Bietti Heterotopia | 12 · legami tra Moretti e la nobiltà, segnalati dal senatore Sergio Flamigni...

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  • Bietti Heterotopia | 12

  • la recita della storiail caso Moro nel cinema di Marco Bellocchio

    anton Giulio Mancino

  • Collana diretta da Claudio Bartolini, Ilaria Floreano, Giulio Sangiorgio

    Design e AD: Panaro Design SrlImpaginazione: Studio Caio Robi SilvestroEditing: Nina Leroveri

    © 2014 Edizioni Bietti – Società della Critica Srl, Milanowww.edizionibietti.it

    ISBN: 978-88-8248-319-7

  • indice

    Prefazione 7di Giorgio Galli

    La recita della StoriaIl caso Moro nel cinema di Marco Bellocchio

    Retroduzione 13

    1. Buongiorno, morte 21

    2. Moro, matto da slegare 93

    3. Io, Chiara e il Passoscuro 171

    4. Epilogo 257

    Bibliografia 285

    Indice dei film 297

    Indice dei nomi 303

    Indice delle opere 311

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    Nell’ammirare Buongiorno, notte per la sua poeticità, mi sono chie-sto se fosse proprio indispensabile, per ottenere tale poeticità, un finale così lietamente contro-fattuale, con Moro in libertà per le strade di Roma (contro-fattualità non attenuata dalle scene realistiche con la vittima ben-data e da quelle documentaristiche del funerale).

    Il libro di Anton Giulio Mancino è anche una risposta a questo mio dubbio: una risposta brillante e minuziosamente documentata, che prende in considerazione non solo i film di Marco Bellocchio, ma quanto il caso Moro abbia colpito e influenzato gran parte della sua carriera come regista non solo cinematografico, ma anche teatrale, televisivo e di opera lirica.

    L’autore definisce «Moroteca di Babele» l’enorme e labirintica quantità di materiale dedicato allo studio e all’analisi (più o meno puntuali) di quei cinquantacinque giorni del 1978, e la utilizza per organizzare, attraverso un insieme di riferimenti, rimandi, coincidenze e citazioni, una struttura di indizi convergenti atti non a fornire una nuova spiegazione dell’acca-duto, ma a tracciare un possibile filo che conduca fuori dal labirinto chi abbia la capacità di utilizzarlo. Mancino non è convinto della versione ufficiale sulla quale concordano magistratura e Brigate rosse, diffida della dietrologia, raccoglie tramite Bellocchio suggestioni e suggerimenti che, per quanto mi riguarda, sono del tutto compatibili con le conclusioni alle quali ero giunto in Piombo Rosso, testo nel quale collocai l’omicidio Moro all’interno di una storia della lotta armata di sinistra in Italia, della quale vengono qui citati alcuni passaggi cruciali.

    La complessa trama degli indizi, dispersi in tutte le pellicole realiz-zate dal regista bobbiese dopo il 1978 (non solo in quelle espressamente dedicate al caso Moro) rileva l’importanza decisiva degli orologi (fissati

    Prefazione di Giorgio Galli

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    spesso sulle 8.55, ora dell’agguato di via Fani). Sottolinea il ricorrere, nelle diverse sceneggiature, di nomi sempre significativi come Giulia, Nina, Anna (la “carceriera” Anna Laura Braghetti, che in Buongiorno, notte di-venta “Chiara”, indice di “chiarezza”) o evocativi come Passoscuro (nome di una località balneare laziale dato a un personaggio chiave del film, l’au-tore della sceneggiatura che Moro tiene in borsa). Mette insieme Enrico IV, il finto pazzo inventato da Luigi Pirandello e il caso Eluana Englaro, i richiami manzoniani al Cinque maggio (data di una delle lettere più com-moventi di Moro alla moglie) e quelli napoleonici a Sant’Elena, nome della via nel Ghetto di Roma, a due isolati da via Caetani, dove le BR fanno ritrovare il corpo del presidente del consiglio nazionale della DC.

    L’epilogo del libro conferma la mia motivata convinzione «che Moro sia stato detenuto nel centro di Roma, presso il Ghetto, in condizioni ac-cettabili e in località vicina a via Caetani». In La recita della storia, che è anche una dettagliata rilettura di atti giudiziari, si cita un enigmatico testi-mone di nome “Anna” che parla del luogo di detenzione definendolo “di massima sicurezza”, mentre un’altra Anna (la brigatista Braghetti) parla della “fortuna” che avrebbe favorito il successo dell’assalto di via Fani. In realtà l’uso capovolto del linguaggio ufficiale («carcere di massima si-curezza») e il riferimento alla fortuna sembrerebbero sottintendere age-volazioni, finora insospettate, fornite alle BR da chi intendeva provocare una crisi provvisoria che stabilizzasse definitivamente un sistema politico a matrice democristiana, messo in difficoltà dalla spinta a sinistra del de-cennio 1968-1978.

    Lo stesso fratello di Aldo Moro, Alfredo Carlo (magistrato che, tra l’altro, ha redatto la sentenza di primo grado su un altro caso oscuro, il delitto Pasolini, imputandolo a più persone), segnala che la vittima, che soleva camminare molto, il 9 maggio (giorno del ritrovamento del cada-vere) aveva una muscolatura normale, incompatibile con cinquantacin-que giorni di immobilità, come era inverosimile che un uomo che si fosse lavato per tanto tempo solo con l’acqua di una bacinella, come attesta la versione ufficiale, potesse essere così pulito. I quasi due mesi trascorsi nel cubicolo di via Montalcini sono evidentemente un’invenzione, anche perché il corpo di Aldo Moro non avrebbe potuto essere trasportato con tanta facilità per più di dieci chilometri lungo le strade di una Roma super presidiata e senza che questo corpo, colpito a morte poco tempo prima del ritrovamento (al contrario di quanto detto nella versione ufficiale) rima-nesse immobile nel bagagliaio. E ora vi è anche chi testimonia che Cossiga giunse sul luogo ben prima di quanto a suo tempo affermato.

    L’epilogo della tragedia indica dunque una “prigione del popolo” in un palazzo romano vicino a via Caetani, un luogo “di massima sicurezza” fornito alle BR da simpatizzanti mai identificati.

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    Nella sua prima lettera da prigioniero, Moro scrive la famosa frase «Mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato». Leonardo Sciascia, in L’affaire Moro, suppone volesse indicare la sua detenzione in un luogo insospettabile e che non si pensava di controllare («incontrollato», non “incontrollabile”).

    Nel libro Mancino rievoca l’appunto di Moretti su una marchesa e la strana vicenda coinvolgente l’attrice Anna Bonaiuto. Dall’esistenza di legami tra Moretti e la nobiltà, segnalati dal senatore Sergio Flamigni nel suo libro-inchiesta La sfinge delle Brigate Rosse, quest’ultimo deduce che l’operazione delle BR fosse manovrata dai servizi segreti. Io ritengo invece che si sia svolta in totale autonomia, anche se con qualche aiuto esterno, e penso che le BR godessero di sostegni tuttora non valutati appieno.

    A questo proposito è utile quanto dice lo stesso Moretti nell’intervista rilasciata a Rossana Rossanda e Carla Mosca in Brigate Rosse. Una storia italiana (e concordo che sia una storia italiana: CIA e KGB non si preoc-cupavano di Moro, che peraltro non voleva portare il PCI al governo, ma solo far “passare la nottata” della DC). Quando gli si ricorda la frase «Si disse che forse conteneva indicazioni per farlo trovare», Moretti spiega: «Si sono dette cose strane. Moro voleva dire: dietro a questi non c’è nes-suno, non li controlla nessuno».

    Può essere. Ma è valida anche l’ipotesi di Sciascia, così corretta: non un con-“dominio”, ma un luogo confortevole, che nessuno pensa di con-trollare.

    Più in generale, la risposta di Moretti su via Montalcini è illuminante. Rossanda e Mosca chiedono: «L’appartamento di via Montalcini, dove Moro sarebbe stato tenuto prigioniero, l’avete comprato?». Moretti ri-sponde: «Non dove Moro “sarebbe” stato tenuto, ma dove “è” stato tenuto. Da lì non è mai stato spostato». Il condizionale usato dalle intervistatrici indica che anche loro condividono i dubbi, già molto diffusi, circa il luogo di detenzione. La perentoria risposta di Moretti presuppone, per contro, che il tema sia intoccabile e che se avessero insistito nel voler chiarire la scelta del “sarebbe”, l’intervista non sarebbe proseguita. Quindi Ros-sanda e Mosca sorvolano, limitandosi ad accertare un fatto insignificante: le BR hanno comprato molti appartamenti, certamente anche quello di via Montalcini. Ma davvero Moro era lì?

    C’è un altro passaggio significativo da un’altra lettera: all’ipotesi avan-zata dai suoi amici che Moro scriva sotto costrizione, il presidente della DC replica: «Non ho subìto nessuna costrizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia». L’accenno alla calligrafia è inusuale. Sempre il fratello dirà che Moro aveva una brutta calligrafia, ma che le lettere inviate dalla prigione erano scritte me-glio del solito. Elemento, questo, che riconferma una volta di più le con-

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    dizioni di “normalità” della detenzione, per cui Moro non sarebbe stato costretto a scrivere sul letto, tenendo i fogli appoggiati sulle ginocchia. Mancino accenna inoltre all’ipotesi che Moro disponesse addirittura di una biblioteca. Moretti aveva spiegato: «Non c’è spazio per un tavolo vero e proprio. È un vano angusto, non è stato costruito per farci passeggiate. Sappiamo di obbligare Moro a un grosso disagio, ma sappiamo anche che nei tempi brevi è sopportabile, non sono queste le cose che contano per uno che è sequestrato. Per quanto possiamo, diamo a Moro ogni cosa che chiede o di cui pensiamo che abbia bisogno: lo trattiamo, in questo, me-glio di come trattiamo noi stessi… Abbiamo il dovere di trattarlo come la persona più cara al mondo». Mi pare eccessivo, una excusatio non petita, accusatio manifesta, ammissione implicita delle troppe contraddizioni della versione brigatista.

    Insomma, la “prigione” vicino a Sant’Elena è il filo da seguire per uscire dal labirinto della «Moroteca di Babele» e capire la storia italiana delle Brigate rosse al punto più alto della sua parabola. Una storia italiana per comprendere, anche attraverso il cinema di Marco Bellocchio, la sto-ria d’Italia, insieme di enigmi pirandelliani e, per chi si accontenta, di consolazione manzoniana.

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    A Rosa, che mi ha insegnato a vedere i film di Bellocchio in modo più istintivo, e a Samira, cui ho sottratto ore preziose di gioco, e che mi ha

    spesso suggerito di riscrivere frasi incomprensibili.

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    retroduzione

    «Gli eventi si generano in una storicizzazione primaria, in altri termini la storia si fa già sulla scena

    dove la si reciterà una volta scritta, nel foro interno come nel foro esterno.»

    Jacques Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicanalisi

    Come spesso accade paradossalmente con le introduzioni, anche questa è stata concepita a cose fatte, cioè a libro quasi terminato. La ragione è semplice. Una volta giunti al sospirato traguardo è possibile individuare con maggiore cognizione di causa il filo conduttore dell’intero percorso. Chiamare dunque “introduzione” una cosa scritta dopo ci è sembrato poco appropriato. Data la specificità di questo viaggio nella filmografia di Marco Bellocchio, alla ricerca di ogni possibile segnale riconducibile al caso Moro, abbiamo optato per una Retroduzione: ecco la dicitura per molti versi più opportuna. Tecnicamente parlando, perché l’abbiamo scritta ex post e perché il suo contenuto riflette una consapevolezza retrospettiva, distanziata, serena. Ma è altresì chiaro che qui con l’espressione “retroduzione”, inteso come classico «ragionamento dal conseguente all’antecedente» che «peraltro non dà certezza»,1 ci stiamo rifacendo a uno dei momenti centrali dell’opera di Charles Sanders Peirce, in modo particolare a uno dei motori del ragionamento abduttivo che tanta parte ha sempre avuto nella sua filosofia.2 In modo particolare per quel che riguarda l’espressione «enquiry», intesa come “indagine” o “inchiesta” in tutte le sue possibili varianti e applicazioni «detective»,3 in cui è giocoforza che l’abduzione e la retroduzione siano processi inscindibili, quasi completamente sovrappo-nibili. Come funzionerebbe del resto un’abduzione, se non per retro-duzione?

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    Uno dei fondamentali vantaggi che comunque sia una retroduzione offre è quello di dare spazio da subito ai ringraziamenti. Che non sono una formalità o un atto di cortesia. Questo libro non esisterebbe o non avrebbe trovato la sua forma definitiva senza un confronto continuo con tanti col-leghi, amici ed esperti interpellati per ricevere pareri, suggerimenti, inco-raggiamenti, ma soprattutto obiezioni su ogni singolo aspetto riguardante la stesura del testo, l’uso delle fonti, la verifica delle stesse, la forma del di-scorso da adoperare, che ci auguriamo possa risultare sufficientemente rigo-rosa, ma nella giusta misura scorrevole, a chi avrà la pazienza di affrontare la lettura. Insomma la sintesi di una metodologia di ricerca (che crediamo vada più nella direzione di una proposta, di un inizio, di un auspicio) e di un esercizio concreto di scrittura entro certi limiti didatticamente efficace e leggibile. Verso quale migliore orizzonte allargare la prospettiva di un libro di cinema che in fondo, dati gli argomenti concomitanti e a nostro giudizio inseparabili (il caso Moro e il caso Bellocchio) prova a fare i conti non sol-tanto con l’immenso e incontenibile «piacere del testo»,4 ma anche, ove si renda necessario, con i fatti storicamente accertati e le ipotesi e le analisi po-litiche a essi connessi? Qualora un simile obiettivo abbastanza pragmatico fosse stato qui raggiunto, anche solo in percentuale molto ridotta, sarebbe di per sé motivo di profonda soddisfazione. Ovviamente non sta a noi stabi-lirlo, per giunta con effetto retroattivo. Quindi, come non esprimere tutta la gratitudine, da subito, come premessa organica di quanto seguirà, a coloro i quali hanno accompagnato la lunga gestazione di un libro come questo, che contrae sin dal titolo un piccolo e immodesto debito con Lacan? Innan-zitutto è con affetto e riconoscenza che va ricordato il contributo prezioso ricevuto da storici e studiosi del caso Moro: Paola Magnarelli, Giuseppe De Lutiis, Giovanni Sabbatucci, Giovanni Pellegrino, Filippo Ceccarelli, e, naturalmente, Sergio Flamigni e Ilaria Moroni, cui devo la consultazione di documenti provenienti dall’Archivio Flamigni. Un ringraziamento partico-lare va anche al sempre cortese e disponibile Marco Bellocchio, cui ci siamo rivolti con discrezione proprio perché questo è un libro che si proponeva di portare avanti un approccio di tipo interpretativo ai testi e aveva, di conse-guenza, bisogno di mantenere una certa autonomia. Né vanno dimenticati cari amici e colleghi estremamente competenti sul fronte sia cinematogra-fico che storiografico, consultati direttamente o indirettamente, occasio-nalmente o per confronti puntuali, bontà loro, come Gianni Canova, Carla Capetta, Francesco Casetti, Goffredo De Pascale, Giorgio De Vincenti, Beppe Ferrara, Peppino Ortoleva, Tatti Sanguineti, Piero Spila, Dario Edo-ardo Viganò. Né a quest’elenco, per scontate ragioni approssimativo per difetto, possono mancare Danilo Arona, Giovanni Berardi, Adele Cambria, Mario Canale, Anna Di Martino, Tino Franco, Claudio Gaetani, Mauro Gervasini, Sebastiano Gesù, Giuseppe Ghigi, Gabriele Giuli, Hans-Georg

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    Grüning, Paola Malanga, Toni Mira, Pierfranco Moliterni, Pietro Mon-tani, Emiliano Morreale, Cristiana Paternò, Luigi Maria Perotti, Barbara Perversi, Adriano Piccardi, Patrizia Picciacchia, Marina Piperno, Patrizia Pistagnesi, Angela Prudenzi, Andrea Raffaele Rondini, Maurizio Sciarra, Pasquale Scimeca, Filippo Silvestri, Lucrezia Viti.

    Che dire già in questa introduzione? O ancora, in chiave retroduttiva? Bisognerebbe accennare non tanto al libro, che può dirsi concluso dopo quattro anni di incessanti riscritture e revisioni, tra slanci e ripensamenti fisiologici, pause e riprese cicliche. Il pensiero corre piuttosto al libro che avrebbe dovuto essere in partenza. Questo libro nasce all’incirca nel 2010 (da non credersi) come rielaborazione di interventi già pubblicati in prece-denza (e che all’occorrenza vengono citati nell’apparato) e dedicati a diversi film o questioni-chiave bellocchiane. L’idea originaria era di raccoglierli secondo un ordine non cronologico né tematico, ragionando piuttosto sulla filmografia del regista bobbiese muovendo da alcune figure emblematiche attorno alle quali si organizzava un “sistema operativo”: Marlon Brando, Giuseppe Verdi, William Shakespeare, Franco Basaglia, Anton Čechov, Massimo Fagioli, Luigi Pirandello, Alessandro Manzoni, Giovanni Pascoli, Dante Alighieri, Benito Mussolini… A grandi linee, esisteva materiale suf-ficiente per ogni capitolo. Mancava una sistemazione generale che fornisse una dimensione organica a questi suggestivi, inusuali medaglioni e, a com-pletare il disegno d’insieme, un capitolo dedicato ad Aldo Moro. Capitolo doveroso, dato che nel 2003 Bellocchio gira un film che racconta con inso-spettabile “linearità” la dolorosa parabola del suo sequestro. Possibilmente non troppo lungo ed equilibrato rispetto agli altri. Prima di arrivare a Moro diventava allora necessario rivedere in ordine tutti i film di Bellocchio, sta-volta sì in ordine cronologico, annotando qualsiasi spunto, in assoluta li-bertà. E così è stato: i film degli anni Sessanta, degli anni Settanta, quindi degli anni Ottanta. Arrivati a Enrico IV, cioè al 1984, è successo qualcosa. Poiché nel frattempo concomitanti occasioni di studio e di analisi compa-rate avevano richiesto un approfondimento sul delitto Moro, comincia a in-sinuarsi in me l’impressione che in questo film, apparentemente basato sul dramma di Pirandello, ci fossero elementi indiziari o allusivi proprio al caso Moro. Quindi, che la filmografia di Bellocchio giocasse d’anticipo e avesse un significato strategico in grado di investire con maggiore o minore inten-sità tutti i suoi film dal 1978 in avanti. In altre parole, il film esplicitamente dedicato al caso Moro era sempre uno, quello del 2003, ma probabilmente il fantasma di Moro aleggiava su un intero corpus filmografico. Questa ipotesi interpretativa doveva fare i conti però con una serie di riscontri puntuali e richiedeva la disponibilità a lasciarsi andare a numerosi elementi fattuali che avrebbero reso alquanto impegnativa la sfida non pregiudiziale dell’e-stensione del senso, senza quindi cercare la totale e subalterna conferma

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    da parte dell’autore. Il progetto era già in corso, e cresceva su se stesso, a dismisura, prima che diventasse chiara l’impossibilità di attenersi al “vec-chio” impianto di partenza, ormai improponibile. Era arrivato il momento di accantonarlo, non senza un certo rammarico. Il caso Moro nel cinema di Bellocchio, come si è scelto alla fine di sottotitolare La recita della storia, era diventato un fatto compiuto, specifico, centrale. Un punto di non ritorno.

    Non restava che accettare il corollario immediato e metodologico di questa scelta di campo, di cui avremo modo di dare conto (o piuttosto di cui abbiamo già dato conto in questo libro, per quanto ci riguarda giunto al traguardo): la completa autonomia rispetto al confronto diuturno con Bellocchio, peraltro molto disponibile, onde evitare l’insidioso e fuorviante meccanismo di assenso/dissenso cui spesso gli studiosi incorrono quando si occupano di un autore. Le dinamiche di accordo/disaccordo avrebbero comportato un’improduttiva logica di gratificazione e mortificazione, aper-tura e censura, approvazione e disapprovazione, conferma e smentita, con-valida e invalidazione di un’indagine che necessariamente – avventurandosi lungo percorsi testuali e intertestuali, linguistici, inconsci e partendo dal presupposto che l’inconscio si strutturi come un linguaggio – non poteva e soprattutto non doveva dipendere dal grado di autoconsapevolezza nell’au-tore cinematografico della meccanicità o della procedura del senso.

    In fondo questo libro, innestando il caso Moro nel cinema di Bellocchio e viceversa, smetteva di essere una monografia su un autore particolare per farsi analisi culturale e stilistica di un avvenimento storico-politico deter-minato e determinante (specialmente nella prospettiva allargata che chiama in causa valide opportunità di circolazione e negoziazione dei saperi e dei discorsi sociali, secondo le migliori intenzioni dei cultural studies,5 donde il ripensamento dei film studies anche in ambito accademico nazionale).6

    Il corpus filmico di Bellocchio crediamo si presti molto bene a questa prova. La resistenza alle classificazioni di molti suoi film, gli scantonamenti e l’incostanza dell’autore hanno messo spesso in seria difficoltà i critici, e tal-volta anche gli storici del cinema, nel momento in cui reclamavano schemi ideologici consentiti, esistenti, pratici. In Bellocchio invece sono importanti le fratture, cioè l’effetto di una discontinuità persistente (la «piega», direbbe Deleuze),7 il corrugarsi di una superficie che non è mai completamente li-scia, piatta e uniforme. Né tantomeno percorribile, chiusa, circoscritta. Non si tratta di cercare l’unità nell’opera – come una volta la si cercava invano nell’Orlando Furioso a dispetto della sua irriducibile, perfetta, immaginativa varietà – quanto di registrare e seguire con maggiore profitto gli strappi, le inversioni di rotta, gli apparenti ritorni. Collocarli su un asse storico, cosa che forse offre una sponda più solida e non comporta alcun impegno di sintesi. Anche se una coerenza c’è: principalmente una coerenza storica, appunto. Ancora meglio, una coerenza di rapporto con la storia, fondato su

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    un principio di insofferenza, spinto alla ribellione e al gesto antiautoritario che, in questo caso, si rivela indispensabile.

    Dopotutto di quale storia parliamo? Per usare una metafora un po’ greve, possiamo dire che la storia italiana che conosciamo è come un di-spositivo informatico che funziona poco e male. Ci sono file danneggiati dappertutto, lo stesso sistema operativo appare assai poco aggiornato e soprattutto sovraccarico, invaso da una miriade di virus di ogni ordine e provenienza, con un sistema di protezione che non riesce a farvi fronte o addirittura sembra essere stato installato in modo sbagliato o, peggio an-cora, proprio per consentire ai virus di fare danni, quasi fosse un virus ca-muffato da antivirus. Una storia da cui si ricava, specialmente dopo forti scosse e stravolgimenti, peraltro momentanei, l’impressione ingiustificata e sempre più precaria e insostenibile che tutto possa prima o poi riprendere e andare per il verso giusto. Purché non la si sforzi troppo, come un com-puter affaticato e non di ultima generazione, e si venga incontro alle sue disfunzioni, ai suoi tempi, alle sue modalità d’impiego convenute. In questo contesto il cinema di Bellocchio si colloca di traverso. Obbedisce da sempre a un processo scandito da dipendenze che cambiano di volta in volta e si rigenera andando da una (in)fedeltà ideologica, politica, psicologica e cul-turale all’altra. L’autore nei suoi film non ha mai rinnegato l’impronta della realtà politica circostante e dominante, sin dal principio, trattata secondo regole proprie, interne, chiaroscurali.

    La politica, intesa come posizione rispetto alla quale collocarsi, rappre-senta un riferimento fondamentale e irrinunciabile. Ancorché malvolentieri voluto o dispettosamente eluso, c’è sempre. E il caso Moro in questo senso di-venta la cartina di tornasole attorno alla quale abbiamo tentato di costruire un progetto di analisi e interpretazione globale e non, come potrebbe sembrare, monotematico e rigidamente contenutistico. Perché è proprio la forma dei film, il nudo e dinamico significante, a fare la differenza tra il dicibile insuffi-ciente e l’indicibile spinto alle estreme conseguenze. Sebbene, rispetto a tutto ciò che nei film di Bellocchio accade prima del 1978, aumenti il bisogno di marcare le distanze dal discorso politico, di affrontare il sistema delle relazioni umane in una chiave più ampia: una chiave anche politica ma non esclusiva-mente politica. Come per ritrovare, dalla seconda metà degli anni Settanta e soprattutto dagli anni Ottanta, una prospettiva e uno stile di relazione au-diovisiva con il mondo, un sistema di immagini liberate dove l’elemento au-tobiografico diventa essenziale per costruire un paradigma sia filmico che autoreferenziale, in cui la componente privata e psicanalitica arricchisce e dissimula anziché snaturare o invalidare (come si sarebbe detto una volta, in accezione molto ideologica) quella strettamente e pedissequamente politica.

    Il superamento della politica non c’entra, specialmente nella cornice del caso Moro. Al contrario: senza il vincolo univoco e condizionante della

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    politica, ovvero senza il “dover essere” politico imposto da un contesto di lotte e di militanza attiva, prima, e da una progressiva istituzionalizzazione di queste antiche e rimosse vocazioni, poi, il cinema di Bellocchio acquista una valenza politica consapevolmente più disinvolta, emancipata, lucida. Non più assoggettata o assoggettabile. Ogni film, riconducibile inequivo-cabilmente a un preciso momento storico-politico, con il quale interagisce proprio in virtù della sua intrinseca politicità, prende le mosse dal biso-gno apparentemente inconscio, invero molto nitido, di esprimere disagio, malessere, opposizione nei confronti dell’autorità costituita o di assetti convenzionali, di canali di comunicazione ufficiale o di modelli culturali ed ideologici egemoni: i bersagli possono via via differire – essere di tipo familiare, religioso, politico o istituzionale in genere – ma assai più spesso coincidere. Il caso Moro, nella sua ufficialità e massima, involuta espansione mediatica, è uno di questi.

    Eppure è da qui che prende le mosse un mosaico di segnali sparpagliati in varie pellicole spesso insospettabili, ora diretti ora allegorici, dove i fan-tasmi psichici, privati, politici, psicanalitici delineano una perfetta, reiterata “recita della storia”: che non è solo la storia del cinema italiano, ma, senza soluzioni di continuità, quella dell’Italia tout court, dietro la quale si agitano ombre, rifiuti, rievocazioni. Una contro-storia alla maniera di Bellocchio, una “storia recitata” segnata dalla “macchina-cinema” e dagli effetti di lunga durata sulla psiche e sull’immaginario di questo dispositivo. Una storia at-traversata da dipendenze politiche individuali e collettive, dunque ideolo-giche, psichiatriche, o da altrettante tensioni religiose eterogenee destinate a riprodursi all’infinito e ad essere nei suoi film sistematicamente smontate. Sul versante più cinematografico si va dall’eredità viscontiana contesa al confronto imposto dall’esterno con Bernardo Bertolucci, mentre su quello della storia implicita interna/esterna le tappe salienti sono il fascismo più o meno involontario e perdurante, il Sessantotto, la strategia della tensione, la militanza attiva, l’utopia antipsichiatrica, l’analisi collettiva, il cattolicesimo domestico e nazionale, il marxismo, il marxismo-leninismo e il maoismo. Cioè l’egida della chiesa cattolica onnipresente, il magistero nazional-po-polare del PCI, la stretta osservanza dei dogmi di “Servire il Popolo”, poi la lotta armata che conduce al delitto Moro dai contorni molto oscuri.

    A proposito del caso Moro e dell’ampia documentazione utilizzata ci limitiamo a un’ultima avvertenza di carattere bibliografico. Si è preferito, ove i documenti siano poi stati pubblicati e commercializzati, evitare di fare riferimento direttamente alla fonte parlamentare. Il ricorso agli Atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (d’ora in avanti Commissione Moro, per quanto riguarda la Commissione specifica, e ACM, per gli atti e i documenti da essa prodotti e pubblicati), Senato della

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    Repubblica, VIII Legislatura, Tipografia del Senato, Roma 1984, è circo-scritto solo ai documenti inediti nella loro integralità. Almeno per quel che ne sappiamo. Lo stesso principio vale per i documenti e i materiali prove-nienti dagli Atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulla mancata individuazione dei responsabili delle stragi, Senato della Repubblica, XIII legislatura (d’ora in avanti Commissione Stragi, per la Commissione, e ACS, per gli atti e i documenti da essa prodotti e pubbli-cati), Tipografia del Senato, Roma 1991.

    I libri sul caso Moro che hanno (avuto) la precedenza nel nostro appa-rato sono quelli dichiaratamente adoperati da Bellocchio o realisticamente disponibili prima e durante la realizzazione dei film citati. Eventuali con-fronti, cui non ci siamo sottratti, con libri pubblicati in seguito dovrebbero essere invece materia di attenta riflessione. Detto altrimenti: i testi succes-sivi al 2003 sono presi in considerazione in ragione dell’effetto anticipatore o del valore documentale dello specifico film di Bellocchio sul caso Moro o degli altri, al plurale, che crediamo vi facciano riferimento.

    Non c’è altro. Il libro, almeno dal nostro punto di vista, può ri-comin-ciare.

    Note

    1 C. S. Peirce, The Collected Papers, Harvard University Press, Cambridge (Mas-sachusetts) 1960 (tr. it. Opere, Bompiani, Milano 2003, p. 1246).

    2 In N. Rescher, Peirce’s Philosophy of Science, University of Notre Dame Press, Notre Dame (Indiana) 1978, p. 3: «Peirce gave the name of retroduction to this pro-cess of eliminating hypotheses by experential/experimental testing. Qualitative induc-tion is thus the collaborative meshing of abduction and retroduction, of hypothesis conjecture and hypothesis testing».

    3 Cfr. M. A. Bonfantini, G. Proni, To Guess or Not to Guess?, in U. Eco, T. A. Sebeok, The Sign of Three. Dupin, Holmes, Peirce, Indiana University Press, Bloo-mington (Indiana) 1983 (tr. it. Il segno dei tre. Holmes, Dupin, Peirce, Bompiani, Milano 1983; 2004, pp. 137-155); M. A. Bonfantini, Peirce e l’abduzione, in C. S. Peirce, Opere, cit., pp. 289-307. Per una specifica applicazione del paradigma al ci-nema italiano, cfr. anche A. G. Mancino, Il processo della verità. Le radici del film politico-indiziario italiano, Kaplan, Torino 2008 e Id., Schermi d’inchiesta. Gli autori del film politico-indiziario italiano, Kaplan, Torino 2012.

    4 Cfr. R. Barthes, Le plaisir du texte, Éditions du Seuil, Parigi 1973 (tr. it. Il pia-cere del testo, Einaudi, Torino 1975).

    5 Cfr. W. Uricchio, Cultural studies: una visione d’insieme, in G. P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale. Teorie, strumenti, memorie, vol. V, Einaudi,

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    Torino 2001, pp. 542-560; D. Forgacs, Cinema e cultural studies, in E. De Blasio, D. E. Viganò (a cura di), I film studies, Carocci, Roma 2013, pp. 65-70.

    6 Cfr. G. De Vincenti, L’“impegno” e i nuovi scenari per lo studio del cinema e degli audiovisivi, in E. De Blasio, D. E. Viganò (a cura di), I film studies, cit., pp. 17-40.

    7 Cfr. G. Deleuze, Le pli. Leibnitz et le Baroque, Éditions de minuit, Parigi 1988 (tr. it. La piega. Leibnitz e il Barocco, Einaudi, Torino 1990).

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    «Io affermo che la Biblioteca è interminabile»Jorge Luis Borges, La biblioteca di Babele

    La Moroteca di Babele

    Può lo spirito di un defunto dirigere un film, seriamente? Magari per interposta persona, dando le indicazioni necessarie di regia durante una seduta spiritica? Sembra uno scherzo, un’assurdità, ma non lo è. Uno spunto farsesco? In un certo senso. Magari una follia, visto che di follia vera o di comodo si parlerà spesso in questo libro che adopererà un ap-posito filtro bellocchiano per tornare sulla scena del caso Moro. Qualun-que cosa sia, farsa o follia, non sarebbe la sola nella storia italiana molto recitata, altamente improbabile, ineffabile e ipotetica. Che ricavandone linfa vitale si avvita sui suoi misteri, le sue trame, le sue leggende, le tante, troppe, ripetitive coincidenze veritiere, verosimili e inverosimili. Nei labirinti vertiginosi del caso Moro si è addirittura perso il conto della variegata e variopinta letteratura: storiografica, politica, processuale, d’inchiesta, romanzesca, fantapolitica. Addirittura, come vedremo, fan-tascientifica. Insomma di ogni tipo: logica o per ovvie ragioni dietro-logica, talvolta para-logica. Non manca ricorrenza in cui, come nel 1988, per il decennale, o specialmente nel 2003 e nel 2008, rispettivamente in occasione del venticinquennale e del trentennale della morte del pre-sidente democristiano, le posizioni in campo e le chiavi di accesso, le letture e le riletture non si moltiplichino, accavallandosi, scontrandosi, correggendosi a vicenda.

    1 Buongiorno, morte

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    Da un lato, persisterebbe la scelta di ribadire a oltranza, prontamente, la perfetta equazione tra verità storica e verità giudiziaria, minimizzando ogni intemperanza critica o interpretativa di segno opposto. Vale a dire gettando sistematicamente acqua sul fuoco alimentato dai cosiddetti dietrologi.1 Un fronte nemmeno così omogeneo come si potrebbe credere quello dei die-trologi, i quali non marciano neppure sempre uniti, divergendo su singoli aspetti dell’intricata e modulare vicenda,2 rendendo non meno impervia e discontinua la prassi del ribaltamento di verità giudicate all’unisono fragili, incongruenti e accomodanti.

    Dall’altro, accanto alle divaricazioni prevalenti, prende forma una ga-lassia spesso scomposta di angolazioni prospettiche e di percorsi paralleli, alternativi, ora analitici, ora sintetici, ora parziali. In questo sconcertante alveo segmentato confluisce praticamente tutto e il contrario di tutto, ma-teriali svariati e personaggi maggiori o minori, rendendosi quindi necessari strumenti e approcci enciclopedici.3

    Senza contare modalità di intervento contestuali e contemporanee che, coniugando accurati presupposti filologici e conclamati obiettivi storio-grafici,4 puntano a mantenere prudenti e dotte distanze di sicurezza dalle due principali, inconciliabili scuole di pensiero dei dietrologi e degli spie-gazionisti. Non è escluso che in questo complicato e insidioso intrecciarsi e diramarsi di strade, giri di vite, posizioni rigide, suggestioni univoche o deterministiche sottoposte a smussamento, serpeggi, inconfessabile o scientificamente mimetizzato, un cauto, ambiguo, benpensante desiderio di compromesso. Un compromesso indolore, inimmaginabile anche solo qualche anno fa.

    A quanto pare il caso Moro si adegua ai tempi e ai cambiamenti sociali, politici, economici. Come se, sulla scorta del lento logoramento multilaterale delle parti in commedia e di un’esigenza di normalità ad ampio spettro, si volessero creare i presupposti normalizzanti per l’elaborazione di un “prov-videnziale” minimo comune denominatore di verità. All’occorrenza pun-tellato da piccole ma rassicuranti argomentazioni certosine, sostenute con competenza a margine dei testi. Non è facile prevedere dove andrà a parare un giorno questa tentacolare Moroteca di Babele, da quarant’anni cresciuta su se stessa, incontrollabile e incontrollata, che ha trasceso i confini nazionali sin dal principio: una specie di sottogenere, non soltanto letterario, capace di accorpare libri, atti parlamentari, documenti secretati e de-secretati, inter-viste e deposizioni di testimoni che vanno e che vengono, voci di corridoio, leggende metropolitane, fumetti, supplementi di informazione, periodici sa-tirici di controinformazione o per soli uomini, programmi televisivi, film de-stinati al circuito cinematografico, film per la televisione, siti Internet, blog, spettacoli di ogni tipo, origine e attendibilità, che si richiamano a vicenda, si contraddicono, si smentiscono, sgomitano a ritmo frenetico inseguendo

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    anniversari, opportunità di mercato, metodologie di studio vero o presunto. A torto o a ragione la matassa morotea dimostra con peso specifico, quantità e mole sempre crescenti in quale misura l’Italia è disposta a sopportare o persino a capitalizzare la propria verità storica deficitaria, discutibile, incon-gruente. E a stare al gioco, tra le pieghe di quell’oggetto insidioso di ricerche, supposizioni, immaginazioni, ora trascritto e invocato con l’iniziale maiu-scola: la Storia, o con la minuscola: la storia. Ad ogni modo un oggetto del contendere sempre possibile, parallelo, altro. Che a un tratto si incapriccia, si attorciglia, si rende inestricabile come nel caso Moro, resistendo al tempo e nel tempo, al di qua o al di là della soglia degli avvenimenti.

    Un dato è incontrovertibile: che l’Italia sembra starci alle sintomatiche farse, e alle pretese follie crede e non crede. Con uguale passione, uguale pigrizia, uguale noncuranza. Uguale rassegnazione. Poiché di sicuro si fi-nisce per credere a tante cose a forza di vederle orchestrare, promuovere, dimenticare, tornare in auge. Si può scegliere di credere anche per quieto vivere. Oppure plausibilmente non se ne può proprio più. Non è che sia vietato insistere su come e perché le cose siano o non siano andate in un certo modo, rincarando la dose. Ma, di fronte a ogni nuovo capovolgimento clamoroso destinato a ingrossare le fila degli esperti o dei bene o male in-formati, decennio dopo decennio, come vale la pena di reagire? E che diffe-renza fa? Cosa cambia o può ancora cambiare? L’Italia oltretutto continua a essere un soggetto poco adatto a reggere una qualsiasi proposizione di senso compiuto. Meglio servirsene come complemento di luogo: in Italia. L’Italia di ieri, di oggi, contemporanea, estemporanea, intesa come soggetto (per quanto improbabile, generico, qualunquista) o come complemento di luogo (almeno per ragioni di sostenibilità del discorso), non fa che legittimare la voglia di restare aggrappati ad alcune certezze o di perseverare nella ragione del dubbio. Di accettare in un preciso istante una versione dei fatti, salvo convincersi dopo un po’ dell’esatto contrario, diventando a un tratto oppor-tuno sospendere ogni giudizio. O magari di voltare pagina. Comunque sia di smettere insistentemente di riannodare fili troppo lunghi e aggrovigliati, talvolta per eccesso di conoscenza, tal altra per difetto.

    Il caso Bellocchio

    Anche la filmografia di Marco Bellocchio, dal 1978, come cerche-remo di spiegare, si addentra nei meandri del caso Moro. Ne riflette da oltre trent’anni gli snodi principali, vi fa cenno a più riprese, prendendo di petto o cercando di liberarsi di questo gravoso fardello nazionale. Lo fa interfacciandosi dichiaratamente e direttamente o nei modi più impensati e indiretti con un coacervo di contributi di varia provenienza che spesso

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    inducono a reagire quasi con sufficienza all’insufficienza congenita e inos-sidabile di verità che ne pervade e mina il decorso. E che con il tempo ha generato un effetto comprensibile di sazietà e di congestione diffusa, da cui sarebbe opportuno, bello, bellocchianamente liberatorio all’improvviso liberarsi. Come dalla sovraesposizione o dalla sottoesposizione ai fatti stessi: tanti microscopici, pochi macroscopici. Concentrati nell’arco di decenni, o di pochi anni, mesi, giorni, ore, minuti che si rincorrono.

    Interamente o in parte quasi tutti i film che Bellocchio dirige dal 1978 rievocano e cronometrano in diverse occasioni e circostanze lo svolgimento del delitto Moro, fino a trascenderne l’arco cronologico reale: dalle 8.55 del 16 marzo alle 12.10 circa del 9 maggio 1978, dall’ora e dal giorno in cui il presidente esce di casa per non farvi mai più ritorno all’ora e al giorno in cui giunge la telefonata con cui le Brigate rosse indicano dove poter recu-perare il cadavere, ecco che i cinquantacinque giorni estenuanti del seque-stro rimbalzano da un film all’altro, tra fiction e non-fiction, contraendosi per adattarsi alla durata della proiezione/trasmissione oppure dilatandosi a dismisura per proiettarne l’ombra sul presente e sul passato. Con Belloc-chio questo piccolo frammento temporale acquista sullo schermo (che ne restituisce la singolarità e ne accresce l’istanza interpretativa) i contorni di un’esperienza collettiva virtuale i cui effetti collaterali di lunga, intermi-nabile durata postulano all’orizzonte l’augurale scatola nera del maggiore “pasticciaccio brutto” della storia repubblicana. Ma non impediscono che un abisso in perenne buono stato di salute continui a connotare un in-terminabile, resistente periodo buio che addirittura prospera sotto la luce accecante dei riflettori, ai quali non basta irradiarne bruscamente ogni controverso, sconosciuto o mal conosciuto recesso perché si arrivi prima o poi a far pienamente luce. A questa luce che manca, subissata dal buio dei processi celebrati nelle sedi giudiziarie, se ne aggiunge un’altra, consueta, complementare, tutt’altro che metaforica: quella della sala cinematografica in cui il buio per antica consuetudine spinge lo spettatore, prigioniero im-mobilizzato, consenziente e desiderante, a convogliare completamente la propria attenzione sul grande schermo illuminato dal film che si proietta:

    È quindi la loro [degli spettatori] paralisi motoria, l’impossibilità di lasciare il posto dove si trovano che, rendendo loro impraticabile la prova di realtà, favorisce il loro errore e li porta effettivamente a scambiare per reale il feticcio, o forse la sua rappresentazione, la sua proiezione sullo schermo formato dalla parete visibile della caverna, dal quale non possono distogliere lo sguardo, né possono volgersi altrove. Sono legati, avvinti, incatenati allo schermo – una relazione, un prolungamento reciproco che dipende dalla loro incapacità di allontanarsene. Ultima visione prima di addormentarsi [corsivo nostro].5

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    La riflessione sul dispositivo e sull’immaginario cinematografico degli anni Settanta, che è di sicuro un «tragico modo di considerare il cinema»,6 attraversa e ipoteca del resto numerosi film di Bellocchio. In particolare Buongiorno, notte (2003) sulla cui manifesta configurazione interme-diale7 avremo modo di tornare. Detto altrimenti alla base di quest’unico film interamente dedicato dall’autore al caso Moro c’è il cinema. Perché è al cinema, in cui le tecniche di ripresa e di proiezione determinano le traiettorie e le relazioni degli sguardi coinvolti, predisposti e interpellati8 (del regista e dell’attore, prima, e dello spettatore, dopo), che si riallaccia anche l’utilizzo coerente e costante in Buongiorno, notte di immagini di altri film esterni/interni, in grado di innescare e strutturare in autono-mia ulteriori processi: processi psichici (quelli della brigatista Chiara) accanto a terribili processi concreti assai simili a pratiche psichiatriche (il farneticante processo “proletario” delle Brigate rosse ad Aldo Moro). Ma anche perché al cinema inteso come luogo fisico deputato a veicolare la tensione continua tra luce e buio (Buongiorno/notte), tra realtà e im-maginazione (ugualmente cinematografica), rimanda il covo brigatista in cui Chiara, dopo aver a lungo spiato Moro, può permettersi alla fine di prendere sonno. «Ultima visione prima di addormentarsi», appunto. Al cospetto di Moro il cinema secondo Bellocchio, tragicamente, non può essere che questo. La conferma arriva con Bella addormentata (2012), che con Buongiorno, notte intrattiene un rapporto di emblematica con-tinuità. E in cui ci accorgiamo di quali e quanti siano i potenziali luo-ghi equivalenti o sostitutivi della sala cinematografica predisposti per accogliere soggetti dormienti che forse non potranno/vorranno mai più risvegliarsi. Non sorprende infatti che Chiara (di nome, non di fatto) alla fine di Buongiorno, notte sprofondi nel sonno, sognando (forse) il suo prigioniero finalmente libero per strada, all’alba. Né sorprende che il sogno e la speranza si siano trasformati in incubo e disperazione se nove anni dopo – gli anni che separano le uscite dei due rispettivi film bellocchiani sul caso Moro e all’apparenza sul caso Englaro – questa ex brigatista “rossa” diventa la tossicodipendente, autolesionista Rossa (almeno di nome). A interpretare i due personaggi allusivamente cor-rispondenti, legati da un sonno profondo e intertestuale, è la stessa at-trice: una delle principali figure femminili bellocchiane a cominciare da La balia (1999). Un passaggio di consegne, un unico sembiante femmi-nile, consentono alla prima “rossa” di addormentarsi alla fine di un film (Buongiorno, notte) per risvegliarsi in un altro (Bella addormentata), nei panni di un’altra “rossa”, di cui ignoriamo il passato: la nuova, principale “bella addormentata”. Scelta inequivocabile: il titolo del film appare in sovraimpressione a destra proprio mentre la misteriosa donna, dapprin-cipio anonima, dorme indisturbata sulla panca di una chiesa. Qualche

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    inquadratura più tardi si risveglia, ma sembra ignara del luogo in cui si trova. Automaticamente estrae un coltellino e, dopo aver assaporato per un istante il sangue della lieve ferita che si è procurata per piacere, abitudine, pulsione di morte, cerca di forzare la serratura di una cassetta per le elemosine. Non sa di essere spiata, probabilmente dall’inizio: a lanciare l’allarme e a costringere Rossa a fuggire è un’altra donna, una mendicante cieca che cieca non è, come è logico aspettarsi in Italia dove sono in molti a vedere o ad aver visto molto bene (chiara-mente), pur fin-gendosi all’oscuro di (quasi) tutto. Dalla chiesa buia Rossa si sposta in un altro luogo chiave della filmografia di Bellocchio: l’ospedale, ennesimo spazio pieno di stanze di degenza e di sale operatorie che rimanda ancora alla sala, in tutti i sensi, buia. Il perno del discorso bellocchiano resta la sala cinematografica o i suoi surrogati istituzionali, chiese, ospedali, scuole, caserme, prigioni, tribunali, persino le stanze del Senato che l’au-tore di Bella addormentata ha reinventato riempiendole di teleschermi e subissandole di videoproiezioni. Persino la parabola autoreferenziale del Benito Mussolini di Vincere (2009) ha origine e si corrobora nei vecchi cinematografi dove l’unica sorgente luminosa serve a far vedere le imma-gini dei film di propaganda fascista. La luce in sala è dunque al servizio dell’Istituto cinematografico di Stato, il Luce. Anche stavolta, con effetto retroattivo, è facile abbandonarsi al sonno della ragione e del desiderio, chiudere gli occhi o mantenerli bene aperti a patto che vengano rivolti verso l’imponente, sovrastante schermo illuminato, chissà quanto illu-minante. Che dire? «Luce, Duce, pagaci la luce. Re, re, pagaci il caffè!» scherza il protagonista di Enrico IV (1984), fingendosi prima sorpreso poi divertito dalla rivelazione macchinosa di una verità a lui ben nota da decenni. Luce, la luce, il Luce, luci trasversali, ombre contigue, rivela-zioni di ogni tipo squarciano e infestano il caso Moro rivisto e corretto da Bellocchio. Dall’aldilà, dall’aldiquà (al di qua, non per niente, anche della macchina da presa),9 manifestazioni eterogenee si contendono il campo. Forze naturali e sovrannaturali, entità normali e paranormali, onnipre-senze mediatiche e presenze medianiche, senza soluzioni di continuità, concorrono a delineare uno spazio rappresentativo in cui si dicono, si fanno, succedono cose da pazzi. Bellocchio non si fa sfuggire l’occasione di trasformarle in testi e pretesti per la sala cinematografica, dove lo spet-tatore guarda i film immerso nel buio rischiarato da un fascio luminoso unidirezionale, seduto, narcotizzato e sedotto come coloro i quali inter-pellano assorti gli spiriti dei defunti. Perché sorprendersi se le scienze occulte e la fantascienza entrano di diritto o intervengono di proposito già nella cronistoria del caso Moro?

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    Percorsi antiautoritari

    Se non è semplice fare i conti con il vasto, insidioso e contraddittorio indotto moroteo, figurarsi quando ai meandri del caso Moro si sommano ulteriori sentieri cinematografici. Sentieri non sempre tracciati o trac-ciabili in maniera netta, lungo i quali occorre tuttavia avventurarsi se si vuole accedere ai territori ambigui, non dichiarati di un autore, Belloc-chio, stilisticamente molto nitido e consapevole, estremamente lontano dalla trasparenza, cioè dal realismo. Indubbiamente il caso Moro costitu-isce una premessa storico-politica fondamentale per tentare un approccio più circostanziato e concreto al cinema di Bellocchio. Un approccio non esaustivo, ma di sicuro molto pertinente. Ma è anche vero il contrario: che la chiave cinematografica bellocchiana, così complessa, restituisce la misura, anzi la dismisura di una complessità storica e politica di cui il caso Moro diventa il sintomo maggiore, longevo ed eclatante. Questo non vuol dire che i problemi connessi all’analisi e all’interpretazione di una tragedia nazionale siano minimamente paragonabili a quelli della prassi filmica. Bensì che sussiste un rapporto di proporzionalità, forse anche di causalità. In altre parole il grado di difficoltà dei film di Bellocchio dalla fine degli anni Settanta è direttamente proporzionale al grado di connessione dichia-rata o segreta a vicende, personaggi, questioni che ruotano attorno al caso Moro. Si instaura dunque un rapporto molto stretto tra questi film e i fatti cui essi rimandano o che sottintendono. Un rapporto di reciprocità inter-pretativa. Esercitarsi interpretando gli uni equivale insomma ad affinare l’interpretazione degli altri, e viceversa. Omologa risulta perciò sia la strut-tura problematica dei film sia quella del contesto preciso cui fanno anche solo vagamente riferimento. Sono oltretutto film particolarmente adatti a veicolare la complessità e l’inenarrabilità del caso Moro: Bellocchio re-spingendo significati univoci o letture statiche esprime testualmente, cioè mediante l’autonomia e la libertà delle immagini e dei suoni, la propria forte resistenza all’autorità. L’insofferenza verso percorsi, figure, paradigmi autoritari non è meno acuta rispetto a pratiche interpretative ugualmente percepite in chiave autoritaria, non importa se autorevole o meno. Nes-suno può dire (a lui, a proposito dei suoi film) cosa stia a significare un’im-magine o un suono, l’immagine di un suono o il suono di un’immagine. Con il passare del tempo, in nome di un’idiosincrasia rivolta anche con-tro i propri attrezzi del mestiere, appare chiaro che persino un concetto chiave come quello dell’immagine, rimodellato a partire dall’«immagine interiore»10 o interna, al centro dell’eresia teorica dello psichiatra Massimo Fagioli, viene provocatoriamente ridimensionato, quasi accantonato. Di più: svilito, depotenziato o svuotato di valore, nelle parole dell’esasperato senatore Beffardi di Bella addormentata, per quanto riferite all’immagine

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    pubblica: «Mi avete rotto il cazzo con l’immagine! Ma che significa? Una parola completamente priva di significato». La sola parola «immagine», un tempo volentieri rivendicata («Sento di aver raggiunto una maggiore libertà. Ho seguito delle immagini, più che delle tesi. […] Questa costru-zione di immagini è una leggerezza conquistata a partire da La Balia»)11 come elemento centrale e alternativo di una presenza artistica non confe-zionata né subalterna, è divenuta ora impronunciabile? Quella che poteva essere una conquista personale, sul piano estetico e rappresentativo, si è ridotta, con il concorso delle pratiche d’attuale società dello spettacolo allo sbando, a una cosa vuota, degenerata: un bersaglio contro cui indirizzarsi, un fardello pesante dal quale dichiaratamente sganciarsi per preservare la propria autenticità di autore-contro. Stesso discorso per il cosiddetto “caso Moro”, che gli si presenta, dopo averlo a lungo (in)seguito, come un argomento talmente consolidato e preconfezionato da indurlo a cercare una via di fuga. Come? Sbarazzarsene a parole o per iscritto, specialmente con l’uscita di Buongiorno, notte e in concomitanza con le polemiche che l’hanno accompagnata, in ogni occasione si sia presentata, dissimulando l’oggetto inconfessabile che pure l’ha a lungo irretito. Perché, a suo dire, in Buongiorno, notte «in modo del tutto infedele si parla di una vicenda sto-rica»?12 Per una ragione molto semplice e comprensibile: concepire anche solo questo film, per non parlare degli altri abbastanza contigui di cui ci oc-cuperemo, come un qualcosa di molto definito, riconoscibile, convenzio-nale, è a dir poco inaccettabile. La remota ipotesi che si tratti banalmente di un semplice, comune film sul caso Moro (o più tardi sul caso Englaro, probabile simulacro aggiornato e di copertura di quello Moro) suscita in Bellocchio un atteggiamento di rifiuto automatico. Una simile connota-zione così scontata implicherebbe per lui la sistematica restrizione di uno spazio espressivo, diversamente creativo ed euristico. Per certi versi anche il caso Moro, per le dimensioni assunte, per la suggestione che continua a suscitare e per l’ampiezza di materiali spesso di consumo che ha prodotto, sembra sfuggire a se stesso, sottrarsi alla sua prevedibile divulgabilità. La sintonia bellocchiana con il caso Moro, sintonia continuata e continuativa tutt’altro che a caso, frutto quasi di una strana coazione a ripetere, sempre dissimulata e diversificata, deriva da un’inclinazione personale e profes-sionale per il divenire, il ribaltamento, il superamento. Inclinazione quindi congenita per la perpetua riformulazione dei propri strumenti e oggetti di lavoro. L’istinto antiautoritario, alimentato e stimolato di volta in volta da pretesti concreti e cangianti, è maturato parallelamente nel corso di decenni attraverso lo strappo consumato da una suggestione esterna o un assoggettamento all’altro. Ogni nuova passione viene vissuta, etimologica-mente, come condizione di passività.13 Quindi come preziosa circostanza di dipendenza improvvisa(ta) o calcolata, di sbandierata o taciuta fede(ltà),

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    di volontario o involontario ideale politico, culturale e psicologico. Tutte cose servite nel corso del tempo a sostituire e scalzare le passioni e le oc-casioni immediatamente precedenti. In pieno sodalizio con Fagioli, pre-parando Diavolo in corpo (1986), Bellocchio provvede ad archiviare come “fallimentare” l’intero repertorio politico-culturale precedente, confes-sando addirittura di aver covato il segreto desiderio di veder “finire” quegli stessi seminari di analisi collettiva ai quali invece da pochi anni stava par-tecipando, di cui Gli occhi, la bocca (1982) sarebbe stato la pietra tombale e Enrico IV (1984) l’auspicato, acerbo, viatico (invero molto interessante):

    Era scattato un preciso ordine interno: ritirarmi, abbandonare il campo. Rientrare nell’ordine. Pensavo nel mio delirio che i seminari non mi servissero più. Potevo non farmi più vedere, sparire fisicamente, nes-suno sarebbe venuto a cercarmi. E invece ritornai ai seminari con la precisa intenzione di contribuire attivamente alla loro fine (io non ero cosciente di partecipare a un complotto eppure gli indizi erano innumerevoli. Una ragazza sognò che puzzavo di cadavere). Dovevano fallire, come era fallito il ‘68, e poi il ‘69, e poi i marxisti-leninisti, e poi Basaglia, e l’analisi indi-viduale, e il ‘77, e Lotta Continua, e il terrorismo… Bisognava rispettare una continuità nel fallimento, una specie di dolorosa solidarietà con tutti quelli che non ce l’avevano fatta.

    Invece no, i seminari andavano avanti. E allora mi inventai la loro fine in un film, Gli occhi, la bocca, che nelle mie intenzioni doveva essere una grande storia d’amore, ma che nella realtà era soltanto una storia di fantasmi […].

    Solo, fuori dai seminari da più di un anno, provai a ricominciare con l’Enrico IV di Pirandello (primavera 1983). Fu una decisione affrettata, forse per cancellare subito lo smacco precedente.14

    È proprio questo «ordine interno», tradotto in atteggiamento apparen-temente irrazionale e distruttivo, ad aver invece consentito a Bellocchio in modo piuttosto razionale e lucido nell’arco di quarant’anni di pregustare volta per volta l’imminente e inevitabile opportunità liberatoria. Di andare oltre il presente, individuale e collettivo, considerandolo una fase contin-gente. Dunque imperdibile si conferma per lui, ancora oggi, l’opportunità di rigettare o irridere con costante, astuto spirito dissacratorio memorie pubbliche e private, monumenti e maestri appunto molto autoritari ma proprio per questo non abbastanza autorevoli per un autore determinato a restare tale. Lo dimostra, semmai ce ne fosse bisogno, la scelta di rimettere mano nel 2011 al montaggio di uno dei suoi titoli più noti e paradigmatici, Nel nome del padre (1972), approntandone un curioso director’s cut. Un au-tentico congedo definitivo, sulla falsariga del documentario post-verdiano e

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    post-viscontiano intitolato per l’appunto Addio del passato (1999). Si tratta, attenzione, non di una versione più lunga dell’originale, ma di una più breve e liberatoria.15 Sciolta cioè dal vincolo di vecchie paternità obsolete e remoti sedimenti ideologici, destituiti di fondamento autoriale.

    Anello matrimoniale

    La scommessa consiste nel cercare, sempre e comunque, progetti ad hoc sulla scorta dei quali fondare uno stile, un’indagine, un pensiero adeguati a circostanze private e pubbliche da scandagliare. Ciò che conta è sottrarsi con maggiore determinazione a ogni condizionamento esterno. Dalla se-conda metà degli anni Sessanta, con rinnovato impulso dopo Il gabbiano (1977), sulle ceneri dell’antipsichiatria (di lì a poco, nel 1978, recepita dalla legislazione vigente), Bellocchio non ha esitato a prendere in contropiede spettatori o studiosi, classificatori estetici e ideologici. Un ruolo chiave in questo gioco di spiazzamento, come spiegheremo più avanti, l’ha avuto il paranormale, con i suoi fantasmi personali, familiari e nazionali, mentali e sentimentali. Fantasmi simulati, molto italiani. O assimilati al disposi-tivo cinematografico adoperato e perciò (d)enunciato all’interno dei film stessi. Pensiamo a Vacanze in Val Trebbia (1980), Gli occhi, la bocca, Buon-giorno, notte. Spesso a partire dagli stessi titoli, come nel caso del collettivo La macchina cinema (1978) e Il regista di matrimoni (2006). Immagini, sì immagini: dense, nette e impenetrabili, più o meno oniriche al servizio di un passato fin troppo presente, di un presente deliberatamente passato, in-giudicato, lo predispongono e lo espongono allo scandalo (scandalo che comporta – come vedremo – puntuali processi o accuse autoreferenziali nei film seguenti). In che modo in un certo senso “cerca” lo scandalo? Esibendo in Diavolo in corpo all’occorrenza da vicino un rapporto orale e consola-torio per distrarre sfrontatamente lo spettatore (maschile, per tradizione). E metterlo nell’impossibilità di ascoltare la rievocazione fiabesca e impro-babile del mito rivoluzionario degenerato in terrorismo. Poi in La visione del sabba (1988) inventando uno stravagante quanto indecifrabile episodio di magia nera fin troppo contemporanea e allusiva. L’arte dello scandalo o più propriamente lo scandalo dell’arte sovente si consuma nel presente ma ha origini lontane, autoreferenziali. Prendiamo L’ora di religione (2002). Qui troviamo un caso non meno bizzarro di beatificazione che prende le mosse da un antico, imbarazzante matricidio, sulla falsariga di quello di I pugni in tasca (1965). E che prontamente viene trasformato, complice un’Italia eternamente bigotta e trasversalmente segreta e consociativa, in business politico-religioso: quale migliore, perfetto e provvidenziale “affare” di famiglia? Di caso in caso, ma mai per caso, l’autore arriva al cuore del

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    problema. A chiamare fatti e personaggi direttamente con il proprio nome. Con Buongiorno, notte prende di petto il sequestro Moro, il caso per eccel-lenza che da vari film serpeggiava, si insinuava, ne ipotecava l’andamento. Un caso di parricidio simbolico e di delitto politico vero, in cui una giovane terrorista dal nome emblematico, Chiara, e dalle molteplici facce, assem-blata unificando vari prototipi reali di cui diremo tra breve, scongiura fino all’ultimo l’assassinio non simbolico di Moro, padre costituente e putativo. Dieci anni dopo, con Bella addormentata, Bellocchio passa a un altro caso: quello costruito sulle vicende di Eluana e di suo padre Beppe Englaro. Un caso privato-pubblico, privato della sfera privata, dove l’eutanasia significa tante cose assieme: dissacrazione, fenomeno mediatico, opportunità poli-tica, attentato all’istituzione familiare (la donna che in uno dei segmenti narrativi tiene in vita ossessivamente la figlia con le macchine non ha un nome proprio, si chiama Divina Madre e tanto basta). Da una figlia che imprigiona il padre putativo e in extremis si oppone alla sua condanna a morte (Buongiorno, notte) l’autore si sposta sul chiasso scatenato dalla morte annunciata e decisa questa volta da un padre reale per una figlia in stato vegetativo (Bella addormentata), passando per il matrimonio/funerale di convenienza imposto dal padre aristocratico alla figlia indocile (Il regista di matrimoni).

    Gli anelli della catena matrimoniale nella filmografia di Bellocchio si sprecano, come quelli che rilucono in modo inquietante nel caso Moro. Alla lista dei matrimoni già citati se ne aggiungono altri: quello borghese che un altro padre, operaio, vorrebbe sempre per la figlia, magari con il fratello gemello del promesso sposo suicida (Gli occhi, la bocca); quello che la madre di un brigatista pentito vuole a tutti i costi venga celebrato con rito cattolico con la figlia dell’ufficiale dei carabinieri vittima di un attentato terrorista (Diavolo in corpo). Andando a ritroso, troviamo il matrimonio simulato, siglato dall’omicidio all’interno di un film molto amatoriale (La macchina cinema). Su simili riti coniugali, combinati e funestati, che si sus-seguono e si incrociano, come in Bella addormentata o nel finale di La Cina è vicina (1967), incombe fatalmente la morte, tragica o irridente, merce di scambio reversibile tra genitori e figli (dai tempi non sospetti di I pugni in tasca). Una morte inesorabile e inappellabile, ancora, è quella decretata dal Grande Elettore per lo sventato e irregolare figlio in Il principe di Hom-burg (1997). Una morte che ci riporta per altra via al caso Moro, poiché il sonnambulo giovane principe kleistiano, sprofondando nella completa disperazione dopo essere stato condannato alla pena capitale senza possi-bilità di intercessione da parte di nessuno, ci riporta ai ripetuti appelli dalla prigione del popolo lanciati da Aldo Moro (Buongiorno, notte) o alle lettere che invano dal manicomio-prigione l’irriducibile moglie non riconosciuta del Duce cerca di far pervenire alle autorità civili ed ecclesiastiche (Vincere).

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    Come si può notare, le coincidenze e i matrimoni perseguiti e mancati si accavallano nell’opera di Bellocchio, forieri di disgrazie domestiche e di Stato. Specialmente nel 1978 o negli anni successivi. Insomma, per una (s)ragione o per l’altra ruotano attorno all’anno tragico del delitto Moro. Per non parlare della fantascienza. Che c’entra la fantascienza? Pensiamo per un attimo al delirio fantascientifico di un matto vero, immaginato a servizio in un istituto religioso retrodatato (Nel nome del padre), il quale torna a esibirsi nel 1978 sul piccolo schermo (La macchina cinema). E chiediamoci come mai la fantascienza rispunti in sordina, indicibile, nel cruciale evento del 1978, quando da un apparecchio televisivo perennemente accesso nel covo brigatista ricostruito in studio giungono segnali di questo genere lette-rario particolarmente in voga in Italia e nella politica italiana nella seconda metà degli anni Settanta (Buongiorno, notte). Vale anche la pena chiedersi, procedendo di matrimonio in matrimonio, imposto o disconosciuto, pur sempre dall’alto, come mai l’autore di cui ci stiamo occupando ricorra di-rettamente ai tipici paradossi temporali del repertorio fantascientifico (Il regista di matrimoni, Vincere). Sono tutti modi per allungare sul presente l’ombra, lo spettro, l’immagine del caso Moro. Soprattutto quando i colle-gamenti oggettivi, gli “anelli”, meno incoscienti di quanto si creda, risultano allentati, mimetizzati o sconfessati. Cioè resi invisibili e insostenibili con sistematica precisione. O con sintomatica ostinazione.

    Lo spettatore insostenibile

    Interrogarsi sulla sintomatologia di un autore cinematografico non è una cosa tanto inusuale. La medicina non c’entra questa volta. C’entra l’ana-lisi del film spinta sul versante ermeneutico, che riguarda di solito autori in ottimo stato di salute stilistica. Una pratica abbastanza diffusa. Niente di ec-centrico. Conoscere un artista significa innanzitutto imparare a conoscerlo, per leggerlo e rileggerlo secondo precise attitudini, esigenze di studio, ado-perando mezzi appropriati e individuando angolazioni originali, proficue. La costruttiva «coabitazione di regimi interpretativi»,16 pur portandoci oltre la stagione dorata del testo, non impedisce che con inclinazione, perché no, artistica,17 si riconosca la mano, il tocco dell’artista all’occorrenza esa-minato. Quindi che si riesca ad avere confidenza dettagliata con i testi e con lo stile personale che li attraversa. Del resto un approccio testuale e stilistico quale quello che proponiamo non esclude un impiego allargato, aperto, che eccede il testo o coglie del testo la propensione a introiettare e organizzare i fatti esterni. In concreto, per orientarsi nei recessi del caso Moro, afferrarne sfumature vagamente inedite, è utile in continuazione anche entrare e uscire dai testi cinematografici di Bellocchio, la cui struttura

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    complessiva o solo singoli frammenti eccentrici eccedono in modo capillare la misura del racconto esteriore immediatamente recepibile. Né potrebbe essere diversamente. Tutto qua. In buona sostanza è questione di guardarsi attorno, respirare l’aria del contesto storico e dei fatti connessi alla scon-certante vicenda del presidente democristiano rapito e ucciso, con tutto ciò che essa ha comportato sul piano culturale, politico e storico nel corso di oltre trent’anni di vita italiana. E riconnettere tali fatti senza tregua alle di-namiche interne e coerenti del testo filmico. Niente di più. Niente di meno. Senza mai perdere di vista la questione fondamentale: impegnarsi, meglio preoccuparsi di saper individuare «motivi formali» e «investimenti libidici», presupponendo nei film analizzati e interpretati quelli che Lacan ha defi-nito sinthomi.18 Di cui è ricca ad esempio la filmografia hitchcockiana.19 Ebbene, un’analoga attenzione alla filmografia di Bellocchio rivelerà una rete molto fitta di segnali, indizi, sintomi (o sinthomi) che si ripresentano in concomitanza con il caso Moro. Donde, chissà, l’esigenza dell’autore, culminata in Diavolo in corpo, L’ora di religione e soprattutto Buongiorno, notte e Il regista di matrimoni, di mettersi al riparo dagli stessi destinatari delle sue continue allusioni, dei rimandi incrociati e degli indizi audiovisivi. Funziona così: Bellocchio designa un certo tipo di spettatore. Uno spetta-tore ideale, sostenibile, su misura, che con i suoi film egli auspica, solletica, provoca. E che poi abbandona al suo destino ermeneutico. Ossia rende a un tratto insostenibili le pratiche spettatoriali pure abilmente innescate. Specialmente quando è in ballo, più di frequente di quanto sembri, l’ar-gomento su cui abbiamo scelto di concentrarci: il caso Moro. Sono infatti molte le strade, le modalità rappresentative e le situazioni narrative che ri-portano in continuazione nella vertigine di questo terribile caso italiano il “nostro” Bellocchio. Il quale obbedisce a una necessità profonda, bisogna ammettere non facilmente sondabile, di disseminare il suo percorso crea-tivo di acute e inconfondibili associazioni di idee e avvenimenti significativi. Bellocchio invoca temerariamente un soggetto-spettatore perspicace, non necessariamente reale. Meglio se virtuale, meglio ancora assente. Un’entità da interpellare come ci si aspetterebbe da uno spettatore possibile, concreto ed effettivo (quello insomma cui si richiamano gli assertori della “post-te-oria”,20 muovendo da presupposti cognitivisti), ma che si compenetra, anzi coincide con le risultanze testuali. Questo, tra le pieghe del caso Moro, è l’identikit dello spettatore bellocchiano per eccellenza. Un siffatto spetta-tore non deve limitarsi ad assistere al film, come un soggetto anonimo (lo spettatore comune) che guarda un oggetto come tanti (un film qualsiasi), ma di farsi carico dello sguardo stesso. Intendiamo dire lo sguardo laca-niano, in questa sede molto pertinente. Uno sguardo che ri-guarda infatti con impertinenza chi (lo) guarda ora sullo schermo, ora sul set come fa appunto il regista dietro la macchina da presa, finendo così con le spalle al

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    muro. Questo sguardo è inseparabile dallo spettatore, non importa se reale o mitico, mancante o fantasmatico. Sfacciato quanto basta per porre senza mezzi termini il problema dello sguardo reattivo, lo sguardo che offre una prospettiva di ritorno riflessiva, imbarazzante. Lo sguardo che non appar-tiene a chi guarda ma alla cosa/persona guardata, rendendo perciò la pari-glia.21 Cioè contraccambiando con la stessa moneta scopica lo spettatore o il regista del film, o nel film. Ecco perché il regista, primo spettatore del suo film, quanto più è sottinteso tanto più si scopre impudente. Più di ogni altro film bellocchiano Buongiorno, notte non fa che mettere in scena lo sguardo filmico e le dinamiche spettatoriali con il proposito di portare allo scoperto spettatori interni ed esterni al film, regista e carcerieri, inchiodandoli alle loro responsabilità di testimoni oculari, mettendoli a disagio, generando inquietudine, compromettendoli. Altrimenti perché l’autore dovrebbe in-terpellare lo spettatore, il “suo” spettatore, nel contempo desiderandolo e respingendolo? Un autore, non dimentichiamo, che fa di tutto per esserci, in prima persona, marcando la propria presenza sia come regista al di qua della macchina da presa, fuori quadro, sia davanti, in veste fugace ma non occasionale di attore. Dentro il film, Bellocchio non sembra accontentarsi, specie dopo il 1978, del proprio sicuro ruolo registico che osserva/filma dal di fuori. Si spinge oltre, entra in campo, condivide il gioco: da regista/spet-tatore implicito del film diventa, lo ripetiamo, un regista-attore implicato in prima persona anche nel film. Non abbandona la posizione e il privilegio della regia, di un solo uomo al comando del film. Semplicemente lascia fare alle componenti impersonali dell’enunciazione presenti nel testo.22 At-traverso queste attiva la strategia della reciprocità, ossia la reattività dello sguardo. Solo che a questo punto è tenuto suo malgrado ad accettare fino in fondo le regole del gioco e la contropartita dell’analisi testuale.

    Se come regista e come privato cittadino accoglie la psicanalisi e speri-menta diverse tecniche e metodologie di analisi, approdando all’analisi col-lettiva di Fagioli, nondimeno Bellocchio svia e sfugge l’analisi testuale, soprattutto quando si fa ermeneutica e non puramente descrittiva. Ricapi-toliamo: lo spettatore migliore, cui rivolgersi, non deve alla fine spuntare dal cilindro, né esserci. In quanto autore dai molteplici ruoli, legittimamente assunti e ostinatamente incarnati, impliciti ed espliciti, Bellocchio attiva testualmente questo processo analitico/interpretativo nello spettatore, in-nescando domande, salvo provvedere a inibirlo e scoraggiarlo a film finito, ogni qualvolta si presenti l’occasione. Un meccanismo per certi versi kaf-kiano. Come dichiara infatti il guardiano della porta della Legge allo sven-turato uomo di campagna nella parabola narrata nel penultimo capitolo del Processo: «Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era desti-nato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo».23 Un’assurdità non priva di logica e di metodo. Comprensibile in Bellocchio che riconosce a questo spettatore

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    insostenibile (nel senso che lui per primo a cose fatte non lo sostiene) l’onore delle armi in una sconfitta giudicata inevitabile. La legittimità interpretativa o l’intelligibilità del testo non vengono messe in discussione. Semmai è l’e-ventuale risultato parziale, possibile, ipotetico che deve diventare l’occa-sione perduta, di cui (si) preannuncia il fallimento, ma di cui (si) invoca l’improbabile benché paradossale sostenibilità (quindi la non impossibilità). In gran segreto, un segreto non negato all’istanza interpretativa, Bellocchio costruisce i suoi film, certuni film, pungolando l’attenzione dello spettatore. Ad esempio Buongiorno, notte in cui di continuo indirizza lo sguardo di questo speciale spettatore, facendolo coincidere con il suo e/o con quello di un personaggio in campo. Ad esempio di Chiara. Molto spesso mette lo spettatore nella condizione e nella posizione di seguirne correttamente la traiettoria ottica. Fino a un certo punto però. All’improvviso questa traiet-toria smette di essere univoca. Si passa cioè dal senso unico al doppio senso di marcia visiva, annullando la linea di demarcazione tra il guardante e il guardato, tra il soggetto e l’oggetto. Accade durante gli interrogatori di Moro, condotti all’interno dal brigatista Mariano e spiati dall’esterno da Chiara (o, occasionalmente, anche dai restanti due brigatisti dell’apparta-mento/prigione Enzo e Primo), che si verificano passaggi abbastanza spiaz-zanti e irrituali, di cui ci occuperemo in seguito affrontando nello specifico i “frammenti” interessati da questo procedimento. Ci limitiamo qui a far notare come venga così compromessa la concatenazione delle inquadrature che serve a dissimulare il dispositivo della ripresa. In Buongiorno, notte, contravvenendo al principio di linearità e di trasparenza del racconto fil-mico classico, si passa dalla singolarità alla collegialità del punto di vista, quindi alla sua (im)motivata reversibilità (non uno sguardo, ma lo sguardo, nell’accezione lacaniana). Moro, sebbene non sia in condizione di permet-terselo, poiché costretto a vivere come ostaggio (cioè oggetto di attenzione da parte della/dei brigatista/i) si fa sguardo. Rimanda al mittente le occhiate indiscrete: senza preavviso si dimostra in grado di ri-guardare chi lo tiene d’occhio di nascosto, in modo maniacale, da uno spioncino. Di conseguenza anche lo sguardo dello spettatore, convogliato in quello dei personaggi, viene ribaltato, spogliato e messo in crisi: nel film. Né se la passa meglio il vero spettatore, non quello «comicamente chiamato reale»,24 quando a po-steriori prova a far domande inopportune, ragionevoli o irragionevoli, sug-gerite dal film. Queste domande vengono sabotate dal regista in persona. Il quale, non più mimetizzato da «soggetto linguistico» o «marca dell’enun-ciazione»,25 sa come farle naufragare con risposte evasive. Non si fa fatica a capire perché uno spettatore simile, indisponente, venga scongiurato. Tale spettatore, inesistente come il cavaliere immaginato nel romanzo di Italo Calvino, che non era rimasto indifferente al fascino di I pugni in tasca,26 non è esattamente quello con cui del resto Bellocchio accetterebbe una piena

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    confidenza. Ammesso e non concesso che un dialogo e una sintonia pos-sano instaurarsi, è solo con se stesso o con uno spettatore potenziale, in cui l’autore si riflette: uno spettatore che del testo filmico da lui concepito è appena un surrogato, un corollario. Ma se per fortuna o calcolata disgrazia questo lettore/spettatore (ir)reale d’un tratto dovesse davvero risultare qual-cosa di più concreto di un elemento linguistico, e insomma incarnarsi dav-vero, egli non esiterebbe a far scattare il piano di emergenza. Lo spettatore dunque, nel momento in cui la sua mera possibilità iscritta in un sistema testuale dovesse invece compiersi, destarsi dalla sua immaterialità, sa cosa aspettarsi. Nessuno gli impedisce di uscire dall’ombra o dallo stato pura-mente intenzionale, teorico, testuale in cui si è trovato inspiegabilmente confinato dopo essere stato convocato, evocato, provocato, come uno spi-rito durante una seduta semiseria e incauta. Ma va incontro a una sanzione non esplicativa, abbandonato all’estasi del significante, sprovvisto di signi-ficato. Incorre cioè in una garbata misura di respingimento frontale da parte dell’autore, un’ermetica chiusura camuffata da eccessiva semplificazione: contro l’interpretazione. Quella dell’autore del film e creatore dello strano e insostenibile spettatore di riferimento è una posizione di rendita, ancorché di ambiguità necessaria. L’ambiguità del resto è la condizione preliminare dell’interpretazione.27 Bellocchio ha quindi tutto il diritto di tentare di in-validare o non incitare più di tanto questa ipotesi di spettatore costruito a propria immagine e somiglianza conoscitiva. Può addirittura eluderlo dopo averlo illuso, in tutti i modi e con ogni mezzo, lungi dal preferirgli neanche per un istante lo spettatore «reale» dei cognitivisti post-teorici. L’«io» te-stuale corrispondente al disegno dell’autore,28 accentuato e raddoppiato dall’insistente «io» ancora una volta dell’autore, nei panni ulteriori dell’at-tore, dentro il testo, si disimpegna spesso e volentieri a film finito. Fuori dal testo filmico, questo «io» in carne e ossa erige un muro per bloccare l’avan-zata dell’istanza analitica e interpretativa dell’eventuale, benvenuto, malau-gurato spettatore. Spettatore coinvolto, se concreto, in un gioco estremamente insidioso. Dare prima del «tu», dentro il testo, a questo pre-cario interlocutore genera l’impressione di un rapporto strettamente riser-vato, quasi familiare. Solo dopo, fuori dal testo, lo spettatore/amico immaginario diventa un potenziale avversario da affrontare con gli stru-menti cortesi di una sistematica opera di dissuasione. Che è poi una forma di auto-persuasione ordita dall’«io» bellocchiano polifunzionale, piena-mente rivendicato, ostentato, rilanciato. L’uso del pronome personale in funzione deittica è del resto consona a una circostanza come questa, dove molto marcata è l’istanza soggettiva. Il suo «io» infatti non si esaurisce nella dimensione del testo, pur trovando in essa riparo e slancio, non è affatto metaforico, né tantomeno discreto o invisibile. Al contrario: è piuttosto ingombrante, indiscreto, come quando in Enrico IV il protagonista ripete

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    diligentemente la battuta pirandelliana «Voi dovete implorarmi questo dal papa che lo può: di staccarmi da lì! Di lasciarmela vivere questa mia vita! Non si può sempre avere ventisei anni!». Gli anni cioè che Bellocchio ha quando realizza il film d’esordio nel quale si ritrova ogni volta ingabbiato, I pugni in tasca. L’Enrico IV storico, nato a Goslar nel 1050, dovrebbe avere quell’età secondo le indicazioni del testo di Pirandello. Nel primo atto Lan-dolfo dice: «Puoi farti il conto: se il 25 gennaio del 1071 siamo davanti a Canossa…». Non tornano invece i conti nel film di Bellocchio, in cui il marchese esclama: «Ricordatevi che mio zio è convinto di vivere nel 1064 e quindi di avere ventisei anni». Tornano, invece, se quel 1064 viene accostato al 1964 in cui l’autore comincia a lavorare al progetto di I pugni in tasca, che esce l’anno successivo.

    In estrema sintesi, quando a cose fatte censura garbatamente lo spetta-tore esistente, Bellocchio sembra voler innanzitutto censurarsi o persuadere se stesso dell’insostenibilità dell’impresa interpretativa. Quantunque tale impresa sia stata avallata dal film, nel film, attraverso il film con destrezza e precisione.

    Stato interessante

    La questione che stiamo affrontando, insistendo sulle premesse teoriche e anche un po’ post-teoriche che ci aiutano a capire come mai l’autore si comporti con lo spettatore come il gatto che gioca con il topo in trappola, non è marginale. Ci siamo soffermati su questi aspetti per così dire preli-minari per afferrare meglio la logica del discorso che soggiace al rapporto tra i film di Bellocchio e il caso Moro. La cautela metodologica non è mai troppa. Infatti, se partorire un film, stando così le cose, non è esattamente un esercizio di innocua affabulazione e intrattenimento, non lo è neanche l’impresa interpretativa, per quanto legittima e organica. Questo strano parto gemellare, il caso Moro nel cinema di Bellocchio, non può che essere faticoso. Richiede una pazienza e uno sforzo di attenzione supplementari. Nella speranza che nel corso di questo libro tale impostazione, spinta alle estreme e disinvolte conseguenze sul piano dell’interpretazione, possa dare i suoi frutti. Quali che siano i risultati, comunque li si voglia giudicare, è impensabile affrontare una sfida raddoppiata senza incrociare strumenti di indagine storiografica e filmica, inseparabili e complementari, di cui oc-corre dar conto.

    Riprendiamo dal punto in cui ci siamo fermati per riorganizzare forze e argomenti e procedere. L’analisi anche solo di singoli frammenti, e l’i-solamento all’interno di essi di elementi verbali molto pronunciati, viene di solito assicurata dallo stesso contenitore testuale, il film, che consente

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    a Bellocchio di lanciare il sasso e nascondere la mano. O i pugni, ovvia-mente in tasca. Egli si rende conto del resto che quando ci si avvicina con attenzione ai fili scoperti del sequestro Moro, senza pregiudiziali di alcun tipo, meno che mai ideologiche, di appartenenza o di convenienza, ci sono ottime probabilità di vedersi assegnati all’area della dietrologia. Basta poco. Questo rischio non vuole correrlo. Magari perché non teme tanto di essere frainteso quanto di essere (troppo) inteso. E interdetto, anche solo simboli-camente o per ragioni altre, sessuali. Non va dimenticato a questo riguardo il processo in cui è imputato di stupro l’architetto Lorenzo Colaianni di La condanna (1991), il film che Bellocchio gira dopo Diavolo in corpo, storia d’amore e di Brigate rosse alla sbarra, e La visione del sabba, incur-sione in un fantastico dalle segrete risonanze morotee. E che ugualmente Il regista di matrimoni, subito dopo Buongiorno, notte, comincia con l’as-surda quanto (auto)ironica messa in stato d’accusa dell’alter ego-regista cinematografico Franco Elica, per presunti ricatti di natura sessuale, con i carabinieri che fanno irruzione nella sede della sua casa di produzione per perquisire e interrogare. Coincidenze. Ad ogni modo, in quanto autore potenzialmente a rischio (di interpretazione, sia chiaro) si limita a immet-tere nei film indizi qua e là, prefigurando una catena indiziaria. Organizza con cognizione di causa significanti in libertà e autonomia espressiva, ac-cavallando i livelli di lettura. Quindi, come si è detto, non esita a fugare o sminuire a posteriori i significati, distribuendoli tra spazio pubblico e sfera privata, sovrapponendo e confondendo ordine reale, immaginario, sim-bolico. Li sovrasta di fattori oggettivi e soggettivi, elementi fisici e psichici indistinguibili gli uni dagli altri. Per non cedere alle lusinghe del determi-nismo dell’inchiesta, allenta le maglie della potenziale rete interpretativa e dimostrativa. Favorisce l’ingresso immediato dello spettatore convocato di nascosto, assecondandone la visione, l’ascolto, l’impatto emotivo e irrazio-nale del testo. Ma non esita a blindarne la lettura logico-razionale. Prepara un sistema illogico di entrate di sicurezza, testuali, e uno logico di uscite di insicurezza, contestuali. E si capisce perché. Ridimensiona o disattende sforzi interpretativi inopportuni onde evitare di passare per uno che vede – tanto peggio se a ragion veduta – cose ufficialmente inesistenti. O che tali sembrano, anzi devono restare. Cose inimmaginabili o talmente impalpa-bili da trovare un corrispettivo nelle pratiche dell’invisibile cinematogra-fico, a partire dallo sguardo in macchina e dall’al di qua della macchina da presa.29 Insomma, cose inimmaginabili o impalpabili, appunto. Inesistenti, e perciò discriminatorie, assolutamente no. Bellocchio, pur offrendo chiavi d’accesso per il sistema operativo dei suoi film, non presta aiuto né soste-gno personale. Ama far sì che certe scelte restino implicite, senza che se ne calcolino gli effetti, ossia che ad esse vengano assegnati significati espliciti, eccessivamente vincolanti. Può permettersi di raggiungere questo obiettivo

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    solo destituendo pubblicamente di fondamento analisi che puntino a far emergere il concreto retroterra fattuale. Le consente, eccome, ma non dà il suo assenso.

    Il messaggio è chiaro: chi affronta questi film lo fa a proprio rischio e pericolo (di smentita). Le mosse dell’autore cinematografico sono impor-tanti. Guai a non renderle prevedibili. Le lusinghe, come i premi, dai tempi di I pugni in tasca, pur non dispiacendogli, lo preoccupano e impacciano. Ciò nonostante, non vuole essere messo nell’angolo, classificato come un dietrologo. I riconoscimenti pubblici, quelli sì ci stanno. Come è importante essere riconosciuto per quel che prova a dire. Non saprebbe starsene in disparte, ai margini, in una delle tante “periferie” impietosamente mostrate in La macchina cinema. Era chiaro sin dalle posizioni assunte in questo curioso film-inchiesta, che prevedeva anche un dibattito interno rimasto inedito, emblematico delle diverse direzioni di marcia che lui e i colleghi Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli avrebbero in seguito im-boccato. Racconta Agosti:

    Marco ad esempio aveva un atteggiamento molto dubbioso, tanto che esiste quella famosa bobina in cui noi quattro riuniti ci siamo filmati men-tre discutevamo le diversità esistenti al nostro interno. Siamo anche partiti bene, ma c’erano già tre modi di concepire il cinema: io, che avevo e ho un’avversione viscerale per la promiscuità tra cinema industriale e cinema d’autore, tendevo a privilegiare il cinema clandestino; Marco s’interrogava sul recupero di un cinema industriale, magari da parte di un autore presti-gioso, un po’ all’americana; Rulli e Petraglia pensavano a un cinema dalla sceneggiatura robusta.30

    Stare nel sistema, negoziare con il sistema. E dall’interno sposare in pieno il registro visionario (come Fellini, né potrebbe essere diversamente). In che modo? Moltiplicando i piani dell’immagine, facendoli interagire, es-sendo autentici i fatti e le circostanze di base riportati o reinventati sullo schermo, quali che siano le fonti, i formati, i supporti audiovisivi. Sul ver-sante del documentario, dell’inchiesta di gruppo o del film di montaggio Bellocchio procede a una sorta di veridizione dell’inverosimile, inanellando paradossi storici e psichici, oggettivi e soggettivi. Una prassi discorsiva la sua, che tra corsi e ricorsi storici o autobiografici trova nel caso Moro un crocevia obbligato, un centro di gravità permanente, su cui convergono o da cui ripartono La macchina cinema e Sogni infranti. Ragionamenti e de-liri (1995), Vacanze in Val Trebbia e La religione della storia (1998). Sul versante molto contiguo della finzione si limita invece a rappresentare ironicamente, fantasiosamente, diciamo pure poeticamente ciò che già è stato dichiarato attendibile o supportato da atti ufficiali e fatti più o meno

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    di pubblico dominio. Questa sovrabbondanza e l’effetto di saturazione che materiali di varia provenienza producono aiuta a comprendere la struttura di Buongiorno, notte. In cui viene restituita in forma mista, ibrida, ambigua, attraverso un perpetuo scivolamento della fiction nella non-fiction e vice-versa, l’ingarbugliata consistenza degli avvenimenti rappresentati. L’autore lo fa con programmatica reticenza e sottile lavoro di sottrazione, quasi sfi-dando la prosaica enormità del caso Moro, su cui definitivamente ha rotto ogni indugio per