solitamente in Buzzati è scandito da “una porta, o da un arco, più generalmente da un varco”65: proprio “da quel punto” si dirama la strada che deve portare alle crode, e sulla quale si trova anche la Polveriera. Ma non è tutto: se l’indicatore spaziale – o per meglio dire, spia linguistica – “da quel punto” indirizza il nostro sguardo verso l’alto, dalla valle alla montagna, ecco che nel tredicesimo capitolo, fondamentale perché segna il passaggio di Bàrnabo dalla montagna alla pianura, Buzzati narra come “da quel punto partivano due sentieri: uno raggiungeva la vecchia Casa dei Marden; l'altro scendeva a innestarsi alla strada famosa, fonte di tante discussioni”66, diretta questa volta verso il basso, alla caligine della campagna.

La strada che si innerva dalla casa dei guardiaboschi oltre a farsi collegamento tra pianura e montagna sembra inoltre voler condurre il lettore a notare le diversità dell’ambiente: il primo sentiero, infatti, “a poco a poco diventava una vera strada”; gli altri quattro però salgono dapprima per i tronchi, e poi portano al bosco vero e proprio: lì i sentieri si fanno “incerti e sottili”, a voler far perdere colui che cammina in quel bosco che contiene, ritornando all’indefinito “nessuno” che apre il romanzo, le sue “vecchissime cose”. Quei cinque sentieri che nell’incipit si irradiano dalla casa dei guardiaboschi vanno quindi a definire la geografia della Valle delle Grave, così simile al paesaggio pre-dolomitico della Val Belluna narrato da Toffolet; sentieri che, diventando sempre più sottili, fanno presupporre zone intervallate di sterrato e vegetazione; tronchi, alberi secchi e poi il bosco. Inoltriamoci ancora nel testo:

E [Darrìo] partiva la mattina, su diritto per il bosco, per i lunghi ghiaioni, e Dio solo sa come faceva ad arrampicarsi su per le pareti.67 Tutta notte aveva piovuto e le erbe e le piante gocciolavano. Le montagne erano ancora nere sotto a una cortina di nubi. Passarono la gola, passarono il bosco, sempre diritti senza fermarsi.68 Barnabo completamente vestito si è gettato sul letto e con le braccia incrociate dietro la testa, fissando gli occhi nella massa degli abeti che nereggia dietro i vetri, sente come non mai la vicinanza delle montagne, con i loro valloni deserti, con le gole tenebrose, con i crolli improvvisi di sassi, con le mille antichissime storie e tutte le altre cose che nessuno potrà dire mai.69

Alberi secchi ormai rovesciati a terra, valloni deserti, gole tenebrose, antichissime storie: Patrizia Dalla Rosa, riprendendo alcune descrizioni tratte da opere buzzatiane che tanto assomigliano agli

���������������������������������������������������������������Maria Luisa Altieri Biagi, Fra lingua scientifica e lingua letteraria, Pisa-Roma, IEPI, 1998, p.250.�����D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., p.51; i corsivi sono miei. ���Ivi, p. 5; i corsivi sono miei.���Ivi, p. 8; i corsivi sono miei.���Ivi, p. 90; i corsivi sono miei.�

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estratti da me sopra evidenziati70, oltre ad affermare che in questo paesaggio è “possibile l’individuazione di un netto distinguo tra il classico paesaggio dolomitico e quello della Val Belluna”, va ancora avanti, e nota come qui “Buzzati ha in mente un «suo» territorio, un ambiente che conosce benissimo, che contiene montagna e deserto assieme, ma lo trasfigura, lo stra-vede, com’è sua attitudine”71.

In questa manipolazione dell’ambiente, Buzzati sembra voler attribuire a certi elementi del paesaggio una significazione particolare; la strada, che come abbiamo visto prima non solo collega il paese di San Nicola con le crode, ma va anche a segnare la geografia della Valle delle Grave, si ricorda pure perché è soggetto delle “lunghe storie” che Del Colle, capo dei guardiaboschi, narra nell’inizio del testo. Quella della sua costruzione sembra una storia maledetta, quasi una leggenda; a questo proposito si legga l’episodio della scomparsa dell’Ermeda:

Veniva dalla Vallonga insieme con tre suoi uomini. Quando sono vicini al Col Nudo comincia a venire la nebbia; lui sbaglia strada, va su per un canalone e arriva a sboccare sulla grande cengia sotto al Pagossa […]. Nessuno l’ha poi trovato e sì che dicono che per mesi e mesi siano andati a cercarlo sotto alle rocce. Molti anni sono passati.72

È il mistero attorno alla sparizione del ricco signore di San Nicola: nessuno infatti lo trova, malgrado i suoi resti siano stati cercati per molto tempo; sembra quasi che l’uomo sia stato inghiottito dal paesaggio proprio dove finiva la strada. Citato da Patrizia Dalla Rosa73, il racconto L’inaugurazione della strada ricorda lo stesso perturbante che investe la storia dell’Ermeda: il paesaggio, innanzitutto, con la sua “mancanza di sentieri”, la “desolazione della zona”, il dover “oltrepassare una terrazza rocciosa” per poter giungere al paese di San Piero; quindi la sparizione nel finale del protagonista:

Un vento improvviso portò via tutte le brume della pianura, senza che apparissero le case di San Piero. […] Il Mortimer volle proseguire da solo il viaggio inuagurale verso il desolato orizzonte, per il glabro deserto che sembrava dovesse continuare in eterno. Essi lo videro avanzare a passi lenti ma decisi in mezzo alle aride pietre, fino a che scomparve ai loro sguardi. Due o tre volte ancora però parve loro di scorgere un breve scintillio: lo scintillio del sole sui bottoni della sua alta uniforme.74

Il fantastico buzzatiano non investe tuttavia soltanto la strada che dà l’inizio al racconto, bensì è rintracciabile in molti altri elementi nella Valle. Tra i tanti aspetti che risaltano all’occhio del lettore, sicuramente il vento occupa un posto speciale nel procedimento di significazione buzzatiano. Ilaria Crotti fa notare giustamente che, se da una parte il vento è oggetto di un continuo accostamento all’idea di tempo all’interno di romanzo, d’altro canto Dino Buzzati adotta un procedimento reificativo nei confronti del suo personaggio atmosferico75:

���������������������������������������������������������������Cfr. P. Dalla Rosa, op. cit., pp.122 – 124. ����Ibidem. ���D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., p.3; i corsivi sono miei.����Cfr. P. Dalla Rosa, op. cit., p.125. ����D. Buzzati, L’inaugurazione della strada, in Sessanta racconti, op. cit., p. 323. ���Cfr. I. Crotti, Dino Buzzati, op. cit., pp. 8-9.

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Il vento ha portato via un pezzo del tetto, così, silenziosamente. […] E il tetto a contare le piogge, a discutere con il vento, a poco a poco si è stancato.76 Il vento si è fermato perché tutti stanno zitti quando si suonano le vecchie canzoni.77 Si è già svegliato il vento notturno, ma Molo e Fornioi rimangono davanti alla Polveriera. Giunge fino a loro il rumore delle raffiche contro lo spigolo del Palazzo. Da anni e anni verso quell'ora c'è sempre questa solita voce. Tutti i guardiaboschi la conoscono e nessuno più ci bada, sebbene assomigli talora a un grido umano. Ma che stasera si sfoghi pure. Domani non ci sarà più nessuno a sentirla.78

Secondo la Crotti, “il procedimento reificativo […] è il risultato di una visione primitivo-infantile del mondo; è proprio della psicologia del fanciullo antropomorfizzare e trasferire qualità da cosa a cosa”; una sorta di freudiano “rifiuto dei parametri razionali e piacere dell’assurdo (…) come piacere della trasgressione di canoni razionali […] [propri] del mondo logico del malato di mente, del fanciullo e anche dell’atteggiamento rappresentativo dello scrittore «fantastico»”79. È importante, secondo la mia opinione, ribadire la complementarietà che esiste tra la scrittura fantastica e la visione fanciullesca; in particolare, il procedimento reificativo adottato dallo scrittore bellunese sembra dovuto alla volontà di far respirare al lettore l’atmosfera che da bambino egli viveva in presenza del vento.

Continuando in un qualche modo il discorso lasciato interrotto da Ilaria Crotti, Patrizia Dalla Rosa osserva giustamente come il fantastico buzzatiano sia molte volte legato alla visione fanciullesca, allargando il campo al paesaggio stesso: “Buzzati ricorre a un paesaggio che gli è intimo e familiare e ce lo descrive come perfettamente distanziato da tutto. […] In questo modo crea uno stacco preciso, […] che gli ha permesso l’ascolto e la visione poetica: torna così a vedere con la chiarezza con cui vedeva da bambino. […] Buzzati descrive i suoi luoghi natali isolandoli come spazio mitico”80. Non è quindi un caso che, nella Valle delle Grave che assurge in Bàrnabo delle montagne ad immaginaria Val Belluna, la natura si animi e si antropomorfizzi:

Le ombre hanno riempito le foreste, salgono per i ghiaioni, le poche nubi si dileguano nell'azzurro. Nelle valli è scuro e i venti notturni intonano la loro voce. I rami si agitano. Anche le piccole erbe scricchiolano, preparandosi a dormire. Il canto degli uccelli si è fermato.81 Nel canalone pieno di sole Barnabo, con il fucile in spalla, si mette a camminare su e giù davanti alla Polveriera, come e fosse di sentinella […] poi ha l'impressione che le rupi lo possano vedere.82

La visione puerile di Buzzati non tocca tuttavia solo l’ambiente esterno: spesso anche le case, le abitazioni sono interpretate attraverso una lente fanciullesca. Lo scrittore ribadisce il concetto a

���������������������������������������������������������������D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., p. 7.����Ivi, p.11. ���Ivi, p.70.����Ilaria Crotti, Dino Buzzati, op. cit., p. 8.���Cfr. P. Dalla Rosa, op. cit., p.121.���D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., p. 30. ���Ivi, p. 84.��

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Panafieu: la casa innanzitutto come rifugio dalle presenze esterne; la casa – ancora più importante – come ricordo, luogo significativo della propria infanzia:

[La casa] è soprattutto importante dal punto di vista fantastico. Quando ero bambino era ammobiliata magari con molti vecchi mobili […]. E anche lì, nelle soffitte. O nel granaio. Lì sotto c’è la cantina, con grandi botti. E sopra c’è il granaio […] poi sopra ancora c’è una soffitta. E lì si addensavano tutte le fantasticherie possibili ed immaginabili. Anzi, devo dire che i giochi e le esperienze di bambino che più io ricordo con una specie di incanto favoloso, sono l’esplorazione di queste soffitte […]. Nei bambini l’impressione che fanno queste case è una cosa straordinaria… Gli scricchiolii, la sera, la porta chiusa o aperta, di notte, nel buio… Queste son cose bellissime! Questo tipo di mistero […] implica la presenza di entità sconosciute, probabilmente immaginarie… Spiriti, fantasmi, esseri della natura, elfi […]. E perché, a dire il vero, il mistero della casa in fondo è più denso di quello del bosco? Perché nella casa è abitata tanta gente. E questa gente ha lasciato […] qualche cosa nei muri. […] I muri assorbono qualche cosa di coloro i quali ci vivono in mezzo.83

Ed ancora:

Quali altre sensazioni notevoli sono attaccate per te a San Pellegrino? È soprattutto il senso del tempo, il senso di tutti quelli vissuti prima di me e sono lì, il senso del domani che non si sa che cosa sarà, il senso di questi muri che vogliono dire qualche cosa e non si riesce a capire che cosa dicano […]. E si capisce: quando c’è una casa in cui si è vissuti, a cui sono attaccati tutti i ricordi da bambino, quelli della famiglia,ecc.,allora tutte queste cose diventano di una violenza straordinaria.84

Si veda ora come anche in Bàrnabo delle montagne le case non siano mai dei luoghi “neutri”; si può notare per esempio com’è descritta la casa dei guardiaboschi in rovina: la vecchia casa dei Marden è ormai diventata un’ “architettura crollante”, con le scandole che rotolano via. Del Colle, il vecchio guardiaboschi, è dispiaciuto di dover cambiare casa; come Buzzati anch’egli vive dei tanti ricordi che sono contenuti in essa: a colpire è, come nell’intervista del francese Panafieu, il fatto che “quella cucina era oramai tanto nera di fumo e tante bizzarre cose erano penetrate nei muri”85. Ancora, è da notare la presenza di rumori e scricchiolii: dapprima è protagonista la trave del soffitto (“Di notte scricchiola e finirà col crepare”86, lamenta Del Colle al compagno falegname Fornioi), poi, più avanti nel testo sono attori nella Casa Nuova i mobili della cucina: “Nella cucina deserta si sentono le mosche armoniose e i mobili, scricchiolando, si parlano a vicenda perché sanno che non c'è nessuno”87. Nella sua stanza è Bàrnabo, nel buio, che cerca di distinguere i misteriosi oggetti e percepire i suoni che lo circondano: “Un piccolo pacco per terra che non si capisce. La sua giacca appesa al muro, un'ombra lunga e sospetta. Si odono i soliti piccoli rumori delle case abitate, di notte. Scricchiolii dietro alla porta. Una finestra che sbatte da sola. Il vago insistente suono del vento nella foresta. Un topo che si muove e il respiro dei compagni che dormono, questa notte così pesante”88. La sera si fa buio, e, nella casa illuminata da una lampada di petrolio accesa da Collinet,

��������������������������������������������������������������Cfr. Y. Panafieu, op. cit., pp. 11-12 ; i corsivi sono miei. ��Ivi, p. 13.����D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., pp. 7-8. I corsivi sono miei.���Ivi, p. 7.���Ivi, p. 74.���Ivi, p. 46.��

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dalla finestra “il bosco, di fuori, sembra ancora più nero”89; altre volte invece – quando non è il paesaggio esterno a farsi misterioso – è la stessa luce che illumina la stanza a creare un effetto perturbante: “Non si capisce perché la luce della lampada si sia messa a tremolare”90.��

Ma il senso di perturbante dato dai rumori e dalle “presenze” propri delle case buzzatiane non è il solo che si può rintracciare all’interno di Bàrnabo: spesso si notano presenze ignote la cui identità non viene esplicata dal narratore. Il lettore si trova quindi nell’incertezza; molte volte, si parla di “qualcuno” che osserva, accostato a paesaggi come gole, ghiaioni, oppure montagne viste da valle, ed il lettore non sa chi sia effettivamente ad osservare: potrebbero essere i nemici briganti, ma pure la natura, o ancora gli altri membri dei guardiaboschi? Proviamo a vedere qualche esempio dal testo:

C'è qualcuno che li sta a guardare? Qualcuno, non visto sull'orlo della foresta, che ha paura di farsi vedere? Adesso nessuno li può osservare […].91 È inutile adesso gridare, suonare il corno o sparare fucilate. C'è qualcuno sulle crode, dove nessuno aveva mai avuto coraggio di andare.92 Si interrompono; un grande silenzio. « Hai sentito? » dice Marden. « Hai sentito qualche minuto fa quel fischio? Che venga qualcuno dalla Casa? » « Un fischio? sarà stato un uccello. Uno di quei... come si dice?... » « Che uccello d'Egitto! Vuoi che io sia così stupido? » « Ma perché vuoi che vengan su a quest'ora? Saranno quasi le dieci. » « Io non so niente. Il fischio l'ho sentito. » Un soffio gelido di vento scende dal canalone facendo rabbrividire.93

Altre volte, si incontrano presenze misteriose anche nei luoghi chiusi; si prenda l’episodio che segna la tranquillità dopo la morte di Del Colle: è passato del tempo dopo la sepoltura, i guardiaboschi vivono nella Casa Nuova, da poco inaugurata; comodi, certo, ma nessuno si è abituato al cambio di abitazione: mobili nuovi, moderne cuccette, lampade a petrolio. Poi, dice il narratore, “c’è qualcosa d’altro che nessuno saprebbe dire. […] Tutti vivono così come se da un’ora all’altra dovesse arrivare qualcuno: non l’assalto di un nemico, ma qualcuno, sconosciuto; non si può dire chi”94. È questo, secondo il Buzzati intervistato da Panafieu, un sentimento d’attesa tipico dei paesaggi desertici – e perché no, probabilmente vissuto da bambino nella sua desertica Val Belluna: si ha, secondo lo scrittore bellunese, “la sensazione che debba succedere qualche cosa, da un momento all’altro. Proprio lì, scaturito dalle cose che si vedono”95.

La presenza ignota in Bàrnabo può in un altro caso ridimensionare il personaggio proprio nell’esitazione che lo caratterizza quando esso deve prendere posizione davanti agli eventi che succedono: mi riferisco all’incontro del guardiaboschi Montani con il presunto brigante nel contesto della Casa Nuova. Montani è dapprima delineato come un personaggio scorbutico, inflessibile: nel

�������������������������������������������������������������Ivi, p. 19.����Ivi, p. 58. ���Ivi, p. 16. I corsivi sono miei. ���Ivi, p. 30. I corsivi sono miei. ���Ivi, pp. 71-72. ���Ivi, pp. 23-24. I corsivi sono miei. ���Y. Panafieu, op. cit., p. 48. �

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settimo capitolo96, Bàrnabo e Bertòn si ritrovano all’interno della baracchetta in cui le guardie si riposano nell’attesa del loro turno di guardia alla polveriera, e parlano tra loro lamentandosi di Montani. Bertòn dice apertamente che non si fida del compagno: «Non che sia capace di fare la spia. Ma parla così poco. Chissà cosa ha mai nella testa», Bàrnabo dal canto suo afferma che l’altro «Disprezza tutti quanti». Sempre la faccia dura, «sempre in regola coi superiori, pur di mortificare». Addirittura, quando Montani deve, alla fine del suo turno, cedere il suo posto di guardia a Bàrnabo, rifiuta affermando che «quattro occhi vedono meglio di due soli». Nel quindicesimo capitolo97 ritroviamo il personaggio di Montani: è lui che intuisce che i briganti potrebbero trascorrere le gelide notti nella disabitata casa dei Marden. Inizialmente il suo comportamento è descritto come eroico: “Qualsiasi altro avrebbe avuto paura a passare le notti in una casa così abbandonata. Ma Montani a certe cose non pensava e per qualche settimana ogni sera, al tramonto, anche quando c’era già qualche centimetro di neve, andò a chiudersi nella vecchia caserma”. Una notte, solo nella caserma, ecco bussare: è uno sconosciuto che dice di voler vendere ai guardiaboschi un fucile. Montani lo fa entrare; fuori è buio, piove, e distingue appena un uomo sui trent’anni con la barba. Il guardiaboschi non si fa giocare dallo sconosciuto; capisce che potrebbe essere un brigante e gli intima di posare l’arma. Si nota la diversità degli atteggiamenti dei due personaggi: Montani “si avvicina senza lasciare la sua arma”, “si avvicina e guarda lo sconosciuto”, “alza il fucile contro la faccia dell’altro”, si impadronisce del fucile del nemico, “grida”, “è padrone della situazione”. L’altro, invece, “s’è seduto tranquillamente sul fieno”, ha un “sorriso smarrito”, una “voce lamentosa”, “placida”, che “ride tranquillamente”. Stranamente, alcuni eventi fanno capovolgere la situazione: la lanterna si spegne, la stanza rimane al buio. Il vento sbatte la porta. Ad un certo momento Montani è terrorizzato: l’altro lo chiama per nome. Il narratore non ci dice perché lo sconosciuto sapesse il nome del guardiaboschi; adottando il punto di vista di Montani, invece, afferma: “Come faceva quel brigante a sapere il suo nome?”. Montani spara, ma nel vuoto. È costretto ad andarsene, la presenza sconosciuta lo minaccia dicendogli che avrebbe a sua volta sparato con una rivoltella. Al guardiaboschi non rimane che uscire dalla Casa e aspettare lo sconosciuto alla porta, per poi freddarlo quando egli uscirà, alla luce del mattino. Montani sta tutta la notte fuori, sveglio, con il colpo in canna per ammazzare il nemico, ma nulla. Ecco al mattino la sorpresa:

Nelle prime luci dell'alba la vecchia casa dei Marden era nera come fosse di carbone. Montani vedeva la porta che dondolava sui cardini, mossa dal vento. E si vedeva nell'interno, attraverso lo spiraglio, il buio. Poi, quando, venuto giorno, si decise a entrare, non trovò più nessuno.98

Chi era quello sconosciuto? Non ci è dato saperlo, e la sua, a mio parere, è una presenza dal forte potere perturbante, che ridimensiona lo stesso eroismo del guardiaboschi Montani. Da un lato, egli potrebbe essere una presenza umana, tant’è vero che, nello stesso capitolo, si dice che “lo stesso uomo misterioso fu rivisto da Montani alcune settimane dopo quando già parecchia neve era scesa nei canaloni e nelle cengie”; d’altro canto la sua si profila come una presenza fantasmatica, leggendaria: ancora una volta, riallanciandosi alle storie del primo capitolo, Buzzati afferma: “Erano tornati i tempi gloriosi delle leggende sulle montagne di San Nicola? Dopo l’avventura di

��������������������������������������������������������������Cfr. D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., pp. 23-26. ���Ivi, pp. 59-65.���Ivi, p. 63.��

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Montani, non si ebbe più sentore dei briganti. Erano partiti verso ignote pianure, inseguiti dall’inverno?”.

In ultima analisi, in Bàrnabo delle montagne non è solo l’aspetto perturbante ad essere considerato, in cui ci troviamo indecisi sulla natura umana o fantastica delle presenze nel testo: la Valle delle Grave infatti diventa il paesaggio in cui prendono vita entità del tutto soprannaturali99; più precisamente, è il bosco a ridosso delle crode di San Nicola l’ambientazione in cui si muovono tali entità:

Tanti anni prima, nei boschi, si trovavano una specie di piccoli spiriti. Del Colle li aveva ben visti qualche volta. Così leggeri, verdi come il prato, potevano essere stati loro a impedire i lavori della strada? Certo è che con i colpi di fucile, uno sparo oggi, uno domani, con l'arrivo dei lavoranti, con i rimbombi delle mine, gli spiriti della foresta forse erano stati disturbati e chissà dove si sono adesso nascosti.100 Gli spiriti amavano quelle canzoni e dopo un po', se già era venuta la sera, comparivano tra i tronchi.101 Le nubi certi giorni facevano densi anelli attorno al culmine delle rupi e nelle giornate più serene furono viste sottili nebbie innalzarsi dai valloni rocciosi. Per ore e ore i montanari si raccoglievano ad osservare e attorno, come risuscitati, gli spiriti d'un tempo facevano di notte la guardia al limite della foresta.102

Camminando nei boschi che circondano le Montagne di San Nicola in Bàrnabo, e più avanti anche nell’intero testo del Segreto del Bosco Vecchio, si può notare come sia possibile trovare spiriti fantastici nei boschi. Perché? Credo sia giusto cercare di rispondere a questa domanda tornando all’infanzia di Buzzati: è chiaro, lo scrittore bellunese, quando dice a Panafieu di vedere sin da bambino gli alberi come degli esseri viventi: “Gli alberi, senza dubbio, li vedo come delle creature […]. Soprattutto certi alberi della fanciullezza […]. La quercia è molto ricca di elementi pittorici e sentimentali. Ma anche il noce, che è stato un personaggio della mia infanzia… E poi naturalmente gli abeti, i larici, i mughi, le conifere della montagna…”103. Patrizia Dalla Rosa afferma, a questo proposito, che in Buzzati non tutta la realtà è spiegabile perché essa “«contiene» il meraviglioso [intuizione naturale nei bambini ma estranea, perlopiù, agli adulti]. Buzzati si serve del mistero per interrogare la realtà. Ci parla costantemente della realtà […] ma lo fa passando attraverso fatti inverosimili”104. Nell’affermazione di Dalla Rosa mi piace notare come ancora una volta venga sottolineato come la visione meravigliosa sia legata all’aspetto infantile di vedere la realtà: l’unico modo per riuscire a vedere il meraviglioso (con tutte le conseguenze che ne derivano: paura, meraviglia, stupore…) sembra proprio quello di riuscire a tornare a vedere il mondo esterno con gli occhi di un bambino. Da qui la spiegazione delle presenze fantastiche nella Valle delle Grave: gli �������������������������������������������������������������Mi sembra giusto riportare la definizione di fantastico meraviglioso di Tzvetan Todorov: “Siamo nel fantastico meraviglioso: in altre parole, nella categoria dei racconti che si presentano come fantastici e che terminano con un’accettazione del soprannaturale. Si tratta dei racconti più vicini al fantastico puro, giacché, proprio per il fatto che resta non spiegato, non razionalizzato, questo ci suggerisce l’esistenza del soprannaturale”. In Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica, Milano, Garzanti, 1977, 2000, p. 55. ����D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., p. 13.������Ibidem�����Ivi, p. 64.������Cfr. Y. Panafieu, op. cit., p. 16.�����P. Dalla Rosa, “Geografia e onomastica de «I Miracoli di Val Morel», in Patrizia Dalla Rosa, op. cit., p.103.�

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spiriti dei boschi sono il frutto della visione – o meglio, dei ricordi malinconici – degli alberi da parte del Buzzati (tornato) bambino. Un Dino Buzzati impressionato – come ci racconta Patrizia Dalla Rosa – dalla favolistica ambientazione della Val Belluna e dalla geografia dei luoghi che circondano Villa Buzzati: dove esistono sì varie monotone campagne in cui darsi alla caccia di lepri, allodole e rondini, ma anche un “bosco in pendenza sul fiume [Piave] con stradette” perpendicolare ad una “valletta”che taglia i campi coltivati, intervallato da altri boschi con “dei quieti rami dove passano e ripassano le rondini” ed altri boschi“non d’alberi”, posizionato su di un confine non precisato; ed ancora, dove si può vedere “in fondo alla valle del Piave una croda […] piena di neve, vera dolomite”105.

Se la visione del bosco può quindi essere trasposta sul piano infantile, dal momento in cui l’ambientazione assume caratteri fantastici e si può comunque ricondurre ad un paesaggio appartenente all’emotività del Buzzati più giovane, ecco che – come abbiamo ricordato poco più sopra – l’autore di Bàrnabo si serve comunque dell’aspetto fantastico per “interrogare la realtà”.

Quale realtà? Rileggendo le selezioni dal testo che ho riportato, si nota che la presenza degli spiriti è legata ad un tempo ormai perduto: si parla di “tanti anni prima”, ed ora, nel presente, non si sa dove essi si siano nascosti; Del Colle, che già nel primo capitolo sembra possedere la qualità di conoscere le storie – anche le più remote – della valle, si dice sia l’unico ad averli visti. Gli spiriti del bosco sono parte dell’aspetto mitico, leggendario della Valle delle Grave: nel passato infatti si univano ai montanari per fare la guardia al confine della foresta. Che cosa, quindi, ha decretato il loro allontanamento, o per meglio dire, la loro scomparsa? Certamente, dopo l’inizio dei lavori per costruire la strada con cui è cominciato il nostro discorso relativo al paesaggio pre-dolomitico in Bàrnabo delle montagne, gli spiriti hanno cominciato a nascondersi: gli spari dei fucili, i rimbombi delle mine, la presenza stessa dei lavoranti disturbatori.

Quella di Buzzati che parla dei suoi spiriti in termini del tutto positivi (“piccoli”, “leggeri”, “verdi come il prato”, che “compaiono” tra i tronchi venuta la sera), sembra quindi manifestarsi come la nostalgia di un tempo remotissimo che non esiste nella realtà presente: per tornare alle parole di Montanelli, il Buzzati Dino che scrive degli spiriti dei boschi è lo scrittore che vive a Milano e che sente la nostalgia fortissima non solo dei suoi alberi e di tutta la sua Val Belluna, ma soprattutto di quel Dino Buzzati che – ovviamente – sa potrà mai più ritornare; una nostalgia per una realtà altra, comunque esistente dal momento che a concepirla era comunque un ragazzino che credeva in ciò che sentiva di fronte a certi paesaggi. In un certo senso, la visione nostalgica di Buzzati si pone a metà delle concezioni umane di due dei personaggi che abitano i suoi libri, il Colonnello Procolo e Genio Bernardi:

«Anche voi [geni] siete uguali agli uomini» disse il colonnello con tono amaro. «Finchè si è piccoli, non ci sono attenzioni che bastino; quando poi si è diventati grandi, si è faticato e si è stanchi, non c’è un cane che ci guardi.»

����������������������������������������������������������������Leggo dalla piantina dei territori che circondano Villa Buzzati disegnata da un giovane Dino e indirizzata il 4 settembre 1922 all’amico Arturo Brambilla (cfr. D. Buzzati, Lettere a Brambilla, op. cit., p.104); nel disegno si può notare anche il giardino di cui lo stesso Buzzati parla con Yves Panafieu: “Una delle cose che mi ha fatto più impressione, da ragazzo […] è il giardino qui davanti quando c’è la luce della luna. Perché alla luce di luna tutto veramente diventa una cosa magica e trasfigurata… Ed ogni volta mi vien da piangere. Qui non è una sensazione di paura. Ed è difficile spiegarlo; anzi, per esprimere queste impressioni ci vorrebbe Shakespeare.” (in Y. Panafieu, op. cit., p. 13).

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«La questione forse è un’altra» ribattè il Bernardi lentamente. «A una certa età tutti voi, uomini, cambiate. Non rimane più niente di quello che eravate da piccoli. Diventate irriconoscibili. Anche tu colonnello, un giorno, dovevi essere diverso…».106

Buzzati sembra sentire tangibile la trasformazione che è avvenuta nel corso del tempo, confermando da un lato le due posizioni opposte di Procolo e Bernardi; d’altro canto, continuando a pensare alla realtà con lo stesso spirito di quando si era piccoli, ritornando – consciamente ed inconsciamente – alla geografia che vide crescere la sua immaginazione, Buzzati dimostra l’esistenza di un filo conduttore, temporale e psichico, che conduce direttamente l’infanzia all’età adulta.

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1.3.4. Il paesaggio dolomitico in Bàrnabo delle montagne

“Quali verticalità hanno fatto insorgere [in Buzzati] il senso dell’abisso? Quali bellezze architettoniche gli hanno infuso nell’animo le «creste dei sogni» e i «giganti taciturni»? Quali colori gli hanno impresso […] la loro altissima valenza simbolica?”, si chiede Patrizia Dalla Rosa107 parlando delle montagne presenti nella letteratura di Buzzati e, nello specifico, in Bàrnabo delle montagne. Come abbiamo già visto in precedenza, non c’è dubbio che si tratti delle Dolomiti: Marie Hélène Caspar afferma che il paesaggio dolomitico contribuisce a creare la geografia intima di Buzzati; la stessa Dalla Rosa ammette che “in Bàrnabo delle montagne le Dolomiti sono riconoscibilissime, nonostante si facciano anche spazio immaginario, interiore, psicologico, poetico”108.

Nelle pagine precedenti, trattando del rapporto che viene a crearsi tra Buzzati e il particolare paesaggio pre-dolomitico e dolomitico “classico”, ho provato a risolvere la questione della resa letteraria dello spazio vissuto dallo scrittore: più precisamente, ho voluto evidenziare come la trasposizione di ambienti – tipicamente pre-dolomitici – legati all’infanzia fosse portatrice delle fantasie, delle visioni, dei sentimenti del Buzzati bambino. Trattando invece della speciale intimità109 che intreccia la montagna al Buzzati scalatore, vorrei ricordare come questo rapporto sia rivolto ad esaltare le azioni dell’uomo – che si trova a fare un’esperienza straordinaria – e al tempo stesso ad esaltare le impressioni che il paesaggio suscita sull’alpinista. La rappresentazione letteraria da parte di Buzzati della propria geografia intima è leggibile quindi in una duplice lettura: la prima tende ad una resa psicologica, addirittura “inconscia” del paesaggio; la seconda invece intende mettere su carta la montagna esperita110.

����������������������������������������������������������������D. Buzzati, Il segreto del Bosco Vecchio, Milano, Mondadori, 1992, p. 48. ����P. Dalla Rosa, op. cit., pp.38-39. ���Ivi, p.39�����Così si esprime Buzzati al magnetofono di Panafieu a riguardo del sentimento di intimità che lo lega alla montagna: “Ci si arrampica dentro i camini, con queste grandi fessure, o spaccature (…). Ora questo senso di intimità segreta, lo si trova soprattutto dentro questi camini… Sono delle cose in un certo senso repellenti, perché vi si ha l’impressione di essere buttato via, ma il fatto che consentano una certa sicurezzza dà un’impressione di intimità (…) ed è un’intimità segreta, un’intimità che riguarda quella pietra, quel pezzo di roccia lì e me. E nessun altro la conosce… Questo è uno dei grandi incanti della montagna”. Cfr. Y. Panafieu, op. cit., p. 54. �����Cfr. P. Dalla Rosa, op. cit.,

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Se da un lato la volontà di Buzzati di parlare delle sue montagne, delle montagne che più conosce – le Dolomiti –, è evidente proprio perché “tutto un mondo di «crode», «grave», «ghiaioni», «forcellette» e «cenge» nella lettura del Bàrnabo si delinea assolutamente specifico rispetto ad un ambiente alpino generico”111, credo sia possibile andare oltre l’interpretazione critica della resa letteraria delle montagne bellunesi che vorrebbe la collocazione del romanzo di Buzzati in un paesaggio sì dolomitico, ma comunque immaginario, non del tutto reale112. Per arrivare a questa conclusione, vorrei porre l’attenzione sul fatto che, nella descrizione delle fatiche di Bàrnabo e dei guardiaboschi sulle Montagne di San Nicola, Buzzati utilizzi invece molto materiale derivante dal proprio vissuto: in particolare, credo sia molto importante confrontare il primo romanzo con la descrizione delle imprese giovanili contenute nelle Lettere a Brambilla.

Trattando dell’epistolario buzzatiano, letto in funzione della nostra tesi, vorrei innanzitutto specificare che l’attenzione sarà posta sulle lettere inviate dal Veneto, e più precisamente sulle lettere inviate da Belluno (da Villa San Pellegrino o dai rifugi montani) in cui il giovane Buzzati si ritrovava – spesso la sera, al ritorno dalle scalate dolomitiche – a scrivere i suoi resoconti da mandare all’amico Brambilla. Prima di passare ad analizzare e confrontare alcuni passi dalle Lettere con altri stralci di Bàrnabo, credo sia tuttavia importante riflettere su alcune somiglianze che rendono i due testi quasi speculari: primo tra tutti il ruolo dell’immagine.

Parlando delle Lettere a Brambilla, si può notare come l’uso dell’immagine sia per Buzzati – specialmente, ma non esclusivamente! – negli anni precedenti l’assunzione presso il Corriere della Sera, un elemento di grande importanza, quasi un naturale completamento della parola scritta; a prova di ciò, Massimo Depaoli ricorda come l’intero corpus delle lettere fosse originariamente costituito da duecentocinque esemplari, e quello delle cartoline illustrate di centosessantanove113. Accanto alle tematiche trattate maggiormente durante l’infanzia e poi progressivamente dimenticate (l’egittologia e il ciclismo), per tutto l’epistolario il tema della montagna è molto frequente, e accompagna la scrittura di Buzzati fino all’ultima lettera inviata ad Arturo Brambilla114. I temi delle �����������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������pp.38-40. In particolare, afferma la studiosa, “tra le tracce più evidenti che mostrano la volontà buzzatiana di scrivere di un’ambientazione conosciuta, vi sono l’uso dell’onomastica e della toponomastica”: per dimostrare questa scelta di Buzzati, è infatti possibile fare una “ricerca attorno alle numerose e significative analogie tra la toponomastica delle Dolomiti di Auronzo e Cortina e le montagne del Bàrnabo. La stessa onomastica dei personaggi rinvia ad un ambiente alpino veneto, con quei finali tronchi [«Marden», ad esempio, è un effettivo cognome cadorino]”. Per quanto riguarda l’origine dell’onomastica in Bàrnabo, è interessante procedere secondo il metodo della stessa Dalla Rosa che, trattando dei Miracoli di Val Morel, afferma che, per verificare la ricorrenza dei cognomi in area bellunese, si è servita dell’elenco telefonico bellunese aggiornato al 2000 e a quello del 1969-’70, anno in cui le tavole dei Miracoli sono state dipinte. Confrontando il testo di Bàrnabo con l’attuale elenco telefonico di Belluno, possiamo notare come alcuni cognomi come Bertòn, Marden, Molo, Franze, Durante, Pieri siano tuttora presenti nel territorio bellunese; il cognome Fornioi invece parrebbe una variante di “Sfornioi”, che dà il nome ad una cima delle dolomiti bellunesi stesse. Per precisazioni e curiosità rimando a P. Dalla Rosa, op. cit., pp. 108-111. Accanto all’uso dell’onomastica e della toponomastica, in Bàrnabo è anche possibile ritrovare delle componenti linguistico-culturali proprie dell’area alpina bellunese: ne sono degli esempi le “«scandole» che rotolano via dalla Casa dei Marden, le «casere» di cui sono disseminati i valloni, gli operai che arrivano dalla «Bassa», la «polenta» che Bàrnabo rimesta attendendo l’arrivo dei compagni, l’imprecazione «ostrega»”. (Ivi, p.39). ����Ivi, p. 40.������Mi riferisco alla tesi di Patrizia Dalla Rosa, quando afferma che Buzzati non colloca “il suo Bàrnabo in ambiente dolomitico in modo esplicito”, dal momento che “i riferimenti concreti spazio-temporali sono del tutto assenti o molto vaghi”, e il traduttore del testo “non debba focalizzare il suo compito nella restituzione di un luogo geografico reale”. Cfr. P. Dalla Rosa, op. cit., p. 40.����� Ma in fase di stampa solo undici cartoline furono inserite nell’edizione De Agostini del 1985. Cfr. M. Depaoli, op. cit. p. 66. ����Mi riferisco all’edizione De Agostini del 1985.��

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illustrazioni che trattano di montagna sono di diverso tipo: spesso “l’ambiente è già, con dieci anni di anticipo, quello di Bàrnabo o del Bosco Vecchio: dirupi sotto la luna, crode nere su cui si muovono figure spettrali e fantastiche, crepacci e caverne che nascondono esseri-simbolo dell’angoscia e della paura”115; ciò che tuttavia interessa ai fini del nostro discorso, sono i disegni in cui la montagna è dipinta nel modo più realistico possibile, spesso cercando di rendere addirittura i tracciati di ascensione oppure le prospettive dell’ambiente circostante che si potevano avere osservando il paesaggio dalle diverse altezze: queste illustrazioni sono importanti perché spesso partecipano alla lettera vera e propria e, in definitiva, completano come se fossero didascalie – o per meglio dire, testimonianze – le reali sensazioni visive narrate da Buzzati116. Allo stesso modo delle Lettere a Brambilla, l’uso delle immagini in Bàrnabo delle montagne è altrettanto importante, perché i disegni si fanno ancora una volta fotografie dei luoghi descritti all’interno del testo: mi riferisco non solo alla pianta delle montagne di San Nicola in antiporta117, ma soprattutto alle illustrazioni di Buzzati non inserite all’interno del corpus di Bàrnabo e poi allegate invece al Segreto del Bosco Vecchio118. Tra le immagini che vorrei proporre in queste pagine, alcune sembrano voler rimandare direttamente ad alcune situazioni e a determinati luoghi presenti nel romanzo: in particolare, vorrei concentrare l’attenzione sulla prima illustrazione, che richiama molto l’ambientazione della Valle delle Grave in cui si trova la Casa dei Marden; la seconda illustrazione sembra voler riportare la scena in cui Bàrnabo scende dal complesso della Cima della Polveriera: si ferisce la mano sui ghiaioni, ha paura, i vestiti sono stracciati. Ad un certo punto il guardiaboschi vede uno stormo di cornacchie: ecco uno sparo, uno degli uccelli fa fatica a seguire gli altri, è ferito, vola disordinatamente sopra la montagna e sopra la testa di Bàrnabo, continuando a gridare. La terza illustrazione rimanda a una delle scene finali del libro, quando Bàrnabo, adirato per la mancata presenza dei guardiaboschi alla Casa nuova, nel prato, l’oscurità della sera, nota un lume sulle montagne e capisce che i briganti potrebbero nascondersi proprio tra le cime delle crode119.

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����������������������������������������������������������������M. Depaoli, op. cit., p. 66.�116 Tra i tanti esempi che si potrebbero fare, basta forse ricordare l’uso del disegno nella lettera inviata dalla Croda da Lago il 13 agosto 1923, in cui affermazioni come “La cima è esilissima e non si vedono che le rocce della valle fonda […]” e “Augusto […] passò per un buco tra due lastroni dove passava a stento la testa” sono accompagnate da disegni che indicano chiaramente l’aspetto della cima e del buco presente tra i due lastroni. Cfr. D. Buzzati, Lettere a Brambilla, op. cit., pp. 126-127. ����Ilaria Crotti parla di oggetto geografico dalla prospettiva “apparentemente piatta, monosignificante” che, attraverso l’ “ossessione onomastica di appellare ogni luogo col proprio nome”, si accosta al testo che aspira “ad arricchire quel livello geografico tramite una valenza di semanticità più complessa e ambigua”. Cfr. I.Crotti, op. cit., p. 36. ����Qui considero l’edizione Mondadori del 1992.�����Le tre immagini sono tratte da:D. Buzzati, Il segreto del Bosco Vecchio, op. cit., pp. 67, 149, 41��

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Nel complesso delle illustrazioni di Bàrnabo, credo sia però importante concentrarsi anche sulle immagini che dipingono creste, ghiaioni e pareti montane, senza particolari riferimenti alla storia narrata: anche questa volta, sembrano essere disegni posti sulla pagina con lo scopo di rendere le descrizioni del narratore di Bàrnabo delle montagne, quasi come fotografie che dichiarano l’esistenza di quei luoghi narrati. Osservando l’insieme di queste immagini, vorrei far notare come alcune di queste illustrazioni siano per certi versi assimilabili ad alcuni dei disegni presenti nelle Lettere a Brambilla, considerando la similarità di alcuni particolari o spesso dell’intera scena dipinta:

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Innanzitutto vorrei richiamare l’attenzione del lettore sulle figure 4, 5 e 8, 9: le ultime due sono immagini della Croda da Lago risalenti alle lettere inviate ad Arturo Brambilla il 29 luglio e il 21 settembre del 1923120. Il massiccio del comprensorio di Cortina è un soggetto particolarmente amato dal giovane Buzzati: in una lettera del 1924121 egli considera la Croda da Lago il primo dei monti “boia” da lui scalati fino a quel momento; d’altro canto la stessa croda è presente in molti disegni del ragazzo, e viene dipinta in varie vedute e porzioni: spesso è vista interamente, ma da diversi punti di osservazione e con eventi atmosferici opposti. Confrontando le illustrazioni 4 e 5122 con le due raffigurazioni della Croda, vorrei far notare le somiglianze tra i disegni: nella coppia 4 e 8 sono le nuvole e la nebbia ad essere raffigurate in primo piano nell’inquadratura; la stessa Croda

����������������������������������������������������������������Cfr. D.Buzzati, Lettere a Brambilla, op. cit., pp. 123 e 137. ����Ivi, p.168. ����Cfr. D. Buzzati, Il segreto del Bosco Vecchio, op. cit., pp. 53 e 108.��

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non è vista nella sua interezza come invece accade nella coppia 5 e 9, ma la visuale è coperta da altre cime, oscurate perché in controluce nella fig.4; nella fig.8 invece il gruppo montano è questa volta coperto da altre (piccole) montagne in cui è visibile – come da piccola insegna sulla porta – il Dreischusterhütte (Rifugio Tre Scarperi). La coppia 5 e 9 riprende il gruppo montano nella sua interezza: si possono accostare i ghiaioni, rappresentati nello stesso modo, e le ombre sulle pareti, contrassegnate da marcati segni di pennello nella prima illustrazione, e di inchiostro nella seconda. L’illustrazione 10 segue una lettera, datata “mercoledì 27 agosto 1924”123, in cui Buzzati – dopo aver deriso il compagno Bogino che diceva d’aver fatto “il meraviglioso Cervino molto difficile” – parla dello Schiara dicendo che “come speranza prossima” c’è “la parete dello Schiara”: pur non avendo chiare indicazioni sul monte disegnato, dopo aver descritto per tutta la lettera lo Schiara come un monte molto bello seppur difficile, credo che Buzzati, attraverso la didascalia rivolta a Brambilla e che introduce l’illustrazione (“Dì la verità – che male hai fatto perch’io ti mandi questo disegno?”), si riferisca con quel disegno proprio alla croda di cui parla con tanta attenzione all’interno della lettera. Si noti ora la fig. 6124: la presenza di un foro nella parte sinistra del disegno potrebbe rimandare alla polveriera in Bàrnabo; oltre a ciò, il tratto di montagna illustrato presenta una cengia nella stessa posizione dell’illustrazione sopra descritta. Il disegno rimanda inoltre al monte Schiara per la presenza della neve, particolare che desta una certa preoccupazione nel giovane Buzzati che così si esprimeva nella lettera: “Lo Schiara è coperto di neve fino alla base della parete. Non ci mancherebbe anche questa che non si potesse andare a farlo per la neve!”. Un’ultima considerazione per le illustrazioni 7 e 11: quest’ultima rimanda alla lettera del 20 luglio 1927, scritta da Buzzati durante la leva militare (“Finalmente ti scrive Dino Buzzati Traverso dal campo. È in un bosco di abeti meravigliosi in mezzo ad altri boschi immensi, lontane si vedono le crode del Sasso Lungo”)125; è interessante notare come il disegno nel Segreto del Bosco Vecchio sia simile a quello contenuto nelle Lettere: per l’ambientazione, ma soprattutto per la presenza della figura solitaria ai piedi dell’albero.

Il rapporto tra le Lettere a Brambilla e Bàrnabo delle montagne va tuttavia oltre la semplice condivisione di temi e luoghi a livello iconografico; discutendo del linguaggio che caratterizza l’epistolario buzzatiano, Massimo Depaoli afferma che la lettura dello scambio epistolare Buzzati-Brambilla non può appiattirsi sulla semplice considerazione del solo linguaggio medio-colloquiale che caratterizza le lettere, perché così facendo non ci si renderebbe conto della presenza di uno stile che non sempre è «schiacciato» sul parlato, ma che talvolta indirizza alcune lettere – e quelle di montagna a mio avviso in maniera molto forte – in una direzione sintattica dalla forte originalità.

Tra i tanti fenomeni che segnano in modo originale le Lettere a Brambilla e che lo stesso Depaoli considera, ha una forte risonanza la capacità visiva data dall’uso della paratassi, a mio parere opinione pienamente estendibile a Bàrnabo delle montagne:

quel procedimento «reificativo», di «travaso tra ente astratto e concreto» che la Crotti 126 nota in Bàrnabo […], quel racconto, cioè, «che si vede», […] trova i suoi prodromi nelle microstorie corredate da quadretti e disegni dell’epistolario. Non è,

����������������������������������������������������������������Cfr. D. Buzzati, Lettere a Brambilla, op. cit., pp.159-161. �����Cfr. D. Buzzati, Il segreto del Bosco Vecchio, op. cit., p. 77.�����Cfr. D. Buzzati, Lettere a Brambilla, op. cit., pp. 182-183. �����Vedi nota 41*.�

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comunque, solo la compresenza del lato visivo a fornire questa sensazione, ma proprio l’immediato risalto icastico del narrare breve e paratattico.127

Quando Buzzati parla della tecnica usata nel suo primo romanzo, consistente nell’usare un sistema linguistico capace di variare i piani temporali all’interno del periodo e finalizzato a dare una particolare musicalità al testo, sembra che egli voglia ricordare il procedimento stilistico usato nello scrivere le Lettere: nel continuo presentificare l’azione delle arrampicate di Bàrnabo128, la volontà dello scrittore di riprodurre il senso del tempo che c’è in montagna è molto vicino alla costruzione dei periodi all’interno dell’epistolario, in cui le azioni evidenziate nelle frasi diventano autentiche protagoniste degli scritti. Si veda questo stralcio tratto dalla lettera del 24 luglio 1921 che narra la difficoltosa ascensione al monte Pelmo:

la mattina era tutta una stellata – poi le nebbie vennero su – partimmo – prima ghiaie poi una ripida arrampicata poi la cengia classica che gira attorno al Pelmo e che diventa sempre più stretta – gira dentro gole, s’interrompe in passi difficili, gira costoni – coperto di ghiaia – di neve – […] si striscia come serpi è pericoloso ma non difficile – prima si sono passate le pecore e i sacchi e poi nel vallone centrale – pieno di neve – ghiaie coperte di neve – neve – rocce coperte di neve e poi la NEBBIA fitta folta – […] poi la guida dopo un po’ di gelante arrampicata ha detto: “C’è la nebbia fermiamoci qui sotto alla cima” – ci siamo fermati […] – e poi giù giù – vicino al salto del gatto la guida aveva visto un camoscio e poi noi se ne erano incontrate le orme, ora scendendo le incontrammo.129

Nell’esempio considerato si fa notare, oltre alla varietà dei tempi verbali, il particolare uso del trattino che va a contrassegnare per quantità soprattutto il segmento di lettere che corrisponde agli anni dal 1919 al 1922: quest’uso molto personale della punteggiatura, che per Massimo Depaoli contrassegna l’«antiletterarietà» e lo sperimentalismo buzzatiano, è il primo segnale della volontà dello scrittore bellunese di organizzare in modo personale il testo, andando poi a confluire nell’utilizzo della punteggiatura più usuale per segnare paratatticamente la sintassi della produzione letteraria da Bàrnabo in poi130. Nel brano tratto dalle Lettere è da notare (si vedano le sottolineature) anche la forte presenza della sintassi nominale, una caratteristica che si ritrova per tutto l’epistolario e successivamente in modo massiccio anche in Bàrnabo delle montagne: in entrambi i testi la sintassi diventa un fine lavoro di montaggio (ed è lì che si esprime al meglio la volontà di Buzzati di “voler descrivere la sensazione di una stanza chiusa, in un rifugio di montagna, durante una giornata di sole. […] Chè nella vita di montagna ci sono molte sensazioni di

����������������������������������������������������������������M. Depaoli, op. cit., p. 78.����Buzzati (in Y. Panafieu, op.cit., pp.213-214) discute con il critico francese sullo stile usato in Bàrnabo delle montagne: in particolare, per spiegare l’uso particolare dei verbi utilizzati nel romanzo, usa come esempio il periodo «Entrò nella stanza, vede nell’angolo un fazzoletto, si è chinato, l’ha raccolto… Uscirà di corsa… »; scorrendo le pagine di Bàrnabo, è tuttavia notabile come, soprattutto nelle azioni che si svolgono sulle pareti delle montagne, la tecnica dello scrittore bellunese sia quella di continuare a presentificare l’azione all’interno del continuo flusso temporale servendosi di avverbi di tempo; cito dal decimo capitolo: “Ma adesso Bàrnabo ha paura”; “Ora sono al limite superiore del bosco”; “Ora si scorge innalzarsi nera contro la luminosità d’oriente, con le pareti umide e gialle, la Cima della Polveriera”; “Adesso conviene andare su dritti per un canalone roccioso, a brevi salti, da arrampicarsi con le mani”; “Eccoli su uno spiazzo di ghiaia sotto alla vera parete”; “Adesso Bàrnabo vede le montagne”; “Eccolo che è arrivato”; “[…] adesso Bàrnabo non ha più paura” (cfr. Dino Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., pp. 33-37). ����D. Buzzati, Lettere a Brambilla, op. cit., p.66. Le sottolineature e i corsivi e sono miei. �����Così Depaoli: “Alla virgola e, molto spesso, al punto, Buzzati preferisce un rapido trattino, semplice o doppio, così che dal punto di vista sintattico ci si trova di fronte a una paratassi giustappositiva in virtù della quale il discorso procede in modo frammentato e dinamico”. In M. Depaoli, op. cit., p.69.

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questo genere, legate soprattutto al tempo che passa”131) in cui la proposizione nominale è racchiusa dalla personalissima inquadratura costituita dalla punteggiatura, che a sua volta presentifica – o meglio, congela – una particolare immagine densa di significato per l’osservatore celato sotto i panni del narratore o del personaggio132.

Oltre ad anticipare alcuni procedimenti stilistici che portano Buzzati a prediligere il lato visivo all’interno della narrazione, le Lettere a Brambilla partecipano inoltre alla costruzione della geografia dolomitica (pura) di Bàrnabo delle montagne: dopo avere tanto discusso a proposito di come l’ambientazione del primo romanzo sia riconducibile fortemente alla geografia intima dello scrittore bellunese, ai paesaggi “vissuti” nel passato, è possibile di conseguenza pensare all’esistenza di un legame tra le lettere – a tutti gli effetti dei “resoconti” legati all’esperienza dei luoghi dolomitici intorno a Belluno – e la geografia stessa di Bàrnabo. Dal momento in cui non è tuttavia possibile pensare ad un calco della topografia bellunese sulla piantina delle Montagne di San Nicola per motivi che vedono principalmente le dolomiti di Bàrnabo come uno spazio assolutamente poetico133, è concepibile che Buzzati, per parlare delle crode del suo primo romanzo, abbia attinto a momenti della propria esperienza non solo per delineare le ambientazioni, ma anche e soprattutto – usando un lessico cinematografico – per descrivere particolari scene e inquadrature che si rifanno al passato, in questo caso testimoniato dalle Lettere a Brambilla: per poter costruire il suo primo libro, Buzzati si serve insomma del “girato” ripreso durante la sua vita e in parte contenuto nell’epistolario destinato ad Arturo Brambilla; nel montaggio che poi va a costituire il testo vero e proprio, Buzzati unisce parte delle scene e specifiche inquadrature (le frasi nominali di cui parlavo prima) derivanti dal girato unitario della propria esperienza.

Si vedano, a questo proposito, le corrispondenze dei passi tratti da Bàrnabo che descrivono il Baston del Re – monte dalle ripide pareti su cui perde la vita il temerario ed esperto guardiaboschi Darrìo134 –, con alcuni stralci delle lettere del 12 e 13 agosto 1923 in cui il giovane Buzzati narra dell’ascensione alla «divina» Croda da Lago:

(Bàrnabo delle montagne, p.5) E partiva la mattina, su diritto per il bosco, per i lunghi ghiaioni, e Dio solo sa come faceva ad arrampicarsi su per le pareti. […] Eppure, bravo com’era, un bel giorno non è più tornato. Si aspetta, si cerca nel bosco, ci si spinge fin sotto alle rocce e con il corno si suona da riempire tutte le montagne.

(Lettere a Brambilla: pp.124-126) “Così siamo partiti alle 4 e mezza e su per rocce e erbe e ghiaie fino a una specie di sentiero che conduce alla Rastplatz. Ci si lega, si mettono i penduli, si gira un po’ a sinistra ancora e poi si attacca. […] Si va su per una parete vertiginosissima dove non si vede mai il pezzo prima ma solo i prati,

����������������������������������������������������������������Y. Panafieu, op.cit., p.214.������Il riferimento va, sempre nel decimo capitolo, a frasi come “Nebbia greve ancora notturna su tutto il bosco e la spianata.”; “I rami degli abeti umidicci, un vento che fa turbinare tra i tronchi folate di nebbia.”; “Il primo barlume di sole.”; “Roccioni altissimi, costoni franati, lunghi spacchi tenebrosi che mandano gelidi soffi.”; “Piccoli soffi di vento.”; “Una grande pace laggiù, tra i ghiaioni, una vita facile e beata.”; “Un pezzetto di candela rovesciato, lo ricorda benissimo, sopra la mensola vicina, e quattro cartucce vuote. Poi la pipa appesa a uno spago.” (cfr. D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., pp. 33-36). ����Mi riferisco ancora una volta alla definizione data in P.Dalla Rosa, op. cit., pp. 17-46. �����In particolare, mi riferisco a due momenti legati alla morte di Darrìo (la storia del giovane narrata da Del Colle nel primo capitolo e la toccante scena in cui Del Colle accompagna il padre del defunto guardiaboschi sui monti in cui il figlio è morto) e alla sepoltura di Del Colle negli anfratti della stessa montagna dove perse la vita Darrìo stesso. Cfr. D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., pp. 4-5; 8-9; 15-16.

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E una settimana dopo Bertòn, che scendeva dalla Polveriera non vede dodici tredici corvi che continuano a girare sopra una parete altissima? È sull'apicco proprio sotto il Baston del Re. Ci sono ancora adesso le sue ossa, sopra una piccola terrazza. (p.8) Tutta notte aveva piovuto e le erbe e le piante gocciolavano. Le montagne erano nere sotto a una cortina di nubi. Passarono la gola, passarono il bosco, sempre dritti senza fermarsi. […] Del Colle lo condusse [il vecchio padre di Darrìo] per le ghiaie, fin dove si alzavano le pareti. Di sopra, a circa quattrocento metri, sopra un piccolissimo piazzale, stavano le ossa di Darrìo […]. Ma ancora più in alto si spinsero i due, arrampicandosi a fatica per i macigni di uno strettissimo canale che s'infiltrava dietro un torrione. Infine si fermarono dove il valloncello si chiudeva e si alzavano tutto attorno rupi a picco. (p.16) “Proprio in cima alle ghiaie”, mi disse “a destra, nella parete, c’è un buco. Quando l’ho visto ho pensato: ecco qui il tuo posto, Del Colle, dove potrai stare in santa pace”. […] Ancora qualche metro e la fatica sarà terminata. Infatti si trova a destra, nella parete, il buco dove la cassa viene introdotta completamente. […] Arrampicatosi per una obliqua cengia, Bèrton è voltato fuori, sulla parete della torre che chiude il canalone. Dopo poco tutti lo vedono aggrappato a delle rocce verticali, sotto gli ultimi lastroni. […] Bertòn è arrivato sulla esile cima.

le foreste e Cortina. Il pezzo più brutto è al Buso dove bisogna fare una lastra liscia e guai a scivolare il primo perché si va giù tutti, indistintamente. […] Ma quello che è più spettacoloso è la vertiginosità della Croda, perché attorno non si vedono che picchi e pareti a piombo […]. La cima, anche quella, è aerea oltre ogni dire”. (p.126) “La cima è esilissima e non si vedono che le rocce della valle fonda e i picchi e le ghiaie sotto. Il cielo era d’un azzurro meraviglioso. […] A un punto non si vide più da che parte si poteva andare e Augusto, che andava giù per primo mentre io per comodità mi ero slegato, passò per un buco tra due lastroni dove passava a stento la testa”.

Il lavoro di comparazione tra le Lettere a Brambilla e Bàrnabo delle montagne può essere esteso anche ad altre parti del testo; nel confronto tra il capitolo decimo e le narrazioni dai monti Pelmo, Civetta, Croda da Lago, Schiara emergono non solo comuni condizioni atmosferiche, ma anche analoghe ambientazioni (i boschi, i ghiaioni e le crode), azioni (l’ascesa) e particolari (la corda che cigola, i vestiti strappati):

(Bàrnabo delle montagne, pp.33-37) Nebbia greve ancora notturna su tutto il bosco e la spianata. […] Partenza nella mattina caliginosa. I rami degli abeti umidicci, un vento che fa turbinare tra i tronchi folate di nebbia. […] Ora sono al limite superiore del bosco. […] Presto escono dalla foresta; sui ghiaioni la nebbia comincia a diradare. Ora si scorge innalzarsi nera contro la luminosità d’oriente, con le pareti umide e gialle, la Cima della Polveriera. Perfettamente limpida, gelida e silenziosa. Il primo barlume di sole. Sarà una bella giornata. […] Barnabo non vede l'ora di arrivare alle rocce, di vedere com'è questa pazzia. Sempre su, per i faticosi ghiaioni, nell'ombra fresca

(Lettere a Brambilla, pp.66-67) Pelmo […] La mattina quelli andarono sul Civetta e io avevo i calzoni di dietro tutti in pezzi e le mani tagliate dalla roccia […]. Ci avviammo noi per il rifugio del Pelmo – scesi – piano acquitrinoso – pini – mughe – pizzi – mughe – mughe mughe – fino al sentiero poi sotto le rocce incombenti del Pelmo […] poi selle, selle – appare l’Antelao – La Torre dei Sabbioni – La Croda Marcora – il Sorapiss – il Cristallo – poi infine il piccolo rifugio – […] mangiato andammo a dormire – fuori pioveva – sotto le rocce – la mattina era tutta una stellata – poi le nebbie vennero su. Partimmo – prima ghiaie poi una ripida arrampicata

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della mattina. Ogni tanto si guarda in alto. Roccioni altissimi, costoni franati, lunghi spacchi tenebrosi che mandano gelidi soffi. Nessuno dei due sa parlare. Sono giunti a un grande anfiteatro. A sinistra, la Cima della Polveriera, a destra la Pagossa; nel fondo, sopra ripidi gradoni, si possono scorgere i Lastoni di Mezzo e un pezzo della torre da cui partiva la fumata. Adesso conviene andare su diritti per un canalone roccioso, a brevi salti, da arrampicarsi con le mani. La torre si fa sempre più vicina ma si è tutta scomposta; non è diritta e liscia come da lontano, ma rotta con crepe scomposte. […] Eccoli su uno spiazzo di ghiaia sotto alla vera parete. La cima è scomparsa; appaiono solo i primi salti a picco e sopra il cielo. Soffia un vento gelido che toglie tutto il coraggio. Intanto sulle alte crode giungono i primi raggi di sole. Adesso Barnabo vede le montagne. Non assomigliano veramente a torri, non a castelli né a chiese in rovina, ma solo a se stesse, così come sono, con le frane bianche, le fessure, le cenge ghiaiose, gli spigoli senza fine a strapiombo piegati fuori nel vuoto. Bertòn comincia a salire, attaccandosi con le mani. Cadono dei sassi; il calcio del fucile batte contro le pietre con rumore di ferro. […] Sono arrivati a un piccolo ripiano, in pieno sole. Sopra s'innalza un lastrone immenso con qualche screpolatura e in cima si vede come un camino a strapiombo. […] Bertòn sale adagio, tastando leggermente le rocce. Anche a lui, dopo qualche metro, tremano le mani nel cercare gli appigli. Ma ha già superato quasi il lastrone. Eccolo che è arrivato. « Vieni su, che il peggio è fatto » grida allora dall'alto. Ma dopo circa un'ora i due si trovano su di un piccolissimo spuntone, coperto da un rosso strapiombo. C'è poco da dire; andare avanti è impossibile e scendere è da pazzi. Non si riesce nemmeno a vedere, tanto s'incurva nel vuoto, la strada fatta per arrivare lassù. « Te l'avevo detto, Bertòn. Adesso siamo davvero fregati. » L'altro non risponde, accoccolato sul terrazzino; guarda giù le ghiaie oramai lontane. Il sole è salito in alto senza che essi se ne siano accorti. Piccoli soffi di vento. Tutto è assolutamente tranquillo. Qualche minuscolo sassolino rimbalza di salto in salto. Di fronte si vedono le grandi torri dei Lastoni di Mezzo, con degli apicchì spaventosi. Una farfalletta bianca gira qua e là sopra i precipizi, attaccandosi ogni tanto alle rocce. Sale dal fondo la paura. […] Ma Bertòn si mette a fischiettare lievemente tra i denti una canzonetta, qualcosa d'amore. Forza Bertòn, fatti coraggio, bisognerà pure tornare a casa. Egli guarda le rocce vicine, poi si lega con la corda e mentre Barnabo lo tiene, si cala giù di qualche metro e quindi comincia

poi la cengia classica che gira intorno al Pelmo e che diventa sempre più stretta – gira dentro gole, s’interrompe in passi difficili, gira costoni – coperto di ghiaia – di neve – fino al famoso salto del Salto che è stretto e basso – si striscia come serpi è pericoloso ma non è difficile – prima si sono passate le pecore e i sacchi e poi nel vallone centrale – pieno di neve – neve – rocce coperte di neve e poi la NEBBIA fitta folta – bianco di neve e di nebbia e su e su tutti gelati da piangere le gambe facevano brr – dal freddo – poi la guida dopo un po’ di gelante arrampicata ha detto: “C’è la nebbia, fermiamoci qui sotto alla cima” – ci siamo fermati presso alla cima invisibile tra la nebbia e la neve presso al piccolo ghiacciaio che apriva la sua misteriosa bocca vicino a noi – e poi giù giù […]. Si aveva qui da prima progettato di scendere per la cengia alta […] – abbandonato da anni, coperto di ghiaia e di neve su cui c’erano le enormi impronte del camoscio, sopra un precipizio di settecento metri – con tutti gli appigli malsicuri e marci – era davvero difficile, c’erano dei punti davvero brutti – e pregavo Dio che ci portasse al rifugio sani e salvi – la picozza impicciava e Augusto aveva passato la mia e la sua nel sacco – e così stentavo e ad un brutto passaggio non potevo andare né avanti né indietro – io ero sul più brutto del passo – la corda non bastava – la guida mi slegò e mi mise su un piccolo spuntone per avere più corda e in quel momento il sacco di Augusto si slegò e dovette prendere le due piccozze in una mano, tenersi sugli appigli marci coll’altra e coi denti tenere le cinghie del sacco – allora non potendo proseguire colle piccozze le voleva precipitare giù […] poi divenne più facile – e via via dietro al camoscio fino al vallone dove si doveva o salire alla forcella Val D’Arcia o discendere al Rifugio. Finita la cengia s’incontrò la gola ghiaiosa dove ci slegammo e poi giù fino al rifugio – e su la nebbia era fitta e in alto le rocce eran nere […]. (p.65) Civetta: Prima va la guida fino che è salita poi veniamo noi e lui tira – i piedi gelati – le mani gelate da piangere quasi dal dolore – certi punti a picco difficili – dove non si trovano appigli aiutandosi con le mani, piedi, ginocchi – le mani si fanno male sulle rocce e ancora su – punti difficili e tutta neve e neve alta mezzo metro […] e alla fine la guida dice ci siamo e siamo in cima – con l’abisso più grande sotto – senza nemmeno poter vedere le pareti – e tutte le montagne si vedevano fino al mare – si vedeva anche il Bernina […]. (p.128) Croda da Lago: “Guarda però che è una roba ridicola essere aggrappati alle rocce con tutte le forze e veder svolazzare delle farfalle variopinte

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a traversare, in discesa, pencolando sull'immenso vuoto. « Tieni, Barnabo, che adesso parto. » Si è afferrato a qualche sporgenza che dall'alto non si vede nemmeno, è tutto accartocciato nello sforzo. Passata sopra uno spuntone, la corda cigola e freme, perde dei pezzetti di canapa che se ne vanno con il vento. "Adesso si finirà col precipitare" pensa Barnabo "la mano che si stacca, il colpo indietro nel vuoto, il gran volo, un terribile urto che entra nel cervello. Morti, eccoli in fondo dove finiscono le ghiaie." È strano, adesso Barnabo non ha più paura. È ormai dentro alla battaglia. La corda si tende e cigola, già Bertòn è scomparso dietro lo spigolo. Eppure, aspetta un momento, eppure ci sono i boschi tranquilli nelle giornate di sole. La strada solitaria che scende a San Nicola, le sere alla Polveriera. Si ha un bel dire, ma c'è ancora tanta vita, perché si dovrebbe morire? La corda si affloscia improvvisamente, scivola giù per i lastroni facendo cadere dei sassolini. Bertòn deve essere giunto al sicuro. Arriva la sua voce allegra. « Molla, che ci sono! » Adesso tocca a Barnabo. Se scivolasse, farebbe un terribile giro di sotto prima che la corda lo potesse trattenere. Ma egli si cala giù a poco a poco, tasta con i piedi, senza vederli, i piccolissimi appigli. Nelle sue orecchie battono dei lievi colpi di vento, risuona fondo il battito del cuore. È sera quando toccano nuovamente le ghiaie, grande sera limpida tra le montagne. Dalle mani esce del sangue, i vestiti sono stracciati.

su per gli strapiombi e vedere delle mosche qua e là che venivano a fare villeggiatura a Cortina”. (p.163) Schiara: “Siamo dovuti tornare tra la nebbia sempre più fitta, sbagliando strada, mentre veniva la sera – e giù, per non dormire sulla parete, fino alla traversata. Qui gli appigli erano viscidi per la nebbia e più difficile era il percorso tornando. Allora abbiamo piantato un chiodo e ci siamo calati per 15 metri nel vuoto perfetto. Ti garantisco che quella calata, nelle tenebre che venivano, nella negra nebbia, con attorno rocce funambolesche, intravedendo appena il fondo, colla corda che scricchiolava, dentro a un caminone viscido e nero, è stata una cosa sensazionale, come un estremo rimedio – poi giù ancora per l’ultimo camino ch’era già notte. Non ho mai sentito così il brivido dell’avventura e non ho mai visto la montagna così divina. E così questo mio maledetto amore per la montagna mi fa soffrire sempre più.

Ancora, lo stesso lavoro si può fare anche a proposito della seconda scalata di Bàrnabo e Bertòn, confrontando le pagine dell’ascensione con la già citata lettera del 24 luglio 1924 (monte Civetta) e i resoconti dall’Antelao e Scotter del 24 agosto 1923:

(Bàrnabo delle montagne, pp.39-40) Andiamo per la cresta, aveva detto Bertòn, così non ci possono tirar giù sassi. Avevano trovato un gran silenzio. Contornata alla base la Cima della Polveriera, avevano preso una cengia molto ripida sul versante est, che portava quasi fino alla cresta. Poi cominciava l'affare serio. (…) Metro per metro, erano così arrivati all'ultima cresta, tutta di rocce crollanti, battuta da un vento eterno. Aspettavano per lunghi minuti sotto al sole, sui piccoli piazzaletti ghiaiosi, sopra invisibili abissi, per udire se ci fosse qualche voce, per vedere qualche segno di uomo. Ma niente. […] Il vento, solo il vento, fischiava tra gli scheggioni di pietra. Eccoli poco dopo in vetta. Bel gusto, tanta fatica per non trovare la più piccola traccia dei nemici. Ma Barnabo e Bertòn si erano sentiti contenti; intanto lassù nessuno li avrebbe potuti toccare. San Nicola, i compagni, tutto era lontanissimo.

(Lettere a Brambilla, p.65) Civetta: ”Si dormì nei letti la notte e la mattina alle due il vento urlava tremendo […] ma alle quattro era tutto sereno – e si partì – […] e a un costone di roccia s’incontrò le pecore nere di un pastore che sonnecchiavano – ma ad una ad una ci seguirono e via e via – […] intanto si levava il sole e le rocce in alto rosseggiavano – poi si cominciò a salire per un ghiaione – mentre le pecore ci avevano finalmente lasciati. Fatto un po’ di roccia liscia – si raggiunse in 5 minuti la rastenplatz (la piazza per il riposo) – legati – 1°guida, 2°io, 3°Augusto – si cominciò le scalate – caminetto, meglio, ruga – stretto – lungo circa 40 metri però non a picco (…) – rocce liscie – lastra pericolante da passare a cavalcioni – con sopra roccia che impedisce di stare in piedi – passo del Tenente o Grünwald cioè roccia liscia e curva sul precipizio – ma munito di spranghe di ferro – perciò facilissimo – rocce – rocce ripide da arrampicarsi su

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cui si comincia ad incontrare la neve – ripide – canali piccoli – in piedi – corti – in cui era utile che Della Santa ci tirasse su – poi ci fermammo sopra un ballatoio a mangiare qualche cosa poi voltammo a sinistra – super rocce coperte di neve e poi rocce e neve e neve su dritti – rocce ripide molta neve alta che rende difficile il proseguire. Prima va la guida che è salita poi veniamo noi […] e alla fine la guida dice ci siamo e siamo in cima – con l’abisso più grande sotto – senza nemmeno poter vedere le pareti – e tutte le montagne si vedevano fino al mare – si vedeva anche il Bernina – e poi giù subito – appena messo il nostro nome nella bottiglia – giù ancora per la strada di prima calandosi colle corde – giù giù – fino alla rastenplatz – là mangiammo – ripresi la piccozza – e alle due si era al rifugio”. (p.130) Cima Scotter/Antelao: “La cima Scotter ha un brutto nome ma delle rupi vecchie, ghiaiose, a picco, tristi e misteriose, ed è una croda bellissima. // Di là in 12 ore siamo andati alla cima (3200) e ritornati. Abbiam visto uno sterminio di dolomiti famose, anzi tutte, ma alcune così vicine e addossate tra loro che pareva una catena che non finisse mai. Ho visto la Croda col sole, lontana ma divina e poi precipizi infiniti e i ghiacci verdi dell’Antelao che mettevano i brividi”.

Infine si può notare l’influenza delle sensazioni provate da Buzzati al campo di Spinga durante la leva militare (20 luglio 1927): in particolare, va rilevata la sensazione prodotta dalla pioggia battente sulla tenda – che ritroviamo nel rumore sul tetto di zinco della baracchetta in cui dormono Bàrnabo e Bertòn di guardia alla polveriera; va poi segnalata la somiglianza nel trattare il tema della compagnia, dei due guardiaboschi che stanno a chiacchierare per ore e ore, e della truppa di soldatini “meravigliosi che […] fanno commuovere”:

(Bàrnabo delle montagne, p.24) A Barnabo piacciono le sere passate entro la baracchetta, specialmente quando c'è in servizio con lui Bertòn e si può chiacchierare per ore e ore nel buio. (p.26) [Bàrnabo] si leva adagio il cappello. Si sente il rumore dell'acqua sulle ghiaie e sul letto della baracchetta, fatto di zinco. (p.84)Barnabo pensa al rumore della pioggia sul tetto di zinco, gli sforzi del vento contro la porta e le notti sconsolate.

(Lettere a Brambilla, p.183) “Nella tenda è sempre bello sentire il vento e piovere a dirotto. (…) Ora mi trovo bene con i soldati, ci sono dei soldatini meravigliosi che, ti giuro, fanno commuovere. Da borghesi bisogna ammettere che non saranno mai così simpatici. A casa non canteranno mai con tanto entusiasmo e tristezza. Poi questo bosco resterà deserto e tacerà giorno e notte e tutti questi uomini scompariranno per il mondo e io tornerò in un melanconico treno nell’ombra grigia”.

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2. DAL TESTO ALLE MONTAGNE �����

La forza di Bàrnabo delle montagne, secondo Franca Schettino, sta nella lingua in cui il testo è scritto, perché essa crea una nuova esperienza di lettura, un’esperienza di tipo visuale, cinematografica. Secondo la critica, la lingua di Bàrnabo porta il lettore a fare tre operazioni:

Au cours de sa lecture, le lecteur de Bàrnabo semble faire au minimum trois opération, simultanément ou presque : il entend, il écoute, il regarde ; il accomplit un acte pseudo-sensoriel complexe qui, si on le considère rétrospectivement, laisse un trace plutôt élémentaire dans son esprit. Du texte lu/entendu/écouté/regardé, il ne reste que le souvenir d’une sensation auditive et visuelle. […] Lorsque l’on fait le bilan, on remarque que la véritable trace mnémonique, au plan sémantique, s’avère être une expérience visuelle agréable, active, naturelle, s’apparentant vaguement à l’expérience filmique.135

La lingua di Bàrnabo, continua Franca Schettino, allo stesso modo di un’opera cinematografica, ha la sua più grande forza nella capacità di attirare l’attenzione del lettore: in particolare, colui che legge, non si sofferma semplicemente sulla progressione della storia, ma ne viene attratto, perché riesce a visualizzare – uno per uno – gli avvenimenti che costruiscono l’azione hic et nunc, nel momento stesso in cui egli si trova davanti alla pagina scritta. È, questo, un sentimento che viene spiegato molto bene da Schiller nel carteggio con Goethe; secondo il poeta tedesco, infatti:

L’azione drammatica si muove dinanzi a me […]. Se l’evento si muove dinanzi ai miei occhi, io mi sento incatenato strettamente al reale: la mia fantasia perde ogni libertà e in me nasce e perdura un’inquietudine incessante; io sono costretto a restar sempre fisso all’oggetto, non mi è concesso di volger lo sguardo indietro né di meditare, perché obbedisco a una forza estranea.136

Il lettore di Bàrnabo, come l’io narrante di Schiller, non ha il tempo per poter riflettere sugli avvenimenti descritti nel testo perché l’azione si svolge nello stesso momento in cui egli legge; la lingua utilizzata da Buzzati, apparentemente “semplice, evidente e trasparente”137, rende naturalmente possibile quel trasferimento di informazioni dal testo al lettore, colpito non più a livello intellettuale, dove l’informazione passa, per dirla con le parole di Schettino, per osmosi, ma a livello emotivo e sensoriale.

�����������������������������������������������������������������Nel corso della lettura, il lettore di Bàrnabo sembra fare al minimo tre operazioni, simultaneamente o quasi: egli comprende, ascolta, guarda; egli compie un atto pseudo sensoriale complesso che, se lo si considera retrospettivamente, lascia una traccia piuttosto elementare nella sua fantasia. Del testo letto/compreso/ascoltato, guardato, non gli rimane che il ricordo di una sensazione uditiva e visuale. […] Fatto il bilancio, si nota che la vera traccia mnemonica, sul piano semantico, s’avvera essere un’esperienza visuale piacevole, attiva, spontanea, apparentata vagamente all’esperienza filmica”. Cfr. Franca Schettino, Le pouvoir de l’écriture dans Bàrnabo des montagnes, in «Cahiers Buzzati» n.6, 1985, p.235.�La traduzione è mia.������Der Briefwechsel zwischen Schiller und Goethe, a cura di H.G. Gräf e A. Leitzmann, 3 voll., Leipzig, 1955, citato in Harald Weinrich, Tempus, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 28.������Cfr. Marcello Carlino, Autour de quelques constantes du style narratif de Dino Buzzati, in «Cahiers Buzzati» n. 6, 1985, p. 250. La traduzione è mia.

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Il linguaggio che “regola” le immagini di Bàrnabo si comporta in questo caso come il montaggio del cinema cosiddetto classico, basati entrambi su una visione ben temperata, o meglio, prospettica, in cui l’autore (del testo e del film) si rivolge al suo destinatario con una combinazione di eventi finalizzata a mostrare la linea (la trama) dell’intero complesso:

nel montaggio classico il narratore può passare da un punto di vista oggettivo a uno soggettivo, senza difficoltà e senza che la rappresentazione ne venga incrinata. Lo sguardo è sempre uno solo, anche se finge di spostarsi. La soggettiva, grazie a cui possiamo non solo vedere quello che vede un personaggio ma anche, conseguentemente, partecipare del suo stato d’animo, è basata su questa convenzione della scrittura filmica, per cui il raccordo vedente – visto ci colloca al posto del personaggio. La costruzione del personaggio e quella dello spazio sono basate su questa convenzione, secondo cui i punti di vista sono intercambiabili: il narratore può spostarsi in qualunque posto, guardare con gli occhi di chiunque, e rimanere nello stesso tempo sé stesso. […] C’è nel cinema anche una vera e propria arte della prospettiva; […] lo spazio è organizzato davanti all’osservatore e per lui solo. La prospettiva filmica è temporale oltre che spaziale, si sviluppa in una serie di inquadrature collegate tra loro; ma dentro la sequenza classica lo sguardo del narratore si trova sempre al centro, potendo cambiare posto quando vuole. […]] Nel cinema, l’intercambiabilità dei punti di vista e la centralità dello spettatore sono due convenzioni che permettono di «comporre» il film, di strutturare lo spazio e il tempo, i personaggi e la storia.138

Ciò che François Truffaut scrive sui Cahiers du Cinéma a proposito del suo amore per il “cinema prosaico”, un cinema che dev’essere “un’arte indiretta, inconfessata” e che soprattutto “nasconde nel momento stesso in cui mostra”139, è utile per spiegare la dualità del linguaggio buzzatiano in Bàrnabo delle montagne: ad una prima lettura si può notare una “lingua d’uso, […] medio-borghese e medio-popolare; lessico evidente, normale, abitudinario […], parsimonia di aggettivi, periodi scorrevoli, linearità sintattica da manuale”140 che a tutti gli effetti costituisce l’illusione mimetica che unisce il lettore al romanzo, il “reticolo soggiacente” che invade il testo, uniformando le parti diverse che lo compongono141; adottando una lettura approfondita (Schettino usa la metafora delle lenti di ingrandimento, con diversi spessori man mano che ci si avvicina o ci si allontana dal testo!) si infrange la trasparenza del romanzo Bàrnabo, si scopre l’enunciazione di Buzzati, il processo linguistico mediante il quale lo scrittore bellunese costruisce i propri raccordi di movimento, cambia punti di vista, assume prospettive linguistiche diverse mantenendo sempre il rispetto per il lettore che si trova davanti alla pagina.

Partendo da queste premesse – in cui più volte abbiamo accostato il romanzo di Buzzati alla teoria cinematografica – sarà quindi necessario analizzare le modalità attraverso le quali il linguaggio buzzatiano si “riversa” nella sceneggiatura: prima di un’analisi dell’attività di ripresa e modifica del sovratesto da parte di Brenta e Pasquini (che prenderemo in esame in maniera analitica nella seconda parte del capitolo), studieremo le modalità attraverso le quali il linguaggio di Buzzati rende così visuale Bàrnabo delle montagne, arrivando a scoprire se tali modalità linguistiche sono a loro

���������������������������������������������������������������Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio, 2004, pp. 123-124.�����François Truffaut su «Cahiers du Cinéma» n.190, 1967, cit. da Alberto Barbera, Umberto Mosca, François Truffaut, Milano, Il Castoro cinema, 1995.������C. Toscani, op. cit., p. 148. �����Cfr. F. Schettino, op. cit., p. 235.

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volta utilizzate anche dai due sceneggiatori per scrivere il trattamento di Bàrnabo e trasferirlo infine – come successione di immagini – sulla pellicola.

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2.1. Buzzati, Bàrnabo e la lingua come comunicazione visiva

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Alcuni critici, analizzando il primo romanzo di Buzzati, insistono su due fatti importanti: la prevalenza di alcuni verbi rispetto ad altri, e la particolare costruzione del testo. Ilaria Crotti, nel suo libro monografico dedicato all’autore bellunese, afferma che caratteristiche come lo stile nominale, la tendenza al linguaggio quotidiano e soprattutto l’uso quasi ossessivo del tempo presente in Bàrnabo delle montagne sono “il risultato di una ricerca, il frutto di un’elaborazione non imputabile ad uno stadio ancora «giovanile»”; inoltre, la critica stessa pone l’accento sulla particolare costruzione di Bàrnabo, composto da una sintesi di brani-racconto, che dà al romanzo una struttura a collage142. La lettura approfondita del primo romanzo buzzatiano porta invece Franca Schettino a scrivere che la struttura di Bàrnabo poggia su tre verbi che a loro volta contraddistinguono con la loro presenza i tre testi differenti che costituiscono l’opera unitaria: il testo buzzatiano, infatti,

il s’est révélé comme étant régi tantôt par la troisième personne du présent de l’indicatif, tantôt par le passé simple, tantôt par le passé composé et ponctué vigoureusement par des formes verbales exclamatives et exhortatives. […] Le texte apparaît dans son ensemble comme constitué de trois textes différents [l’un est au présent de l’indicatif, l’autre au passé simple, le dernier au passé composé]. Une reconnaissance géographique […] du territoire textuel a révélé que le texte au présent de l’indicatif occupe environ 68% du territoire, celui au passé simple environ 27% et celui au passé composé environ 5%.143

Lo stesso Buzzati, intervistato da Panafieu, parla dello stile del suo primo libro discutendo dei tempi verbali contenuti nel romanzo; in particolare, la scelta di variare i tempi verbali è stata di fondamentale importanza per Bàrnabo, in quanto proprio la decisione di “sommuovere i piani del tempo” ha creato, secondo Buzzati, uno stile che ha avvicinato il suo primo scritto all’opera cinematografica: “Questo sistema temporale dà un’estrema vibrazione al racconto. Perché dà la sensazione, come in cinematografo, quando si salta da un piano all’altro, di saltare da una visione all’altra, con un ritmo secco”144. Il tempo verbale, quindi, è inteso dallo scrittore bellunese nello stesso modo del montaggio cinematografico: la possibilità di variare le modalità dell’accostamento delle inquadrature dà al film un ritmo diverso (pensiamo ad una sequenza lineare o ad un classico dialogo che nasce da un campo-controcampo), ma anche la possibilità di vedere ciò che succede da punti di vista differenti (si può, per esempio, guardare in camera con gli occhi del personaggio,

����������������������������������������������������������������Cfr. I. Crotti, Dino Buzzati, op. cit., pp. 5-7. �����Si è rivelato come essere diretto tanto dalla terza persona del presente dell’indicativo, tanto dal passato remoto/imperfetto, quanto dal passato prossimo e cadenzato vigorosamente da forme verbali esclamative e esornative. […] Il testo apparirebbe nel suo insieme come costituito di tre testi differenti [uno al presente dell’indicativo, l’altro al passato remoto, l’ultimo all’passato prossimo]. Una ricognizione geografica ha rivelato che il testo al presente dell’indicativo occupa circa il 68% del territorio, quello al passato semplice circa il 27% e quello al passato composto circa il 5%”. Cfr. F. Schettino, op. cit., p. 234. La traduzione è mia.�����Y. Panafieu, op. cit., p. 213. �

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oppure con gli occhi del regista – si pensi a ciò che succede, per esempio, nei film di Antonioni). Nel caso di Buzzati, il “montaggio verbale” serve inoltre a rappresentare il tempo che passa incessantemente su tutte le immagini contenute nell’inquadratura paratattica, sui ricordi e sulle sensazioni che si possono vivere solamente in montagna145.

Partendo da queste considerazioni, ci siamo quindi chiesti in che modo i tempi verbali contribuiscono a fare di Bàrnabo delle montagne un’opera che – idealmente – si pone vicina alla pellicola cinematografica; sicuramente i verbi, come fa notare Dino Buzzati, costituiscono il montaggio del testo e, inoltre, contribuiscono a creare delle sequenze testuali (i pezzi del “collage” di qui parla Ilaria Crotti, o i “blocchi” di Franca Schettino) che compongono il “filmico”, la parte visiva di Bàrnabo che il lettore si trova a guardare idealmente mentre legge il testo. Successivamente, ispirati dal saggio di Walter Deon146, abbiamo cercato uno strumento che potesse spiegare le strategie che abbiamo visto essere utilizzate da Buzzati per quanto riguarda l’uso dei tempi verbali in Bàrnabo, e ci siamo rifatti alle interessanti considerazioni linguistiche contenute in Tempus di Harald Weinrich.

Lo studioso tedesco parte dal presupposto che i tempi verbali possano essere intesi, all’interno di un sistema di comunicazione, come delle forme metalinguistiche: il narratore utilizza un certo tipo di verbo (una scelta che Weinrich denomina atteggiamento linguistico) per informare il lettore che il suo messaggio può essere, a seconda del verbo utilizzato, commentativo o narrativo. Se il messaggio (e a questo punto, il tempo verbale utilizzato) è di tipo commentativo, il narratore desidera creare nel lettore un atteggiamento di tensione, riflettendo sulla realtà e insieme valutandola: in definitiva, egli vuole portare il lettore – adottando una metafora cinematografica – dietro la macchina da presa, facendogli vedere ciò che succede in presa diretta; la distanza tra narratore e lettore in questo caso è pari allo zero. Diversamente, utilizzando tempi narrativi, il narratore vuole che il lettore recepisca il messaggio in stato di distensione, stato d’animo che si crea perché il lettore si rende conto della distanza che esiste tra sé e l’emittente, nonché della natura narrativa del messaggio stesso. Secondo Weinrich, la differenziazione dei tempi verbali tra commentativi e narrativi nella lingua italiana è questa:

Tempi commentativi Tempi narrativi Tempi non marcati rispetto alla realtà Presente Passato remoto

Imperfetto Tempi della retrospezione Passato prossimo Trapassato prossimo

Trapassato remoto Tempi della previsione Futuro Condizionale presente

Condizionale passato �

Come si può notare dalla tabella, lo studioso tedesco pone un’ulteriore distinzione dei tempi verbali all’interno dei gruppi dei tempi commentativi e narrativi, che chiama “prospettiva linguistica”, basata sul diverso rapporto che ogni tempo verbale allaccia con la realtà. Secondo Weinrich, il narratore può infatti adottare diversi gradi prospettici per legare il suo messaggio alla realtà: in particolare, se il narratore vuole attirare l’attenzione del lettore sull’aderenza del suo messaggio con

����������������������������������������������������������������Ivi, p. 214.������Walter Deon, Strategie d’uso dei tempi verbali in tre racconti di Dino Buzzati, in «Studi Buzzatiani» a.I, 1996, pp.129-135.

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la realtà, egli utilizzerà, nel gruppo dei tempi commentativi, il presente, e nel gruppo dei tempi narrativi, il passato remoto e l’imperfetto147. In base a questa classificazione, si dirà quindi che presente, passato remoto e imperfetto sono tempi zero o non marcati, in quanto tempi verbali che segnano la sincronia rispetto al tempo reale. All’interno del suo messaggio, il narratore può, tuttavia, attirare l’attenzione del lettore sul fatto che egli debba recuperare un’informazione oppure prevedere il tempo reale: in questo caso egli utilizzerà, nel gruppo dei tempi commentativi, per la retrospezione il passato prossimo, mentre per la previsione il futuro; nel gruppo dei tempi narrativi, per la retrospezione i trapassati prossimo e remoto, mentre per la previsione il condizionale. Questi tempi verbali, in quanto non sincronizzati col tempo reale, sono interessanti perché danno uno stato di indecisione al lettore che si ritrova in attesa di vedere se ciò che è stato recuperato dal passato o anticipato nel futuro è poi verificato nella realtà (o meglio, da un tempo zero).

Con questi presupposti, ci siamo quindi soffermati ad analizzare la costruzione verbale di Bàrnabo delle montagne148. Superficialmente, si può notare come trovi conferma l’analisi di Franca Schettino, che vede il testo buzzatiano essere governato dal testo presente, con presenze del tutto ragguardevoli di passato remoto, passato prossimo ed imperfetto (è minore la presenza di gerundi, condizionali e congiuntivi); considerando tuttavia il testo nella sua totalità (provate ad immaginarlo davanti a voi, quasi che le pagine non esistessero, un quadro, insomma) si possono invece notare come questi quattro verbi si dispongano in modo molto preciso, formando due poli all’interno del testo che continuano ad alternarsi per tutta la durata della narrazione: un polo che accosta tempo presente e passato prossimo, e un polo che avvicina passato remoto e imperfetto. Alla luce di quest’ultima osservazione, si può vedere come Bàrnabo delle montagne sia costituito di due anime, una commentativa che occupa il 78% del testo, ed una narrativa che occupa il restante 22%149.

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2.1.1. Bàrnabo delle montagne: commentativo e narrativo

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La parte commentativa in Bàrnabo delle montagne

Come abbiamo già visto, l’uso di tempi commentativi annulla la distanza tra narratore e lettore: quest’ultimo si trova in uno stato di tensione perché nel momento reale in cui legge il testo, si srotola simultaneamente l’azione; le vicende dei personaggi, degli oggetti «inquadrati» dalla penna del narratore avvengono contemporaneamente alla lettura di esse.

����������������������������������������������������������������In questo caso, “tempo testuale e tempo reale possono essere sincronizzati, per esempio, in modo fittizio, come quando il narratore si associa agli avvenimenti in veste di personaggio implicato nei fatti [racconto in prima persona] ovvero come testimone [racconto in terza persona]”. Cfr. H. Weinrich, op. cit., p. 80. ����Nella nostra analisi non abbiamo tenuto conto dei discorsi diretti, in quanto distolgono dall’analisi globale del testo: cfr. H. Weinrich, op. cit., pp. 226-227.����Su un totale di circa 3088 verbi, i tempi commentativi sono 2395 (1919 per il tempo presente, 405 per il passato prossimo, 171 per il futuro); i tempi narrativi invece 693 (133 i passati remoti, 310 gli imperfetti, 144 i trapassati prossimi, 11 i trapassati remoti, 72 i condizionali presenti e 23 quelli passati). �

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Per renderci conto di come sia utilizzata questa tecnica narrativa da parte di Buzzati nel suo primo romanzo, si può vedere il confronto tra due sequenze molto simili (le scalate di Bàrnabo e Bertòn ai monti di San Nicola del decimo e undicesimo capitolo) che utilizzano una diversa varietà di tempi verbali:

Bertòn comincia a salire, attaccandosi con le mani. Cadono dei sassi; il calcio del fucile batte contro le pietre con rumore di ferro. Barnabo, fermo, cerca di farsi animo. Perché rischiare la vita? Eppure a sua volta si muove, arrampicandosi con fatica. Gli è scappato di sotto un piede. Riesce a trattenersi a uno spuntone, con il cuore che batte altissimo. […] Sono arrivati a un piccolo ripiano, in pieno sole. Sopra s'innalza un lastrone immenso con qualche screpolatura e in cima si vede come un camino a strapiombo. […] Bertòn sale adagio, tastando leggermente le rocce. Anche a lui, dopo qualche metro, tremano le mani nel cercare gli appigli. Ma ha già superato quasi il lastrone. Eccolo che è arrivato. […] Qualche minuscolo sassolino rimbalza di salto in salto. Di fronte si vedono le grandi torri dei Lastoni di Mezzo, con degli apicchì spaventosi. Una farfalletta bianca gira qua e là sopra i precipizi, attaccandosi ogni tanto alle rocce. Sale dal fondo la paura. […] Egli guarda le rocce vicine, poi si lega con la corda e mentre Barnabo lo tiene, si cala giù di qualche metro e quindi comincia a traversare, in discesa, pencolando sull'immenso vuoto. « Tieni, Barnabo, che adesso parto. » Si è afferrato a qualche sporgenza che dall'alto non si vede nemmeno, è tutto accartocciato nello sforzo. Passata sopra uno spuntone, la corda cigola e freme, perde dei pezzetti di canapa che se ne vanno con il vento. […] È strano, adesso Barnabo non ha più paura. È ormai dentro alla battaglia. La corda si tende e cigola, già Bertòn è scomparso dietro lo spigolo. […] La corda si affloscia improvvisamente, scivola giù per i lastroni facendo cadere dei sassolini. […] Adesso tocca a Barnabo. […] Egli si cala giù a poco a poco, tasta con i piedi, senza vederli, i piccolissimi appigli. Nelle sue orecchie battono dei lievi colpi di vento, risuona fondo il battito del cuore […].

Avevano trovato un gran silenzio. Contornata alla base la Cima della Polveriera, avevano preso una cengia molto ripida sul versante est, che portava quasi fino alla cresta. Poi cominciava l'affare serio. Nessuno certo dei guardiani si era avventurato mai da quelle parti. "Si potrà andare avanti? che non sia meglio tornare?" si domandava Barnabo con orgasmo ogni volta che Bertòn scompariva sopra di lui, arrampicandosi per le rocce a picco. Metro per metro, erano così arrivati all'ultima cresta, tutta di rocce crollanti, battuta da un vento eterno. Aspettavano per lunghi minuti sotto al sole, sui piccoli piazzaletti ghiaiosi, sopra invisibili abissi, per udire se ci fosse qualche voce, per vedere qualche segno di uomo. Ma niente. Sotto alla cima, in una specie di grotta dove nessuno li avrebbe potuti vedere, Bertòn aveva mandato finalmente un lungo grido, una di quelle voci che si sentono sulle montagne. Ma nessuno aveva risposto. Il vento, solo il vento, fischiava tra gli scheggioni di pietra. Eccoli poco dopo in vetta. Bel gusto, tanta fatica per non trovare la più piccola traccia dei nemici. Ma Barnabo e Bertòn si erano sentiti contenti; intanto lassù nessuno li avrebbe potuti toccare. San Nicola, i compagni, tutto era lontanissimo. Nel fondo si vedeva appena il piccolo tetto del posto di guardia […]. Le ultime paure erano finite al toccare le comode ghiaie.

Differentemente dalla seconda scalata, in cui l’uso dell’imperfetto contribuisce a documentare un fatto accaduto nel passato, e comunque staccato dal presente150 (l’unica voce del tempo presente nella seconda scalata serve a rendere l’essenza narrativa del passo, perché tramite quel tempo il narratore certifica la propria presenza: “Bertòn aveva mandato finalmente un lungo grido, una di

����������������������������������������������������������������Secondo Weinrich i due gruppi temporali commentativo e narrativo non solo dislocano il testo in due tempi diversi, ma addirittura collocano lo stesso testo in luoghi diversi: in particolare, i verbi del gruppo narrativo vogliono dire “che non si tratta del mondo in cui si trovano […] il parlante e l’ascoltatore [come invece accade nel gruppo dei tempi commentativi]; vogliono dire che la situazione parlata, riprodotta nel modello comunicativo, non è nello stesso tempo teatro dell’accaduto, e che per tutta la durata del racconto il parlante e l’ascoltatore fanno più da spettatori che da personaggi attivi nel theatrum mundi, anche quando contemplano sé stessi”. Cfr. H. Weinrich, op. cit., p. 62.

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quelle voci che si sentono in montagna”), nella prima arrampicata i tempi commentativi permettono di tenere avvinghiato il lettore presentando progressivamente i dettagli dello spostamento dei due personaggi sulle montagne in presa diretta: colui che legge il testo “vede” – tra i tanti esempi che si possono trarre dal passo – la corda che “cigola e freme” e “perde pezzetti di canapa che se ne vanno con il vento”, percependo così in maniera seconda il terrore di Bàrnabo nel dover scalare l’angusta parete.

Guardando il confronto tra le due arrampicate, si può notare come la presenza dei gerundi (evidenziati in azzurro) sia maggiore nel brano commentativo. La situazione che abbiamo proposto poc’anzi è esemplificativa dell’intero romanzo, nel quale la parte commentativa contiene un numero molto più alto di gerundi (tutti nella forma del gerundio presente: il gerundio passato è assente in Bàrnabo delle montagne) rispetto a quella narrativa:

BDM – parte commentativa BDM – parte narrativa Numero di gerundi 120 22

Perché è presente una così maggiore incidenza di gerundi nella parte commentativa? A livello sintattico, sappiamo che entrambe le forme del gerundio (presente e passato), formando “costruzioni dipendenti […], non rappresentano tempi indipendenti, ma un rapporto di tempo rispetto al tempo in cui si svolge l’azione nella proposizione principale”151. In base a questa definizione, saremmo portati a dire che l’uso di questo verbo da parte di Buzzati è dettato dalla funzione che occupa all’interno della frase, ovvero – nel caso del gerundio presente – indicare un’azione contemporanea all’azione del verbo principale. Con questa scelta si potrebbe quindi spiegare la volontà di giustapporre due azioni nello stesso periodo, la decisione di far vedere al lettore due scene che si svolgono simultaneamente; non si spiegherebbe tuttavia la decisione di accostare il gerundio a verbi appartenenti al gruppo dei tempi commentativi.

Fabio Atzori, in uno studio sulla lingua del “primo Buzzati” (dall’apprendistato giornalistico fino al 1940, anno del Deserto), parla del gerundio dicendo che non andrebbero trascurati gli “effetti di ritmo” che è possibile ottenere con questo verbo, perché esso, “oltre che indicare una durata, un’azione che si compie, ha una sua durata intrinseca”152; in particolare, secondo lo studioso buzzatiano, è rilevante l’effetto di rallentamento che il verbo darebbe alla frase. In base a quest’ultima osservazione, si può osservare come Buzzati utilizzi il gerundio accostato maggiormente a verbi nella proposizione principale quali presente o passato prossimo per aumentare la portata commentativa del testo: il gerundio andrebbe infatti a modificare le modalità di lettura del testo da parte del lettore, in quanto proprio l’effetto di rallentamento intrinseco del verbo andrebbe a creare nel messaggio testuale – a seconda dei casi – effetti di suspense o di procurato rilassamento dell’azione, finalizzati ad attirare l’attenzione del lettore sul messaggio del narratore. Si vedano questi esempi:

Egli guarda le rocce vicine, poi si lega con la corda e mentre Barnabo lo tiene, si cala giù di qualche metro e quindi comincia a traversare, in discesa, pencolando sull'immenso vuoto.

������������������������������������������������������������151 Cfr. Miklós Fogarasi, Grammatica Italiana del Novecento, Roma, Bulzoni editore, 1983, p. 381. Il corsivo è mio. ����Fabio Atzori, Alias in via Solferino: la lingua del primo Buzzati (1928-1940) tra giornalismo e letteratura, in AA.VV., Buzzati giornalista – Atti del Convegno Internazionale, Milano, Mondadori, 2000, p. 434.��

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Gira per ore nel bosco senza trovare requie, tormentandosi col ricordo, domandandosi perché ha avuto tanta paura, senza comprendere bene. Il sacco, da quel giorno, non è stato più aperto. Barnabo l'aveva voluto lasciar così per aver l'il-lusione, ritrovandolo, che il tempo non fosse passato. Ma adesso, riprendendolo in mano, vedendo tutta la polvere, sentendo la tela seccata, Barnabo comprende bene il vuoto che hanno scavato gli anni.

Nel primo caso il periodo è costituito da quattro proposizioni che descrivono i preparativi di Bertòn per scendere la parete della Cima della Polveriera: le azioni si susseguono veloci, a differenza della chiusura, in cui Buzzati decide di posizionare un gerundio – pencolando – che lascia volontariamente il lettore in uno stato di sospensione (letterale!), poiché l’azione del “pendere da un lato, dando l’impressione di cadere” è data nella sua durata continuativa, resa eccitante dal complemento sull’immenso vuoto. Si vedano invece gli altri due esempi: nel secondo caso i gerundi tormentandosi e domandandosi fanno seguito al deittico per ore, che ne fa risaltare l’aspetto durativo; le allitterazioni di –t e –d (tormentandosi col ricordo, domandandosi perché ha avuto tanta paura) contribuiscono a ricreare il turbamento interiore che continua ad attanagliare Bàrnabo dopo la fuga dalla sparatoria. Il terzo esempio è invece caratterizzato da un estremo rallentamento dato dall’accumulazione delle subordinate temporali formate dai gerundi stessi: al contrario del primo episodio, Buzzati utilizza la coordinazione per asindeto ad inizio del periodo per schiacciare, o meglio, uniformare il ritmo narrativo, mentre recupera il tempo presente per portare il lettore e il suo personaggio alla realtà effettiva, cioè alla presa di coscienza di quanto tempo sia passato da quando Bàrnabo si trova esiliato in campagna.

L’ultimo punto che vorremmo analizzare relativamente alla parte commentativa di Bàrnabo delle montagne riguarda l’uso degli avverbi utilizzati come deittici. È noto che la deissi è intesa come la funzione degli elementi linguistici che rende possibile un riferimento temporale e spaziale all’interno del discorso; nella nostra analisi, vale a dire nell’ambito di un testo commentativo, i deittici indicano il momento dell’emissione del messaggio, vale a dire hic et nunc, qui ed ora, in questo preciso momento e luogo. Come ricorda Harald Weinrich, è possibile considerare una moltitudine di elementi nel discorso come parte della deissi: lui stesso, dopo aver trattato due esempi – i morfemi e la varietà degli articoli153 –, espone, come abbiamo già ampiamente visto, la sua personale teoria dei tempi verbali partendo dall’importante presupposto che, a seconda dell’uso di un tempo commentativo o narrativo, la scelta di uno o dell’altro verbo andrà a descrivere un discorso, un messaggio dagli opposti riferimenti di spazio e tempo. In questa sede, vorremmo trattare l’importanza degli avverbi temporali (e altri costrutti) utili a Buzzati per segnalare la presenza nel suo primo romanzo di un discorso commentativo.

Analizzando il testo di Bàrnabo, si può notare come Dino Buzzati faccia uso di una grande varietà di avverbi e costrutti temporali154:

����������������������������������������������������������������Cfr. H. Weinrich, op. cit., pp. 36-42.������Per costruire la tabella, ci siamo rifatti alla divisione degli avverbi in M. Fogarasi, op. cit., p. 309. È doveroso ricordare al lettore che nell’analisi non abbiamo tenuto conto della parte dialogica.

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Bàrnabo delle montagne (25.800 parole c.ca)

Bàrnabo – parte commentativa (14.400 parole c.ca)

Bàrnabo – parte narrativa (5.700 parole c.ca)

Ecco 27 22 - Ora 37 31 3 Adesso 57 30 4 Mentre 31 24 7 Allora 29 16 8 Già 41 24 12 Costrutti con volta: una volta, qualche volta, la prima volta, l’ultima volta, ogni volta, l’altra volta, la seconda volta…

27 11 14

Dopo 44 22 15 Ancora 81 51 18 Quando 52 18 18 Poi 87 45 21 Prima 57 25 23 �

Osservando la tabella posta qui sopra, è possibile rilevare all’interno del testo l’uso maggiore di alcuni avverbi rispetto ad altri: Ancora, Poi, Prima, hanno in Bàrnabo delle montagne un’occorrenza media di 75 presenze; se tuttavia si procede confrontando le parti commentativa e narrativa separatamente, è possibile rilevare le differenze che contraddistinguono i due blocchi. Nel nostro caso, si converrà che a marcare la deissi del Bàrnabo commentativo sono gli avverbi Ecco, Ora, Adesso, Mentre, Ancora. Come ricorda Miklós Fogarasi nella sua Grammatica Italiana del Novecento, questi avverbi servono a relazionare l’azione alla contemporaneità155; in altre parole, segnalano la circostanza – l’hic et nunc, come abbiamo visto – in cui il discorso viene formulato. Ma non solo: spesso Buzzati fa uso di tali avverbi per potenziare la funzione commentativa del testo, per attirare maggiormente l’attenzione del lettore. Per fare un esempio di ciò, è possibile vedere l’uso degli avverbi nella proposizione “ecco quello che ancora ricorda” finalizzata a spezzare in due parti il secondo capitolo di Bàrnabo: la prima metà del capitolo narra – al tempo presente – la storia della Casa dei Marden in disfacimento; la seconda metà – questa volta al passato – racconta invece una commovente storia legata ai genitori del defunto Darrìo. La presenza di ecco sposta la concentrazione del lettore su un’azione che avviene nel presente: Del Colle ricorda nello stesso momento in cui si legge. L’avverbio ancora segnala invece la durata di un’azione che non si è ancora conclusa: il lettore, dopo il sussulto di quell’ecco che lo aveva staccato dai sentimenti malinconici provati dal capoguardia Del Colle, si trova ora a collegare la scena che si srotola ai suoi occhi – un personaggio che ancora ricorda – al capitolo precedente, in cui Del Colle stesso si ritrovava a narrare le storie delle Montagne di San Nicola appartenenti al suo passato156.

����������������������������������������������������������������Ibidem. �����L’uso degli avverbi di tempo come “stacchi” all’interno del testo è quantitativamente rilevante all’interno di Bàrnabo delle montagne: si può citare, per esempio, la frattura data dalla frase “Ecco il giorno dell’inaugurazione” ad interrompere la descrizione della nuova Casa dei Guardaboschi ad inizio del capitolo 3, ed ancora gli avverbi utilizzati per scandire le varie soste di Bàrnabo e Bertòn lungo le scalate dei monti di San Nicola (Cfr. D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., pp. 33-42: 34, 40 (per l’uso di ecco); 33, 34 (per l’uso di ora); 34 (per l’uso di adesso).

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La parte narrativa in Bàrnabo delle montagne

Come abbiamo visto, il narratore di un testo può usare una diversa temporalità verbale per far adottare al proprio lettore differenti punti di vista attraverso i quali “osservare” il testo. Se i tempi commentativi puntano a porre lettore e narratore sullo stesso piano di osservazione dell’evento raccontato, i tempi narrativi “vogliono dire che la situazione parlata, riprodotta nel modello comunicativo, non è nello stesso tempo dell’accaduto, e che per tutta la durata del racconto il parlante e lo spettatore fanno più da spettatori che da personaggi attivi nel theatrum mundi, anche quando contemplano sé stessi”157 . Metaforicamente parlando, sarebbe come se il lettore e il narratore si trovassero davanti alle sfere magiche delle fiabe per guardare – attraverso il classico fumo che si crea all’interno del globo fatato – situazioni che sono avvenute nel passato o avverranno nel futuro.

Isolando il mondo narrativo di Bàrnabo delle montagne da quello commentativo, si noterà che il blocco testuale da noi preso in esame raccoglie a sua volta una pluralità di avvenimenti e storie, ulteriormente analizzabili a seconda dell’uso di imperfetto e passato remoto, verbi narrativi che – a differenza del condizionale – compaiono maggiormente in questa parte del romanzo.

L’imperfetto, innanzitutto,

è il tempo caratteristico di tutte le formule introduttive delle fiabe. […] Questo tempo della formula iniziale è un segnale paragonabile ai noti “trois coups” del teatro francese; esso vuole dire: qui comincia il mondo narrato. Questo segnale temporale si differenzia però dai tre colpi del teatro francese in quanto tutti i tempi della fiaba rispondono al segnale iniziale come un’eco costante, che ci ricorda continuamente che noi viviamo in un mondo diverso da quello che ci circonda ogni giorno con tutti i suoi problemi158.

A partire da questo presupposto che lega l’imperfetto alla narrazione fantastica, Buzzati utilizza questo tempo verbale (e, nelle interrogative, il congiuntivo – modo dell’incertezza) per narrare la storia degli spiriti che una volta abitavano le foreste di San Nicola:

Tanti anni prima, nei boschi, si trovavano una specie di piccoli spiriti. Del Colle li aveva ben visti qualche volta. (p. 13) Del Colle tira fuori di tasca una piccola armonica. Una volta era ben così. Gli spiriti amavano quelle canzoni e dopo un po', se già era venuta la sera, comparivano tra i tronchi. (p. 13) Leggeri, leggeri, che siano tornati i piccoli spiriti con la loro faccia verde, che non fanno male ad anima viva? […] Che gli spiriti siano scomparsi, che abbiano di nuovo avuto paura? (p. 13) Erano tornati i tempi gloriosi delle leggende sulle montagne di San Nicola? […] Per ore e ore i montanari si raccoglievano ad osservare e attorno, come risuscitati, gli spiriti d'un tempo face-vano di notte la guardia al limite della foresta. (p. 64)

Dai primi due esempi, si può notare come l’uso della deissi contribuisca ad aumentare il livello fantastico della narrazione: Tanti anni prima, Una volta sono espressioni che, usate in questo

����������������������������������������������������������������H. Weinrich, op. cit., p. 62.�����Ivi, p. 65.��

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contesto – quello dei folletti che vivevano a stretto contatto con le presenze umane – non vogliono dire “un altro tempo, bensì un altro mondo, un mondo con un tempo suo proprio che corrisponde solo vagamente a quello dell’orologio e dove un sonno può durare per esempio sette anni”159.

Buzzati si serve dell’imperfetto anche per opacizzare i contorni della narrazione: esso, infatti, è il “tempo descrittivo per eccellenza: nella sua incompiutezza […] per la mancanza cioè di contorni precisi […]” esso serve a circoscrivere gli avvenimenti “in momenti più rievocativi”, a descrivere “un distacco dalla realtà”160. Nell’undicesimo capitolo si può osservare l’uso “opacizzante” dell’imperfetto da parte di Buzzati: ancora una volta, il soggetto preso da noi in considerazione è l’ascesa alla Cima della Polveriera da parte di Bàrnabo e Bertòn. L’incipit del capitolo, scritto al presente indicativo, ci pone in una posizione temporalmente e spazialmente vicina all’evento; sentiamo la discesa narrata come qualcosa che avviene davanti ai nostri occhi nel momento in cui leggiamo. Nel secondo paragrafo il narratore tuttavia cambia punto di vista, e comincia a narrare con l’imperfetto: il tempo verbale e la deissi tolgono al lettore la sensazione di trovarsi faccia a faccia con l’avvenimento, e la scalata sembra svolgersi in un tempo e in un luogo indistinti:

Bertòn e Bàrnabo sono tornati sulle crode, per la seconda volta, a cercare i nemici. Un fumo nero si era visto ancora, due giorni prima, sulla Cima della Polveriera. Eh, no, non era nebbia, tutti lo avevano guardato. Fumo di quel buono; e Bertòn e Bàrnabo, messi in turno di guardia alla polveriera, ne avevano approfittato per partire quella mattina diretti alla Cima161.

Buzzati intende creare una sorta di rottura nella narrazione: la deissi crea un forte distacco dal presente – logico sarebbe stato usare due giorni fa, ed ancora questa mattina in luogo di due giorni prima e quella mattina – mentre l’imperfetto e il trapassato prossimo collocano gli accadimenti, come abbiamo visto finora, in un tempo indefinito.

In ultima analisi, Buzzati usa l’imperfetto per esprimere la ripetitività delle azioni che si svolgono in campagna. Il quattordicesimo capitolo è aperto da una proposizione nominale – “Vita da contadini” – che viene spiegata dalle frasi all’imperfetto che la seguono: “Girava da solo la campagna per ore intere”; “Lavorava tutto il giorno”, “Di notte la cornacchia si metteva sopra un paletto […] e l’ombra della bestia si appoggiava sul letto di Bàrnabo addormentato”. Solo l’imperfetto – esprimendo un’azione ripetitiva che si svolge nel passato – può contribuire a spiegare la contrapposizione tutta interiore tra la vita di montagna, con le sue variazioni legate al tempo, e la vita di campagna, in cui tutto sembra ripetersi. È proprio per questo motivo che le azioni di Bàrnabo si confanno alla ripetitività della vita pianeggiante; è una risposta alla pari, la sua:

Nei primi tempi Bàrnabo cercava qualche cosa che ricordasse le montagne. Osservava persino i muri delle case confrontandole mentalmente con le grandi pareti. Stava dei minuti a contemplare dei sassi raccolti da terra che ingrandiva facilmente con la fantasia e sui quali immaginava difficilissime vie di salita162.

Se fin qui abbiamo analizzato l’uso dell’imperfetto nel testo narrativo, vorremmo ora passare a discutere sull’uso dell’altro tempo narrativo usato in Bàrnabo, il passato remoto.

���������������������������������������������������������������Ibidem.������Cfr. M. Fogarasi, op. cit. pp. 362-363. ����D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., p. 39.������Ivi, p. 56.��

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Roland Barthes, parlando di questo tempo verbale, ricorda come esso sia un verbo puramente narrativo:

Esso [il passato remoto] non ha più il compito di esprimere un tempo. Il suo ruolo è di riportare la realtà ad un punto, e di astrarre dalla molteplicità dei tempi vissuti e sovrapposti un atto verbale puro […]. Nella sua forma di passato remoto, il verbo fa implicitamente parte di una catena di cause, partecipa a un insieme di azioni solidali e orientate, funziona come il segno algebrico di un’intenzione […]. Esso presuppone un mondo costruito, elaborato, distaccato, ridotto a linee significative, e non un mondo buttato là, esibito, offerto. Dietro il passato remoto si nasconde sempre un demiurgo, dio o narratore [...]163.

Il narratore, attraverso il passato remoto, crea un mondo altro, completamente staccato da quello in cui stanno lui e il lettore. A differenza dell’imperfetto, in cui il lettore stesso non sa bene in che posizione temporale porre l’azione narrata, il passato remoto crea sostanzialmente un mondo a sé stante, senza connessioni col presente: “anche se usato nel più grigio realismo, esso rassicura, perché, grazie ad esso, il verbo esprime un atto chiuso, definito, sostantivato; il Racconto ha un nome, sfugge al pericolo di un linguaggio indeterminato”164. Non è un caso che in Bàrnabo delle montagne le narrazioni scritte col passato remoto siano spesso indipendenti rispetto alla storia centrale, molte volte incentrate su personaggi che non intrecciano in modo diretto le loro esperienze con quella del guardaboschi Bàrnabo, la cui storia, come abbiamo visto, è quasi sempre narrata al presente. È un fatto, questo, che viene notato anche da Franca Schettino, che pone l’accento della sua analisi sulla costruzione a frammenti imposta dal passato remoto, e, d’altro canto, sulla grande importanza di questo verbo all’interno dell’economia narrativa del romanzo:

En outre, le texte au passé simple semble n’etre qu’une succession de fragments […]. Les fragments les plus importants se situent dans les zones textuelles correspondant aux chapitres 15 et 16, ceux qui mentionnent sous forme de résumé les événements survenus en montagne au cours des quatre années qui ont suivi le départ de Bàrnabo pour la plaine165.

La storia di Montani, la decadenza della Casa Nuova, ed ancora l’incontro al secondo capitolo di Del Colle con i genitori di Darrìo dopo la morte del figlio, sono situazioni che emergono in Bàrnabo delle montagne proprio perché fanno parte di un passato altro, indipendente dal testo principale, seppur connesse alla narrazione da tempi commentativi: le parti al passato remoto sono infatti inserite in cornici date al presente indicativo o al passato prossimo166 in cui la presenza del narratore secondo (si tratta infatti di una narrazione-nella-narrazione, dal momento in cui a parlare nel romanzo sono dapprima Del Colle e poi Bertòn) è fondamentale per l’esistenza della storia stessa nel tempo presentificato della lettura.

����������������������������������������������������������������Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, Torino, Einaudi, 2003, pp. 23-24. ����Ivi, p. 25.������“Inoltre, il testo al passato remoto sembra non essere che una successione di frammenti […]. I frammenti più importanti si situano nelle zone testuali corrispondenti ai capitoli 15 e 16, che richiamano sotto forma di riassunto gli avvenimenti accaduti in montagna nel corso dei quattro anni che hanno seguito la partenza di Bàrnabo per la pianura”. F. Schettino, op. cit., p. 234. La traduzione è mia. �����Cfr. H. Weinrich, op. cit., pp. 87-94.�

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2.1.2. Il montaggio buzzatiano in Bàrnabo

Bàrnabo delle montagne, come abbiamo visto, è costruito prevalentemente su tempi verbali del tipo commentativo; la scelta di narrare visualizzando l’azione hic et nunc si impone con un rapporto di quasi 8:2 sull’uso di verbi del tipo narrativo, che “raccontano” l’azione dislocandola in un tempo e in un luogo altri rispetto a quelli in cui si trovano narratore e ascoltatore. Fermandoci a quest’analisi, sembrerebbe che il lettore di Bàrnabo sia continuamente coinvolto nella spannung che caratterizza i verbi di tipo commentativo (non dimentichiamoci che il narratore usa i tempi commentativi per creare uno stato di tensione nel suo interlocutore, per mantenere vigile l’attenzione dell’ascoltatore): se tuttavia ci soffermassimo sulla forte prevalenza dei tempi commentativi per dire che il testo in questione è caratterizzato dalle particolarità di questi ultimi tempi verbali, sbaglieremmo, dimenticando che un testo è – prima di tutto – una relazione, un reticolo di segni linguistici in cui i verbi hanno un ruolo di primo piano.

Dino Buzzati, discutendo con Yves Panafieu della costruzione del suo primo romanzo, parla – come abbiamo già più volte visto – della sperimentazione linguistica che caratterizza Bàrnabo delle montagne: secondo la sua opinione, la variazione dei tempi verbali darebbe al testo una sua peculiare vibrazione, tale da rendere uno strano saliscendi di piani e inquadrature interni al romanzo. Ma quella di Buzzati non è l’unica visione critica di Bàrnabo. Adottando una lettura ingenua del testo buzzatiano – ovvero lasciandosi trasportare dalla narrazione –, è possibile notare come il testo dell’autore bellunese non possa essere definito come una concatenazione di eventi più o meno attrattivi; in altre parole, scadrebbe la definizione del testo costruito come una “montagna russa”, in cui un movimento soggiacente fa risaltare certi avvenimenti rispetto ad altri. Franca Schettino, che tratta dello stato di meraviglia in cui si trova il lettore dopo la lettura di Bàrnabo, afferma che il potere del testo sta nella lingua in cui esso è scritto: il romanzo riuscirebbe infatti a mantenere vigile l’attenzione del lettore non solo perché visualizza in tempo reale gli avvenimenti (cosa che, come abbiamo visto, è facoltà dei verbi di tipo commentativo), ma anche perché – allontanandosi dalla volontà di presentare nel tessuto narrativo particolari picchi emotivi – la scrittura del romanzo diventa un flusso, un movimento, capace di attirare l’attenzione del lettore dall’inizio alla fine:

du texte lu/entendu/écouté/regardé, il ne reste que le souvenir d’une sensation auditive et visuelle. Dans l’esprit du lecteur il ne reste que le souvenir d’une mélodie et d’un mouvement : un mouvement mélodique. En effet, en analysant ce qui subsiste chez le lecteur, au plan de la mémoire sémantique, on s’aperçoit que la lecture laisse pour unique souvenir l’image d’un mouvement et l’écho du son d’une voix […]167 .

Secondo Schettino, questo movimento melodico interno al romanzo buzzatiano è molto importante, e fa accostare la lettura del testo all’esperienza della visione di un cartone animato, in cui, in modo parallelo, la particolare scrittura buzzatiana anima il contenuto del testo stesso.

����������������������������������������������������������������“Del testo letto/compreso/ascoltato/osservato, non resta che il ricordo di una sensazione uditiva e visuale. Nello spirito del lettore non resta che il ricordo di una melodia e di un movimento: un movimento melodico. In effetti, analizzando ciò che sussiste nella lettura, sul piano della memoria semantica, ci si accorge che la lettura lascia per unico movimento l’immagine persistente di un movimento e l’eco del suono di una voce […]”. F. Schettino, op. cit., p. 235. �

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Condividendo la visione di Schettino, a questo punto del nostro studio è possibile – ritornando alla nostra analisi del testo basata sulla distinzione tra verbi commentativi e narrativi – dimostrare come il romanzo sia effettivamente concepibile come un movimento, un flusso ininterrotto di immagini che dura dal primo all’ultimo capitolo168; d’altro canto, tenendo valida l’opinione buzzatiana secondo la quale il testo sarebbe comunque dotato d’una sua particolare vibrazione, sarà importante analizzare il romanzo dell’autore bellunese, e scoprire dove si nasconda l’oscillazione che contribuisce alla sua resa letteraria.

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Le relazioni verbali nel testo, o il testo come movimento unitario

Harald Weinrich dedica un intero capitolo del suo Tempus alle transizioni temporali. Secondo lo studioso tedesco, un testo è innanzitutto un messaggio inviato da un mittente (il narratore) al suo destinatario (l’ascoltatore, il lettore), costituito da una successione di segni ordinati in maniera lineare, cronologica. Inizialmente l’ascoltatore ha potenzialmente un’aspettativa infinita, perché non sa ancora ciò che il narratore dirà, mentre alla fine del testo il lettore stesso ha un’aspettativa pari allo zero, perché il narratore ha esaurito il proprio messaggio. La transizione è il passaggio da un segno all’altro nel corso dello svolgimento del testo; in maniera proporzionalmente diretta, il passaggio da un segno all’altro modifica lo stato di informazione del destinatario del testo perché ogni nuovo segno riduce le sue possibilità di aspettative. Secondo Weinrich, le transizioni sono la chiave di volta per poter comprendere al meglio la natura informativa di un testo (aumenta le aspettative del lettore, oppure mantiene la sua attenzione su un livello piano?); malgrado ciò, per utilizzare in modo efficace le transizioni, è necessario analizzare solo una piccola quantità omogenea di segni appartenenti al testo: le forme temporali dei verbi – dal momento che costituiscono una parte piccola all’interno del sistema testuale e soprattutto garantiscono un’alta frequenza all’interno del testo stesso – hanno le caratteristiche ideali per poter osservare la capacità del testo di relazionarsi col proprio lettore.

Bàrnabo delle montagne è costituito da 3067 forme temporali169 ; nel testo si hanno 3088 transizioni temporali, cifra che include le 21 transizioni che partono dal livello zero per legare ad esso il primo verbo di ogni capitolo. La rappresentazione grafica (orizzontalmente si segnano i tempi di partenza, verticalmente i tempi di arrivo) è questa:

���������������������������������������������������������������In questa sede non terremo conto della ricerca sull’aspetto aspetto musicale della scrittura di Bàrnabo, cosa che invece ha portato a compimento Fabio Atzori. Cfr. Fabio Atzori, Bàrnabo delle montagne: la magia del ritmo, in «Studi Buzzatiani» a. I, 1996, pp. 79-85. ���Allo stesso modo di Weinrich, abbiamo tralasciato dal nostro studio i congiuntivi, imperativi, infiniti, participi e gerundi.�

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Prima di passare a parlare delle transizioni temporali in Bàrnabo, è necessaria tuttavia un’introduzione sulla differenza tra transizioni di tipo omogeneo e di tipo eterogeneo all’interno di un testo. Le transizioni omogenee danno la compattezza ad un testo; usando una terminologia linguistica, ne garantiscono la testualità. A un livello massimo di transizioni omogenee corrisponde una massima testualità del testo. Considerando tuttavia un testo dalla testualità massima, dal momento che un testo è pur sempre un messaggio composto di segni disposti in maniera lineare, ogni forma sintattica del tipo omogeneo porterebbe con sé nel testo l’attesa di una simile forma sintattica, annullando in questa maniera le attese del lettore. Un testo costituito massimamente da transizioni omogenee sarebbe quindi povero d’informazione; per modificare lo stato d’informazione del lettore, il narratore utilizza quindi delle transizioni di tipo eterogeneo, ovvero delle scelte imprevedibili tra varie possibilità temporali. Si può dire, d’accordo con Weinrich, che il concetto di testualità e quello di informazione stanno quindi in rapporto inversamente proporzionale: ad una maggiore testualità corrisponde un minore grado di informazione, e viceversa. È possibile, in altre parole, pensare il testo come un grande mare: le transizioni omogenee danno una grande fermezza alla distesa acquatica, laddove tuttavia la mancanza di vento e di correnti lasciano al bagnante soltanto la possibilità di nuotare per qualche decina di minuti senza stancarsi; le transizioni eterogenee, al contrario, provocano increspature e onde sulla superficie del testo, portando surfisti e nuotatori esperti a divertirsi nelle sue acque (seppur con il pericolo di morire annegati per i principianti – ma fortunatamente crediamo che con un testo ciò non potrà accadere mai).

Ritornando alla tabella contenente le transizioni temporali in Bàrnabo, abbiamo evidenziato le transizioni omogenee nella prospettiva linguistica (in verde) e nell’atteggiamento linguistico (in giallo). All’interno della prospettiva linguistica, che vede il narratore adottare una diversa temporalità per segnalare dove il messaggio aderisca alla realtà, oppure far notare come il massaggio stesso faccia riferimento a qualcosa già passato o che deve ancora avvenire, sono omogenee queste transizioni: a) grado zero � grado zero; b) informazione recuperata � informazione recuperata; c) informazione anticipata � informazione anticipata. Si può notare dalla matrice posta sopra come il numero delle transizioni omogenee non sia fortemente dominante sul numero delle transizioni eterogenee: 1945 contro 1145, in un rapporto di 6:4. Ciò significa che, con una buona probabilità di trovare transizioni eterogenee (quasi il 40%), il narratore sceglie di attirare l’attenzione del lettore proponendogli molte volte informazioni che passano volentieri da un grado zero ad un’informazione recuperata o anticipata, e viceversa.

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Diverso è il risultato legato all’atteggiamento linguistico, che interessa maggiormente la nostra analisi dal momento che esso è maggiormente legato alla dicotomia tempi commentativi/tempi narrativi. Come si può vedere dalla tabella, abbiamo evidenziato in giallo le transizioni omogenee, che rendono possibili due tipi transazionali: a) mondo commentato � mondo commentato; b) mondo narrato � mondo narrato. Le transizioni che vedono passaggi dal mondo I al mondo II (o viceversa) sono dette eterogenee, e sono visibili in tabella perché marcate dallo sfondo bianco. Il numero delle transizioni omogenee nel romanzo buzzatiano è altissimo: 2655 contro 433, per un rapporto di 9:1; da questi dati, ne consegue che – diversamente dalla prospettiva linguistica – l’atteggiamento linguistico di Bàrnabo delle montagne tende ad essere conservativo, incentrato soprattutto sulla volontà di mantenere una forte testualità del racconto. Sotto questo punto di vista, perde di valore l’affermazione buzzatiana citata da noi inizialmente, secondo la quale il tessuto narrativo del primo romanzo sarebbe costituito da un sistema temporale che – grazie alla sua capacità di saltare da un piano all’altro del tempo – darebbe un’ “estrema vibrazione al racconto”; il nostro studio basato sulla posizione delle transizioni temporali nel testo buzzatiano è incline quindi a dimostrare la tesi di Franca Schettino, secondo la quale il romanzo di Buzzati sarebbe un movimento musicale unico, capace di colpire il lettore proprio per questa sua uniformità.

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Le oscillazioni nell’unicuum: l’importanza dei soggetti nelle proposizioni di Bàrnabo

Malgrado l’affermazione di Buzzati riguardante la continua variazione dei tempi verbali in Bàrnabo sia stata da noi contestata con la teoria delle transizioni temporali, non deve tuttavia essere sottovalutata la visione dell’autore bellunese secondo la quale la scrittura del romanzo porrebbe agli occhi del lettore una storia dal forte sapore cinematografico, con continui salti da un piano all’altro, da una visione all’altra. Si noti, per esempio, questa pagina tratta dal testo, che ci serve per esemplificare una situazione che si ripete nell’intero romanzo:

La cassa, a forza di batter chiodi, è fabbricata; ma è riuscita alquanto piccola e il cadavere ci sta dentro con le spalle strette. I guardiaboschi prendono il feretro e a spalla lo portano su per le ghiaie in una giornata che ha delle nubi grigie molto più alte delle montagne. C'è qualcuno che li sta a guardare? Qualcuno, non visto sull'orlo della foresta, che ha paura di farsi vedere? Adesso però nessuno li può osservare; i guardiaboschi sono entrati nel ripido canalone, chiuso e solitario. I sassi rotolano rimbombando ma nessuno apre bocca per parlare. La cassa è diventata pesante. Ancora qualche metro e la fatica sarà terminata. Infatti si trova a destra, nella parete, il buco dove la cassa viene introdotta completamente. Un gran sasso sull'apertura170.

I tempi verbali vedono in tutto il frammento da noi scelto la variazione di soli tempi commentativi; in quest’uniformità data dai tempi verbali, Buzzati sceglie ingegnosamente di continuare a cambiare l’oggetto delle sue inquadrature: le azioni non si concentrano mai per troppo tempo (parliamo sempre di segni disposti linearmente, cronologicamente, da un punto zero, l’inizio, a un punto zero, la fine) su un unico soggetto, e così facendo il narratore porta in modo molto veloce – proposizione dopo proposizione – il suo lettore su livelli spaziali sempre diversi.

La sintassi spezzata aiuta a delimitare ogni singola proposizione, in modo tale che le azioni narrate da un’interruzione forte all’altra siano viste dal lettore non come contemporanee all’interno del ����������������������������������������������������������������D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., p. 16.�

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periodo, ma come susseguenti l’una all’altra. Attraverso questo particolare uso stilistico, Dino Buzzati arriva a nostro parere anche a rappresentare le sensazioni legate allo scorrimento del tempo in montagna; spesso, infatti, interi capitoli sono costruiti a blocchi, in cui lo svolgimento delle azioni è inserito nella particolare cornice costituita da fattori ambientali che scandiscono gli episodi.

Si veda quest’esempio tratto dal terzo capitolo:

Su per la strada, appositamente costruita, per dove possono passare anche i muli, arriva molta gente. É una domenica di luglio, piena di sole. Gli uomini hanno il vestito di festa e le donne tutte a colori. Anche i guardiaboschi si son fatti la barba e sfoggiano la divisa nuova. Del Colle è fuori, sopra una comodissima panca, e racconta di quando c'era ancora l'Ermeda e faceva suonare la banda […] La spianata è a mezzogiorno, tranquilla; il bosco ogni tanto mormora e si vedono benissimo tutte le grandi crode […]. Del Colle farà sentir lui ora delle vecchie musiche, quelle di una volta, che non lasciano dimenticare la giovinezza. Anche lui è andato a prendere l'armonica. Tranquillità del po-meriggio, bandiere che sventolano al sole; la festa è appena cominciata, ce ne sarà per tutta la sera. […] Il sole è piegato un po' verso occidente ma nessuno se n'è accorto […]. In mezzo al bosco di abeti e di larici, il sole si è affievolito e tra poco scenderà dietro il Col Verde. Anche le montagne, col tempo, sono cambiate. Tanti anni prima, nei boschi, si trovavano una specie di piccoli spiriti. Del Colle li aveva ben visti qualche volta […]. Suona e suona e intanto il sole è disceso. Un piccolo rumore, un ramo che si spezza e cade, urtando sulle finissime foglioline ammucchiate per terra. […] C'è la Casa dei Marden che nell'oscurità può sembrare nuova, c'è la foresta tranquilla, ci sono i profumi della sera171.

In questo e moltissimi altri brani del testo, il narratore utilizza frequentemente delle proposizioni temporali che scandiscono la durata dei capitoli (si noti per esempio come inesorabilmente si passi in maniera progressiva dal mattino pieno di sole alla sera in cui ormai il sole è solo un ricordo), e spesso – proprio nella maniera in cui il tempo passa in montagna – incanalano lunghi periodi di tempo in momenti brevi, e viceversa 172.

La variazione dei soggetti all’interno del periodo non è tuttavia l’unica scelta stilistica di Buzzati finalizzata a riprodurre particolari “stacchi di montaggio”; all’interno di Bàrnabo delle montagne è possibile notare anche un frequente uso della variatio utilizzata dall’autore bellunese non soltanto per evitare ripetizioni interne al periodo, ma anche per far visualizzare al lettore in modo sempre diverso gli stessi soggetti che compiono le azioni in successione:

Molo, Durante, Montani e Fornioi stanno per partire. Gli altri ancora riposano al caldo e sentono dei rumori, delle voci giù nella cucina. I partenti staranno preparando il caffè. Trafficano un po' sommessi, poi di nuovo silenzio. Al momento della partenza le voci si alzano e gli scarponi fanno rumore di ferro sulle pietre dell'ingresso. Ancora qualche parola che non si capisce. Le voci si allontanano verso il bosco, insieme con il suono dei passi sordi e pesanti. Ma niente. Per quanto abbiano cercato per tre giorni facendo quasi il giro dell'intera catena di montagne i quattro guardiani non hanno trovato traccia degli assassini173.

����������������������������������������������������������������Ivi, pp. 11-14.������Non è un caso che, intese come degli indicatori di tempo, tali proposizioni abbiano all’interno termini caratterizzati da alte frequenze: è, per esempio, il caso di “sole” [63 occorrenze] e “sera” [53 occorrenze].������D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., p. 21. �

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La scrittura di Buzzati procede per dettagli, personificazioni e sinonimi per “smembrare” le figure singole dei suoi personaggi, così da rendere – in modo molto vicino al fumetto e all’opera cinematografica – visioni multiple e quindi incasellabili in più inquadrature immaginarie:

Franze ha finito le cartucce. I quattro gli sono vicini. Due di essi lo tengono a bada, minacciandolo con gli schioppi. Gli altri con un pietrone si gettano contro la porta della Polve-riera, cercando di aprire un varco. Gli spari sono cessati e nel vasto silenzio si sperde il rumore sordo dei colpi contro l'uscio, insieme con voci alterne. Così i briganti riescono a entrare nel deposito e dopo pochi istanti ricompaiono con alcuni sacchetti che si affrettano a nascondere nelle tasche. Allora verso il Palazzo si alza un grido di allarme. È Bertòn che viene in soccorso. […] Prima che egli si sia avvicinato, gli stranieri si ritirano verso la sommità del ghiaione e ri-cominciano la sparatoria174.

A contribuire alla forma-montaggio della scrittura buzzatiana partecipa inoltre la costruzione

ternaria della frase (tre aggettivi o verbi per un nome, tre nomi per un elenco, tre proposizioni in una frase), quantitativamente molto presente all’interno del corpus di Bàrnabo. In particolare, colpisce come essa sia utilizzata per rappresentare avvenimenti e descrizioni sempre in modo diverso – dando loro a volte un ritmo serrato, altre volte portando il lettore ad indugiare su ogni elemento della frase, come se lo scrittore volesse accostare le immagini similarmente alle vignette del fumetto, senza spiegazioni tra un’inquadratura e l’altra. Si faccia attenzione (ma gli esempi che si possono estrarre da Bàrnabo sono davvero moltissimi!) ai brani riportati qui sotto, e all’effetto marcato di stacco di montaggio creato dalla costruzione buzzatiana della frase: la costruzione ternaria utilizzata da Buzzati descrive le scene – quasi in fermo immagine, in ralenti – che portano Del Colle ad avere la meglio in uno scontro fisico con un bandito davanti alla Casa dei Marden; in tre passaggi fa intuire al lettore il passaggio dal giorno alla sera (cosa che avviene effettivamente molto velocemente, ribadendo il concetto del tempo vissuto in montagna); inquadra un paesaggio fornendo particolari inquadrati singolarmente; addirittura – in maniera quasi sinestetica – descrive, con tre elementi, alcuni particolari di una stanza, nel buio, che colpiscono idealmente il lettore per quanto riguarda l’aspetto visivo, olfattivo e uditivo:

Ma Del Colle ha già afferrato l’altro per le spalle, l’ha buttato a terra, gli stringe il collo. (p. 14) Le ombre hanno riempito le foreste, salgono per i ghiaioni, le poche nubi si dileguano nell’azzurro. (p. 30) Strada della pianura, un grande polverone, gli alberi ormai gialli. (p. 53) Ci sono i lumi a petrolio in ogni stanza, l’odore dell’abete fresco e il tic tac dell’orologio. (p. 23)

Allo stesso modo della costruzione ternaria, Buzzati utilizza in Bàrnabo anche l’accumulazione; a differenza però della costruzione ternaria, sviluppata spesso dall’autore bellunese su frasi nominali, l’accumulazione tende ad essere costruita prevalentemente in periodi contenenti proposizioni verbali: l’effetto non richiama più il ritmo secco della costruzione con tre elementi (vale a dire il particolare risultato di stacco di montaggio), e il periodo subisce un rallentamento forte. Si vedano i seguenti esempi:

La strada doveva salire per il Vallone delle Grave, poi piegare a sinistra, costeggiare le rocce del Palazzo, toccare la catena del Pagossa e sorpassare infine il Col Nudo. (p. 4)

����������������������������������������������������������������Ivi, pp. 41-42.�

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È allora che sui fianchi di una croda, poco sopra il punto dove la strada dovrebbe passare, trovano una specie di grotta, l’adattano a polveriera, la chiudono con un muro e ci mettono i guardiaboschi a fare il servizio di guardia. (p. 4) Si vede la cornacchia scuotersi improvvisamente, poi riprendere i colpi d’ala, alzarsi a poco a poco nell’aria, allontanarsi sempre di più. (p. 57) Senza dire niente a nessuno, egli prese molte cartucce. Salì attraverso i boschi, oltrepassò la polveriera, toccò con incredibile fatica la sommità delle ghiaie, oltrepassò la forcelletta e scese nell’altro versante. (p. 63)

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2.2. Mario Brenta e l’appropriazione cinematografica di Buzzati

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Molti critici si sono concentrati sul dibattito teso a indagare le ragioni d’esistenza dell’adattamento cinematografico: alcuni di essi hanno posto serie questioni sul fatto che – moralmente – lo sceneggiatore di un film non abbia il diritto di adattare per il grande e piccolo schermo un testo letterario; altri, superato il problema del “diritto ad adattare”, hanno invece posto la questione della fedeltà:

«In realtà nel cinema tutto è adattamento», e «non so che cosa voglia dire, in questo campo, la parola “diritto”, la morale estetica ritorna in sottili gerarchie: si considererà un adattamento degno di questo nome soltanto quello che si basa su un “grande” testo letterario; l’adattamento troppo sottomesso al testo “tradisce il cinema”, l’adattamento troppo libero “tradisce” la letteratura; solo la “trasposizione” […] non tradisce né l’uno né l’altra, collocandosi ai confini di queste due forme di espressione artistica»175.

Giorgio Tinazzi, rifacendosi al problema della fedeltà dell’adattamento all’opera originaria, fa notare come non esista una possibilità unica di derivazione letteraria, e sottolinea come i termini per designare tale derivazione siano molteplici, a seconda dell’approccio dello sceneggiatore al testo originario. Secondo il critico, per esempio, si può parlare di illustrazione quando si pone l’attenzione sull’appiattimento del testo, senza un’interpretazione da parte di colui che scrive l’adattamento; al contrario, l’adattamento diventa lettura quando esso sembra voler presupporre un riesame dell’opera letteraria, pur intrattenendo con l’opera stessa anche una dipendenza; la trascrizione, invece, pone il problema dell’adattamento in quanto passaggio tra codici diversi, interrogandosi su analogie e differenze tra i due testi. Continuando in questo modo, analizzando le molteplici modalità di adattamento, è possibile – secondo Tinazzi – notare come “ogni termine tende a perdere significati univoci acquistando necessariamente una dose di ambiguità”176, alimentando in questo modo il bisogno di specificare in maniera sempre più analitica, quantitativamente, il livello di avvicinamento o allontanamento dell’adattamento dall’opera letteraria, ma perdendo d’altro canto il bisogno di studiare le modalità con cui l’adattamento si avvicina o si allontana dal testo originario.

Nel confronto tra la sceneggiatura e il film di Mario Brenta con il Bàrnabo delle montagne di Dino Buzzati che proporremo in questa sede, sarà pertanto nostro compito definire non tanto quanto la sceneggiatura e il film siano diversi dal testo buzzatiano – cercando di definire, o meglio, inserire l’adattamento di Mario Brenta e Angelo Pasquini all’interno della sua “famiglia di appartenenza” – bensì ci occuperemo di analizzare dove gli sceneggiatori siano più o meno vicini alle modalità di scrittura di Buzzati: attraverso le modalità di analisi testuale fornita da Weinrich con cui abbiamo analizzato il testo buzzatiano nei paragrafi precedenti, vedremo se il tempus maggiormente commentativo del libro corrisponde al tempus della sceneggiatura e al tempus del film; successivamente, vedremo dove la sceneggiatura ed il film si caratterizzano rispetto al testo buzzatiano.

����������������������������������������������������������������Alain Garcia cit. da�Francis Vanoye, La sceneggiatura – forme dispositivi modelli, Torino, Lindau, 1998, p. 131. �����Cfr. Giorgio Tinazzi, La scrittura e lo sguardo, Venezia, Marsilio, 2007, pp. 70-71.��

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2.2.1. Il tempus della sceneggiatura, il tempus del film

Ad una prima lettura della sceneggiatura di Bàrnabo scritta da Brenta e Pasquini, si nota come a predominare nel testo sia la sintassi paratattica che contraddistingue anche il testo di Buzzati; scorrendo il corpus dell’adattamento, è possibile vedere inoltre come il lessico utilizzato nella sceneggiatura sia essenzialmente lo stesso del testo buzzatiano, fatta eccezione per la parte relativa all’esilio del protagonista nei campi del Bersaglio, parte – come già visto nei paragrafi precedenti – largamente inventata dai due sceneggiatori. Adottando una lettura più attenta della sceneggiatura di Bàrnabo delle montagne, si possono tuttavia notare alcune importanti differenze relative ad alcune sequenze narrative che sono presenti nel testo di Buzzati ed invece assenti nel trattamento di Brenta e Pasquini; tali discrepanze tra i due testi sono dovute, secondo la nostra opinione, al differente uso dei tempi verbali all’interno del testo originario, che tende – come abbiamo già analizzato – a presentificare nell’hic et nunc molte sue pagine (o meglio, a rendere testimone delle cose narrate in esse il lettore) e a congelarne altre in un mondo “fuori dal tempo”.

Prendendo in esame la sceneggiatura di Brenta e Pasquini, è possibile notare come essa sia costituita quasi interamente da tempi verbali del mondo commentativo177. All’interno dell’universo degli scritti per il teatro e per il cinema non è tuttavia un caso che ciò accada, dal momento che:

le sceneggiature cinematografiche, sia quelle costruite come progetto scritto che quelle ricavate da un testo filmico già esistente con finalità analitiche, usano i tempi commentativi, e soprattutto il presente, per descrivere gli elementi compositivi di un racconto, di una storia. Si rifanno a un’immagine e alla sua istanza presentificante certi contenuti oggettuali: la descrivono come se che ne parla la vedesse […]. Si comportano come strumenti di lavoro con finalità mnemoniche [progettuali o di trascrizione] e, dovendo conservare una traccia transcodificata il più vicino possibile all’originale [presente, futuro o passato], scelgono la via semiotica di un iconismo concettuale tra sistemi diversi di significazione: alla mostra dell’immagine contrappongono il presente del verbo; all’astanza dello schermo il segno del tempo verbalmente collegato alla compresenza tra chi guarda e chi è guardato178.

Colui che scrive la sceneggiatura si ritrova ad utilizzare i tempi commentativi perché, in altre parole, deve commentare – scrivendo – l’immagine che si fa viva, presente, davanti ai suoi occhi, nella sua immaginazione. Trattando della sceneggiatura del testo buzzatiano, è proprio lo stesso Brenta a chiarire quanto fosse importante trascrivere quasi immediatamente ciò che, dopo la lettura del romanzo, era ancora impresso nella memoria: “Abbiamo lavorato su questa sceneggiatura in modo un po’ particolare: cioè letto il libro – letto riletto e riletto, basta. Il libro si mette via, non si guarda e si lavora sulla memoria del libro”179.

Dalle parole di Mario Brenta, sembrerebbe quindi che a “segnare” la memoria, l’attenzione, al momento della scrittura dell’adattamento di Bàrnabo, siano stati, nel testo buzzatiano, soltanto alcuni passaggi rispetto ad altri meno importanti; basandoci su quest’intuizione, abbiamo proceduto nel nostro studio con un’analisi incrociata della sceneggiatura e del romanzo di Buzzati, scoprendo ����������������������������������������������������������������A questo proposito si veda il confronto tra la sceneggiatura e il testo di Buzzati in Appendice, pp.111 – 143.����Gianfranco Bettetini, Tempo del senso – la logica temporale dei testi audiovisivi, Milano, Bompiani, 1979, pp. 103-104.�����Vedi Intervista del 26 aprile 2012 a Mario Brenta in Appendice, p. 150.�

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che la costruzione dell’adattamento cinematografico si fonda quasi esclusivamente su parti del testo originario appartenenti temporalmente al mondo commentativo180. Si è già molto discusso sulle capacità dei tempi commentativi di attirare l’attenzione del lettore, a causa della capacità intrinseca di trasportare direttamente il destinatario del messaggio nel mondo e nel tempo del mittente; a questo proposito è proprio lo stesso Brenta a spiegare che

una trasposizione non è un luogo di “tengo le parti che già si propongono più fattuali e elimino quelle concettuali”, perché la sostanza, quella vera, che decide dello spirito dell’opera, sta riposta in cassetti un po’ segreti. Certe volte è proprio in quello che i personaggi pensano, in un certo giudizio che è espresso dall’autore stesso che spesse volte commenta la storia. Molto sta anche nello stile, cioè nella scrittura: come si decide di scrivere una storia.

Non è quindi (soltanto) l’aspetto della storia che investe il personaggio del guardaboschi Bàrnabo nel testo originario ad interessare Brenta, ma la capacità del narratore di “entrare” nel testo – giudicandolo – mentre questo si sta svolgendo, enfatizzando la sensazione di presentificazione della storia data dall’uso dei verbi di tipo commentativo.

Malgrado un elevato grado di fedeltà al testo di partenza, la sceneggiatura di Mario Brenta si costruisce – a livello di intreccio – in maniera differente dal racconto buzzatiano. Abbiamo visto precedentemente come un grande flashback porti la narrazione filmica a cambiare continuamente i piani della narrazione alternando le vicende di Bàrnabo tra la campagna e la montagna, scardinando in questo modo l’unità di fabula e intreccio che caratterizzava il romanzo originario di Dino Buzzati; in questa sede, la nostra attenzione si focalizza tuttavia sulla vicenda che apre il film di Brenta: l’omicidio di Darrìo. L’episodio posto in apertura di pellicola è importante per il regista veneto perché si costruisce come pretesto per l’arruolamento di Bàrnabo nel corpo dei guardaboschi: Darrìo, morendo in modo eroico, diventa exemplum per il giovane soldato, che ne vorrebbe emulare le gesta.

Oltre ad essere evidenziata all’interno della pellicola in quanto precedente i titoli di testa, la vicenda di Darrìo è l’unica sequenza nella sceneggiatura ad essere linguisticamente diversa dalle altre. La sequenza di Darrìo è, innanzitutto, una delle poche all’interno dello scritto di Brenta e Pasquini ad essere ripresa (in parte) dal mondo temporale del Bàrnabo buzzatiano prettamente narrativo; a segnalare tuttavia la sua diversità dalle altre sequenze in sceneggiatura è la presenza in essa di soli verbi narrativi, all’imperfetto e al trapassato prossimo:

���������������������������������������������������������������Si veda in appendice la tabella in cui confrontiamo i passi più importanti del l’adattamento di Brenta e Pasquini con le parti corrispondenti del Bàrnabo buzzatiano.��

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Mario Brenta, attraverso la scelta di un tempo verbale che si discosta dal resto dell’adattamento, dà una forte autonomia a questa parte di sceneggiatura: ancora una volta, l’imperfetto relega la situazione narrata in un tempo e un mondo altri rispetto a quello restante nel trattamento, presentificato dal rapporto dialogico narratore-lettore; ne consegue che, anche all’interno del film, la scelta stilistica di tradurre con verbi prettamente narrativi la vicenda di Darrìo, esalta l’incipit della pellicola e, in un certo qual modo, isola l’accadimento della morte del guardaboschi in maniera quasi letteraria (fattore che viene esaltato dalla posizione peculiare dell’episodio, posto prima dei titoli di testa annuncianti i titoli di testa principali), in un mondo altro rispetto a quello in cui vivranno poi – lungo la fabula filmica – Bàrnabo e i compagni guardaboschi.

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2.2.2. Il mondo commentativo e narrativo nella pellicola di Mario Brenta

Come abbiamo visto, la sceneggiatura cinematografica è una situazione comunicativa letteraria che predilige l’uso dei verbi commentativi, dal momento che essi consentono di “congelare” sulla carta le immagini che – create dalla mente del regista o dello sceneggiatore – sono finalizzate a creare una storia più o meno unitaria, comunque adatta ad essere trasposta sul grande o piccolo schermo. Il dibattito critico sulla dignità letteraria della sceneggiatura cinematografica ha sempre posto il problema della sua impossibile autonomia dal prodotto finale, la pellicola stessa. Ingmar Bergman, come ricorda Giorgio Tinazzi nel suo saggio dedicato al rapporto tra cinema e letteratura, considera la sceneggiatura una “base tecnica imperfetta”181; Michelangelo Antonioni, approfondendo il rapporto parola scritta – immagine, si esprime in maniera più dettagliata:

Ecco il limite delle sceneggiature: dare parole a eventi che le rifiutano. Sceneggiare è un lavoro veramente faticoso, appunto perché si tratta di descrivere con parole provvisorie, che poi non serviranno più delle immagini, e già questo è innaturale. La descrizione non può essere che generica o falsa addirittura perché riguarda immagini prive molto spesso di riferimenti concreti. […] La sceneggiatura è una fase intermedia, necessaria ma transitoria.

���������������������������������������������������������������G. Tinazzi, op. cit., p. 64.��

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[…] Un film non impresso sulla pellicola non esiste. I copioni presuppongono il film, non hanno autonomia, sono pagine morte. […] La sceneggiatura è un punto di partenza non un percorso fisso […]. Nella sceneggiatura si descrivono scene immaginarie, ma è tutto come sospeso a mezz’aria […]. La sceneggiatura è solo una serie di appunti per il film.182.

Il dibattito – che coinvolge un numero molto grande di registi, sceneggiatori e critici cinematografici: Eric Rohmer, Tonino Guerra, Erwin Panofsky sono solo alcune tra le personalità fondamentali citate da Tinazzi – si accende soprattutto sulla questione dell’autonomia: il copione non sarebbe in grado di “sopravvivere” alla lettura perché si limita a descrivere immagini; il film, d’altro canto, si pone in un universo soltanto suo, posizionato davanti al pubblico pagante seduto nella sala buia. Posto in termini linguistici, il problema che si pone parlando di autonomia di copione e pellicola vede la nascita di due mondi opposti: da un lato la sceneggiatura è finalizzata a presentificare le immagini attraverso l’uso temporale dei verbi, mettendo sullo stesso piano narratore e lettore; attraverso il film invece il regista vuole dare allo spettatore un’impressione totalmente diversa, l’impressione di guardare un mondo al di fuori della propria temporalità e spazialità. In altre parole, attraverso il film, il regista allaccia con lo spettatore un rapporto non tanto dialogico, bensì narrativo. Si potrebbe – giustamente – opporre a questa tesi che tutte le pellicole “esibiscono il loro racconto, ma non possono fare a meno di esibire anche… la loro stessa esibizione: l’esibizionismo, infatti, è all’ordine del discorso e si struttura sul “gioco delle identificazioni incrociate, sul va-e-vieni… dell’io e del tu”183; malgrado ciò, non si può non notare che, nella maggior parte dei film,

i testi del cinema […] mascherano l’aspetto commentativo, le loro modalità di enunciazione discorsiva, e tendono a manifestarsi come racconto puro, come storia, alla quale lo spettatore “assiste” [e Metz individua molto bene il doppio significato di questa “assistenza: visione e, nello stesso tempo, aiuto offerto al film perché possa “essere”, perché possa nascere e manifestarsi come evento comunicativo]; […] ora, l’io del film non è che il soggetto della sua enunciazione, il quale si nasconde, è assente: il film si fa guardare, ma non guarda lo spettatore mentre lo guarda; sa che lo spettatore lo guarda e non lo vuole sapere. Secondo Metz, è proprio questa “negazione fondamentale” che ha indirizzato il cinema classico verso le vie del racconto: l’istituzione cinematografica, l’istanza discorsiva […] è consapevole di questo sguardo, di questa esibizione; il testo, invece, non ne vuole sapere e si costituisce in un racconto chiuso, in una storia184.

Se un qualunque testo scritto rende esplicita la sua costituzione temporale attraverso la costruzione commentativa e narrativa data dai tempi verbali, un testo audiovisivo si costituisce agli occhi dello spettatore come una medaglia a due facce: da un lato è sempre osservabile l’istanza narrativa della pellicola (come abbiamo visto poco sopra realizza la finalità del cinema stesso), “che si attua in una mostra al presente dell’oggettualità dinamica destinata a significare”185; dall’altro lato si possono notare nel film le tracce discorsive che il soggetto dell’enunciazione (il regista, il montatore della pellicola, colui che sta dietro la macchina da presa) lascia visibili nella sua volontà di rendere trasparente l’esibizione del racconto. ���������������������������������������������������������������Michelangelo Antonioni, Fare un film è per me vivere – Scritti sul cinema, Venezia, Marsilio, 1994, p. 65 e 147.����G. Bettetini, op. cit., p. 100. ����Ibidem.�����Ivi, p. 102.�

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Gianfranco Bettetini, discutendo del mondo narrativo negli audiovisivi, si sofferma su un aspetto importante della temporalità verbale, a sua volta trattato in maniera esauriente da Harald Weinrich: il rilievo narrativo. Lo studioso tedesco fa notare come, all’interno dell’universo temporale narrativo dei testi, il narratore tenda a porre gli eventi principali della narrazione al passato remoto, mentre si riferisca agli eventi secondari – o meglio, gli eventi che costituiscono la cornice del racconto – scrivendo di essi nel tempo dell’imperfetto. Ne consegue che, all’interno del flusso testuale, l’articolazione di questi due diversi tempi dà al testo un certo rilievo narrativo, che attrae o rilassa l’attenzione del lettore a seconda del tempo verbale utilizzato. Secondo Bettetini, è possibile riscontrare questa tecnica narrativa anche all’interno delle pellicole cinematografiche, “isolando” all’interno del montaggio filmico i primi piani (attenzione maggiore) e gli sfondi (cornice), in modo tale da esaminare infine come queste due tecniche di inquadratura vadano ad accostarsi.

Analizzando le singole inquadrature del film di Mario Brenta, e osservando successivamente il modo in cui esse sono accostate dal regista, è possibile notare come Bàrnabo delle montagne non sia caratterizzato da un significativo rilievo narrativo: spesso, infatti, l’avvicendamento di primi piani e di campi larghi non è dato per contrasto, ma per comunanza di tipologia. È possibile notare questa scelta registica, per esempio, nelle scene in cui Bàrnabo e Bertòn si ritrovano a scalare le montagne alla ricerca dei banditi, oppure nelle sequenze girate in interni – dove, probabilmente per necessità, sono accostate le stesse tipologie di inquadratura. Facendo tuttavia attenzione alle costanti stilistiche di scelta dell’inquadratura/scelta di montaggio da parte di Mario Brenta, si può vedere come il regista stesso scelga di attirare l’attenzione dello spettatore con tecniche finalizzate a portare in rilievo nel tessuto narrativo del testo filmico alcune immagini rispetto ad altre: ci riferiamo a procedimenti – del tutto buzzatiani – quali la ripetizione e l’accumulazione di inquadrature tra loro giustapposte. Attraverso l’uso di queste due tecniche di montaggio (la ripetizione replica un’immagine in inquadrature distanziate temporalmente, del tutto simili o comunque leggermente differenti; l’accumulazione, d’altro canto, propone la stessa modalità di inquadratura di oggetti diversi in una sequenza ravvicinata), il regista di Bàrnabo delle montagne intende a tutti gli effetti attirare l’attenzione dello spettatore – quasi a livello inconscio – su oggetti-chiave e situazioni che diventano molto importanti per la storia narrata all’interno del film:

tutto prende un particolare rilievo, c’è una sorta di epurazione della visione: la memoria visiva ci riporta quelle immagini diciamo significative mentre altri aspetti vengono tralasciati; tra le immagini significative ci possono essere anche gli oggetti, anche cose che abitualmente non hanno una grande importanza ma all’interno di un percorso esistenziale che uno ha certe cose sono determinanti. Nella fattispecie diciamo il fucile: il fucile diventa una sorta di metonimia del personaggio, non c’è mai della psicologia qui dentro, è attraverso l’uso e il non uso del fucile, il buon e il cattivo uso del fucile che noi capiamo quali sono i moti interiori dell’animo non solo di Bàrnabo ma anche degli altri personaggi, e poi anche delle altre cose, che sono degli oggetti di uso comune ma che all’interno di una particolare costruzione prendono una rilevanza simbolica. Trovo anche interessante questo, perché la simbologia, quand’è scontata – nelle allegorie – i simboli sono già codificati come tali, riconosciuti, etc., mentre è interessante inventare il simbolo, cioè trovare nella realtà una particolare circostanza per cui un oggetto che è, così – non voglio dire insignificante – ma di uso normale trascende sé stesso con una significazione molto più ampia […]186.

���������������������������������������������������������������Vedi intervista a Mario Brenta in Appendice, p. 145.

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Non è un caso quindi che, tra i tanti esempi che si possono estrapolare dalla pellicola, la mdp si ritrovi ad indugiare più volte – ripetendo le modalità di ripresa – su oggetti quali la cornacchia, prima animale morto a causa dell’irruenza di Molo, poi compagno di esilio di Bàrnabo, inizialmente trovato morente sui ghiaioni (fot. 1 e 2); i bicchieri di vino, presenti quando nel film accade un episodio nuovo: la morte di Del Colle, il cambiamento di vita di Bàrnabo quando passa in campagna, l’arrivo degli emigranti al Bersaglio (fot. 3 – 5); la facciata dell’osteria – che segna l’apertura del film nell’ambiente delle campagna e il ritorno a quest’ambiente dopo l’excursus nel paesaggio montano (fot. 6 e 7), ed il fucile (fot. 8 e 9), quest’ultima vera e propria “chiave di lettura del testo”, dal momento che – inquadrato – esso si pone come incipit alle nuove situazioni che si pongono all’interno della storia (l’arruolamento di Bàrnabo e l’uccisione di Darrìo, la negatività nella caserma dopo la morte di Del Colle, la nostalgia di Bàrnabo per la vita di montagna durante l’esilio in campagna).

Nel film si può notare anche come Brenta accosti elementi per creare il mood della storia: qui abbiamo evidenziato la sequenza in cui Bàrnabo, tornato sulle montagne dopo l’esilio in campagna, si ritrova solo nella ormai disabitata Casa Nuova (fot. 10 – 12); in altre sequenze, invece, l’accumulazione di immagini fisse sembrano invece riproporre in chiave visiva il fantastico di Buzzati, specialmente nella parte di film riguardante lo scoperchiamento del tetto da parte del vento (fot. 13 – 15) e gli istanti che precedono la morte di Del Colle (fot. 16 – 18).

L’accostamento di immagini strutturate in modo simile viene usato da Brenta anche per far emergere nel film le principali linee guida. In particolare, polarità come vecchio-giovane, uomo-donna, adulto-bambino sono sottolineate grazie a particolari inquadrature dei personaggi appartenenti ai due mondi; il regista, inoltre, si serve di intere sequenze (il ballo iniziale, la gara di tiro al piccione e scene corali in campagna) per esaltare il contrasto degli accostamenti.

Negli estratti dal film di Brenta, i fotogrammi 19:22 e 20:23 appartengono dalla sequenza che propone la festa per l’inaugurazione della Casa Nuova: essi presentano, inquadrati secondo la stessa tipologia di piano, dapprima l’accoppiata giovane/vecchio (entrambi stanno suonando uno strumento), quindi il dualismo uomo/donna. Queste dualità, insieme a quella adulto/bambino presentata nell’accoppiata fot.21 : fot.24, si presentano più volte a delineare il tessuto filmico di Bàrnabo delle montagne – si ricordino, per quanto riguarda il dualismo giovane/vecchio, le opposizioni Bàrnabo/Del Colle, Marden/genitori di Darrìo, Bàrnabo/testimone dell’omicidio di Del Colle, Bàrnabo/giudice di gara, Bàrnabo/nonna. Il contrasto uomo/donna è evidenziato maggiormente nella parte di film girata in campagna: qui Bàrnabo si trova a stretto contatto con il mondo femminile (la nonna, Ines, la vedova…) e spesso condivide con esso le fatiche del lavoro; le scene collettive in cui oggetti dell’inquadratura sono dapprima gli emigranti e poi le donne al lavoro notturno non fanno che dare allo spettatore l’idea della distanza del nucleo maschile e femminile all’interno dell’ambiente rurale. La dualità adulto/bambino, infine, è rappresentata principalmente da Ines e Bàrnabo, ma si nota anche in scene come quella da noi sopra riportata – in cui lo sguardo del protagonista si incrocia con quello di un ragazzino che ha il compito di raccogliere gli uccelli abbattuti – e nel taglio di capelli che contrappone Ines al tagliacapelli.

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Continuando l’analisi del film di Brenta, si può notare come al mondo narrativo si intrecci un mondo commentativo; come ricorda Bettetini187, il modo per individuare questo universo linguistico all’interno del testo filmico è tuttavia diverso dal procedimento utilizzato da Weinrich per studiare i testi letterari. Innanzitutto, si può vedere come l’intendere diversamente il soggetto dell’enunciazione nei due diversi testi cambi anche la nozione stessa di “mondo commentativo”: nella letteratura, ancor più che dell’autore di un’opera, ha grande rilevanza il narratore, che può porsi – all’interno del testo – come personaggio implicato nei fatti, oppure come testimone degli avvenimenti; può scegliere di avere una relazione dialogica con il lettore-interlocutore, oppure scegliere di raccontare una storia. Nei prodotti di natura audiovisiva, il soggetto enunciatore si presenta invece come un’“istanza di coordinamento semiotico, di una provenienza organizzatrice, di un’origine del discorso svolto dal testo”188, dal momento che l’intero testo filmico può essere considerato un’enunciazione rivolta allo spettatore, presente nel luogo e nel momento in cui il film è sullo schermo. Il soggetto dell’enunciazione audiovisiva non è costituito da un unicum, proprio perché il cinema è un prodotto che deriva essenzialmente dalla tecnica: non solo sarebbe limitante dire che il testo filmico è frutto dell’enunciazione della figura del solo regista – dimenticando l’importanza, per esempio, di figure “decisive” alla resa ultima dell’opera come il montatore, il produttore, lo scenografo, lo stesso cameraman – ma si dimenticherebbe inoltre il fondamentale apporto dato dalla mediazione della stessa macchina da presa, che filtra attraverso l’inquadratura e la varietà di ottiche il profilmico.

Date queste premesse, ci sembra utile osservare quindi che lo studio del mondo commentativo all’interno di un testo audiovisivo è costituito dall’analisi delle forme, delle figure e dei segni che rappresentano le istanze comunicative del soggetto enunciatore: soggetto che, negli audiovisivi, è quindi “un apparato concettuale assente, ma che ha lasciato le sue tracce, le sue impronte a indicarne il lavoro svolto, gli scopi o, almeno, l’intenzionalità”189; l’analisi di queste sue tracce

���������������������������������������������������������������Cfr. G. Bettetini, op. cit., pp. 94-101.����Ivi, p. 94. ��Ivi, p. 97.��

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all’interno del tessuto filmico non è altro che lo studio degli elementi deittici che rivelano l’esistenza di un apparato enunciativo, lo studio dei segnali come “segni filmici” che ne rivelano la presenza:

l’indicatività dei segni filmici […] è invece recuperabile come traccia del lavoro di scrittura, come impronta dei procedimenti tecnici usati nella composizione del testo, come manifestazione dell’ecceità spazio-temporalizzatrice della “camera”: il referente di questi indice, veri elementi deittici, è proprio il lavoro delle tecniche e, per esse, della camera sulla realtà per ricavarne un discorso. Un discorso che manifesta le proprie intenzionalità enunciative nei raccordi di montaggio, nelle angolazioni, nei movimenti della camera, nella tipologia delle ottiche usate: insomma, in tutti quegli elementi che sono indizi di una produzione semiotica intenzionalmente finalizzata e, anche, di una posizione, di un atteggiamento che fa capo a un’istanza [di enunciazione] nei confronti dell’enunciato190.

In Bàrnabo delle montagne di Mario Brenta, studieremo il mondo commentativo del film procedendo ad analizzare le modalità con cui le particolarità tecniche sottolineano la presenza di un soggetto enunciatore; allo stesso modo, sarà interessante notare come alcune inquadrature siano costruite dal regista stesso per rinviare – attraverso citazioni – ad alcuni elementi presenti nella letteratura di Dino Buzzati.

Saverio Zumbo, in un suo saggio dedicato a Michelangelo Antonioni, afferma che, nei testi audiovisivi, il soggetto dell’enunciazione – o meglio, l’enunciazione filmica stessa – tende a presentarsi nel film come un “metadiscorso” che segue due grandi varianti: “la riflessione e il commento. Riflessione: il film mima sé stesso: schermi nello schermo, film nel film, esibizione del dispositivo, etc. Commento: il film parla di sé stesso; come in certe voci off “istitutrici” dell’immagine […] o anche negli inserti non dialogici, i movimenti di macchina esplicativi, etc.”191. Attraverso la dimensione del commento, il soggetto dell’enunciazione suggerisce una modalità di considerare il testo; con la riflessione, invece, il soggetto vuol far rendere partecipe lo spettatore della modalità discorsiva del testo filmico rendendo quasi tangibile la sua presenza.

Si può notare la modalità riflessiva del discorso enunciativo in molte inquadrature di Bàrnabo delle montagne: una delle scelte più frequenti da parte del regista è, per esempio, quella di usare delle immagini costruite sulla modalità dello “schermo nello schermo”, in cui l’ingombro dell’avampiano192 crea nello spettatore la sensazione di sentirsi “testimone” dei fatti che stanno accadendo, dal momento che egli osserva da dietro la mdp (con il punto di vista del soggetto enunciatore) le azioni che accadono (fot. 25 – 30).

L’aspetto riflessivo del film è reso anche con particolari inquadrature che solo la macchina da presa può rendere possibili, esibendo la propria potenzialità tecnica: ci riferiamo, per esempio, a primissimi piani dei volti, di oggetti, di parte anatomiche, spesso utilizzate per rendere un aspetto emozionale dell’immagine che in quel momento serve al discorso filmico (nel fot. 31, il dettaglio di parte della sveglia, rilevabile solo – dal punto di vista prettamente umano – con uno sguardo da un

���������������������������������������������������������������Ibidem.�����M. Marie – M. Vernet (a cura di), Christian Metz et la théorie du cinéma, Paris, Klincksieck-Iris, 1990, p. 295, cit. da Saverio Zumbo, Al di là delle immagini – Michelangelo Antonioni, Alessandria, Falsopiano cinema, 2002, p. 32. ����È sostanzialmente l’inquadratura di una parte di piano in cui si svolge la vicenda, osservata limitatamente dalla mdp perché tale piano presenta una limitazione alla vista (solitamente una finestra, una porta, una fessura nel muro).�

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punto di vista molto ravvicinato); altre volte, invece, il montaggio lega tra loro inquadrature – sempre con lo scopo di aggiungere pathos nella storia – che naturalmente sarebbero sconnesse: è il caso, per esempio, della sequenza che connette i fotogrammi 32 e 33, in cui la soggettiva di Darrìo, posto sulla cima di una montagna, vede il primissimo piano dell’animale morto nel vallone.

Per quanto riguarda la variante commentativa dell’enunciazione filmica, in Bàrnabo hanno grande importanza le inquadrature con un inusuale punto di osservazione; tali inquadrature non solo manifestano la presenza del soggetto enunciatore (il punto di osservazione infatti non appartiene a nessuno dei personaggi della storia), ma suggeriscono anche nuove modalità di osservazione, di interpretazione di esse. Di fronte al fotogramma 34, che vede – all’interno di un campo lungo – la figura di Darrìo al centro dell’inquadratura, lo spettatore può pensare di vedere con gli occhi del regista, ma soprattutto con gli occhi di qualcuno che sta spiando il guardaboschi (anche perché, nell’inquadratura successiva, Darrìo, in primo piano, si guarda furtivamente intorno, come se il suo perturbamento fosse causato da qualcosa di ignoto). Lo stesso avviene con le inquadrature seguenti (fot. 35 - 37), in cui i punti di osservazione sono posti rispettivamente in alto e in basso: i personaggi inquadrati sembrano non essere al corrente di essere ripresi, e lo spettatore è invitato a spiarli nelle loro azioni.

La modalità commentativa si ha, ancora una volta, quando non è visibile l’identità dei personaggi – nei casi in cui, per esempio, la mdp sceglie di farci vedere i soggetti posti di spalle, oppure offuscati: per non svelare l’identità di chi sta osservando a sua volta (fot. 38), dando comunque una curiosa variazione della modalità di schermo nello schermo (fot. 39); per suscitare commozione, nell’inquadratura in cui i genitori di Darrìo stanno pregando davanti alla foto del figlio (fot. 40); ancora, per provocare nello spettatore uno strano caso di “fuoricampo”, in cui l’immaginazione deve riempire il vuoto della parte frontale del viso, facendo vedere la sola parte posteriore (è il caso del bandito in una delle ultime scene del film, nel fot. 41), oppure quando la visione è tecnicamente offuscata, e i delineamenti dei personaggi osservati si vedono a malapena (fot. 42).

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Tra gli elementi che segnalano, all’interno del film, la presenza commentativa di un soggetto enunciatore, crediamo abbia una certa importanza anche la volontà di allargare l’ambito del discorso al mondo “extrafilmico”. Molte volte, nel mondo cinematografico, lo spettatore assiste a rimandi della pellicola al mondo dell’attualità, della pittura, della letteratura, spesso anche al mondo prettamente autobiografico del regista del film o del suo sceneggiatore193. In Bàrnabo delle montagne, in particolare, si può notare come Mario Brenta scelga di costruire molte inquadrature – dalla scelta dei paesaggi fino a dettagli di oggetti e parti anatomiche – sulla base delle immagini presenti nella letteratura di Buzzati: “dal punto di vista figurativo […] e parlo in generale del film, io mi sono attenuto molto ai dipinti di Buzzati, soprattutto ai Miracoli di Val Morel, ma anche a Poema a fumetti, all’Invasione degli orsi in Sicilia, a tutto quello che Buzzati ha prodotto come pittura e come grafica”, afferma il regista da noi intervistato.

Mario Brenta, discutendo del suo film nel gennaio 2012 alla conferenza voluta dal Corriere della Sera per ricordare i quarant’anni trascorsi dalla morte di Dino Buzzati, afferma che la scelta di far aderire molta parte della pellicola alle immagini di opere come il Poema o i Miracoli è dovuta al forte potere evocativo della pittura dello scrittore bellunese:

L’oggetto, la cosa [nella pittura buzzatiana], viene […] ad assumere una valenza metonimica. Parlando di sé stessa, la cosa parla anche di ciò che le è contiguo: l’oggetto che diviene emblematico del suo possessore o del suo utilizzatore, l’inanimato che parla di ciò che è animato, il concreto che parla di ciò che è astratto. Si è parlato di evocazione e proprio l’evocazione è il principio fondante, come anche il fine, della metonimia che altro non è se non una catena semantica di contiguità. Evocazione che si fa narrazione, nella pittura di Buzzati, proprio perché i suoi dipinti sembrano sempre collocarsi nella temporalità, nella fissità di un attimo che però apre dinamicamente al passato e al futuro. Un po’come nell’istantanea fotografica: si ha sempre l’impressione che ci sia un prima e un dopo. E a maggior ragione nel cinema, dove ogni inquadratura è conseguenza di quella che l’ha preceduta e condizione di quella che seguirà.

L’immagine in Buzzati attira Mario Brenta perché essa si inserisce nel flusso temporale della narrazione senza passare inosservata: come un particolare frame stop all’interno del montaggio, essa è capace di richiamare l’attenzione dell’osservatore perché comunica “altro” rispetto a sé stessa. Cominciamo, per fare un esempio, dalla forte contiguità dei paesaggi nel film e in Buzzati: da un lato, la scelta di ambientare Bàrnabo delle montagne nel Cadore è a tutti gli effetti una scelta – come afferma lo stesso regista – che nasce da “una preoccupazione filologica”: le Dolomiti come il paesaggio di adozione di Buzzati, che si leggono in filigrana lungo tutto il suo primo testo; dall’altro lato, la resa iconografica buzzatiana rende le montagne un territorio ambiguo, sospeso tra la rappresentazione realistica di una montagna e della montagna come idea, un territorio mitico:

ho scelto poi le Dolomiti […] perché le Dolomiti hanno una caratteristica fondamentale: perché sono delle montagne vere che sembrano finte, sono di roccia

���������������������������������������������������������������Prendiamo a esempio un unico regista, Ingmar Bergman: si possono ricordare, all’interno della sua filmografia, i rimandi alla storia precedente e contemporanea in Persona (1965) dati dai video dei bonzi che bruciano, oppure dalle foto dello sterminio nazista; le citazioni dall’Apocalisse (“Allorché l’agnello aprì il settimo sigillo […] si fece un gran silenzio nel cielo per circa mezz’ora”) nel Settimo sigillo (1956); l’aspetto autobiografico che viene evidenziato – oltre che in maggior parte dell’intera opera bergmaniana – in Fanny e Alexander (1982).

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ma sembrano di cartone194 e quindi trovo che rendono bene il registro particolare che c’è nel film, che è una storia, si sente, vera e realistica ma sempre al confine.

Una “montagna finta, di cartone” che Brenta sceglie di rendere sulla pellicola lavorando sui teleobiettivi, in modo da dare allo stesso tempo l’impressione di una montagna non di pietra, bensì di cartapesta (che quasi faccia sentire allo spettatore la sua fisicità sullo schermo!), e capace di rendere il protagonista dell’azione scenica come schiacciato sullo sfondo (ricordiamo l’intuizione di Franca Schettino, che per prima vedeva l’importanza all’interno del testo buzzatiano della suddivisione similare a quella dei cartoni animati, tra fondale e personaggio principale appiattito sullo stesso, a creare un unicum195).

Tra i tanti topoi iconografici in Buzzati che si possono rimandare alla costruzione dell’immagine del paesaggio montano nel Bàrnabo brentiano, abbiamo scelto di accostare alcune immagini in cui si vede spesso il confronto – a livello di dimensioni – tra l’uomo piccolissimo che si avventura sulle pareti e sulle cengie della grande montagna, che talvolta lo schermo non riesce a contenere interamente (fot:fig 43:46; 44:47; 45:48; 49:52); allo stesso modo, si può individuare, nel confronto da noi proposto (fot:fig 50:53; 51:54), anche la ripresa da parte di Brenta di alcune rappresentazioni di paesaggi predolomitici (tipici, come abbiamo visto grazie all’apporto di Patrizia Dalla Rosa, dei Miracoli di Val Morel), che vedono al centro dell’immagine un caseggiato che, nella pellicola, diverrà la Casa dei guardaboschi.

Nel film esistono dei parallelismi evidenti con l’opera figurativa buzzatiana riguardanti anche la rappresentazione degli interni; come accade per la rappresentazione della montagna e, più in generale, del paesaggio in generale, l’iconografia riguardante l’ambiente interno è spesso – come ricorda lo stesso Brenta – “sinonimo di universalità: non quella casa, ma la casa. Della casa come luogo dell’inquietudine e dell’immanenza opposta al paesaggio come luogo della trascendenza, dell’idea196”. Le stanze di Brenta sono quasi sempre inquadrate frontalmente e nella loro interezza, nella stessa maniera con cui Buzzati dipingeva i suoi locali (fig. 55 e 58); tali stanze, molto spesso scure e spoglie, attraverso un gioco metonimico riflettono lo stato d’animo dei personaggi che vivono in esse: è l’esempio dei fot. 56 e 59, che riportano, nell’ordine, la stanza in cui viene deposto Del Colle subito dopo la sua morte, e la camerata vuota che Bàrnabo ritrova quando rientra alla Casa Nuova dopo l’esilio in campagna.

Come abbiamo visto precedentemente – attraverso lo studio delle tecniche di “schermo nello schermo” utilizzate nel film – gli interni di Brenta sono inoltre ricchi di elementi che si aprono sull’esterno (porte, finestre, grate); tali caratteristiche sono proprie anche delle figurazioni di Buzzati (si confronti il fot. 30 con la fig. 57). Secondo Mario Brenta è proprio la presenza di porte e finestre negli edifici che rende le abitazioni buzzatiane così affascinanti, dal momento che aprono così facilmente gli interni ai pericoli esterni (fig. 58):

���������������������������������������������������������������“la mattina dopo [ieri] era tanto limpido che il Pelf e lo Schiara parevano uno scenario cupo di cartone”, con questa affermazione Buzzati sembra voler dare la giusta “direzione” alle scelte di Brenta. Si veda la lettera del 31 luglio 1922 in D. Buzzati, Lettere a Brambilla, op. cit., p. 96.����Cfr. F. Schettino, op. cit., p. 238. ���Le parole sono tratte dal discorso di Brenta presso la celebrazione per i quarant’anni della morte di Dino Buzzati voluta dal Corriere della Sera.��

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Sì, mi ricordo un’immagine: la casa, e fuori c’è il Babau… [fig. 60] Io non vedo mai, nella pittura di Buzzati, l’interno come un luogo che protegge. È un luogo d’inquietudine. Poi certo la minaccia viene da fuori, penso anche in altri… […] I luoghi, anche nel Poema a fumetti, questa villa, non sono mai dei luoghi “amici”, queste case, e lì ho visto anche queste caserme, sì, sono dei luoghi in cui loro stanno dentro ma dove non ci si rifugia.

La sensazione di pericolo che viene dall’esterno, i fumi che si vedono sulle montagne, il ricordo dell’omicidio di Del Colle sono sensazioni che colgono inesorabilmente anche coloro che stanno chiusi nelle case, e la modalità scelta dal regista per rappresentare questo perturbamento è data dalla visione attraverso una porta o una finestra, sola barriera tra l’inconnu esterno – solitamente luminoso – e la precaria sicurezza dell’ambiente interno – a sua volta privo di luce (fot. 26 e 27).

Come ricordavamo precedentemente, è poi molto forte da parte di Mario Brenta la volontà di rappresentare in modo metonimico oggetti e parti del corpo all’interno del suo film. Si nota questa scelta nel momento in cui la mdp va a indugiare sugli oggetti di Bàrnabo, quasi isolandoli dal resto dell’inquadratura: è il caso, per esempio, degli scarponi, del già accennato fucile, della divisa impolverata che il guardaboschi rammenda in campagna prima di tornare sulle montagne. Questa scelta si può trovare in modo parallelo anche nel Poema a fumetti, in cui soprattutto la figura della giacca vuota – il “guardiano” del mondo dell’Al di là – ne è simbolicamente la rappresentante (fig. 61). Accanto agli oggetti, è tuttavia la presenza delle mani a “segnare” le opere di entrambi gli autori: mani in primo piano, che addirittura ingombrano l’avampiano nei fumetti di Buzzati (fig. 62 e 63); mani al centro dell’inquadratura, che suonando fanno capire l’età di chi tiene lo strumento (fot. 64 e 65), che lavorano, che sono il luogo del ricordo (fot. 66) nel film di Brenta.

Alla fine di questo nostro discorso relativo alle modalità di ripresa da parte di Mario Brenta di alcuni elementi dell’iconografia buzzatiana, non va certamente esclusa la scelta di costruzione dell’inquadratura. Non solamente le stanze, nella pellicola di Bàrnabo, sono viste come nel Poema e nei Miracoli: parte del film è infatti basata su immagini che pongono il proprio punto di fuga all’infinito, come accade in Buzzati. Il protagonista che cammina in mezzo ad una strada dritta posta al centro dell’inquadratura (fot. 67), oppure le barriere laterali parallele che rendono l’univocità di un solo movimento, cioè quello di salita o discesa delle scale (fot. 68), sembrano rifarsi ad immagini come la numero 70 o 71, contrassegnate da elementi di elevata frequenza nel Poema a fumetti: strade sgombre che portano all’infinito e più volte fiancheggiate da enormi costruzioni o impedimenti naturali. Tali linee, che corrono verso un punto di fuga posto all’orizzonte, concorrono poi a dividere lo schermo verticalmente, e spesso in modo parallelo, dando all’immagine un’idea di profondità. Lavorando similarmente a questo procedimento, Brenta utilizza d’altro canto anche le linee orizzontali presenti in Buzzati per avere una suddivisione dell’inquadratura che renda non la profondità ma la piattezza dell’orizzonte: è – per esempio – il caso dell’inquadratura del treno, ripreso frontalmente (fot:fig 69:72). Proprio quest’inquadratura iniziale del film dà l’inizio a varie immagini “tagliate” orizzontalmente: gli uomini che camminano su una cengia per poter scovare gli assassini di Del Colle, il prato della gara di tiro al piccione in cui Bàrnabo sbaglierà il suo bersaglio, l’argine in campagna: la barriera che divide il giovane guardaboschi dal ritorno alle amare montagne.

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���������������������������������������������������������������D. Buzzati, La famosa invasione degli orsi in Sicilia, Milano, Mondadori, 1992, p. 19. ��D. Buzzati, Poema a fumetti, Milano, Mondadori, 2011, p. 125.���Ivi, p. 130.������D. Buzzati, I miracoli di Val Morel, op. cit., p. 51.�����Ivi, p. 41.�����Ivi, p. 19.�

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����������������������������������������������������������������Fig. 55, 57, 58, 60, 61, 62, 63: cfr. D. Buzzati, Poema a fumetti, op. cit., pp. 67, 35, 155, 119, 77, 51, 57.�

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2.2.3. Prima del film: gli influssi di Buzzati nella sceneggiatura di Bàrnabo delle montagne

L’influenza di Buzzati nell’opera di Mario Brenta non è visibile soltanto nelle immagini del film, ma anche nella scrittura del trattamento di Bàrnabo delle montagne. Abbiamo già visto come i due autori della sceneggiatura riescano a mantenere il soggetto della storia narrata da Buzzati pur elaborando in maniera personale le vicende che accadono nel testo (Brenta e Pasquini tolgono infatti alcune sequenze, aggiungono nuove parti, fanno un lavoro di “condensazione” dei personaggi); in quest’ultima parte del testo, vorremmo tuttavia soffermarci su un’influenza più profonda da parte dello scrittore bellunese, diretta soprattutto alla scrittura e allo stile utilizzati dai due sceneggiatori per scrivere l’adattamento di Bàrnabo.

È lo stesso Mario Brenta ad indirizzarci verso un’analisi che aspiri all’analisi delle corrispondenze interne alla sceneggiatura e al testo del 1933; il regista, da noi intervistato, non fa segreto del forte ascendente che lo scrittore bellunese ha sempre avuto su di lui sin dall’adolescenza – non solo a livello di scrittura, ma anche a livello culturale:

Devo dire che per me Buzzati è stato importantissimo: è il passaggio dalle letture infantili o basso-adolescenziali a un livello maggiore. La porta è stata quella, lui e Kafka, poi – dopo – Calvino. Sono degli autori che mi hanno sempre profondamente marcato. Parlando, per esempio, degli italiani, a livello della letteratura narrativa, ho sempre “pascolato” in questi territori italiani, non ho mai

����������������������������������������������������������������Ivi, pp. 32, 73, 196.�

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letto tanta altra letteratura straniera, se non autori del centro Europa – autori polacchi, scrittori come Witkiewicz, Schulz, Gombrowicz205.

Quella della lettura dei testi di Buzzati è stata soprattutto un’esperienza di tipo emozionale per il regista veneziano (si osservi la filmografia precedente a Bàrnabo delle montagne: pensiamo – per fare soltanto un esempio – ai possibili rimandi alla letteratura buzzatiana di un film come Vermisat, dalla periferia degradata che richiama la Milano di Un amore, all’ospedale da cui il protagonista non riesce ad uscire, la cui somiglianza con la clinica dei Sette piani è molto forte); malgrado ciò, i testi buzzatiani sono stati importanti per Mario Brenta anche perché hanno portato la sua scrittura ad adottare alcune evidenti scelte stilistiche che marcano sensibilmente la letteratura dell’autore bellunese, dalla scelta della paratassi alla volontà di usare, nei testi, tempi del mondo commentativo. Ci si potrebbe opporre a quest’ultima osservazione affermando che, in genere, lo scrivere sceneggiature porta naturalmente alla scelta di una sintassi spezzata e all’uso del tempo presente, ma leggendo la sceneggiatura di Bàrnabo delle montagne si può notare invece come la scrittura di Brenta e Pasquini sia caratterizzata in maniera fortemente letteraria. Innanzitutto, come ricorda il regista stesso206, le sue sceneggiature non applicano in modo fedele il modello di sceneggiatura classico perché non riportano accorgimenti tecnici come la scelta del tipo di campo o del piano da utilizzare; in più, l’uso dei tempi verbali in Bàrnabo non è finalizzato a presentificare nell’hic et nunc tutte le azioni, diversamente da quanto accade nei modelli di sceneggiatura solitamente utilizzati nel cinema: la scelta di usare tempi verbali diversi dal presente indicativo, e appartenenti al mondo della retrospezione come il passato prossimo e il trapassato, è infatti dovuta alla volontà – di derivazione chiaramente buzzatiana – di portare le frasi inserite nei brevi periodi della sceneggiatura a fare dei piccoli “salti temporali”207. Andando tuttavia oltre la constatazione delle affinità esistenti relative alla sintassi e all’uso dei tempi verbali, è possibile notare come il corpus del trattamento di Brenta e Pasquini condivida molte altre particolarità di tipo linguistico con la letteratura e, in particolare, con il testo buzzatiano di riferimento: in seguito andremo a trattare le somiglianze più importanti.

Tra le tecniche stilistiche condivise da Brenta e Pasquini con la letteratura buzzatiana, la ripetizione è sicuramente una delle tecniche all’interno dell’adattamento di Bàrnabo delle montagne; per poter parlare della varietà di ripetizioni utilizzata dai due sceneggiatori, seguiremo la classificazione tra ripetizioni a contatto e ripetizioni a distanza utilizzata nel saggio Ripetizione e progressione in Un amore di Fabio Atzori208.

Tra le ripetizioni a contatto di stampo buzzatiano maggiormente utilizzate da Brenta e Pasquini, ci sono l’epanalessi e l’anadiplosi. Trattando dell’epanalessi, si può notare come, soprattutto nei dialoghi, essa serva a segnare in modo iperbolico i contenuti del discorso, discorso che negli esempi riportati assume un tono quasi comico:

CAPO EMIGRANTE: “Carne. Carne, carne, carne. Si mangia carne anche alla mattina..alta quattro dita..in bocca così..e si taglia col coltello!”

����������������������������������������������������������������Vedi intervista a Mario Brenta in Appendice, p. 152.�����Ibidem�������Ibidem.�����Cfr. F. Atzori, Ripetizione e progressione in Un amore, op. cit., pp. 23-34.�

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CAPO EMIGRANTE: “C’è dei posti dove puoi camminare per giorni e giorni, senza che incontri nessuno” CAPO EMIGRANTE: “Quella dei tuoi figli e dei figli dei tuoi figli!” (SCENA 130).

Alcune volte l’epanalessi dà un senso di rallentamento al periodo, in modo tale da servire come indicazione per una giusta interpretazione della scena da parte dell’attore:

Ora Bàrnabo osserva la ferita. Con le dita, quasi affascinato dalla crosta che si spacca a poco a poco, l’apre completamente. (SCENA 13) La cornacchia è sempre al solito posto, immobile in cima alla trave. […] Bàrnabo scende e le si avvicina piano piano. (SCENA 141)

La mano di Bàrnabo esce dall’ombra, ridiscende piano piano lungo l’abbottonatura della giacca, slacciando i primi bottoni. Si ferma e resta appoggiata sul petto, sollevato appena dal ritmo del respiro. (SCENA 178)

Altre volte l’epanalessi segna lo scorrere del tempo di un’inquadratura, o addirittura di una scena: è il caso, per esempio, degli esempi seguenti, in cui la ripetizione scandisce dapprima un’estrema lentezza del ticchettio di una sveglia, e poi segna in modo opposto la velocità (in progressione: la valle, le pendenze, le “cime più alte e incombenti”) del treno su cui viaggia Bàrnabo, diretto verso le montagne:

Nel silenzio, anche il ticchettio della sveglia sembra a poco a poco morire. Come la brace oltre lo sportello socchiuso della stufa. (SCENA 74) Il treno su cui viaggia Bàrnabo corre in una valle verso le montagne. Le prime pendenze, e poi via via a salire, con le cime sempre più alte e incombenti. (SCENA 159)

L’altro caso di ripetizione a contatto è dato dall’anadiplosi. All’interno della sceneggiatura, questa figura retorica sembra essere utilizzata a volte con una valenza tecnica, laddove essa può suggerire la ripetizione di una stessa scena oppure una variazione di piani. In altre parole, l’anadiplosi può servire allo sceneggiatore per dare in modo letterario un’indicazione che altrimenti sarebbe data con l’adozione di un tecnicismo. Si osservino questi due esempi:

C’è qualcosa sul pavimento dell’ingresso. Il ritratto di Darrìo si è staccato dalla parete ed è caduto per terra davanti alla rastrelliera dei fucili. Del Colle lo raccoglie. Raccoglie anche le schegge di vetro che sono tutto intorno. Delicatamente, come una cosa preziosa. (SCENA 20) ..su quella croda dove si sfioccavano le nuvole ora c’è un fumo. Un fumo che sale dritto e nero. (SCENA 71)

Nel primo caso la ripetizione dell’azione sembra voler suggerire la replica delle modalità di ripresa della scena, quasi che l’azione del raccogliere il ritratto e, successivamente, anche l’azione di raccogliere le schegge di vetro siano da riprendere nello stesso modo. Nel secondo caso, invece, la ripetizione del soggetto a chiudere la prima e ad aprire invece la seconda proposizione sembra invece voler indicare un cambio di piano: nella prima ripresa un piano lungo, in cui compare tutto il

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sistema montuoso; nella seconda un piano più ristretto di quello precedente, in modo da rendere bene quel “fumo che sale dritto e nero”.

La sceneggiatura di Brenta e Pasquini presenta poi dei casi in cui l’anadiplosi serve ad unire due scene tra loro indipendenti, almeno da sceneggiatura:

SCENA 113 – CHIESA PAESE –Est. Giorno. Il campanile del paese è perduto nella messa. SCENA 114 – CHIESA PAESE - Int. Giorno. La messa sta per cominciare. Donne e uomini occupano file separate di banchi.

[…] Da fuori giunge un grido, lungo, ripetuto, una specie di lamento: è la cornacchia. (SCENA 144) SCENA 145 – OSTERIA DI CAMPAGNA – Est. Sera. La cornacchia è immobile sul pilastro, con le ali semiaperte.

Se nel primo caso l’anadiplosi riprende una scena di per sé conclusa (un campanile che suona per chiamare la gente alla messa), nel secondo caso l’anadiplosi riporta nella scena 145 un soggetto – la cornacchia – per il quale i due sceneggiatori avevano creato nella scena precedente un effetto di sospensione: il soggetto è in fondo alla proposizione, e viene introdotto da una metonimia (il grido, che viene elaborato da Brenta e Pasquini attraverso un’accumulazione di aggettivi ad esso riferiti); il lettore non potrebbe sapere perché essa gridi in quel modo, se la sua storia non venisse sviluppata nella scena successiva.

Volendo trattare delle ripetizioni a distanza nella sceneggiatura di Bàrnabo, si può notare come la figura retorica appartenente a questo sottoinsieme e maggiormente presente nel trattamento buzzatiano sia l’anafora. Allo stesso modo di Buzzati209, gli sceneggiatori prediligono le ripetizioni costituite da due elementi:

Non c’è cancello, non c’è recinzione. (SCENA 4) Non un cenno, non uno sguardo dalla sua parte. (SCENA 20) Beve il sindaco e bevono anche gli altri. (SCENA 45)

Nel trattamento, la ripetizione di un elemento è funzionale a descrivere al meglio le modalità con cui il regista vorrebbe girare al meglio la scena; nell’esempio qui sotto, per esempio, troviamo la ripetizione quasi ossessiva del sostantivo “qualcosa”: tale ripresa dovrebbe portare l’attore, destinatario delle indicazioni date dalla sceneggiatura, ad interpretare al meglio la scena, cercando di capire che cosa si nasconda dietro quel “qualcosa” che soltanto si intravvede nell’erba.

C’è qualcosa nell’erba. Qualcosa che si intravvede, qualcosa attorno a cui si fermano in cerchio e si chinano a guardare da vicino. (SCENA 38)

In altri casi, gli sceneggiatori fanno un largo uso dell’anafora con variatio. Nel primo estratto qui riportato, la ripresa anaforica della stessa formula serve ad aprire e chiudere la prima parte della salita dei monti di Darrìo, prima di vedere i bracconieri ed avventurarsi tra le cime vere e proprie:

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Darrìo doveva esser sceso per il bosco. Giù per una costa ripida e gelata, con gli scarponi che non facevano presa, curvandosi per passare sotto i rami più bassi. Il fucile a tracolla tirato indietro sulla schiena e indosso la divisa verde dei guardaboschi. Dove il terreno era meno scosceso si doveva essere fermato […]. Darrìo doveva poi esser uscito dal bosco, dove le ghiaie coperte di neve salivano fin dentro una massa di nuvole compatte. (SCENE 1 – 2)

Nei due esempi qui sotto, invece, l’anafora sembra voler scandire – per ogni forma ripetuta – la similarità di ripresa: più precisamente, la ripetizione (deittica!) degli aggettivi dimostrativi e dei locativi segnala le singole inquadrature fisse, dalla struttura similare, da inserire in un’unica sequenza.

È strano per i guardaboschi vedere tutta quella gente nella loro casa.. ..quelle tre ragazze sedute vicine alla sponda di un letto.. ..quel suonatore che asciuga il suo strumento e si passa poi il fazzoletto sulla pelata umida di pioggia.. ..e quelli accucciati a gruppi sui gradini della scala. (SCENA 33) Non si vede e non si incontra nessuno ma l’aria sembra popolata di inquietanti presenze. Nei boschi silenziosi che scendono a valle. Negli spacchi bianchi di detriti dei canaloni. Nelle pieghe più scure che sembrano nascondere segreti inaccessibili. (SCENA 54)

All’interno del corpus del trattamento buzzatiano compaiono con minore frequenza, rispetto all’anafora, le ripetizioni epiforiche; più precisamente, nel testo troviamo solo due casi di epifore: un episodio in cui il suono delle campane quasi di sottofondo sottolinea la scansione del tempo; un altro caso in cui Molo, accorgendosi della presenza di una figura sconosciuta sulle montagne, modula un grido per attirare l’attenzione della presenza ignota.

Potrebbe essere una mattina come tante. In lontananza, i rintocchi di una campana. (SCENA 7) Il giovane seduto sulla panca all’ingresso è Bàrnabo. Poco più di vent’anni, gli abiti da montanaro, i capelli tagliati corti. Fissa il ritratto di Darrìo, appeso in alto, sulla parete di fronte, che sembra a sua volta guardarlo con quel suo sguardo aperto intaccato da un’ombra di tristezza, come di chi conosce già il proprio destino e lo guarda dritto negli occhi. Giungono da lontano i rintocchi di una campana. (SCENA 8) Si accucciano a ridosso della scarpata del sentiero. Al riparo, rimangono in ascolto per un tempo che sembra interminabile. È Molo che tira su la testa per primo. MOLO: “Oooh!” Si porta le mani alla bocca. MOLO: “Oooh!” Una voce risponde dall’alto. Ma non subito, debole e lontana. VOCE FC: “Oooh!” Adesso anche qualcun altro prende coraggio e comincia a uscire dal suo riparo. (SCENA 62)

Fabio Atzori, discutendo dei procedimenti retorici legati alla ripetizione maggiormente utilizzati da Dino Buzzati in Un amore, tratta anche delle “ripetizioni lunghe, intese come riproduzioni di parti di testo (con le stesse parole o varianti), ben oltre i limiti coincidenti con l’anafora o altre figure retoriche, magari a distanza di pagine o come riaffioramento di un

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motivo”210: in questo insieme, secondo lo studioso buzzatiano, sono da intendere le autocitazioni e le citazioni da altri testi. Analizzando il film di Mario Brenta, abbiamo già precedentemente fatto notare come spesso il regista faccia uso non solo della ripetizione di inquadrature, ma anche di intere sequenze, a importante distanza lungo il film (è il caso, per esempio, dell’immagine della mano sanguinante posta all’inizio del film, e che si replica alla fine dell’episodio girato in montagna); non è una combinazione, quindi, che spesso tali episodi siano ripetuti anche nella sceneggiatura:

C’è una ferita nella mano di Bàrnabo, un taglio recente. Ora B. osserva la ferita. Con le dita, quasi affascinato dalla crosta che si spacca a poco a poco, l’apre completamente. Guarda il sangue che cola piano. (SCENA 12) Dai margini riaperti della ferita, il sangue cola piano nel palmo della mano di Bàrnabo. (SCENA 97)

Ciò che tuttavia è oggetto di interesse in questo tipo di ripetizione, è la presenza di citazioni dalle pagine del Bàrnabo buzzatiano, talvolta recuperato fedelmente, altre volte con variazioni, oppure ripreso in contesti diversi da quelli di provenienza211. Nell’esempio qui sotto si assiste quasi ad un “assemblaggio” di materiale buzzatiano per costruire la descrizione di un paesaggio:

Sopra il lungo sperone detritico dov’è piantata l’asta della bandiera, ci sono le montagne. Tutto intorno, silenziose e immobili. Torri di roccia che si innalzano per centinaia di metri, fin dentro le nuvole. (SCENA 14) Le montagne, testimoni silenziose e indecifrabili.. (SCENA 80)

Tutte le cime stavano attorno, immobili e burrascose. (c.13) Così bianche, le montagne erano ancora più silenziose. (c.15) Sopra si innalzano le rupi per centinaia e centinaia di metri. (c. 5)

Negli esempi di seguito riportati in seguito il rimando al testo di Buzzati da parte del trattamento cinematografico è ben più fedele, e la variatio, come si può notare, è minima.

Il vento si è portato via un pezzo di tetto e muove ancora un poco i bordi delle scandole sbrecciate. Il vento ha portato via un pezzo del tetto, così, silenziosamente (c. 2). Poca neve sulle rocce, placche di ghiaccio, ma Darrìo, abile com’era, si doveva esser arrampicato lo stesso su per quella croda che si alzava dritta sopra il valico. (SCENA 2) Stava lontano per delle intere giornate sui bordi dei precipizi. Eppure, bravo com'era, un bel giorno non è più tornato. (c.1) A forza di battere chiodi, la cassa di Del Colle è quasi finita. (SCENA 46)

����������������������������������������������������������������Ivi, p. 31.������Ciò è dovuto probabilmente alle modalità di lavoro sul testo da parte dei due sceneggiatori: forse, le parti più originali del testo sono rimaste nella “memoria visiva” di Brenta e Pasquini ed elaborate a livello di trattamento. Cfr. Intervista a M. Brenta, p. 150. �

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La cassa, a forza di batter chiodi, è fabbricata (c. 4) Al di là delle figure di ripetizione, il testo di Brenta e Pasquini presenta altri tipi di riprese dal

sovratesto buzzatiano. Continuando il nostro confronto tra il trattamento e il romanzo del 1933 sul piano sintattico, si sente molto forte l’influenza dell’autore bellunese nella costruzione triplice del periodo, dalle modalità liberamente variate: negli estratti qui sotto, per esempio, si può notare come i periodi siano costruiti su frasi nominali e collegate per asindeto.

Il giovane seduto sulla panca all’ingresso è Bàrnabo. Poco più di vent’anni, gli abiti da montanaro, i capelli tagliati corti. (SCENA 8)

�Mosche nel piatto, gli scarponi per terra, i piedi di Bàrnabo. (SCENA 107)

Più frequentemente, la costruzione triplice del periodo nella sceneggiatura di Bàrnabo è basata su formulazioni di tre frasi verbali, il cui soggetto è unico oppure a sua volta variato:

Soffia di colpo più forte il vento e gonfia e fa volare in alto i mantelli. (SCENA 19) Il cane l’ha seguito distrattamente. Corre avanti nel prato, alza la gamba, fa pipì. (SCENA 31) la moglie del sindaco guarda fuori, va alla porta, apre. (SCENA 45) qualcuno si libera adesso degli indumenti fradici, altri si rinfrescano al catino, altri si rivestono. (SCENA 63)

In altre occasioni, il periodo si costruisce infine su strutture costituite prevalentemente da participi passati:

la giacca buttata addosso a mò di coperta, bagnato di pioggia, sporco di fango e di sangue.. (SCENA 38) Le braccia appoggiate sulle ginocchia, il volto abbassato, nell’ombra, deluso. (SCENA 178)

Una modalità retorica che gli sceneggiatori di Bàrnabo utilizzano con frequenza, e che sembrano far derivare non solo dal primo testo di Buzzati, ma dall’intera produzione dell’autore bellunese212 è il paragone. Analizzando la frequenza di questa figura retorica nel corpus della sceneggiatura, si possono trovare immagini utilizzate nell’uso comune, se non addirittura grammaticalizzate:

Depone il fucile sulla rastrelliera vuota, come un oggetto inutile. (SCENA 26) Bàrnabo in testa e dietro Bertòn: sono usciti ora dal bosco e camminano svelti costeggiando le ghiaie in una zona d’ombra, un po’come ladri. (SCENA 79) Tuoni lontani e uno forte e secco come uno sparo. (SCENA 33)

D’altro canto, si può notare nell’uso dei termini di paragone un immaginario a volte molto originale, che può – come nei casi qui sotto – abbracciare ambiti come il funerario, il perturbante:

����������������������������������������������������������������Cfr. N. Giannetto, op. cit., p. 210.�

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Bàrnabo si avvicina come un fantasma. (SCENA 84) Sette cani bianchi si muovono in cerchio, come fantasmi. (SCENA 179) La pelle è bianca come quella di un morto. (SCENA 184)

Altre volte, le similitudini di Brenta e Pasquini si rifanno invece ad un immaginario dal sentore buzzatiano: la quasi pascoliana caserma viva immersa nella notte, le montagne di vetro…

Passano le ruote come ombre scure. (SCENA 3) Tutta la caserma scricchiola, come una cosa viva.. (SCENA 20) […] una grande parete levigata come una lastra di vetro. (SCENA 80)

Più raramente la similitudine nell’adattamento di Bàrnabo si presenta in una forma più orchestrata, più ampia; nei brani di testo che riportiamo qui sotto, il paragone nel primo esempio è piuttosto esteso, tanto che il primo termine si appoggia su una metafora (il campanile come una silhouette nera) e lo stesso fa il secondo termine (i campi di granturco come una massa gialla); nel secondo caso invece il paragone è inserito all’interno di una struttura a chiasmo:

Un campanile lontano, una silhouette nera, come un mozzicone di matita che spunta dalla massa gialla dei campi di granturco. (SCENA 101) E il cane è sempre lì, inquieto, come inquieti sono i loro gesti lontani. (SCENA 38)

Al termine di questa nostra analisi sulle modalità di ripresa – anche involontaria – del sovratesto buzzatiano da parte del trattamento di Brenta e Pasquini, vorremmo infine tornare su una questione legata alla sintassi. Abbiamo già parlato precedentemente della volontà del regista di “isolare” alcune immagini sulla carta, per poi trasporle in inquadrature fisse nella pellicola; a contribuire a questa volontà del regista è la presenza della frase nominale, che scandisce, o meglio, congela all’interno del periodo un gruppo di parole da visualizzare singolarmente. Come abbiamo già visto, la frase nominale è numericamente molto presente all’interno della costruzione triplice del periodo; questa tuttavia non è l’unica posizione di rilievo della nominale all’interno del discorso: spesso gli sceneggiatori pongono la nominale in fondo al discorso – in maniera fortemente buzzatiana – a mò di commento, o di sottolineatura di ciò che è stato detto. Si vedano gli esempi seguenti:

Il secondo della fila, invece dello zaino, portava un carico più pesante, come un grande fagotto che aveva poi passato ad un compagno, scaricandolo pesantemente nella neve. Un camoscio ucciso, sanguinante. (SCENA 2) Anche i cani sono scomparsi. Ma non il vento. (SCENA 21) Bertòn è felice e imbarazzato viene incitato ad alzarlo per mostrarlo alla folla. Applausi. (SCENA 71)

Molto spesso i due sceneggiatori, per isolare un concetto all’interno del testo, utilizzano – oltre alla frase nominale – i tre punti di sospensione ad inizio o fine frase e periodo, o in entrambe le posizioni:

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È strano per i guardaboschi vedere tutta quella gente nella loro casa.. ..quelle tre ragazze sedute vicine alla sponda di un letto.. ..quel suonatore che asciuga il suo strumento e si passa poi il fazzoletto sulla pelata umida di pioggia.. ..e quelli accucciati a gruppi sui gradini della scala. (SCENA 33) L’ispettore è seduto di spalle, guarda incantato.. ..le nuvole che salgono dalla valle in lenti vapori. (SCENA 46) Battono più forte, i rintocchi, nella piccola piazza vuota.. ..nelle stradette dove il chiarore del giorno ritarda ad entrare.. (SCENA 47)

Tale procedimento legato alla punteggiatura ed usato in maniera massiccia da Brenta e Pasquini non è da ritenersi tratto dalla bibliografia buzzatiana: da un lato, come ricorda Patrizia Dalla Rosa, “la scelta di Buzzati è quella di sottintendere, di non dire, di creare effetti di incertezza o di allusione attraverso una punteggiatura che riduce al silenzio la frase stessa”213, dall’altro, la scelta dei due sceneggiatori è proprio quella opposta, che si rifà alle necessità di rendere chiaramente visibile il materiale sulla carta destinato alla pellicola.

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����������������������������������������������������������������P. Dalla Rosa, op. cit., p. 20.��

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2.3. Adattare il Bàrnabo di Buzzati: problemi tecnici e scelte estetiche

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Lo spettatore di Bàrnabo delle montagne di Mario Brenta può notare come l’opera cinematografica non deluda generalmente le attese di chi già conosce il libro di Buzzati: la storia infatti riprende le vicende narrate nel testo, l’ambientazione dolomitica aderisce alle montagne del racconto; il film riesce persino a dare il «senso del tempo che c’è in montagna» (e in pianura) non solo attraverso la parte visiva, ma anche con il sapiente uso dei suoni. Ma il Bàrnabo di Brenta, se da un lato si rivela fedele al testo originario, dall’altro prende strade del tutto originali (esempio di questa deviazione dal testo di partenza è la diversa dislocazione temporale degli avvenimenti, oppure la presenza o l’assenza di alcuni personaggi). Lo studioso di cinema Francis Vanoye, trattando della fedeltà dell’adattamento cinematografico al testo originario, afferma che quando si parla di sceneggiatura come adattamento si deve necessariamente considerare che il testo di partenza e la sceneggiatura finale non sono affatto due prodotti letterari simili: ogni adattamento è infatti “trasposizione di una forma espressiva in un’altra”214. Basandosi su questa importante distinzione tra i due modelli letterari, il francese ammette che esistono “limitazioni esistenziali” tra il testo di partenza e l’adattamento; per questo motivo, lo sceneggiatore che si ritrova ad adattare un testo letterario va incontro a problematiche molto diverse tra loro: i problemi tecnici e le scelte estetiche.

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2.3.1. Problemi tecnici �

Per quanto riguarda i problemi tecnici di un adattamento cinematografico, è interessante innanzitutto riportare le affermazioni di Mario Brenta relative alla trasposizione della parte del testo di Buzzati relativa al periodo di “esilio” del protagonista nelle campagne del Bersaglio:

Sono questi elementi215 che alla fine vanno a rimpiazzare quelle che sono le parole di Buzzati, perché proprio in quella parte di campagna il suo discorso, il suo racconto è meno fattuale, è tutto molto direttamente interiorizzato. Poi attraverso dei segni – perché lui dice, ad esempio, “Quella nuvola bianca che è ferma sopra il pero sta ad indicare che quattro anni sono passati…”, vallo a raccontare per immagini se uno capisce questa cosa qui: e allora bisogna trovare degli altri escamotage per raccontare queste cose, perché lì le parole hanno una loro forza che io dico che così è così, […] però, quando tu stai a vedere un film o metti una voce del personaggio che dice “Per me questo significa quello”, altrimenti è poco attendibile la cosa216.

Abbiamo già visto come Buzzati riesca a condensare nelle poche pagine del quattordicesimo capitolo ben quattro anni della vita in campagna del suo Bàrnabo: “Vita da contadini. […] Una grande nuvola bianca ad oriente sta ad indicare che molto tempo è passato”, ed ancora: “I giorni fanno presto a fuggire e sono già passati quattro anni” 217. Mario Brenta, escludendo una scelta “letteraria” come quella di una voce fuori campo o una schermata riassuntiva per indicare il tempo

����������������������������������������������������������������F. Vanoye, op. cit., p. 132�������Brenta parla di «elementi» quali la barca in secco, il macero, l’argine, che non si trovano nel testo di Buzzati�������Vedi intervista a M. Brenta in Appendice, p. 148. ����D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., pp. 55 e 56.��

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trascorso, sceglie invece di mostrare visivamente il lavoro di Bàrnabo in una parte che occupa quantitativamente gran parte della durata del film, in modo tale che la “vita da contadini” venga a tradursi nelle difficoltà quotidiana di raccogliere la canapa in fasci, scendere nel macero, etc. Il regista di Bàrnabo realizza in questo modo una delle regole tecniche per realizzare un adattamento: la possibilità di ricorrere ad aggiunte, supplementi, dilatazioni – a cui, ricorda Vanoye, si ricorre soprattutto quando c’è la necessità di adattare testi brevi (talvolta anche di poche pagine) a lungometraggi218.

Se è indiscutibile l’importanza della dilatazione a livello di scrittura della sceneggiatura, è bene ricordare come anche il tagliare sia una delle regole principali per costruire un adattamento cinematografico: da un lato ciò implica una limitazione del testo perché sarebbe impossibile trasporre la totalità dei fatti, delle descrizioni, dei personaggi e dei dialoghi presenti sulla pagina stampata; dall’altro si deve tener presente che il tagliare non implica soltanto il semplice levare, ma “significa anche accorciare, sintetizzare, amalgamare”219. Vediamo di seguito, attraverso un confronto tra la sceneggiatura e il romanzo di Buzzati, come Mario Brenta applichi la regola della sintesi a livello di personaggi ed eventi del romanzo originario al proprio film in due episodi emblematici.

La prima sequenza che prenderemo in esame è relativa alla morte di Darrìo. Nel testo di Buzzati220, la storia di Darrìo è uno degli episodi del primo capitolo che Del Colle è “in vena di raccontare”, ma la morte del guardaboschi diventa assurda agli occhi del lettore per diversi motivi: la motivazione che spingeva Darrìo a starsene per intere giornate sulle crode (“«C’è qualche ladro sulle montagne» continuava a dire. «Scappano dalle prigioni e si rifugiano lassù. Un giorno o l’altro verranno giù a rubare e a far rovina. Bisogna andare a vedere»”) viene annullata dal momento che il narratore afferma che Darrìo, ai ladri, “forse non ci credeva”; si afferma che “neppure Dio sa come faceva ad arrampicarsi su per le pareti”, ma poi – con un velo di sarcasmo – si dice che “eppure, bravo com’era, un bel giorno non è più tornato”; il cinico finale non lascia poi dubbi sull’inutilità della tragedia di Darrìo: “Se l’è voluta lui la morte, in fin dei conti”.

Nel film di Mario Brenta, la morte di Darrìo ha tutt’altra rilevanza rispetto al testo buzzatiano. Il regista sceglie innanzitutto di usare la vicenda di Darrìo come prologo del film, ponendo l’episodio prima dei titoli di testa; non vi sono – almeno inizialmente – indicazioni su chi possa essere il personaggio che compare sullo schermo, tant’è vero che il soggetto inquadrato può risultare di difficile identificazione anche per il lettore del romanzo di Buzzati. Ma andiamo avanti: Brenta riprende il guardaboschi attraverso una particolare tecnica cinematografica detta surcadrage, la quale implica il frazionamento dell’inquadratura attraverso un’ulteriore inquadratura; tale tecnica è spesso finalizzata a dare l’impressione allo spettatore che qualcuno stia osservando la scena proprio dal punto di vista della macchina da presa: sembra quindi che Darrìo sia osservato da una presenza ignota, nascosta tra gli alberi della boscaglia. Vediamo il soldato accucciarsi, tra la neve c’è un orma insanguinata di un animale: per questo motivo Darrìo va per le montagne, per ritrovare i bracconieri responsabili di quell’uccisione. Il guardaboschi sale le pareti di una croda, finchè non

���������������������������������������������������������������Gli esempi riportati sono quelli di Tre fratelli di Francesco Rosi, adattamento firmato Tonino Guerra di due pagine di Andrej Platonov; ancora, sempre per mano di Guerra, viene ricordato Blow Up di Michelangelo Antonioni dal racconto La bava del diavolo di Julio Cortazar. Cfr. F.Vanoye, op. cit., p.133. ���Ibidem�������Cfr. D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., p. 5.��

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vede dall’alto i cacciatori di frodo che portano il camoscio ucciso sulle spalle: li osserva, è pronto a sparare con il suo fucile, ma alcuni massi cadono (primo piano). Ecco uno sparo, è Darrìo a morire: non il suo corpo cade dalla vetta della montagna, ma – personificato – è il suo fucile a venire inquadrato mentre precipita.

Mario Brenta si esprime in questa maniera parlando del prologo che apre il suo film: “Ho scelto quell’episodio perché gli altri episodi mi sembravano meno significativi nel romanzo, e quello mi sembrava il più focalizzato, e lo gioco prima dei titoli di testa”, ed aggiunge:�“l’episodio di Darrìo, [è l’] episodio esemplare che scatena in Bàrnabo la voglia di diventare un eroe, di arruolarsi nel corpo dei guardiaboschi: il mito dell’eroe, la caduta dell’eroe, il riscatto…”. Leggendo le pagine di Buzzati, tuttavia, il lettore non riesce a respirare quell’aura eroica che investe il Darrìo di Mario Brenta: il personaggio del film scala le montagne per una giusta causa – egli ha visto l’orma insanguinata, addirittura ha visto i bracconieri che portavano con sé il camoscio ucciso – e muore da eroe per la sua sete di giustizia. Per poter comprendere il lavoro di “rivalutazione” del personaggio Darrìo compiuto da Mario Brenta, credo sia utile a questo punto spostare la nostra analisi alla sceneggiatura di Bàrnabo delle montagne, ricordando come una delle regole fondamentali per scrivere un adattamento sia quella di poter fondere i personaggi del testo originario; in particolare, vorrei mettere a confronto la morte di Darrìo nella sceneggiatura di Bàrnabo delle montagne e l’episodio che accade nel quindicesimo capitolo del romanzo buzzatiano, in cui il guardaboschi Montani, per vendicarsi del torto subito dall’enigmatico brigante nell’ormai disabitata Casa dei Marden, decide di cercare il fuorilegge sulle montagne di San Nicola:

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Mario Brenta porta a termine la riqualificazione di Darrìo in senso mitico costruendo un personaggio che è un concentrato dei due personaggi buzzatiani: di Montani, soggetto letterario che invece non sarà ripreso all’interno della pellicola, recupera il lato eroico (il guardaboschi è dipinto all’interno del romanzo di Buzzati come un personaggio solitario, quasi un solitario cowboy nelle saghe western delle praterie dell’ovest: nessuno conosce il suo passato, se ne sta in disparte e non si fida di nessuno, è l’unico ad aspettare i briganti nella notte, chiuso nella vecchia Casa dei Marden), ricalcando nella sceneggiatura in modo quasi del tutto fedele221 il passo in cui Buzzati narra dell’ascensione alle montagne finalizzata a portare a compimento la propria vendetta; del Darrìo originario, invece, Brenta ripropone la morte – coi corvi che lasciano presagire allo spettatore la fine del soldato – ed accenna appena alla scena dell’incontro tra Del Colle e i vecchi genitori, arrivati fino a San Nicola per riavere il corpo del figlio.

Per quanto riguarda la sintesi a livello drammatico – ovvero, nel film, la concentrazione di eventi che nel libro sono separati – vorrei attirare l’attenzione su una scena in particolare: la scalata della montagna di Bàrnabo e Bertòn, a cui segue la sparatoria a valle con i briganti. Nel romanzo sono narrate due diverse ascensioni: nel decimo capitolo, Bàrnabo e Bertòn scalano una croda “proprio a destra dei Lastoni di Mezzo”222; grande importanza è data alla paura del vuoto di Bàrnabo e alle difficoltà di salire a causa delle caratteristiche della montagna. Nella seconda scalata – al capitolo successivo – i due arrivano fino alla Cima della Polveriera dopo aver visto nuovamente i fumi: c’è un clima disteso, i due sono contenti; alla discesa però li attende la sparatoria con i briganti che sarà causa dell’allontanamento di Bàrnabo. Nel film di Mario Brenta assistiamo ad una sola scalata, che termina con la discesa ai ghiaioni, il ritrovamento della cornacchia ferita e la sparatoria con i briganti: lo spettatore che conosce il testo originario è portato a credere che il regista abbia tagliato la prima ascensione, e la durata effettiva della sequenza (dalla visione dei fumi da parte di Bàrnabo alla cacciata del guardaboschi) potrebbe far pensare ad una fedele riproposizione dell’undicesimo capitolo da parte del regista.223 Analizzando però la sceneggiatura di Bàrnabo delle montagne, è possibile notare come Brenta in realtà non tagli del tutto il decimo capitolo, ma amalgami i due episodi del testo buzzatiano224:

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����������������������������������������������������������������Come si può vedere nel confronto, ho voluto evidenziare le parti che più si assomigliano nel testo originario e nella sceneggiatura; d’altra parte nella sceneggiatura si fa riferimento al “camoscio ucciso”, ad indicare che i malfattori erano bracconieri. Sappiamo invece che il brigantaggio dei fuorilegge buzzatiani era invece finalizzato a rubare le polveri da sparo contenute nella polveriera ormai inutilizzata.�����È proprio in quel punto che Bertòn, nel nono capitolo, scorge innalzarsi dei fumi. Strano è il fatto che per tutto il capitolo undicesimo non venga poi nominata quella montagna. Cfr. D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., p. 30. ����La sequenza ha una durata di 8 minuti, in cui la parte della scalata alla montagna è abbastanza ridotta: allo stesso modo, in Buzzati il capitolo undicesimo ha una lunghezza di 5 pagine, di cui solo una relativa all’ascensione. ����Nel confronto tra la sceneggiatura di Brenta e il cap. 11 in Buzzati ho eliminato le parti che corrispondono agli episodi che seguono l’arrivo alla cima della montagna, in quanto del tutto simili: mi riferisco agli avvenimenti che accadono durante la discesa (la ferita di Bàrnabo, il ritrovamento della cornacchia ferita), e naturalmente alla sparatoria. Le suddette parti non presenti qui sono tuttavia reperibili in Appendice.

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Una delle caratteristiche che balzano all’occhio del lettore è la scelta da parte di Mario Brenta di narrare al tempo presente, caratteristica dell’episodio nel decimo capitolo. Il regista sembra inoltre osservare (abbiamo evidenziato queste parti in neretto) la scansione dell’arrampicata propria del decimo capitolo: casa � bosco � fine del bosco � canalone � cima (la presenza della cengia è del capitolo undicesimo). Come abbiamo evidenziato con vari colori nel confronto tra i due testi, sono presenti all’interno della sceneggiatura infine alcune significative somiglianze con la prima scalata fatta dai due guardaboschi: la posizione di Bàrnabo e Bertòn al momento dell’ascesa; il particolare dell’afa per la quale Brenta fa, con una piccola variante rispetto al testo originario, “soffrire” i suoi personaggi; l’azione del guardare il paesaggio attorno a sé, anche per poter scorgere se si possono vedere dei fumi nella zona in cui li si era scorti la prima volta; la presenza di una

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farfalletta che svolazza sulle rocce; la particolare visione dall’alto del posto di guardia, in cui si può notare la polveriera e una sentinella.

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2.3.2. Scelte estetiche �

Non sempre la decisione di togliere elementi o aggiungerne altri corrisponde ad una scelta derivante da una necessità tecnica: colui che si ritrova a scrivere una sceneggiatura a partire da un testo, è portato – anche se in misura minima – a dare comunque la sua interpretazione alla pagina destinata all’adattamento. Anche nei casi in cui la sceneggiatura risulta più fedele al testo originario – parliamo di casi come l’illustrazione, in cui “si pone il rischio dell’appiattimento gregario […] di uno slittamento o impoverimento, o forse di una «maniera»”, ed ancora della riduzione, in cui si “presuppone una perdita, certamente di estensione ma spesso anche di originalità”225 – è impossibile non notare una personale interpretazione del testo originario da parte del regista (non dimentichiamolo: un adattamento è comunque una trasposizione di una forma espressiva in un’altra), che confluisce in scelte che vanno dalla preferenza di tradurre in un certo modo le immagini prodotte dal testo in alcune inquadrature rispetto ad altre, a dare più o meno spessore ai personaggi in scena, fino alla volontà di dare una propria lettura della storia narrata nel testo226. Quest’ultimo caso è quello che meglio descrive il lavoro compiuto da Mario Brenta e Angelo Pasquini scrivendo la sceneggiatura di Bàrnabo delle montagne. Da un lato, infatti, la rielaborazione personale del testo di Buzzati è risultata essere inevitabile proprio per il metodo di scrittura del testo filmico, che porta gli sceneggiatori ad allontanarsi dal testo-base per concentrarsi sull’adattamento cinematografico, riempiendo con la fantasia i “buchi” causati dalla mancanza di memoria: “Abbiamo lavorato su questa sceneggiatura in un modo […] un po’ particolare: nel senso che, dopo aver letto il libro, […] basta: il libro lo si mette via, non lo si riguarda e si lavora sulla sceneggiatura”; d’altro canto, nella pellicola del regista veneziano si possono notare delle differenze col testo di partenza che vanno al di là della mera problematica legata all’assenza di avvenimenti o personaggi (o alla loro invenzione) causati dal “modus operandi” dei due sceneggiatori: le differenze significative sono allora da riportare alla volontà di Brenta di voler dare un proprio mutamento di direzione al Bàrnabo buzzatiano attraverso scelte che non sono più, quindi, solo tecniche, ma esclusivamente estetiche.

Davanti al film di Mario Brenta, è possibile notare sin dai titoli di testa un grosso divario con il romanzo di Buzzati: la storia che narra il regista veneziano comincia con un personaggio vestito da soldato che scende da un treno, in aperta campagna. Scorrono i titoli, e ritroviamo quell’uomo vagare per una strada di campagna sotto il sole, poi un’osteria: il soldato è inquadrato di spalle mentre sale le scale, poi è seduto su un letto, scarponi a terra, il buio attorno a lui, una finestra che dà sui campi. Potremmo trovarci spiazzati, specialmente se non avessimo letto il romanzo di Buzzati: l’inizio potrebbe ricordare quello di Ossessione (1943) di Visconti, in cui in un paesaggio rurale e una strada impolverata si ritaglia la figura di Gino, enigmatico personaggio – anch’esso inquadrato continuamente di spalle – che diverrà poi protagonista del film. Ma ritorniamo invece al

����������������������������������������������������������������Cfr. G. Tinazzi, op. cit., p. 71. �����Così Tinazzi: “La lettura – marcando proprio la matrice semantica di origine letteraria – sembra presupporre un riesame, ma con ogni probabilità anche una dipendenza”. Cfr. G. Tinazzi, op. cit., p. 71.

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lungometraggio di Brenta: avevamo lasciato il soldato su un letto a pensare, in una camera buia; dopo qualche istante, con una dissolvenza incrociata ci ritroviamo in un ambiente montano: l’inquadratura si apre su un caseggiato molto grande (è presente anche un’asta con una bandiera alzata) e alcuni boschi completano l’immagine. Stacco di montaggio, e vediamo la fotografia di Darrìo, il soldato morto nel prologo, e gli occhi di quel personaggio che avevamo seguito lungo i titoli di testa: è lui Bàrnabo, lo sappiamo perché dice il suo nome al capoguardia, e sta firmando le carte per arruolarsi nel corpo dei guardaboschi. La macchina da presa ritorna alla camera nell’osteria di campagna. Fuori, piove. Bàrnabo si guarda una mano: c’è una ferita, ormai cicatrizzata. Il guardaboschi cerca di riaprire il taglio, ce la fa, esce del sangue. La storia, poco dopo, si sposta di nuovo in montagna, nuovamente con una dissolvenza. È chiaramente un ricordo del soldato, di come Bàrnabo si è procurato quella ferita: da quel momento lo spettatore viene a conoscenza del passato del protagonista, la morte di Del Colle, la scalata dei monti per cercare di trovare gli assassini, l’esilio finale. È proprio in questa parte del film che Brenta segna il suo prodotto in maniera profondamente diversa dal romanzo di Buzzati: se nel testo di partenza le vicende del guardaboschi erano raccontate in maniera lineare, facendo coincidere fabula e intreccio, il regista veneziano sviluppa la storia facendo continuamente riferimento ad eventi accaduti nel passato227; la scelta che tuttavia segna l’originalità del film di Brenta è quella di non optare per una narrazione “classica”, dove il regista è narratore super partes e i flashback sono utilizzati in maniera esplicativa: Mario Brenta, nel rimontare le scene del romanzo buzzatiano, vuole che il passato sia filtrato attraverso i ricordi del personaggio Bàrnabo. Buzzati sceglie di far vedere gli avvenimenti228, enunciando i sentimenti di Bàrnabo (paura, vergogna, rabbia) e lasciando al lettore il compito di riempire di siginificato quelle emozioni attraverso rapporti di causa-effetto con gli avvenimenti raccontati nelle pagine precedenti; Brenta, al contrario di Buzzati, fa vedere gli avvenimenti del passato (ricordi, emozioni, rimorsi), ma lascia allo spettatore il compito di interpretare i sentimenti di Bàrnabo: “io volevo che questo film fosse come visto da Bàrnabo”,

����������������������������������������������������������������Marco Amato, analizzando il film di Brenta, schematizza in questo modo, particolarmente efficace, i due diversi ordini temporali di Bàrnabo romanzo e film:

Bàrnabo delle montagne di Dino Buzzati:

MONTAGNA (1) � (allontanamento) � CAMPAGNA � (ritorno) � MONTAGNA (2) T1 T2

Bàrnabo delle montagne di Mario Brenta: PROLOGO (T0) CAMPAGNA (2) � ARRUOLAMENTO (1) � CAMPAGNA (2) � MONTAGNA (1) � (allontanamento) � CAMPAGNA (2) � (ritorno) � MONTAGNA (3) T1 T2 Marco Amato, Con gli occhi di Bàrnabo – Analisi narrativa del film Bàrnabo delle montagne di Mario Brenta, Tesi di laurea: Corso di laurea in scienze della comunicazione, 2000 – 2001, Padova, pp.8-9.����paradossalmente è maggiore la cifra cinematografica del romanzo: Buzzati scrive quasi come se si rendesse conto di utlizzare una macchina da presa – sceglie che cosa inquadrare, da quale angolazione, ma non pretende di entrare nel personaggio, fa solo intuire a colui che “osserva” l’immagine i sentimenti che il personaggio prova.�

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afferma il regista, “cioè come se Bàrnabo, dal momento in cui si trova confrontato con la caduta, l’esilio, cioè il crollo di quelli che sono i suoi ideali, vedesse retrospettivamente la sua vita”; ed ancora:

È come Bàrnabo vede sé stesso, come se si vedesse in una proiezione: e poi il tutto non è una visione soggettiva diretta [nel cinema, il personaggio guarda e vede queste cose, o si sta dentro il personaggio]: è una visione dal di fuori ma è attraverso gli occhi di Bàrnabo; allora, se devo dire una cosa, da un punto di vista figurativo, è una sorta di omologia rispetto al discorso libero indiretto che c’è in letteratura, cioè quando lo scrittore scrive secondo le modalità culturali di un personaggio; pur nella scrittura in terza persona, c’è questo passaggio attraverso il filtro culturale ed esistenziale di un personaggio229.

Proprio perché Mario Brenta decide di raccontare la sua storia “con gli occhi di Bàrnabo”, è lecito pensare ad innovazioni e dirottamenti rispetto al testo di Buzzati come a scelte del tutto estetiche, derivanti dalla volontà di dare, da un lato, importanza alla visione propria del guardaboschi, e, dall’altro lato, accentuare la drammaticità della storia narrata nel film. Prendendo a prestito da Casetti e di Chio la definizione di narrazione (cinematografica), che vorrebbe questa come “un concatenarsi di situazioni, in cui si realizzano eventi, e in cui operano personaggi calati in specifici ambienti”230, vorrei osservare, confrontando il romanzo di Buzzati e la sceneggiatura, come l’operazione creativa di Brenta e Pasquini sia focalizzata su due dei tre cardini della narrazione: gli esistenti, categoria che “comprende tutto ciò che è dato e che è presente all’interno della storia, e […] si articola a sua volta in due sotto-categorie: quella dei “personaggi” e quella degli “ambienti”231, e gli eventi, a loro volta divisibili in due categorie: quella dell’ “azione”, se è un agente animato che provoca l’evento stesso, e quella dell’ “avvenimento”, se l’agente è un fattore ambientale o una collettività232.

���������������������������������������������������������������Vedi intervista a M. Brenta in Appendice, p. 146. ����F. Casetti, F. di Chio, Analisi del film, Milano, Bompiani, 1994, p. 165.�����Ibidem.������Escludiamo dalla nostra analisi il terzo fattore che determina una narrazione: le trasformazioni. Sappiamo che l’evento “non è solo ciò che dettaglia il racconto, ma è anche e soprattutto ciò che lo muove, […] questa connessione fitta degli accadimenti produce inevitabilmente […] un cambiamento di scenario, una modifica della situazione di fondo: da una situazione si passa a un’altra situazione, attraverso un processo di trasformazione” (F. Casetti, F. di Chio, op. cit., p. 192); partendo da questo presupposto, si può notare come le trasformazioni più importanti nel film siano ricalcate sul testo (Amato, op. cit., p.20), rendendo praticamente inutile un confronto per stabilire le differenze tra testo e sceneggiatura:

- Barnabo: da guardaboschi a custode della caserma;�- Molo (Fornioi): da guardaboschi a guida montana;�- La polveriera e la Casa Nuova: da preziosa e importante a vuota e inutile;�- Il nemico: da misterioso a visibile e umano;�- Bàrnabo: da vile a coraggioso; da vendicativo a pietoso. �

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Adattamento degli esistenti buzzatiani nel Bàrnabo di Mario Brenta 233

Le tattiche narrative adottate da Brenta e Pasquini nello scrivere la sceneggiatura di Bàrnabo delle montagne si possono ricondurre, nel nostro riferimento agli esistenti del film, a scelte come l’aggiunta, la soppressione o, come abbiamo visto nel caso di Darrìo, la fusione di singoli personaggi o di gruppi di soggetti; ancora, si possono notare nel film personaggi a cui vengono tolte la complessità e le funzioni che li contraddistinguono nel romanzo. Vediamo i due punti in dettaglio.

a) Aggiunta di nuovi personaggi

Brenta e Pasquini inseriscono talvolta nella sceneggiatura nuovi personaggi: a volte questi agiscono singolarmente; altre volte invece essi fanno parte di un gruppo, di un sistema più grande.

Tra i personaggi che fanno parte del film di Brenta ma che non compaiono all’interno del romanzo di Buzzati, un ruolo fondamentale tocca ad Ines, la bambina che guida Bàrnabo durante il suo esilio in campagna. Il regista sembra voler indicare la ragazzina come una sorta di doppio del guardaboschi: Ines e Bàrnabo subiscono entrambi un processo di cambiamento, dovuto probabilmente anche al loro incontro; se già sappiamo quanto sia importante per Bàrnabo il lungo periodo di tempo passato in campagna – per poter non solo espiare la sua colpa per la quale è stato cacciato dal corpo dei guardaboschi, ma anche per poter vedere con sentimenti diversi anche le montagne – si può osservare nella sceneggiatura del regista veneziano il personaggio di Ines portare a compimento il passaggio dall’infanzia all’adolescenza.

Durante l’esilio in campagna, molto spesso Ines fa da tramite tra il guardaboschi e il duro mondo dei campi. Come ricorda Marco Amato, già nelle prime scene del film la ragazzina accoglie Bàrnabo all’osteria della nonna quasi con il compito di “iniziarlo” al ruvido lavoro in campagna: “la bambina gli pone subito in chiaro che la sua permanenza ha un prezzo (“Costa cinque lire”). Il prezzo da pagare è quello della sua colpa, necessario per acquistare la via del ritorno”234. Quando Bàrnabo inizia a lavorare in campagna, si avverte addirittura un ribaltamento dei ruoli: dapprima avviene un passaggio di consegne delle mansioni fino a quel momento esercitate da Ines:

C’è nei campi quel grigiore soffuso che prelude al giorno. Le due donne sono già al lavoro, la nonna col falcetto taglia le piante, Ines con fatica le raccoglie in fasci. Dal fondo del campo arriva Bàrnabo. Si ferma, le guarda a distanza fin quando si accorgono di lui. È Ines che fa segno alla nonna. La vecchia mostra a a Bàrnabo come ammucchiare la canapa in fasci, il lavoro di Ines.

Poi, in un passaggio chiave del film235, è addirittura la bambina che obbliga il guardaboschi a scendere nelle acque melmose del macero per legare la canapa:

����������������������������������������������������������������Prima di cominciare a confrontare i due testi, vorrei precisare che la nostra analisi si svolge non tanto sulle parti in cui Brenta rimane fedele al testo originario, bensì sugli scarti significativi rispetto al romanzo di Buzzati.������M. Amato, op. cit., p. 17.������“Il percorso di espiazione cui è sottoposto Bàrnabo raggiunge il punto più basso con l’immersione purificatrice nell’acqua. Una scena che a livello simbolico ricorda l’immersione purificatrice dell’iconologia cristiana e che è anche

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Bàrnabo finisce di scaricare il mucchio che porta sulle spalle. I suoi movimenti tradiscono una continua indecisione. Ines è accucciata sul bordo, slega la canapa e la butta nell’acqua. A malincuore, Bàrnabo entra nel fosso. Ines comincia a passargli grosse pietre, sollevandole con fatica. Con l’acqua al petto, muovendosi piano nel fango che sprofonda, Bàrnabo sistema le pietre sui fasci di canapa per tenerli sott’acqua.

Bàrnabo si sottomette ad una bambina; la prova alla quale Ines sottopone Bàrnabo potrebbe mettere in crisi la volontà del guardaboschi di rimanere nei campi per poter espiare la sua colpa: ma egli rimane – malgrado il disagio causato dal suo essere regredito ad uno status infantile e dal confronto tra la diversità anche simbolica tra le vette delle Dolomiti e il livello bassissimo di quel macero – per poter così portare a compimento la sua trasformazione.

Anche Ines subisce una metamorfosi, causata quasi per contrappasso da Bàrnabo. La ragazzina fa la sua prima apparizione dopo pochi minuti dall’inizio del film: il guardaboschi appena arrivato in campagna entra nell’osteria, sembra non esserci nessuno, eccetto Ines, che depone della legna nel camino. Brenta e Pasquini la descrivono così all’interno della sceneggiatura:

“La bambina si volta. Dieci anni o poco più e l’espressione seria, un po’ dolente, dei bambini costretti a crescere in fretta. Guarda timida Bàrnabo come se nessun uomo fosse entrato mai lì dentro”.

Sin da subito veniamo a conoscenza della sua timidezza, e della cosa che più condivide con Bàrnabo: la capacità di relazionarsi col mondo esterno attraverso la vista. È un continuo ammirare le cose che succedono, ora con meraviglia, ora con preoccupazione:

Ines è in cucina. Attraverso la porta vede nell’aia una cornacchia. Il vento del temporale le arruffa le penne. Ines la osserva muta e attentissima. Ines ha preso un catino e ora guarda curiosa Bàrnabo che finisce di farsi il letto. Aspetta che lui si giri per porgergli il catino.

Ines percorre la navata e va a sedersi fra le sue coetanee, ai primi banchi. Una di loro ha i capelli tagliati cortissimi, sotto il fazzoletto. Ines la guarda preoccupata.

Non è un caso, quindi, che il rapporto che nasce col guardaboschi sia soprattutto costruito sullo sguardo: assente nel film, nella sceneggiatura c’è una scena in cui, una sera, prima di addormentarsi per la stanchezza, Ines è rapita dai movimenti che Bàrnabo fa per smontare e rimontare il fucile. Sono poi sguardi di richiesta di aiuto quelli che la bambina scambia con Bàrnabo quando le vengono tagliati i capelli (“Ines segue ogni gesto. L’uomo comincia a pettinarla. […] Bàrnabo si alza per uscire, a occhi bassi. Impotente anche di fronte allo sguardo disperato che gli lancia Ines) e sguardi di paura non appena capisce che, dopo aver ricevuto la lettera, il guardaboschi ripartirà per le montagne (“Bàrnabo sente su di sé lo sguardo della bambina e non può fare a meno di guardarla. I suoi occhi sono pieni di lacrime...e Ines ne ha come paura”). La freddezza con cui la bambina comunicava al guardaboschi che la sua permanenza gli sarebbe costata “cinque lire”, muta con l’andare del tempo in sentimenti benevoli verso Bàrnabo: è Ines, infatti, che comunica

�����������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������un leitmotiv dell’autore, già presente nel lungometraggio Verminsàt e nel mediometraggio Robinson della laguna”. Ibidem.��

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tempestivamente alla nonna che Bàrnabo non può andare a lavorare perché ha la febbre; è ancora la ragazzina che prende le difese del guardaboschi davanti alle donne che scherzano sul fatto che Bàrnabo si potrebbe essere nascosto, dal momento che non si fa più vedere nei campi. A segnare definitivamente la trasformazione di Ines da bambina un po’ impacciata ad adolescente, è una scena – a mio giudizio molto importante – che non è stata inserita nel film: è sera, e Ines si ritrova con le donne del paese a filare. Siamo quasi sul finire della fase agricola di Bàrnabo: il guardaboschi è nel suo pagliericcio, deve guarire dalla febbre. Ines e le altre donne del paese sono nella stalla dell’osteria a filare; ad un certo punto il discorso vira sulla bravura di Ines nel fare il suo lavoro: è questo un segnale della sua crescita, tanto che si afferma che la donna che è brava a cucire può sicuramente trovare marito. Quasi per chiudere un rapporto biunivoco tra Ines e l’unico uomo della casa, Brenta e Pasquini fanno chiudere il dialogo delle donne su Bàrnabo, unico uomo presente nel paese:

Nel buio del fienile, giungono voci di donne; la botola che affaccia nella stalla sottostante è un riquadro di luce. Le voci si fanno più distinte. La nonna, Ines, la vedova di Toni e altre due donne lavorano: alcune strigliano con pettini di ferro lunghi cordoni di canapa ancora grezza; altre scartocciano le pannocchie. Ines seduta al fuso, fila. Una delle donne la osserva; DONNA: “è brava, la Ines” La nonna risponde senza distogliere gli occhi dal suo lavoro. NONNA: “Se non impari i mestieri, non ti prende nessuno” RAGAZZA: “Tanto qua uomini non ce n’è..” NONNA: “Tornano gli uomini..”. Ride. Tacciono. Nel silenzio si stacca il rumore del fuso che gira. DONNA: “Com’è che il soldato non si vede?” NONNA: “Dorme..”

Tra i personaggi aggiunti nella sceneggiatura di Bàrnabo delle montagne, è poi da segnalare l’importante figura che mette alla prova prima Bàrnabo e poi Ines: l’uomo che ha la doppia mansione di giudice e di tagliacapelli. Questo personaggio compare in un primo momento in una gara di tiro al piccione che si tiene tra guardaboschi e gente di San Nicola nei pressi della Caserma nuova236: si sentono delle fucilate e si vedono i tiratori scambiarsi sulla pedana; bambini aprono le gabbiette dei piccioni a cui seguono gli spari dei partecipanti che mirano con precisione ai volatili. Il giudice ha il compito di regolare i turni, tenendo la mano sul fucile del tiratore in modo tale che egli non chiami la liberazione del piccione prima del tempo previsto. Tocca a Bàrnabo:

Il giudice gli libera la mano. Bàrnabo chiama il piccione, punta il fucile e aspetta. Uno scatto, e il piccione esce dalla gabbia e si alza libero nel cielo.. Bàrnabo lo segue con lo sguardo mentre si dirige verso il bosco. Sembra quasi che voglia mandare via il piccione senza sparargli, perché alla fine il colpo parte, come per conto suo. Bàrnabo va a sedersi fuori dal recinto di tiro.

����������������������������������������������������������������Confrontando la sceneggiatura e il testo di Buzzati, possiamo presupporre che questa scena sostituisca l’intero capitolo ottavo, dove Bàrnabo partecipa alla Festa di San Nicola e non può che annoiarsi: un valzer che, confrontato con quello che venne suonato all’inaugurazione della Casa Nuova, è cambiato e non è più allegro – monotono; non è presente alla festa alcuno dei suoi amici né dei suoi colleghi guardaboschi; troppo grande la differenza tra il giovane soldato e la gente “piena di soldi” che presiede al ballo. Cfr. D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., pp. 27-28.

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Il guardaboschi manca il colpo: la scelta può essere vista dallo spettatore come una rinuncia ad uccidere quell’uccello, ma agli occhi del giudice – per il quale esiste solo il colpo centrato o sbagliato – quello di Bàrnabo può essere soltanto un fallimento.

Durante il periodo trascorso da Bàrnabo in campagna, ritroviamo ancora una volta il personaggio del giudice: lo vediamo camminare in direzione della casa della nonna, Bàrnabo lo riconosce e cerca di evitarlo, non solo per la vergogna della sua pena, ma anche per quel fatto avvenuto al tiro al bersaglio. Se il giudice può simboleggiare il ritorno dei fantasmi di Bàrnabo, ed anche il fatto che il guardaboschi – da lui messo alla prova – aveva fallito, “questa volta è un altro il personaggio messo alla prova. Si tratta della bambina, che assume così a titolo pieno il ruolo simbolico dell’espiazione di Bàrnabo. Questa piccola guida affronta con eroismo la prova del taglio dei capelli, dimostrando […] a Bàrnabo l’inettitudine di cui si è reso colpevole”237. Ritorniamo con questa sequenza a ciò che abbiamo evidenziato in precedenza, parlando della discesa del guardaboschi nel macero: la trasformazione di Ines e Bàrnabo non può che avvenire attraverso uno scambio di ruoli. Bàrnabo deve ritornare ad uno stadio quasi infantile, per poter comprendere che è necessario toccare il fondo per potersi rialzare; Ines, dal canto suo, può crescere soltanto superando le prove a cui indirettamente Bàrnabo era stato sottoposto in precedenza.

L’aggiunta di nuovi personaggi rispetto al romanzo di Buzzati non si riflette tuttavia solo a livelli di singoli soggetti: si può vedere nella sceneggiatura l’inserimento da parte di Brenta e Pasquini di veri e propri sistemi di personaggi, di strutture a cui spesso è dato un significato. Una delle differenze più importanti nell’adattamento cinematografico di Bàrnabo delle montagne è la presenza di un fitto universo femminile, non particolarmente rilevante nel romanzo buzzatiano.

Nella parte relativa al trascorso di Bàrnabo come guardaboschi sulle montagne di San Nicola, è da evidenziare la sequenza dell’inaugurazione della Caserma nuova, con la scena di ballo nel grande cortile antistante la caserma; prima una musica nostalgica, poi molto più irruenta e ballabile porta i guardaboschi a danzare con le ragazze del paese:

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La sceneggiatura di Brenta non sembra essere troppo fedele al testo di Buzzati: Bertòn non è presente nella scena; Molo è sì “il più bravo”, ma non si presta attenzione al fatto che in Buzzati ����������������������������������������������������������������M. Amato, op. cit., p.18.��

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balli con una ragazza di grande interesse, perché la figlia del podestà. Per quanto riguarda Bàrnabo, in Buzzati si legge che egli sceglie una ragazza dal pubblico, ma i due cominciano a ballare proprio quando la musica si ferma. La scena nel testo di Brenta è molto diversa, e prende connotati quasi romantici dal momento che il guardaboschi prende per mano il personaggio della ragazza dai capelli rossi per poi portarla a ballare senza avere il coraggio di guardarla negli occhi.

Il film, al contrario, non rispetta la sceneggiatura: i guardaboschi trattati a livello di inquadrature tornano ad essere Bàrnabo, Molo e Bertòn, come accadeva in Buzzati. Vediamo innanzitutto Bertòn ballare con una ragazza bella, sì, ma di una bellezza un po’ comune; la differenza più notevole con la sceneggiatura è tuttavia negli abbinamenti femminili di Bàrnabo e Molo: è a quest’ultimo infatti che tocca l’engimatica ragazza dai capelli rossi, mentre Bàrnabo si ritrova a ballare con una giovane che non sembra avere troppa importanza, tanto che viene inquadrata molto spesso di spalle. Mario Brenta afferma che la scelta fatta a livello di abbinamenti deriva dalla volontà di far rispecchiare il carattere dei guardaboschi nelle donne con cui questi ballano: “nella scena del ballo, […] attraverso le compagne che ballano con loro si caratterizzano i personaggi; Bàrnabo ha una bionda, montanara, con gli occhi un po’ bassi; Bertòn invita la rossa prosperosa, e l’altro balla con Marzia, che è quella che fa l’occhiolino a Bàrnabo”. Considerando che il film è “visto dal punto di vista di Bàrnabo”, questo triplice sistema femminile serve a descrivere con una semi-soggettiva del protagonista i compagni verso i quali continuamente Bàrnabo tende; “Bàrnabo vorrebbe essere come Molo, e Bertòn però è l’amico […] con un atteggiamento […] così lineare, non è tormentato”: da un lato quindi Bàrnabo ammira la virilità di Molo, che si ritrova nelle braccia della ragazza più bella del paese; dall’altro egli desidera la tranquillità e la gioia di vivere di Bertòn, che balla contento con una donna prosperosa.

L’altro grande sistema femminile presente nel film è quello rappresentato dalle tre donne (Ines, la vedova, la nonna) che vivono nei luoghi di campagna in cui Bàrnabo sconta la sua colpa. Come ricorda Mario Brenta, la parte relativa all’adattamento dell’esilio di Bàrnabo è stata quella su cui egli ha lavorato maggiormente di propria fantasia; proprio perché “tutta la seconda parte in Buzzati è molto interiorizzata [Buzzati si mette nel suo personaggio e racconta i suoi stati d’animo]”, il regista veneziano ha voluto costruire ancora una volta un sistema simbolico per poter esprimere i sentimenti e lo stato del suo protagonista. In particolare, la vedova riporta il guardaboschi al momento presente, quello della sofferenza; l’anziana nonna funziona nell’interiorità di Bàrnabo come il ricordo dei tempi passati sulle montagne: la vecchia insegna il mestiere dei campi al soldato e ritma la sua vita in base al lavoro e al riposo, nella stessa maniera in cui i guardaboschi si davano il cambio nei turni di guardia alla polveriera, e allo stesso tempo è lei che si prende cura di Bàrnabo dandogli da mangiare e assistendolo quando è malato. Ines, oltre ad essere il personaggio “doppio” del guardaboschi, è anche il presagio del futuro: la bambina è un esempio di “eroismo di marca diversa”238 a cui necessariamente Bàrnabo deve fare riferimento per poter superare le proprie paure e i propri limiti.

Dino Buzzati inserisce all’interno del racconto personaggi anziani che talvolta sono accostati a figure più giovani, oppure sono segnale per il lettore di un avvenimento o di una situazione importante per la storia. Il guardaboschi Antonio Del Colle, per esempio, è colui che ha il compito di aprire il racconto perché il più vecchio tra i compagni, e quindi colui che conosce le storie, anche

���������������������������������������������������������������Vedi intervista a M. Brenta in Appendice, p. 146.�

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quelle più remote, legate alle montagne di San Nicola. Del Colle è l’unico che può accompagnare il padre di Darrìo (un “signore piccolo che mette soggezione”, un “vecchietto”) nei luoghi in cui è morto il figlio, quasi in un gioco di parallelismi – il padre come il rappresentante della “famiglia naturale” di Darrìo, Del Colle quasi il padre putativo, rappresentante delle montagne su cui il ragazzo amava andare; ancora, è la morte di Del Colle a destare sorpresa al lettore per il grande clamore che questa genera nelle valli e per il modo in cui essa è col tempo dimenticata un po’ da tutti. Allo stesso modo del capoguardia, sono importanti nel testo di Buzzati i briganti che compaiono nel finale: i quattro malviventi – “magri e patiti”, con il primo della compagnia che “avrà un sessant’anni con le spalle piuttosto curve” – sono l’antitesi dei farabrutti che abitavano i ricordi e l’immaginazione di Bàrnabo; agli occhi del lettore è proprio il loro aspetto (“non hanno l’espressione cattiva”, afferma Buzzati quasi con la soggettiva del suo eroe) che fa fare dietro-front a Bàrnabo nascosto dietro alle rocce, prima deciso ad uccidere i quattro che teneva sotto la mira del suo fucile239.

All’interno del suo film, Mario Brenta riprende i personaggi di Buzzati nella loro vecchiezza: Del Colle è il più vecchio dei guardaboschi, il padre di Darrìo è l’austero anziano che veniva descritto nel romanzo. L’ultima scena, quella di Bàrnabo accucciato tra le rocce in attesa di sparare ai briganti, è fedele al testo originario fino a rendere passo dopo passo le sensazioni descritte: continui piani su vestiti, sulla magrezza, sulle facce e, infine, sulla testa del vecchio rendono perfettamente ciò che Buzzati faceva vedere a Bàrnabo dal mirino del suo fucile. Lo spettatore che guarda Bàrnabo delle montagne può tuttavia notare un’ulteriore aggiunta del regista al testo di Buzzati: quasi a voler sottolineare l’importanza del fattore-tempo per i personaggi buzzatiani, il regista veneziano inserisce nel film dei personaggi interpretati da bambini e ragazzi (figure assenti nel testo dello scrittore bellunese) che si intervallano – a livello di inquadrature – a personaggi di età senile. Si consideri, ancora una volta, la scena della festa per l’inaugurazione della Caserma Nuova:

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Nel film di Brenta, diversamente dal testo di Buzzati in cui musicista è Del Colle, suonano intervallandosi un ragazzo e un vecchio, con due strumenti diversi. Anche le inquadrature sono utili a capire questa distinzione operata dal regista: la macchina da presa, oltre ad riprendere i volti dei musicisti, è attenta anche a fare dei primi piani sulle mani, specialmente quelle rugose del violinista. �������������������������������������������������������������� Non dimentichiamoci la concezione di “moralità dell’opera” di Dino Buzzati: “Poi, se mi domandano se la letteratura debba avere uno scopo morale, io rispondo che nel mondo nostro, più o meno cristiano, è logico che un libro, per essere commovente, per arrivare al cuore – usiamo questa parola volgarissima –, debba essere morale […]. In certi miei scritti, mi è venuta istintivamente – stavo per dire «ho cercato», il che non sarebbe esatto – pietà per gli animali, pietà per i vecchi”. Cfr. Y. Panafieu, op. cit., p. 206.

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Un'altra scena che, come in una sorta di ideale campo-controcampo, mette a confronto due personaggi di diversa età, è quella girata nel tiro al bersaglio. Come abbiamo già visto, un personaggio chiave di questa sequenza è quello del giudice: è lui che “decide” indirettamente delle vite degli uccelli nelle gabbie, indicando ai concorrenti sulla pedana il loro turno per sparare; un personaggio raffigurato nel film come un “portatore di morte”, e che si contrappone all’innocenza del ragazzino che raccoglie le carcasse degli uccelli colpiti a morte dai fucili degli sparatori. Quasi come un’anticipazione del finale del film, questo confronto mostra allo spettatore il conflitto interiore che sarà presente in Bàrnabo: da un lato, l’angoscia per il giudizio negativo – quello del vecchio giudice mezzo cieco – per aver mancato il bersaglio (ovvero, in seguito, per essere fuggito dai nemici durante la sparatoria); dall’altro, la volontà morale di non uccidere – quella del bambino che guarda angosciato Bàrnabo mentre raccoglie i piccioni – che segnerà la scelta del guardaboschi davanti ai suoi nemici nel finale del film.

b) Modificare il ruolo di alcuni personaggi

Come abbiamo visto in precedenza, il personaggio di Darrìo presente in Dino Buzzati viene trasformato per esigenze tecniche all’interno della sceneggiatura di Bàrnabo delle montagne; osservando il film, si può tuttavia notare come il personaggio di Darrìo non sia l’unico a mostrare differenze rispetto al testo: Del Colle, per esempio, si fa accompagnare da un cane – assente nel testo originario – all’appuntamento con la morte; il personaggio di Montani è addirittura eliminato nell’adattamento di Brenta e Pasquini (nel testo di Buzzati la figura di questo oscuro guardaboschi è invece molto importante); ancora, nel film, il guardaboschi che ha cambiato lavoro accompagnando i ricchi cacciatori sui monti dopo l’abbandono della Casa Nuova non è Fornioi (che non fa, come Montani, alcuna apparizione nella pellicola) bensì Molo.

Se i personaggi prima citati mostrano piccole differenze rispetto al testo originario (Del Colle) oppure sono trattati come parte di un gruppo più esteso, uniforme, come quello dei guardaboschi (molte infatti sono le scene corali nel film di Brenta, e il lettore può presupporre di trovare i vari Montani, Fornioi, ma anche Franze, Durante e gli altri guardaboschi del libro all’interno delle inquadraure “d’insieme”), è impossibile a mio giudizio non accorgersi delle modifiche apportate dai due sceneggiatori al personaggio di Bertòn240.

Nel romanzo di Buzzati, Bertòn è molto più che un semplice compagno per il protagonista Bàrnabo: il guardaboschi Giovanni Bertòn è innanzitutto il migliore amico di Bàrnabo, e – a livello psicologico – quasi il doppio del protagonista, poiché spesso i sentimenti e i comportamenti dei due personaggi coincidono nelle pagine del testo241. Ma non solo: Bertòn è anche una guida per

����������������������������������������������������������������Volendo partire da un presupposto “quantitativo”, si può notare la differenza tra il testo di Buzzati e la sceneggiatura – che addirittura contiene scene poi non riprese nel film! – già dal confronto tra l’occorrenza del nome di Bertòn nel romanzo e nell’adattamento. In Buzzati, il nome di Bàrnabo è quello più presente a livello di sostantivi (275 occorrenze); Bertòn segue per secondo (è terzo tra i sostantivi, preceduto da “casa”) a livello di personaggi, con 88 occorrenze. Nella sceneggiatura di Brenta e Pasquini è sempre Bàrnabo in testa alle occorrenze dei sostantivi (365 presenze), ma Bertòn lo segue a grande distanza: con 57 occorrenze è il quarto personaggio più nominato (Ines e Molo lo precedono). ����Bàrnabo può certamente considerare Bertòn come un amico: al guardaboschi, infatti, “piacciono le serate passate entro la baracchetta, specialmente quando c’è in servizio con lui Bertòn e si può chiacchierare per ore e ore nel buio” (p.24). Inoltre, Bertòn è sveglio al mattino presto – l’unico tra i guardaboschi – quando Bàrnabo è ufficialmente cacciato dal corpo. Per quanto riguarda invece la duplicità dei sentimenti e delle “percezioni” dei due compagni, è da

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Bàrnabo, perché egli è un abile scalatore, e a volte si presta ad ardite arrampicate a cui fanno da eco le preoccupazioni del narratore travestito da Bàrnabo242. L’amico guardaboschi nel finale è infine colui che rende possibile a Bàrnabo il ritorno alle amate montagne, facendo da mediatore con gli altri guardaboschi per il suo reinserimento: da un certo punto di vista, la cacciata di Bàrnabo fu causata dalla grave ferita di Bertòn alla gamba, conseguente alla sparatoria con i briganti; il ferimento del guardaboschi fu dovuto al comportamento di Bàrnabo che non coprì le spalle all’amico: solo a quest’ultimo è dato quindi il potere di far rientrare Bàrnabo nel corpo dei guardaboschi, perdonandolo del fatto successo anni prima.

Nell’adattamento di Brenta e Pasquini, Bertòn non ha la stessa profondità psicologica e l’importanza del personaggio buzzatiano: all’interno della sceneggiatura non sono presenti dialoghi tra i due guardaboschi, il compagno di Bàrnabo si limita a fissare l’interlocutore con fare interrogativo, a minimizzare, a cambiare l’oggetto della discussione. Bàrnabo è al centro del film di Brenta, e Bertòn non può assolutamente condividere le sensazioni e i presentimenti dell’amico; è un esempio – tra i tanti – è la scena in cui si scoprono i fumi sulle montagne, a cui seguirà l’ascensione per poter catturare i briganti: si noti, nel confronto che proponiamo, l’atteggiamento di Bertòn nei due diversi testi, e soprattutto le modalità di scoperta dei fumi in Brenta e Buzzati.

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�����������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������notare come essi siano gli unici a vedere i fumi provenire dalle montagne: cfr. D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., pp. 18 e 29-31.�����Ci riferiamo al passo della sepoltura di Del Colle: “Bàrnabo si è accorto che Bertòn si è allontanato improvvisamente ma non osa rompere il silenzio per chiamarlo. Arrampicatosi per una obliqua cengia, Bertòn è voltato fuori, sulla parete che chiude il canalone. Dopo poco tutti lo vedono aggrappato a delle rocce verticali, sotto gli ultimi lastroni. Purchè non succeda un altro disastro” (p.16).

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In Buzzati sorprende l’immaginazione di Bertòn: vorrebbe scalare le montagne perché, impavido, vuole vedere cosa c’è dietro alle creste (sarà questa la scelta che i due guardaboschi poi faranno); è poi molto poetica la capacità del giovane guardaboschi di andare al di là delle montagne per poter “visitare” il padre e la sorella. Forse proprio per questo suo essere il più creativo tra i guardaboschi, Buzzati decide che toccherà a lui vedere i fumi dei briganti salire dalle cime delle montagne – un po’ come capitava agli emigrati italiani sulle navi per gli stati uniti, con l’unico uomo che per primo dall’altra parte dell’oceano vedeva la terraferma. Anche nel film di Brenta Bertòn vede i fumi salire: ma la sua unica preoccupazione non è legata al successo che porterà la scalata, al ritrovamento dei fucili dei nemici come in Buzzati, ma semplicemente al non dover essere “l’unico responsabile della scoperta”.

Nel confronto tra l’ascensione nel film di Brenta e le due arrampicate in Buzzati abbiamo già visto come nel romanzo sia più volte sottolineato l’importante ruolo di Bertòn, vera e propria guida di Bàrnabo per le scalate delle montagne di San Nicola: differentemente dal film, il guardaboschi amico del protagonista è “tranquillo come se dovesse andare a messa”, e dispensa continuamente utili consigli all’amico preoccupato di cadere («Cavati le scarpe e vedrai come resti saldo […] vieni su, ché il peggio è fatto»); infine, proprio quando – nella difficile discesa – la paura di morire è grandissima in Bàrnabo, ecco che basta una canzonetta fischiettata da Bertòn per far tornare la tranquillità243.

Il personaggio di Bertòn è poi molto importante nel romanzo di Buzzati perché è a lui che Bàrnabo deve il suo ritorno alle montagne di San Nicola. Nel testo dell’autore bellunese i due amici si rivedono dopo quattro anni dalla sparatoria; Bertòn se ne sta andando all’estero da un parente, e passa a salutare Bàrnabo in campagna: gli racconta – anche se non ce n’è davvero bisogno, perché “non c’era nulla da dire: proprio come se si fossero visti la sera prima” – i fatti successi sulle montagne di San Nicola, la possibilità che sulle montagne fossero tornati i “tempi gloriosi delle leggende”, con i fantasmatici briganti in fuga “verso ignote pianure, inseguiti dall’inverno”. Passato un anno da questo incontro, mentre Bàrnabo sta lavorando nei campi, ecco una lettera indirizzata a lui: è Bertòn, che gli propone di tornare a San Nicola. Brenta e Pasquini, nel loro adattamento del romanzo, sembrano tener conto di questo importante passo del libro di Buzzati sono per una piccola

����������������������������������������������������������������Per questo e gli altri riferimenti, cfr. D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., pp. 33-36.�

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parte; è infatti sempre una lettera ad accendere la volontà dell’ex guardaboschi di tornare alle montagne, ma quasi tutto è diverso rispetto al testo originario:

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Nel film a prevalere sono i sentimenti negativi: Bàrnabo apre la lettera “con paura”, e la legge con un profondo turbamento, gli occhi bassi, pieni di lacrime. Anche nelle persone con cui è solitamente a contatto c’è un atteggiamento di preoccupazione: nella vedova c’è “delusione” e “rimpianto”, Ines – come Bàrnabo – ha paura degli effetti che quella lettera potrà avere su di lei. Nel testo di Buzzati, invece, è tutto un tumulto nel guardaboschi: la felicità di cui gode il ragazzo si espande addirittura nel mondo esterno (è il “giorno della gioia” a venire davvero quando il guardaboschi riceve la lettera, “si diffonde per i prati una luce di contentezza”), e quando Bàrnabo se ne va dalla campagna, non sente nemmeno il bisogno di girarsi a guardare per l’ultima volta il Bersaglio, tanta la contentezza che ha nel cuore. Ma non sono solo i dati “ambientali” a differenziare il testo di Buzzati dal suo adattamento: si noti, per riprendere il discorso lasciato interrotto poco fa, il ruolo di Bertòn. Nel testo originario, Bertòn è l’artefice del ritorno di Bàrnabo alle montagne di San Nicola. Scrive all’amico di farsi trovare alla stazione di Vogo, per poi partire con lui verso i compagni guardaboschi. Bàrnabo è felicissimo, come abbiamo visto, e dopo tre giorni parte verso Vogo; quando arriva alla stazione, tuttavia, sembra che Bertòn non abbia mantenuto la sua parola. Cresce in Bàrnabo la disperazione:

Ecco cigolare i ferri; soffia la locomotiva, la stazione si muove, si muovono le case, i pali e poi corrono via impetuosi gli alberi della campagna. Barnabo comincia a pentirsi. Cosa va a fare, solo, a San Nicola? Non si era dovuto vergo-gnare abbastanza? Ma non ha il tempo di pensare244.

Ma Bertòn è un amico vero, e non ha abbandonato Bàrnabo – egli infatti è solo in fondo al vagone, e si è addormentato; è solo grazie a questa certezza, di trovarsi assieme al vecchio compagno, che

����������������������������������������������������������������D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., p. 75.��

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Bàrnabo può fare ritorno alle amate montagne: “Non era meglio tornare? Scendere alla prima stazione, accontentarsi della vita tranquilla nei campi del Bersaglio? Invece, senza nemmeno saperne il perché, Barnabo continua il viaggio”245. Nel testo di Brenta, Bertòn non compare nemmeno: ad autorizzare il ritorno di Bàrnabo è il capoguardia Giovanni Marden ( si noti la formalità della chiusura della lettera), che sembra voler assumere nuovamente l’ex guardaboschi perché “occorre […] qualcuno per far la guardia su alla caserma”. Il piano umano su cui si fondavano le relazioni in Buzzati, sono cancellate nella sceneggiatura di Brenta e Pasquini: a questo motivo si deve a mio parere il disagio vissuto da Bàrnabo, che non vorrebbe in realtà tornare ai monti, dai vecchi compagni.

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Considerazioni sugli eventi nel Bàrnabo di Mario Brenta

L’adattamento di Brenta e Pasquini non interessa soltanto le trasformazioni dei personaggi del Bàrnabo buzzatiano, o la creazione di soggetti ex novo: a volte i due autori si concentrano anche sugli eventi, e – allo stesso modo degli esistenti – mutano quelli presenti nell’edizione del 1933, oppure inseriscono nuove sequenze all’interno della sceneggiatura. Tra gli episodi degni di nota e non presenti nel Bàrnabo di Dino Buzzati, è da menzionare l’apparizione degli emigranti nei campi del Bersaglio: un avvenimento importante all’interno del film perché da un lato comporta una reazione da parte del protagonista Bàrnabo, e perché dall’altro sottolinea ancora una volta la sottile trasformazione dell’ambiente come vero e proprio esistente buzzatiano. Ma andiamo con ordine. La scena che prendiamo in esame segue il taglio dei capelli di Ines da parte del vecchio giudice: Bàrnabo è consapevole delle durezze del mondo campagnolo, e viene continuamente sottoposto a nuove prove – la raccolta della canapa, la discesa del macero, la malattia. Una sera arrivano gli emigranti ospitati nella casa della nonna di Ines: raccontano di andare verso un mondo a loro favorevole, dove c’è lavoro (“Dieci anni lì ti bastano per tutta la vita […] quella dei tuoi figli e dei figli dei tuoi figli!”) e dove si mangia a volontà (“E là, cosa si mangia?” “Carne. Carne, carne, carne. Si mangia carne anche alla mattina..alta quattro dita..in bocca così..e si taglia col coltello!”). Il gruppo se ne va l’indomani, e invita anche Bàrnabo a partire con loro. L’ex guardaboschi è fortemente tentato dalla possibilità che gli viene offerta: il prezzo del biglietto per la nave è un investimento, visto che in Argentina c’è molto lavoro e con i soldi che si guadagnano in dieci anni si può far vivere comodamente tutta la famiglia. Malgrado ciò, Bàrnabo rifiuta di presentarsi la mattina. L’atteggiamento di Bàrnabo è in linea con il suo comportamento e con il suo fine, quello di tornare sulle montagne per poter vendicarsi dei briganti che avevano assaltato la polveriera e causato il suo allontanamento. All’ennesima prova a cui gli eventi lo sottopongono, egli continua per la sua strada, e con i soldi del biglietto che poteva acquistare per andare in Argentina, Bàrnabo compera un fucile, in attesa di poter sparare un giorno ai malviventi sulle crode di San Nicola.

In questa scena è da notare anche come l’ambiente aiuti a rendere la divisione esistente – sin dall’inizio – tra Bàrnabo e gli emigranti, e soprattutto come la scenografia naturale riesca a dare allo spettatore la resa dei sentimenti di Bàrnabo: Brenta sceglie infatti di girare gran parte di questa

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sequenza lungo un argine di campagna mai nominato nel libro di Buzzati. A proposito di questa scelta, il regista afferma che

c’è quest’argine, ed è qualcosa che chiude e che apre nello stesso tempo. E poi è qualcosa che mette il personaggio ancora più in basso. È una campagna, se dobbiamo mettere una quota, è una campagna che non è a quota zero, ma è [simbolicamente] a meno sei… […]. Mette [il personaggio] ancora più sotto del livello – diciamo zero – della terra. Quando c’è la scena degli emigranti, che non c’è nel romanzo […] gli emigranti quando vanno via la mattina camminano sull’argine; camminano sull’argine e Bàrnabo sta sotto; e loro sono in luce e lui sta sotto, in ombra. Quindi se il livello dell’argine è il Purgatorio, lui sta sotto.

Allo stesso modo del macero, in cui Bàrnabo sta sotto e il resto dell’inquadratura sopra, l’argine ha il dovere di ammonire il protagonista: c’è sì la tentazione di andarsene, ma la natura del paesaggio impone al soggetto una “revisione” della volontà di fuga, gli ricorda di dover espiare la sua colpa.

Una sequenza presente nel Bàrnabo buzzatiano, e variata nell’adattamento di Brenta e Pasquini, è quella della morte di Del Colle. Se il ritrovamento del cadavere del guardaboschi rimane piuttosto fedele nella sceneggiatura, è poi tutta la parte relativa della cerimonia funebre a variare nei due diversi testi:

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Nel testo buzzatiano è l’azione dei guardaboschi a risaltare: secondo le ultime volontà di Del Colle246, la cassa del vecchio capoguardia è portata sulle montagne. A risaltare è il silenzio e la fatica di dover portare il feretro in un punto impervio del canalone. Nel finale, come abbiamo già visto, è l’azione di Bertòn a venire ripresa dalla penna di Buzzati: ma la sua non è una vana scalata, ma è tutta incentrata sul gesto simbolico di porre il cappello di Del Colle sulla sommità, come se quella montagna fosse da quel momento segnata da quell’oggetto. Nell’adattamento di Brenta e Pasquini, dopo alcuni particolari un po’ macabri sulla morte del soldato (“Poi Del Colle si è mosso. Ha allungato fuori una mano e stringe piano la giacca con le dita, ma gli occhi sono sempre fermi e persi e una schiuma gli cola appena dalla bocca e si gonfia in bolle rossastre che subito si spaccano”), l’attenzione è rivolta alla solidità della bara, non alla sua scomodità. Se Buzzati preferisce far seppellire il suo personaggio nella montagna – quasi senza altre alternative, visto il vitale collegamento di Del Colle con l’habitat montano – la cassa di Del Colle nel film di Brenta rimane nella caserma dei guardaboschi: non c’è la poesia del silenzio e della fatica che alimentavano il testo del bellunese, e la macchina da presa va a riprendere delle scene religiose. �

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�����������������������������������������������������������������« Una sera, qualche mese fa » dice Giovanni Marden « quando si cominciava a discutere per la casa nuova, una sera che voialtri eravate tutti in giro, Del Colle mi aveva ben parlato della sua morte. "Per mia figlia" aveva detto "posso essere anche tranquillo perché si è maritata bene. Per me" disse "ormai siamo alle ultime. Quando sarò morto, se non è troppa fatica, ti faccio vedere dove dovrete portarmi." E raccontò la storia del padre di Darrìo e di quel canalone dove si erano fermati. "Proprio in cima alle ghiaie" mi disse "a destra, nella parete, c'è un buco. Quando l'ho visto ho pensato: ecco qui il tuo posto, Del Colle, dove potrai stare in santa pace. " E adesso, cari miei » continua Giovanni Marden « gli faremo una cassa, anzi la farai tu, Fornioi, e poi lo porteremo lassù. Ci sarà un'ora di cammino. ». Cfr. D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, op. cit., p. 16.�

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APPENDICE

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Confronto sceneggiatura - romanzo

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Proponiamo di seguito un confronto tra la sceneggiatura di Bàrnabo e il testo originario: analizzando i due testi, abbiamo evidenziato con il colore giallo le parti in cui l’adattamento è più fedele al testo buzzatiano; il colore verde segna le sostituzioni; con il colore azzurro sono segnalate le aggiunte fatte da Brenta e Pasquini rispetto al Bàrnabo di Buzzati; il colore grigio, infine, segnala i punti in cui una parte ridotta del testo originario viene sviluppata in maniera estesa nella sceneggiatura. In alcune scene – quelle iniziali, per esempio, con protagonista Darrìo – abbiamo deciso di usare vari colori per segnare le somiglianze tra sceneggiatura e romanzo.

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Page 123: Dalle montagne alla pellicola. Bàrnabo tra Buzzati e Brenta

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Intervista a Mario Brenta: 01 febbraio 2012

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Come ha scelto i luoghi in cui ambientare Bàrnabo delle montagne? La scelta di ambientare il film nelle Dolomiti deriva dalla descrizione delle montagne in Bàrnabo, oppure l’idea del paesaggio dolomitico deriva da altri testi di Buzzati, in cui hanno avuto una grande influenza – come lei ha detto in un’altra intervista247 – i disegni di Buzzati?

Per il centenario della nascita, al Corriere della Sera c’è stato un evento in cui io ho fatto un intervento, in quest’occasione organizzata da Mereghetti, sull’aspetto iconografico in Buzzati; le Dolomiti sono state una scelta obbligatoria per un motivo molto semplice: trovo che sono le montagne d’elezione di Buzzati, chiaramente si leggono in filigrana nel suo romanzo e anche se la topografia dei luoghi è inventata (San Nicola, etc.), è comunque presente un’operazione di prelievo, un collage che Buzzati fa, dove prende dei nomi (la Croda dei Marden esiste, scende dalla Croda dei Toni per Auronzo…) e li mette assieme nella geografia del suo testo. Il disegno che Buzzati fa in ex ergo del libro è estremamente chiaro: non sono le Alpi Occidentali: sono delle forme ben riconoscibili, che sono quelle delle Dolomiti.

Ho scelto poi le Dolomiti non tanto per una preoccupazione filologica, ma perché le Dolomiti hanno una caratteristica fondamentale: sono delle montagne vere che sembrano finte, sono di roccia ma sembrano di cartone; per questo motivo trovo che esse rendono bene il registro particolare che c’è nel film, che è una storia vera e realistica, ma sempre al confine: c’è poi sempre questa patina di leggenda anche nelle cose (sono poi queste storie che diventano patrimonio della gente del posto, diventano poi “miti”); mi sembrava che quello fosse lo sfondo giusto, ben sapendo che poi non è uno sfondo ma è un qualcosa di ben più importante: le montagne sono protagoniste nel film e nel libro con le loro valenze simboliche: verticalità, ascesa, tramite verso il trascendente… e quindi attraverso queste valenze le montagne sono protagoniste del film oltre il personaggio principale. Poi dal punto di vista figurativo, ma qui andiamo oltre le montagne e parlo in generale del film, io mi sono attenuto molto ai dipinti di Buzzati, soprattutto ai Miracoli di Val Morel, ma anche a Poema a fumetti, all’Invasione degli orsi in Sicilia, a tutto quello che Buzzati ha prodotto come pittura e come grafica.

Questo è un qualcosa che determina la cifra visiva del film per un motivo: è un film costruito diversamente dal romanzo, per quanto riguarda la temporalità, e giocato il film in un grande flashback, partendo da uno dei prologhi, cioè l’episodio di Darrìo, episodio esemplare che scatena in Bàrnabo la voglia di diventare un eroe, di arruolarsi nel corpo dei guardiaboschi: il mito dell’eroe, la caduta dell’eroe, il riscatto…

Perché io l’ho costruito in flashback? Ho scelto quell’episodio perché gli altri episodi mi sembravano meno significativi nel romanzo, e quello mi sembrava il più focalizzato, e lo gioco prima dei titoli di testa – quindi è quasi un paratesto – e dopo si entra nella vicenda di Bàrnabo: nel momento in cui lui è esiliato, nel momento in cui arriva in campagna, e dopo un lungo flashback poi le cose si risaldano e si riprende la linearità del tempo, e si va avanti in cronologia; [tutto ciò] per un

����������������������������������������������������������������Cfr. http://www.fucinemute.it/2006/08/appunti-su-stile-musica-e-bresson/

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motivo semplice: io volevo che questo film fosse come visto da Bàrnabo: cioè come se Bàrnabo, dal momento in cui si trova confrontato con la caduta, l’esilio, cioè il crollo di quelli che sono i suoi ideali, vedesse retrospettivamente la sua vita. Allora, quale può essere la cifra visiva di Bàrnabo? È uno delle montagne: è una persona che appartiene a quella cultura, una persona semplice. Però ognuno nel rivivere sé stesso anche attraverso la memoria, ha una tendenza a mitizzazione di sé, nel bene e nel male, anche nella caduta.

Mi sembrava che la cifra visiva degli ex voto, per esempio, che sono delle produzioni un po’ naif di gente semplice che attraverso l’ex voto mitizza la propria esistenza (l’intervento di Santa Rita rende mitico un episodio della propria vita) [avviene] attraverso una cifra culturale anche espressiva e visiva di quella gente lì, e allora io ho detto che Buzzati non un è naif, ma si mimetizza da naif, e quindi quel tipo di iconografia la trovavo molto giusta e ho cercato nel film di restituirla partendo però dai luoghi reali e giocando su questa disponibilità che quei luoghi hanno pur essendo reali di rappresentare una realtà filtrata da un particolare tipo di visione.

In effetti anche gli oggetti, a volte non presenti nel romanzo, spesso sono influenzati dalla visione di Bàrnabo...

Tutto prende un particolare rilievo, c’è una sorta di epurazione della visione: la memoria visiva ci riporta quelle immagini diciamo significative mentre altri aspetti vengono tralasciati; tra le immagini significative ci possono essere anche gli oggetti, anche cose che abitualmente non hanno una grande importanza ma all’interno di un percorso esistenziale che uno ha certe cose sono determinanti. Nella fattispecie diciamo il fucile: il fucile diventa una sorta di metonimia del personaggio, non c’è mai della psicologia qui dentro, è attraverso l’uso e il non uso del fucile, il buon e il cattivo uso del fucile che noi capiamo quali sono i moti interiori dell’animo non solo di Bàrnabo ma anche degli altri personaggi, e poi anche delle altre cose, che sono degli oggetti di uso comune ma che all’interno di una particolare costruzione prendono una rilevanza simbolica. Trovo anche interessante questo, perché la simbologia, quand’è scontata – nelle allegorie – i simboli sono già codificati come tali, riconosciuti, etc., mentre è interessante inventare il simbolo, cioè trovare nella realtà una particolare circostanza per cui un oggetto che è, così – non voglio dire insignificante – ma di uso normale trascende sé stesso con una significazione molto più ampia e senza negare però la sua origine.

Nel momento per esempio in cui passa attraverso la soggettività di Bàrnabo…

Sì, in quel momento si carica di un valore espressivo e semantico molto più esteso: mi sembrava che quella fosse la visione giusta e allora se ci vogliamo rifare per esempio a quel tipo di pittura [di cui si parlava prima, dei lavori buzzatiani dall’ Invasione degli orsi in Sicilia ai Miracoli di Val Morel], allora si lavora molto sulle posizioni di macchina, sulle ortogonali: o sono le inquadrature frontali, o sono laterali; non c’è mai lo scorcio; e poi c’è un uso quasi totale dei teleobiettivi, in modo da avere personaggi e sfondo ravvicinati, nella fattispecie non avere le montagne come nelle cartoline, che si perdono all’orizzonte, ma averle molto vicine, molto incombenti, certe volte anche con le cime tagliate in modo che – sappiamo che tagliare è il principio della siepe leopardiana: invece che restringere lo sguardo lo allarga, perché si va nell’indefinito, la cosa continua, non è un taglio che amputa ma anzi, è tagliare per prolungare all’infinito.

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È come se Bàrnabo vedesse sé stesso, come se si vedesse in una proiezione: e poi il tutto non è una visione soggettiva diretta – nel cinema, il personaggio guarda e vede queste cose, o si sta dentro il personaggio – è una visione dal di fuori ma è attraverso gli occhi di Bàrnabo; da un punto di vista figurativo, è una sorta di omologia rispetto al discorso libero indiretto che c’è in letteratura, cioè quando lo scrittore scrive secondo le modalità culturali di un personaggio; pur nella scrittura in terza persona, c’è questo passaggio attraverso il filtro culturale ed esistenziale di un personaggio. E quella è l’operazione che io ho cercato di fare: mi sembrava quella più giusta per non cadere in un realismo quasi naturalistico che non mi pare che una storia così debba avere, e nello stesso tempo [ho cercato] di non fare troppo un’astrazione fiabesca, infatti c’è una stilizzazione nella visione e nello stesso tempo c’è un uso dei materiali, concreti, veri, non ci sono attori, è gente presa lì nei posti, c’è questa estrema verità di tutto quello che è il profilmico, e poi attraverso lo sguardo si dà questo taglio particolare che è la visione di Bàrnabo, questa è l’operazione che abbiamo fatto. Anche dal punto di vista fotografico, salvo alcune sequenze, ho sempre girato con il cielo coperto: non volevo le montagne-cartolina, le montagne dai contrasti, ma proprio il cielo coperto è quello che tira fuori tutte le tonalità in fondo che le montagne hanno, soprattutto quelle montagne lì.

Mi chiedevo appunto, visto che il sole nel romanzo di Buzzati è uno degli elementi che compare di più, perché nel suo film invece il cielo comparisse così spesso coperto…

Ho cercato quello, ho cercato poi di ritrovare tutti quegli elementi che ci sono in Buzzati, per esempio il sonoro, questa montagna viva, il vento, il cadere dei piccoli frammenti di roccia, i sassolini… Questa montagna che è lì, è immobile, ma come internamente ribolle. Questo qualcosa, le nuvole, sono tutti degli elementi che mi sembravano importanti. Poi, soprattutto nella seconda parte, ho fatto proprio degli interventi a livello della storia, inserendo dei personaggi come le tre donne – che non ci sono [nel romanzo] perché la seconda parte in Buzzati è molto interiorizzata, cioè Buzzati si mette nel suo personaggio e racconta i suoi stati d’animo; nel cinema invece noi dobbiamo raccontare l’invisibile attraverso il visibile e allora ho fatto questa scelta anche lì molto basata un po’ su degli aspetti allegorici di questi personaggi, la vecchia, la bambina, la vedova che sono le tre età e che corrispondono ai tre diversi momenti di Bàrnabo: al momento presente che è quello della sofferenza (la vedova), la regressione – questa discesa totale attraverso la figura della madre che poi è anche quella che lo rimette in vita attraverso il lavoro che gli dà, le attenzioni, il mangiare, e… queste cose, e poi la bambina che è il futuro, l’esempio, questo eroismo di marca diversa che lui impara, è l’eroismo di affrontare la vita, di affrontare i propri limiti, e lì sta la grandezza anche del personaggio, alla fine, con quelle due immagini – anche quando lui arriva e passa il treno che c’è una specie di piccolo stelo d’erba che oscilla e poi quello stesso stelo d’erba (“stesso” tra virgolette) che si ritrova poi sul masso dove Bàrnabo si era appostato per maturare la vendetta e poi se ne va via, è un po’ un simbolo pascaliano, che dice che l’uomo è grande proprio perché è piccolo e si piega come un giunco sotto il peso di tutto, le intemperie della vita…

A riguardo dello sfondo, pensando la montagna come personaggio, mi sembra che ci siano delle inquadrature che si rifanno al punto di vista della montagna, per esempio nell’episodio iniziale con Darrìo, con il personaggio piccolissimo sullo sfondo: sembra quasi che le montagne stesse lo guardino, quasi che il paesaggio osservi i personaggi del film.

Certamente c’è, a volte, un punto di vista che è leggermente rilevato rispetto agli attori; già per esempio come apre il film, che Darrìo è visto di spalle con l’obiettivo nel bosco: riprendere alle

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spalle un personaggio è sempre creare una sorta di insicurezza nel personaggio, è come non avesse le spalle coperte, e quindi lui sta davanti, guarda, ma nello stesso tempo c’è qualcosa… E questo sguardo, sempre avviene da una posizione rilevata, è quello che in termine tecnico si chiama “God’s eye”, l’ “Occhio di Dio”, anche se non è proprio in verticale, in posizione zenitale… Come ci fosse un’entità che sta sopra… Sono le montagne? Sono i contrabbandieri? C’è sempre un qualcosa: il personaggio non è mai visivamente padrone della situazione: guarda, ma è guardato.

Anche nella scena di Del Colle, in cui è osservato da lontano senza che se accorga…

…E dove lui diventa albero. Come la casa: è tutto un discorso che faceva Merleau-Ponty sulla percezione; diceva che noi guardiamo le cose ma le cose ci guardano. Lo sguardo non è qualcosa di univoco ma c’è un ritorno, ma non è uno specchio, ma un chiasmo, un incrociarsi delle cose. In questo senso, c’è parecchio, nel film, questo rapporto di scambio di sguardi (anche se certi sguardi non sono gli sguardi di persone), c’è un qualcosa che ci guarda, la casa, per esempio, la vecchia caserma, sono sempre questi elementi, per esempio quando Del Colle ritorna lì, e anche quando Bàrnabo ci ritorna poi alla fine, da questa casa ci sono passato anche di recente, queste finestre nere, sono un po’ delle occhiaie vuote…

Penso anche alle inquadrature dall’interno, per esempio di Bàrnabo che passa, guardato dall’interno, dalle finestre…

Esatto, anche lì, attraverso questo surcadrage, l’inquadratura nell’inquadratura, quando Bàrnabo va a dire ai due amici “stop che Del Colle è morto” è visto da qualcuno attraverso la finestra, da chi?, dalla casa… Poi Buzzati, parlando delle case, e questo si vede dai suoi disegni, non sono mai dei luoghi di protezione, sono dei luoghi d’inquietudine…

Spesso anche i personaggi all’interno delle stesse case sono attaccati dall’esterno…

B: Sì, mi ricordo un’immagine: la casa, e fuori c’è il Babau… Io non vedo mai, nella pittura di Buzzati, l’interno come un luogo che protegge. È un luogo d’inquietudine. Poi certo la minaccia viene da fuori, penso anche in altri… C’è un racconto molto breve che si svolge all’interno di un albergo, c’è un personaggio, sono al buio, si spiano dalle camere e questo personaggio è l’unico a non avere la candela… oppure la goccia, questa goccia che scende le scale, per cui la casa diventa sempre qualcosa di inquietante…

…I luoghi, anche nel Poema a fumetti, questa villa, non sono mai dei luoghi “amici”, queste case, e lì ho visto anche queste caserme, sì, sono dei luoghi in cui loro stanno dentro ma dove non ci si rifugia.

Volevo chiederle, questa differenza da Buzzati nel vedere la campagna, per esempio… Lei parlava in un’intervista dell’importanza dell’argine che limita la visione, laddove Buzzati parla proprio della campagna come qualcosa che si perde a vista d’occhio; volevo chiederle perché questa visione della campagna così limitata…

Perché è lo stesso discorso della siepe; perché solo da una parte è chiusa, perché poi davanti ha una totale apertura; però dietro c’è quest’argine, ed è qualcosa che chiude e che apre nello stesso tempo. E poi è qualcosa che mette il personaggio ancora più in basso. È una campagna, se dobbiamo mettere una quota, è una campagna che non è a quota zero, ma è a meno sei…

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Quindi abbassa lo stesso personaggio…

Sì, lo mette ancora più sotto del livello – diciamo zero – della terra; quando c’è la scena degli emigranti, che non c’è nel romanzo –però si ispira un po’ al fatto che Bertòn è andato in America – gli emigranti quando vanno via la mattina camminano sull’argine; camminano sull’argine e Bàrnabo sta sotto; e loro sono in luce e lui sta sotto, in ombra. Quindi se il livello dell’argine è il Purgatorio, lui sta sotto. E poi mi sembrava, dietro la casa, esserci come uno sbarramento, una sorta di qualcosa che aldilà di quello c’è l’avvenire. Anche, ci sono delle immagini nel film, per esempio quelle due striscie di terra nell’acqua, una cosa che ho trovato lì e che trovavo curiosa – e poi ci ho trovato un senso, diciamo nel film, che diventa questa specie di strada interrotta, perché è inquadrata un po’ come i binari della ferrovia e sono interrotti… Anche quello è un simbolo di ciò che Bàrnabo sta vivendo, e lo vede all’inizio, quando arriva, e poi lo rivede quando riparte. Anche all’arrivo lui entra in questa stazioncina, entra in questo buco nero, è come anche lì la porta dell’inferno, e poi entra e passa attraverso questa stazioncina e entra nella campagna, e lo vediamo che è in basso. Poi appare sull’argine ma la casa in cui andrà è in basso. E poi quando lui va nel macero, della canapa: va ancora in basso. Poi, va bene, la campagna, la montagna, il piatto, l’orizzontale e il verticale, queste cose qui… Come un altro elemento, che ho trovato lì, questa barca, per esempio, che è messa in secco, cioè lì nel fienile dove lui sta c’è questa barca che non è in acqua, è fuori, e c’è una sorta di spaesamento, questa cosa che dovrebbe stare in acqua sta in terra, come lui che dovrebbe stare là sta da un’altra parte. È qualcosa che si è arenato, che è in secca. Sono questi elementi che alla fine vanno a rimpiazzare quelle che sono le parole di Buzzati, perché proprio in quella parte di campagna il suo discorso, il suo racconto è meno fattuale, è tutto molto direttamente interiorizzato. Poi attraverso dei segni – perché lui dice, ad esempio, “Quella nuvola bianca che è ferma sopra il pero sta ad indicare che quattro anni sono passati…”, vallo a raccontare per immagini se uno capisce questa cosa qui: e allora bisogna trovare degli altri escamotage per raccontare queste cose, perché lì le parole hanno una loro forza che io dico che così è così, certo magari nel personaggio il vedere questo segno così può dare anche un’idea del tempo, non lo so, basta dirlo e io lo prendo così, però, quando tu stai a vedere un film o metti una voce del personaggio che dice “Per me questo significa quello”, altrimenti è poco attendibile la cosa.

Lì noi abbiamo giocato questo passaggio di tempo che dà uno spessore è il passare dalla nebbia al sole, con questo campo rigogliosissimo dove spunta un campanile che è un po’ come il granoturco che c’è lì però è anche la montagna, in quel momento c’è poi la svolta, il perdono, queste cose qui, e poi il volo di quelle anatre selvatiche, il suonare della campana, che sono dei rintocchi e poi suona a festa; quindi sono tutti degli elementi che si riferiscono al tempo, però anche al mutamento, e anche questi uccelli migratori che passano e che formano una freccia nel cielo e anche lì è la freccia del tempo: sono poi degli elementi che hanno poi queste valenze…

Anche poi le ripetizioni stesse danno l’idea di questo passaggio di tempo (abitudinario)…

Io ho giocato molto sull’alternanza, in questa parte in campagna sono tutte delle sequenze che hanno delle ellissi che le separano, abbastanza marcate, e sono giocate sempre estate-inverno… cioè avere sempre delle situazioni di luce stagionale diversa che dà, per forza di cose pur sintetizzando, il passaggio.

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Mi viene in mente la ripetizione della stessa inquadratura, quella della locanda per esempio…

Sì, è il fatto di ritrovare una ciclicità delle cose, che però è una ciclicità “a spirale”, nel senso che ritorni a quel punto ma c’è qualcosa che è cambiato: cioè si richiude su sé stesso ma allo stesso tempo il tempo va avanti… Anche nel ritorno dell’uguale c’è una progressione, è un uguale ma… dopo.

(…) Sempre in riferimento all’immagine, ci sono delle immagini precise di Poema a fumetti, per esempio nel treno, questo treno dell’inizio – che è inquadrato con 600, con tutti i finestrini, etc. – c’è proprio un’immagine di Poema a fumetti; si ritrovano certe cose, per esempio gli omini piccoli, una cosa tipica di Buzzati, l’omino piccolino piccolino, una specie di formichina; ma anche per esempio nelle divise, che io ho fatto ai guardiaboschi: i cappelli sono quelli dell’alpino, ma li faccio portare in un’altra maniera, che è un cappello un po’ tondo, che erano gli alpini prima che diventassero con questa divisa qua: spesso nei disegni di Buzzati ci sono questi cappelli.

Io penso quando ero ragazzino avevo sei anni, dai sei fino ai dodici, andavo in vacanza in montagna, e stavo moltissimo a guardare le montagne, cioè non facevo come gli altri ragazzini che magari andavano a giocare, io mi mettevo lì: il fatto – non so – che cambiava la luce, o le cose stesse.

La mia ultima domanda riguarda il livello di amicizia tra Bàrnabo e Bertòn: mi sembra meno approfondito nel film rispetto al romanzo.

Ecco, io ho assimilato delle cose di Bertòn a Bàrnabo: per esempio nel romanzo è Bertòn che vede i fumi, ma nel film li deve vedere Bàrnabo; Bertòn è un po’ questo specchio che Bàrnabo si porta dietro, perché ci sono questi tre personaggi, Bàrnabo, Bertòn, Molo: Molo è il superuomo, quello che si crede tale; Bàrnabo è il “vorrei ma non posso”, cioè quello che è incerto, Bertòn è la pragmaticità, cioè l’uomo medio, quello che “deve fare”…

Io vedo i tre personaggi un po’ come le tre donne: Bàrnabo come la vedova, la bambina – Molo, e la madre, Bertòn. Bertòn è un personaggio aperto, è chiaro: quando anche nella scena del ballo, che attraverso le compagne che ballano con loro si caratterizzano i personaggi; Bàrnabo ha una bionda, montanara, con gli occhi un po’ bassi; Bertòn invita la rossa prosperosa, e l’altro balla con Marzia, che è quella che fa l’occhiolino a Bàrnabo. Difatti è l’esempio: Bàrnabo vorrebbe essere come Molo, e Bertòn però è anche l’aspetto materno, che ritroviamo poi nella donna anziana in campagna, è l’amico, è quello che sta lì, che condivide le cose, però sempre con un atteggiamento, quello di Bertòn, così, lineare, non è uno tormentato.

Anche quando c’è la scena che loro vanno su, poi non ritrovano i fumi, scendono e cadono nell’imboscata dei contrabbandieri, Bertòn spara, fa, etc.; ma quando vanno su, è Bàrnabo che dice “andiamo su” e carica il fucile, e l’altro è lì, “vabbene, vengo…”. Però poi quando c’è il momento della verità, Bertòn spara e resta ferito, Bàrnabo carica il fucile e va dietro il masso e se ne sta lì. È un po’ anche un rinviare il senso di colpa, un po’ quando l’altro gli dice “speriamo che non perda la gamba”, e poi trovo bello che questo personaggio rispetto al romanzo, nel film, questo personaggio, scompaia. È come la perdita: lui ha commesso questa cosa, quest’atto di viltà, che non ha prodotto direttamente, però l’altro si è beccato una pallottola, e lui va via, e poi torna, e questo

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non c’è, è un po’ la posizione di San Tommaso o di Sant’Agostino: ci può essere il perdono, ma quello che è stato è stato, e allora il fatto che Bertòn non ci sia è proprio questo: l’irreversibilità.

Intervista a Mario Brenta: 26 aprile 2012

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Qual è stato il suo approccio al testo di Buzzati? Qual è stato il procedimento di trasposizione del testo di Bàrnabo alla sceneggiatura?

Un lavoro di trasposizione non è un lavoro in cui si tengono le parti più fattuali del testo ed elimino quelle concettuali, perché spesse volte la sostanza, lo spirito dell’opera sta riposta in cassetti un po’ segreti, non così accessibili e evidenti: a volte è in quello che i personaggi pensano, in un certo giudizio che è espresso dall’autore, che spesso commenta, eccetera. Molto sta anche nello stile, in come si decide di scrivere una storia: è questo tono, il registro – che a volte determina il risultato finale. A volte le soluzioni sono abbastanza semplici, a volte no: a volte, per esempio, bisogna re-impastare tutta la storia, come abbiamo fatto nella parte relativa all’esilio di Bàrnabo.

Nel caso di Bàrnabo delle montagne, abbiamo lavorato su questa sceneggiatura in un modo un po’ particolare: letto il libro, letto, riletto e riletto, basta. Il libro si mette via, non lo si guarda, e si lavora sulla memoria del libro.

Si può vedere anche dall’organizzazione del film molto diversa, rispetto al romanzo: si pensi anche al flashback.... A me sembra tuttavia che alcune parti, come la morte di Darrìo all’inizio, condensino più vicende del testo originario: per quanto riguarda Darrìo, essa riprende sì l’episodio iniziale, ma anche gli accadimenti di Montani verso il finale del testo; si può vedere poi questo procedimento anche per altre parti del testo.

Rispetto al romanzo, che è breve, ma se trasposto interamente in cinema diventerebbe lunghissimo, c’è stato nella sceneggiatura un lavoro di condensazione, per esempio sono fusi alcuni personaggi. Per esempio Bertòn assorbe Darrìo e lo stesso Montani; non è Berton che vede i fumi ma è Bàrnabo, che li vede.... Si cerca cioè di semplificare e di accorpare, di rendere più denso e meno divagante. Scrivendo, ci si può soffermare sulle descrizioni; nel cinema si ha un tempo che avanza, non ci si può fermare, si possono avere dei rallentamenti di ritmo o anche delle accelerazioni, ma non si possono avere delle totali “fermate”. Certe volte anche sì, lo scambio di alcune posizioni all’interno della storia – ma non solo: la storia è costruita in modo modulare, cambiano i personaggi, ma spesso le azioni sono le stesse: le parti sono strutturate su uno stesso tipo di architettura, le azioni si ripetono, ma cambiano i personaggi. È un po’ come una composizione musicale in cui abbiamo un motivo, che viene ripreso, sviluppato, poi ripreso, sviluppato e così via. La storia è costruita così: nel film è resa ancora più evidente, perché c’è il bisogno di avere una struttura “meno dispersa”.

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Nella sceneggiatura ho notato poi che molte scene non sono state riprese nel film – ne è un esempio la scena della polveriera in cui c’è il controllo che verifica il contenuto delle casse di esplosivo...

Questa scena, per esempio, non l’ho nemmeno girata, mi sembrava troppo esplicativa: diventa un film troppo realistico, troppo naturalistico. Quello che importa, dal punto di vista del senso, è la vita di Bàrnabo, e in questo punto il fatto che lui venga trovato con il colpo in canna. Degli elementi, nel film, ci sono: l’arruolamento di Bàrnabo, per esempio: Bàrnabo viene colto alla sprovvista dalle domande incalzanti di Del Colle. Tutta la sequenza è girata sulle mani: Del Colle che prende la penna, scrive, passa la penna a Bàrnabo, vediamo Bàrnabo che firma sul registro. Si ripete lo stesso rituale, sia per l’arruolamento che per la cacciata. C’era invece un cambio della guardia tra lui e Molo, Bàrnabo va a rilevare Molo ma Molo sta lì, come nel romanzo – e tutta la parte precede la scena dei fumi... La scena era molto bella, e l’avevamo girata dopo un temporale che c’era stato, e c’era una luce bellissima, anche un arcobaleno... Però poi questa scena rallentava il film, l’abbiamo inserita nel montaggio, ma poi l’abbiamo tolta a malincuore. Come abbiamo tolto anche altre cose, il personaggio del boscaiolo che c’è alla fine... E rispetto al romanzo, avevo aggiunto anche che lui si sposava con la bella del film, che è lì, carica la gerla di legna... Ma la cosa non era male, questa cosa del boscaiolo, due giochi di sguardi, nei boschi e nella scena del ballo, e ora Bàrnabo vedeva anche in lei una che ha abbandonato i sogni, le velleità. Un’altra cosa che è stata eliminata è la cena coi compagni: quando loro si danno appuntamento per questa cena e i compagni non arrivano e poi lui sta lì con un palmo di naso... l’avevamo girata, era bella la cosa: lui che copriva la polenta, i funghi che stanno lì, ma anche lì…. Una volta che lui torna in montagna, ci sono dei segni – la baracchetta smantellata, i tronchi – ci deve essere un segno d’attesa, e poi questo risvolto inatteso, ritornano i fumi e poi lui andava e via. Io ho voluto dilatare la scena finale: lì per esempio ho aggiunto rispetto alla sceneggiatura le cornacchie, i gracchi. Ci voleva un terzo occhio che commentasse la scena, per dilatarla. È come il coro della tragedia: io vedevo sempre questi gracchi quando facevamo pausa dalle riprese, abbiamo messo il pane per attirarle, e ho girato le scene una per volta, quasi commentando ciò che succede: si guardano perplesse quando Bàrnabo vede i contrabbandieri, si guardano attorno, e danno questa dilatazione nel film.

È stato quindi un lavoro, rispetto al romanzo, di ripresa, di condensazione, e di aggiunta di elementi nuovi. La scrittura si fa in divenire, anche se è stato un lavoro a togliere, più che ad aggiungere. Spesso ho utilizzato un’immagine sola – simbolica, come quella della festa rovinata, coi bicchieri di vino che s’annacquano... – a sintetizzare interi episodi del libro. La pagina è immobile, la pellicola, cammina.

Notavo anche che – a volte, la sua scrittura ha una disposizione delle parole simile a quella di Buzzati, a volte riprende anche delle stesse formule...

A volte può darsi che ci siano delle reminiscenze pari pari di frasi, di cose che... Per esempio, dal punto di vista lessicale, lui usa spesso il termine “piova” invece che “pioggia”, e a me piace “piova”, perché bagna di più, non è la “pioggia” di D’Annunzio, quella!

Io posso dire una cosa: Buzzati è stato un autore fondamentale, per la mia adolescenza. Quindi, a parte la sceneggiatura, si riceve molto: anche quando – per esempio – si scrivono altre cose, io spesso uso quella scrittura lì. Si assorbono naturalmente dei modelli, uno li metabolizza, li fa suoi, e rimangono certi modi di scrivere. “Involontario”, quindi, non è: è inconsapevole.

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Per esempio, ed è una cosa che nella sceneggiature spesso non si fa, perché nelle sceneggiature si scrive al presente, io scrivo spesso al passato prossimo. Non uso mai il passato remoto, anche quando scrivo, che è un tempo classico della narrativa, e mi pare che anche Buzzati non lo usa mai, e si usa spesso il passato prossimo e il trapassato.

Nell’episodio della morte di Darrìo, infatti, lei usa passati prossimi e imperfetti.

Sì, io amo quei tempi lì! È una cosa che nelle sceneggiature non si quasi mai: perché le sceneggiature devono essere scritte al presente. Ma io non uso il trapassato per fare, per esempio, quelle piccole analessi che si fanno all’interno della frase stessa, però cerco di non scambiare, per esempio, di posizione nella frase stessa. Uso per esempio i passati prossimi per fare dei piccoli salti all’interno della frase. Sono poi queste frasi brevi, che utilizzo, che sono poi utilizzate da Buzzati. Non è una scrittura ipotattica, perché difficilmente si vede la scansione della scena, ma io scrivo così, in maniera paratattica.

Devo dire che per me Buzzati è stato importantissimo: è il passaggio dalle letture infantili o basso-adolescenziali a un livello maggiore. La porta è stata quella, lui e Kafka, poi – dopo – Calvino. Sono degli autori che mi hanno sempre profondamente marcato. Parlando, per esempio, degli italiani, a livello della letteratura narrativa, ho sempre “pascolato” in questi territori italiani, non ho mai letto tanta altra letteratura straniera, se non autori del centro Europa – autori polacchi, scrittori come Witkiewicz, Schulz, Gombrowicz.

Un’ ultima domanda: la scelta dei luoghi è avvenuta prima o dopo la scrittura della sceneggiatura?

L’ideale sarebbe andare a vedere i posti, prima di mettersi a scrivere la sceneggiatura. Qui non c’era da scrivere un soggetto, perché c’era già. Prima di scrivere la sceneggiatura, sono stato in giro per le montagne due settimane, se non di più. Un po’ per vedere certe cose (la baracchetta, dove potrebbe essere...), ma al di là di questa, è importante fare una prima esplorazione per cogliere certi odori, colori... è diverso. Dopo si scrive, facendo tesoro di ciò che si è visto. Dopo che si è scritto, si riparte per vedere se ciò che si è scritto sta bene con le ambientazioni viste. Nella sequenza dell’inizio, io sono andato alle Cinque torri, e avevo con me una telecamera. Con me c’era anche il direttore di produzione, e gli ho detto: “Mettiti là, fai questo, fai l’altro” e ho preso degli appunti su come girare la sequenza. Quando poi sono ritornato a girarla con i macchinari, ho ripreso ciò che avevo già ripreso con la video-8 e l’ho girata con l’attore. Anche in altri sopralluoghi uno pensa ciò che deve fare in certe situazioni, come puntare la macchina, etc. Quando uno si trova su un terreno così, non è facile: bisogna costruire le inquadrature, non è come nei luoghi chiusi dove ci si può muovere, ci sono i burroni, non si può muovere la macchina... Poi andando lì ti vengono dalla realtà dei suggerimenti, una sequenza che c’è nel romanzo la modifichi nella sua dinamica la modifichi proprio a causa dei luoghi trovati – trovi questo grande masso, e pensi “che bello se Bàrnabo si nasconde lì dietro”, è proprio il senso della colpa. È questo il senso: alcuni luoghi proprio li trovi, ecco.

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Filmografia

Scheda tecnica del film Bàrnabo delle montagne di Mario Brenta

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Bàrnabo delle montagne (1994)

Soggetto: dal romanzo omonimo di Dino Buzzati; sceneggiatura: Mario Brenta, Angelo Pasquini, Francesco Alberti; fotografia: Vincenzo Marano; montaggio: Roberto Missiroli; scenografia: Giorgio Bertolini; musiche: Stefano Caprioli; aiuto regia: Enrico Soci; costumi: Paola Rossetti; tecnici del suono: Paolo Amici, Laurent Barbey, Alessandra Perpignani, Paolo Pucci, Marco Streccioni; interpeti: Marco Pauletti (Bàrnabo), Duilio Fontana (Bertòn), Carlo Caserotti (Molo), Antonio Vecelio (Marden), Angelo Chiesura (Del Colle), Alessandra Milan (Ines), Elisa Gasperini (la nonna), Angelo Fausti (il giudice); produzione: Nautilus Film; coproduttori: Rai Uno Radiotelevisione, Istituto Luce, Les Films Number One, Radio Televisione Svizzera Italiana; durata: 124’.

Film di Mario Brenta considerati nella tesi:

Vermisat (1974)

Robinson in laguna (1985)

Agnus Dei, M. Brenta e Karine de Villers (2012)

Altri film presi in considerazione

Il postino di montagna, A. Baruffi (1951)

Il segreto del Bosco Vecchio, E. Olmi (1993)

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BIBLIOGRAFIA

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Un amore, Milano, Mondadori, 1960.

Poema a fumetti, Milano, Mondadori, 1969.

I miracoli di Val Morel, Garzanti, Milano, 1971.

Opere postume

Lettere a Brambilla, a cura di L. Simonelli, Novara, De Agostini, 1985.

������������������������������������������������������������248 Si riporta esclusivamente la prima edizione; le edizioni delle opere da cui sono tratti i brani riportati nel corso della tesi, sono state, invece, di volta in volta indicate nelle precedenti note a piè di pagina.

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Sitografia

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Arrivato alla fine del testo, approfitto di quest’ultima pagina bianca per ringraziare il prof. Fabio Atzori ed il prof. Mario Brenta per l’attenzione dedicata al mio lavoro e la grande disponibilità che entrambi mi hanno sempre dimostrato; naturalmente, desidero ringraziare i miei genitori e mia sorella Margherita (che mi ha sopportato e spero continui a farlo in futuro, ah!, il ruolo delle sorelle minori). Infine, esprimo una profonda gratitudine verso le persone che in qualche modo hanno dato un senso ai giorni e alle notti di questi tre anni, e specialmente Alice, Salvo, Francesco, Giordano; Federico, Giulio & Giulio, Davide; Giacomo, Lorenzo, il pianeta Antonini; la Meri, i quelli dell’Atelier; Betta e ASM.