Bellerofonte - Aracne4. Ivi, pp. 49–50. Secondo Carlo Augusto Viano, Durkheim deriva da Comte e da...

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Bellerofonte 1/2011 RIVISTA PEDAGOGICA DIRETTA DA GIORGIO VUOSO

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Bellerofonte1/2011

rivista pedagogica diretta da giorgio vuoso

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I edizione: gennaio 2012

isBN 978-88-548-4461-2issN 2039-2737-11001

1/2011Anno XIII

Bellerofonte

Indice

saggI

7 Durkheim e la pedagogia Giorgio Vuoso

23 Filosofia cristiana dall’Età antica al Basso Medioevo Marco Pezzarossa

63 L’educazione in Cina Francesca Gualberti

121 La svolta storicistica Giorgio Vuoso

123 La ricerca in educazione: oggetti, metodi e interdisciplinarietà Georges Felouzis

135 Tre figure chiave dell’epistemologia pedagogica contemporanea in Italia

Giorgio Vuoso

rECEnsIonI

143 Teoria della Halbbildung di T.W. adorno Giorgio Vuoso

147 Osservare l’universo di P. De Bernardis Giorgio Vuoso

151 La città dei nomi comuni. L’epistemologia pedagogica di Sergio De Gia cinto di D. Felini

Giorgio Vuoso

155 Sfibrata paideia di Francesco Mattei Marco Pezzarossa

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indice

159 La rivoluzione di Wikipedia di andrew Lih Francesca Gualberti

gIornaTE DI sTuDIo

169 Dinamiche discorsive e interattive della rete: una riflessione at-traverso la grounded Theory

Evelina De Nardis

175 una questione di metodo: la sociologia delle arti e le storie di vita delle artiste, dal Medioevo alla contemporaneità

Milena Gammaitoni

saggi

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ISBN 978-88-548-4461-2ISSN 2039-2737-11001DOI 10.4399/9788854844611pp. 7-21

Durkheim e la pedagogia

giorgio vuoso

La recezione di Durkheim in Italia è stata caratterizzata non solo dall’approccio sociologico, bensì anche da una sorta di declinazione pe­dagogica che nondimeno ha considerato l’opera durkheimiana nella sua complessità.

Nel 1968 Santomauro si propose di evidenziare la validità e i limiti del discorso pedagogico di Durkheim (soprannominato dai suoi gio­vani condiscepoli il “metafisico”!) e sottolineò l’influenza di Fustel de Coulange nella formazione storiografica di Durkheim1, il quale già negli anni trascorsi a Bordeaux (1887–1902) insegnò sociologia e pedagogia, a cominciare dal 1896.

Nel 1902 la facoltà di lettere dell’Università di Parigi lo chiamò a supplire a Ferdinand Buisson nella cattedra di “scienza dell’educazione” che nel 1913 fu trasformata in cattedra di “scienza dell’educazione e so­ciologia”. Sussiste una correlazione fra le idee pedagogiche di Durkheim (1858–1917) e la sua concezione sociologica. La giustificazione della divisione del lavoro lo conduce alla polemica contro la cultura genera­le (intesa come effetto di una disciplina “molle e rilassata”)2. Secondo Durkheim l’effetto più notevole della divisione del lavoro non consiste nel rendimento, bensì nella solidarietà sociale. Cosicché la “divisione” è più un fatto etico, anziché meramente economico.

Si assiste alla complicazione crescente dell’organismo sociale. Ciò nondimeno la “solidarietà sociale” non si presta di per sé ad un’osserva­zione esatta, nonostante gli effetti sensibili. Il diritto incarna la solida­rietà sociale, che si evidenzia particolarmente nelle sanzioni restitutive. Cosicché la solidarietà sociale si dicotomizza nella solidarietà meccanica

1. Cfr. G. Santomauro, Il problema educativo nella dinamica del pensiero sociologico di E. Durkheim, Milella, Lecce 1968, p. 11. 2. Cit. in ivi, p. 39.

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del diritto penale e nella solidarietà organica dei diritti a sanzione resti­tutiva (diritto civile, commerciale, amministrativo, costituzionale ecc.). Le espressioni primitive di tipo “meccanico” (orda, clan, società segmen­tarie) si trasformano in forme sempre più varie e complesse di tipo “or­ganico” (città, società democratiche, società industriali). Ma la genesi evolutiva non elimina l’analisi strutturale, tuttavia la tipologia organica può svilupparsi soltanto nella misura in cui regredisce la tipologia mec­canica, mediante l’aumento della “densità dinamica” (o morale) e della “densità materiale” (o del volume) del corpo sociale.

Allorché la “lotta per la vita” è più ardente, maggiore è la specializza­zione del lavoro. Perciò la divisione del lavoro oltre ad essere un risulta­to della lotta per la vita è insieme “uno scioglimento mitigato di essa”3. Santomauro nota la metafisica del naturalismo e scrive: «Né possiamo esimerci dal rilevare il carattere aprioristico di alcune sue fondamentali proposizioni sociologiche, tendenti per un verso a considerare l’indivi­duo come mero “prodotto della vita comune”, dalla quale trae il proprio significato, la propria dignità e il proprio valore, e per un altro verso a respingere violentemente fuori dell’area sociologica ogni elemento extrasociale»4. Si obnubila la distinzione concreta fra morale e diritto, non senza tuttavia la fuga metafisica nella “coscienza collettiva”.

Il naturalismo però non si configura come mero materialismo (o dar­winismo sociale), in base anche al riconoscimento del fenomeno educa­tivo. «L’educazione avrebbe, quindi, come linea di terra, la realtà biolo­gica della persona e, come suo orizzonte, l’ambiente sociale, ed avrebbe

3. Ivi, p. 48. «Ecco come, senza averlo voluto, l’umanità di trova ad essere adatta a ricevere una cultura più intensa e più varia». Cfr. E. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, trad. it., Edizioni di Comunità, Milano 1962, cit. in ivi, p. 49. 4. Ivi, pp. 49–50. Secondo Carlo Augusto Viano, Durkheim deriva da Comte e da Spencer il tema della divisione del lavoro. «E da essi Durkheim poteva ben accettare il presupposto senza il quale la sua stessa monografia non si spiegherebbe: la divisione del lavoro è stata descritta in modo inadeguato dagli economisti, i quali non hanno visto che essa è non soltanto uno strumento di razionalizzazione economica del lavoro pro­duttivo, ma anche una struttura della società, un insieme di rapporti attraverso i quali i membri di un gruppo realizzano l’unità del gruppo stesso, non appena esso raggiunge un certo volume e un certo grado di densità» (C.A. Viano, La dimensione normativa nella sociologia di Durkheim, in «Quaderni di sociologia», XII, 1963, p. 310). Anche a proposito dell’educazione, gli economisti hanno dato vita all’“economia dell’istruzione”, renden­do più complessa la pedagogia, ma poi non riescono a stabilire quando si tratta di inve­stimento educativo e quando al contrario di mero consumo (o spreco) educativo (cfr. A. Page, Economia dell’istruzione, trad. it. il Mulino, Bologna 1974, p. 33).

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il compito di promuovere l’ordinata socializzazione dell’individuo, sulla misura delle condizioni obiettive dell’ambiente sociale»5. Sicché occor­re riconoscere che la “socializzazione” alla Durkheim non è senza tele­ologia, benché resti pur sempre “socializzazione” come adeguamento e non già emancipazione. Il rigido determinismo della socializzazione renderebbe inutile la funzione dell’educazione. Infatti l’educazione, pur declinata come socializzazione, conferisce dinamismo all’azione sociale.

La realtà storico–sociale muta, ed appunto perché muta, noi dob­biamo mutare. Non si può pretendere di adottare costumi ormai stori­camente obsoleti. Ci differenziamo dai nostri antenati e dagli altri che vivono in un diverso ambiente sociale. Da qui deriva l’accettazione di forme di solidarietà e di organizzazione professionale tipiche delle so­cietà moderne. Nelle società evolute si allentano i vincoli che legavano l’individuo alla famiglia, al suolo natale, alle tradizioni e agli usi collet­tivi. In ogni caso, la differente morfologia dell’ambiente sociale favorisce una fitta rete di “pressioni” e di “sanzioni” sulla condotta individuale. E nondimeno le forme di vita, ispirate dalla solidarietà organica, sono più rispettose dell’autonomia e delle qualità personali.

La natura del gruppo (volume e densità) spiega la condotta umana, anziché la natura psicologica dell’uomo in genere. Da ciò Santomauro deduce che il fenomeno, a cui Durkheim fa riferimento, non abbia alcun carattere specifico e non possa costituirsi come compito originale del gruppo sociale. La sua concezione pedagogica (la sua “scienza dell’e­ducazione”) viene riduttivamente ricondotta alla sociologia. Si può ag­giungere che l’insensibilità della successiva “sociologia dell’educazio­ne” ai valori del cambiamento e dell’emancipazione derivano da tale (o simile) concezione statica della società e della tensione innovativa vista solo o quasi esclusivamente come pericolo di disordine sociale o addirittura come patologia della personalità. Una concezione dinamica della società conferisce specificità al fenomeno educativo e rende meno traumatico il cambiamento dei valori (sociali e scientifici). Comunque, Santomauro parla di una «discutibile riduzione della pedagogia a scienza sociale»6. Il rischio è che il dissenso possa essere patologizzato come ansietà e anomia.

5. G. Santomauro, op. cit., p. 52. 6. Ivi, p. 59. Affermava Durkheim: «Esiste, dunque, in ogni momento storico, un modello normativo dell’educazione da cui non possiamo allontanarci senza incontrare vive resistenze, che frenano la velleità di dissenso» (E. Durkheim, L’educazione: la sua na-

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Il fatto è che sul piano epistemologico Durkheim è vittima di una concezione causalistica della scienza. Nelle Règles afferma che ad uno stesso effetto corrisponde sempre una stessa causa. Gli era ignoto l’in­determinismo. Da ciò derivava l’enfasi sulla “lezione dei fatti”. L’elimi­nazione della presenza del soggetto porta al dogmatismo dei risultati, benché si resti consapevoli del fatto che lo spirito umano non potrà “forse” mai impossessarsi in modo completo della realtà. Si ammette la “porosità” dei bordi di confine della conoscenza, ma non già dei singoli frammenti di essa. I fatti sociali, distaccati dai soggetti coscienti che se li rappresentano, acquistano uno spessore “cosalistico” (che non può essere giustificato solamente dalla volontà di sorpasso “scientifico” della psicologia da parte della sociologia). L’interpretazione causalistica dei fatti sociali fa apparire reale la loro “straordinaria regolarità” e la loro “stupefacente uniformità” data per dimostrata da Durkheim.

La spiegazione morfologica evita gli elementi finalistici (o intenzio­nali), introducendo così ad una visione scientifica del mondo umano e sociale, che non aveva trovato il consenso né di Boutroux né di Bergson. Tuttavia, Durkheim nega che esiste «conformismo sociale che non com­porti tutta una gamma di sfumature individuali»7. Eppure nulla è indefi­nitivamente e incondizionamente buono. Il comportamento normale è quello del tipo medio (nonostante l’esistenza di personalità che “oltre­passano” il loro secolo). Il mutamento non è il risultato di una visuale innovatrice, ma appare eventualmente imposto meccanicisticamente. Allora l’educazione ha un carattere inevitabilmente impositivo (come le “ore regolari” dei pasti). «In quanto fatto sociale, il processo educa­tivo si presenta come fenomeno “oggettivo”, avente una genesi sociale, un substrato sociale e uno scopo sociale»8. L’educazione trae la sua forza “antropoplastica” dall’ambiente sociale. Gli educatori (maestri, genitori) diventano strumenti della coscienza collettiva. Da ciò deriva il fastidio della giovane generazione per certi contenuti e per certe forme di edu­cazione.

Le personalità scolasticamente adattate garantiscono l’ordine e l’effi­cienza della vita associata. Come non c’è un’etica universale, così non c’è un’educazione con leggi universali e scopi immutabili, giacché quest’ul­

tura e il suo ruolo, in V. Cesareo [a cura di], Sociologia dell’educazione, Hoepli, Milano 1972, p. 55). 7. Cit. in G. Santomauro, op. cit., p. 75. 8. Ivi, p. 81.

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tima varia a seconda della morfologia sociale, benché i processi di ini­bizione mediante la selezione istituzionale trasformino la “costrizione” brutale in “obbligazione”, «accettata e subita di buon grado»9. Ma ciò costituisce l’“internalizzazione”, che è cosa ben diversa dal processo di interiorizzazione e di autonomia. Le istituzioni educative plasmano prevalentemente gli individui secondo l’impersonale modello imposto dalla coscienza collettiva, enfatizzando regole giuridiche e morali, detti popolari, nonché fatti culturali e istituzionali, benché possano maturare gradualmente la capacità critica e l’attitudine scientifica. «Certo, nelle Régles non mancano delle affermazioni che alludono ad un fondamen­tale atteggiamento negativo dell’Autore nei confronti di tutte le espres­sioni del pensiero personale (e quindi di quelle “idealistiche” e “utopi­stiche”) che rappresenterebbero delle illusioni o addirittura dei pregiudizi di cui bisogna ”disfarsi” se si vuole promuovere effettivamente lo svilup­po dello spirito scientifico e un rinnovamento della vita sociale in senso razionale»10. Perciò bisogna distinguere fra il discorso pedagogico di ca­rattere scientifico e i discorsi “approssimativi” sulle condizioni educative ottimali e sul suo profilo futuro. Durkheim condannava l’intuizionismo bergsoniano e il pragmatismo deweyano o, in forma astratta, il sogget­tivismo psicologico, il settarismo ideologico e l’apriorismo filosofico. Il

9. Ivi, p. 85. 10. Ivi, p. 90. È da notare che illusioni e utopie costituiscono delle rappresentazioni individuali. Al contrario, nelle Formes, per Durkheim (come pure per Cassirer) religione e mito sono forme culturali e simboliche, nelle quali si preannuncia, sia pure in forma torbida e grezza, la potenza ordinata e razionale della mente umana. Più coerentemente con una mentalità antistoricistica Lévy–Bruhl (1910) sottolinea la discontinuità fra reli­gione e scienza, parlando di “partecipazioni prelogiche” della “mentalità primitiva” (cfr. R. Cantoni, La sociologia religiosa di Durkheim, in «Quaderni di sociologia», XII, 1963, pp. 243–245). La religione non è inganno dei preti o oppio dei popoli. Ma resta rappre­sentazione simbolica della società. E pur senza giustificazioni trascendenti si possono avallare fastidi, privazioni e sacrifici, per non parlare delle grottesche ierofanie della Ge­rarchia, della Razza, del Partito. Comunque, per Durkheim la società ha una funzione stimolante, corroborativa, soccorritrice. Nelle cerimonie c’è effervescenza ed esaltazione collettiva. Ma Durkheim osserva e non inventa oppure, antiutopista e laico, divinizza la società e legittima la proliferazione di ierofanie? E l’ateo Durkheim o lo scienziato so­ciale può dire che nella religione c’è qualcosa di eterno? Pare proprio di sì (almeno nelle Formes). Ma se il sociologo fosse veramente scienziato, dovrebbe ammettere che non è una contraddizione in termini: la società diventa anomica, se la statica sociale coarta lo sviluppo dei fattori nuovi della complementare dinamica sociale. In realtà in Durkheim convivono un sociologo della società nel suo complesso e un ideologo della statica so­ciale settorializzata.

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suo neutralismo non gli consentiva di tener conto delle istanze indivi­duali, garantite da valori perenni.

Il determinismo si insinua anche nella ricerca durkheimiana dedica­ta al suicidio. Secondo Santomauro, Durkheim elabora una concezione monogenetica del suicidio: finisce per assolutizzare la visuale sociolo­gica, elevandola di fatto ad unica prospettiva di studio del problema, in grado di darci delle «risultanze scientificamente valide»11. Nei paesi cattolici il suicidio presenta uno scarsissimo sviluppo, mentre raggiunge il suo maximum nei paesi protestanti.

Anche la famiglia è uno strumento “profilattico” contro il suicidio. Quando una società è fortemente disintegrata, può verificarsi il suicidio egoistico come esagerata e paradossale affermazione dell’io individua­le di fronte all’io sociale. Per Durkheim un eccessivo individualismo porta dunque al suicidio, ma anche un individualismo insufficiente in una società fortemente integrata produce gli stessi effetti (il cosiddetto “suicidio altruistico”, di cui Durkheim distingue tre varietà: suicidio al­truistico obbligatorio, suicidio altruistico facoltativo, suicidio altruistico acuto, il cui modello perfetto è il suicidio mistico). Nelle società evolute esiste il suicidio anomico, così denominato perché trova la sua genesi nello stato di disordine in cui precipita la società, in certi periodi di crisi economica, politica e morale. Un aumento di tale tipologia di suicidio si riscontra anche allorché la società è turbata da fortunate ma troppo rapide trasformazioni: tale (per così dire) sottospecie di suicidio ano­mico costituisce l’esatto opposto del suicidio fatalista, che risulta da un eccesso di regolamentazione imposta all’individuo, il quale al contrario nel suicidio anomico, «abbandonato a se stesso, diventa insofferente di ogni limite, di ogni rinunzia, di ogni sacrificio, e lasciandosi travolgere dal tumulto dei sensi e delle emozioni, finisce per avere nausea e fasti­dio della sua stessa esistenza»12. Santomauro non si dimostra convinto dell’eziologia sociologistica del suicidio. Del resto lo stesso Durkheim non nega la componente climatica e sessuale: vi sono più suicidi d’e­state e di maschi che di donne o in altre stagioni. Ma le impostazio­ni naturalistiche e biologistiche trovano attuazione nella spiegazione durkheimiana mediante il medium sociale. Santomauro, invece, enfatiz­

11. G. Santomauro, op. cit., p. 108. 12. Ivi, p. 112. Nella complessa tassonomia durkheimiana, il suicidio anomico an­tifatalista costituisce la tipologia più originale: una vera e propria scoperta di Durkheim, che tuttavia non deve far dimenticare le altre correnti “suicidogene”.

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za l’eterogeneità delle motivazioni, minimizzate dalla monofattorialità sociologica, che comunque è inefficace sul tipo medio e quindi a conti fatti non è deterministica.

Nonostante il sociologismo della sua concezione (la società come una sorta di deus ex machina) e l’epistemologia causalistica (dal mo­mento che si intende come vincolata al rapporto di causa e di effetto) Durkheim è il rappresentante eminente dell’approccio storicistico alla pedagogia, che consiste nel contrastare i teorici che si sforzano di defi­nire una sorta di educazione universale ed unica. La storia ci insegna la mutabilità (la storia come progressiva “epifania dell’uomo”). L’educa­zione varia infinitamente nel tempo e nello spazio. Ogni società ha un sistema peculiare di educazione. Ma il sociologismo seppure storicistico non consente di immaginare una realtà diversa da quella esistente. La so­cietà è la pietra di paragone. Al sistema educativo tocca adeguarsi al tipo di società. E all’individuo spetta l’adattamento al sistema di educazione del suo ambiente sociale. Ogni deviazione dalla traiettoria sociale è ef­fettuata a rischio e pericolo di chi l’intraprende. Già prima di Durkheim si era insistito sulla funzione educativa della vita sociale, il grande socio­logo enfatizza con vigore insolito il fatto che solo se si studia il modo in cui si sono formati e sviluppati storicamente i sistemi di educazione, ci si accorge che essi dipendono dalla religione, dall’organizzazione politica, dal grado di sviluppo delle scienze, dallo stato dell’industria e da altre strutture sociali consimili13. La riflessione individuale non può sostituir­si all’ingranaggio dei fenomeni reali. Si può agire su di essi alla maniera dei fisici e dei biologi, che ne conoscano i meccanismi.

Lo sforzo volontario è una delle caratteristiche essenziali dell’uomo. L’educazione “disciplina” tale sforzo in maniera metodica. Lo Stato svolge una funzione di promozione e di controllo, e nondimeno lascia un certo margine alle iniziative individuali, perché — ed è Durkheim ad ammetterlo — l’individuo è più facilmente innovatore dello Stato. Benché la definizione durkheimiana dell’educazione sia stata formulata nei seguenti termini molto restrittivi: l’“educazione” è «l’azione eserci­tata dalle generazioni adulte su quelle che non sono ancora mature per la vita sociale», egli non è stato vittima dello scolasticismo definitorio, giacché ha affermato che il maestro non adempie al proprio dovere se

13. Si veda in trad. it. E. Durkheim, L’evoluzione pedagogica in Francia. Storia dell’in-segnamento secondario, Bononia University Press, Bologna 2006.

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usa l’autorità di cui dispone per trascinare gli allievi sulla linea delle pro­prie scelte personali, per quanto ragionevoli possano sembrargli. I suoi sommi principi erano il rispetto per la scienza e la morale democratica. Il ruolo dello Stato è quello di farli “insegnare” nelle scuole e di control­lare che da nessuna parte li si lasci ignorare.

D’altronde se in Durkheim non è assente la dimensione corporativa, bisogna anche dire che egli «giunge sino alla delineazione di un tipo ideale di società “socialista”, nella quale a) il potere politico e morale dei gruppi professionali controlli tutta l’organizzazione cosciente della vita economica; b) la sociologia garantisca lo sviluppo e il consolida­mento della cultura positiva ed elabori le soluzioni scientifiche dei pro­blemi sociali; c) il diritto renda gli uomini “contenti della loro sorte” e “convinti” che non è giusto che essi abbiano di più di quanto meritano; d) e la religione, profondamente rinnovata nella sua organizzazione e nelle sue credenze, sia fautrice di una morale sociale fondata sul culto dell’umanità»14. Purtroppo, manca il motore del cambiamento, giacché l’educazione non è che il riflesso della società. In tale contesto riprodut­tivo di sociologia dell’educazione, infatti l’educazione non crea. Invero per Durkheim (come del resto per Croce) il socialismo non è opera di scienza. Tuttavia il socialismo, pur non essendo un’espressione scientifi­ca dei fatti sociali, è esso stesso un fatto sociale. «Il socialismo, insomma, ha, secondo Durkheim, una sua “ragion d’essere” nella situazione socia­le che lo suscita: Saint–Simon, Fourier o Marx sono, in un certo senso, gli effetti “particolari” di quella situazione sociale»15. Il socialismo non è una sociologia in miniatura e nondimeno (come Croce ne ricavava un canone storiografico) Durkheim ne ricava una serie di constatazioni: l’insufficiente regolamentazione della produzione rispetto alle necessità del consumo e la trasformazione incessante delle macchine, che pone il

14. G. Santomauro, op. cit., p. 148. Scrive Kenneth Thompson: «Un suo impegno inequivocabile è stata la riforma educativa. Ha fatto di volta in volta dichiarazioni sulla necessità di ridurre le disuguaglianze, ha parlato della necessità di abolire l’ereditarie­tà della proprietà privata» (K. Thompson, Émile Durkheim, trad. it. il Mulino, Bologna 1987, p. 25). Durkheim giovane fu intimo amico di Jean Jaurés, poi futuro leader sociali­sta (ivi, p. 33). Forse da ciò derivò l’impulso a studiare Henry Saint–Simon, considerato l’antesignano di Marx. Anche le implicazioni politiche della sociologia e della pedagogia di Epinas pare abbiano influenzato Durkheim verso un socialismo sui generis (ivi, p. 44). Jaurés ebbe poi l’occasione di lodare il lavoro svolto da Durkheim (ivi, p. 52). 15. C. Montaleone, Scienze umane e metodologia. Weber, Popper, Durkheim, Istituto Editoriale Cisalpino – La Goliardica, Milano 1975, p. 150.

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lavoratore «in una condizione d’inferiorità che gli impedisce di conclu­dere contratti equi»16. È ancora poco per parlare di «una convergenza con Marx» (a cui fa un vago riferimento Montaleone). Durkheim ribadisce contro Labriola che il “fattore economico”, sebbene non possa essere va­lutato alla stregua di un epifenomeno, non deve neppure essere confuso col sostrato «per farne qualcosa di particolarmente fondamentale»17. Se di sostrato si vuol parlare per Durkheim, esso consiste nel grado di co­municabilità esistente tra le coscienze degli individui (benché poi, alla stessa maniera di Labriola, l’evoluzione sociale ha cause non conosciute dagli stessi autori degli avvenimenti).

16. Cit. in C Montaleone, op. cit., pp. 153–154. Si rimanda ad Alvin Gouldner (1958) per la convergenza fra Durkheim e Marx, vista nel fatto che entrambi scorgono nella divisione del lavoro la condizione fondamentale per il sorgere del socialismo (cfr. ivi, p. 159, nt. 39). «Per Mario Proto, Durkheim è molto lontano dalla problematica fondamentale del socialismo scientifico. La sua stessa polemica antimarxista, che non supera i limiti di una libellistica goffa e volgare, rivela non soltanto una conoscenza superficiale e frammentaria degli scritti di Marx e una sostanziale indisponibilità a co­gliere il significato rivoluzionario, il carattere scientifico e la forte carica morale dell’ana­lisi marxiana della società, ma anche una totale incomprensione delle condizioni e dei problemi di una democrazia socialista, degradata a “consorteria professionale, fondata sull’esasperazione dello specialismo e della competenza”» (M. Proto, Durkheim e il mar-xismo, Lacaita, Manduria 1974, p. 93, cit. da G. Santomauro, Il sociologismo pedagogico di Emile Durkheim, Adriatica, Bari 1976, pp. 28 e 60, nt. 15). Comunque, secondo San­tomauro, si tratta di un concetto molto singolare della democrazia. La democrazia di Durkheim è una democrazia da farsi: in ogni caso, «non possiamo dire che in essa si esprima una mentalità sostanzialmente antidemocratica e totalitaria, che prelude al cor­porativismo fascista» (G. Santomauro, Il sociologismo pedagogico di Emile Durkheim, cit., p. 30). Infine, Santomauro scorge negli scritti del periodo di Parigi maggiori aperture di Durkheim, per esempio nei confronti del vitalismo e della psicologia del profondo (cfr. ivi, p. 56), dalle quali non si lasciò dominare. 17. Cfr. C. Montaleone, op. cit., pp. 161–162. Montaleone in un altro passo nota la tensione di Durkheim verso la verità (in antitesi all’interpretazione durkheimiana del pragmatismo) e nondimeno scrive: «Tuttavia l’imporsi della verità non annulla la cir­costanza che i concetti e le categorie scaturiscano dal flusso dell’esperienza, e quindi conservino tracce di relativo» (C. Montaleone, op. cit., p. 128). Scivoletto, invece, da una parte considera l’opera di Durkheim “un modello di attualità” (cfr. A. Scivoletto, Il meto-do sociologico di Emile Durkheim, FrancoAngeli, Milano 1970, p. 14). Dall’altra, enfatizza il positivismo di Durkheim e conclude: «Il positivismo pone le basi della scienza quale interazione soggetto — oggetto, ma nel suo primo formularsi concede all’oggetto una priorità che non andando — ripetiamo — fraintesa col materialismo deterministico, si precisa col fissare una “unicità” del conoscibile che, agli occhi del positivista, rende la scienza un problema, appunto, di “scoperta” e non già, quale oggi l’intendiamo, ossia di conoscenza interattiva, empirica e convenzionale» (ivi, pp. 16–17).

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La fiducia nella riforma delle strutture organizzative della società non è più riposta né nella società politica, né nella società religiosa e neppu­re nella famiglia, bensì nel gruppo professionale (o corporazione), che toglie l’individuo dall’isolamento morale. La corporazione è elevata a di­gnità di istituzione formativa e storicamente “educògena”. Ciò, secondo Santomauro, denuncia però «l’angustia soffocante del retrospettivismo sociologico»18. Ciò nondimeno, poiché la società moderna è scossa da propositi riformatori, anche l’educazione dovrebbe riflettere questo mon­do di tensioni. Certo gli uomini aspirano ad istruirsi, quanto più si sono svincolati dal giogo della tradizione. Comunque, la scienza, ben lungi dall’essere la sorgente del male, è il rimedio: il solo di cui disponiamo.

Si nota una discontinuità nel pensiero di Durkheim. Verso la fine del periodo di Bordeaux, il determinismo scientifico diventa meno rilevan­te. Santomauro osserva: «Ci sembra molto significativo ciò che scrive il Durkheim intorno alla contingenza delle leggi che disciplinano la strut­tura e la dinamica delle forme superiori del reale e che riecheggiano, sia pure liberamente e con spirito diverso, una tesi tanto cara ad Emile Boutroux»19. Una volta che è stata dinamizzata la sociologia determi­nistica, si finisce per delineare uno schema teorico meglio disposto a fondare e legittimare un discorso autenticamente pedagogico. La socio­logica non può essere declinata come “psicologia collettiva”, in quanto studia la “mentalità di gruppi” e altri modi di agire di un dato aggregato sociale. Le “rappresentazioni collettive” costituiscono il riflesso del siste­ma di vita di una comunità. Il passaggio dalla coscienza collettiva alle rappresentazioni individuali utilizza l’educazione. Perciò «l’educazione assume il compito specifico di promuovere la progressiva razionalizza­zione della vita rappresentativa»20. In un articolo (La sociologia e il suo do-minio scientifico) apparso nella «Rivista italiana di sociologia» (IV/1900, pp. 127–148), Durkheim delinea la fisiologia sociale in termini psico­logici. Ma non si tratta della tradizionale scienza psicologica. I singoli assimilano le pratiche e le credenze sociali mediante un processo d’in­dividuazione. Tramite l’educazione, i fenomeni sociali si attualizzano nelle coscienze singolari. Tuttavia, l’educazione resta una tecnica sociale, nonostante il clinamen sociologico.

18. G. Santomauro, Il problema educativo nella dinamica del pensiero sociologico di E. Durkheim, cit., p. 155. 19. Ivi, p. 173. 20. Ivi, p. 177.

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L’educazione come tecnica sociale libera i singoli dai limiti e dalle angustie della loro natura e garantisce alla società la continuità e lo svi­luppo. Nel pensiero di Durkheim esiste anche una disaggregazione del fenomeno educativo: l’educazione comune trasmette le pratiche della civiltà e gli usi comuni; l’educazione tecnica diffonde le regole professio­nali e l’educazione religiosa propaga gli articoli di fede. Ma nell’articolo su La sociologie en France au XIX siècle (in «Revue Bleue», XIII/1900, pp. 609–613 e pp. 647–652) si ritiene che la pedagogia non può essere una scienza. Il suo carattere “poietico” la porta ad essere piuttosto un’arte. Ciò nonostante, la pedagogia ha una matrice essenziale nella sociologia (ma non esclusiva), di cui costituisce una direzione applicativa, benché in essa non manchino esigenze derivanti dalla biologia e dalla psico­logia, nonché precetti metodologici e didattici di carattere meramente empirico21. Nelle Leçons de Sociologie (scritte tra il novembre del 1898 e il giugno del 1900, ma pubblicate postume: P. U.F., Paris 1950) emerge una visione composita della realtà educativa. Nonostante l’avversione di Durkheim per la metafisica e per l’etica universale, si indica (forse inavvertitamente oppure Durkheim è metafisico, malgré lui) il fine dell’e­ducazione: «sviluppare l’umanità sia in noi che nei nostri simili» (p. 7).

Oltre a ciò, vi sono regole che si connettono con certe nostre qualità o funzioni particolari: sesso, età, famiglia, professione, ambiente, orga­nizzazione sociale e politica, rito religioso. La sanzione materiale è il se­gno esteriore costitutivo della prova sensibile che c’è qualcosa che ci tra­scende, benché solo la consapevolezza possa trasformare la costrizione sociale in sentimento del dovere. Tuttavia non si giunge all’autolegisla­zione. In ogni caso, in parte Santomauro riesce a scagionare Durkheim dall’accusa di aver risolto l’universo etico in quello sociologico22. Si può aggiungere: in un certo senso i geni religiosi e morali sono portavoce del­la coscienza collettiva. L’autolegislazione non è arbitrio. Solo per questi motivi si parla di ispirazione divina. Senonché è come se la coscienza collettiva avesse due strati: la morale statica si ferma al primo, la mo­

21. Ivi, p. 181. Si è parlato di “durkheimianesimo di stato”, per il fatto che «il suo corso di storia e teoria dell’educazione a Parigi era obbligatorio per tutti gli studenti che intraprendevano l’agrégation in lettere e scienze» (K. Thompson, op. cit., p. 49). 22. Cfr. S. Deploige, Le conflit de la morale e de la sociologie, Institut Sup. de Philoso­phie, Louvain 1911, e J. Vialatoux, De Durkheim à Bergson, Bloud et Gay, Paris 1939: cit. in G. Santomauro, Il problema educativo nella dinamica del pensiero sociologico di E. Durkheim, cit., p. 186, nt. 48.

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rale dinamica perviene al secondo. Al di là della consapevolezza che Durkheim abbia potuto avere della morale dinamica, egli ha enfatizzato «anzitutto una comunità armonica di sforzi» (p. 22).

Durkheim riconosce alla famiglia una grande parte nella storia della morale, al punto di affermare che si è potuto giungere a forme di vera e propria “tirannia” domestica, avversa ad ogni tentativo del singolo di organizzare la propria vita in modo diverso da quello imposto dal grup­po familiare. I valori restano quelli trasmessi dagli antenati. L’educazio­ne familiare non tollera qualsiasi iniziativa di deviazione. Molti gruppi familiari possono modificare la propria prassi educativa. Comunque la loro educazione tende alla stabilizzazione e prelude al processo di for­mazione che dovrebbe essere integrato dalle corporazioni professionali. La morale professionale non è da confondere con il Beruf weberiano, intransigente e universalistico. Del resto Weber (1918) si scaglierà con­tro l’idea delle corporazioni, attribuite alla mentalità dei “letterati” e senza futuro nelle società moderne. La politica diventerebbe la sede del mercato degli interessi23. Durkheim accetta, invece, che l’organizzazione corporativa imponga a ciascun gruppo dei doveri particolari. L’educa­zione “per contagio” è meno esigente della pedagogia “vocazionale” (o carismatica). Tuttavia Santomauro scorge in Durkheim lo sforzo teorico per impedire alle stesse corporazioni di diventare centri di privilegio e di monopolio: si stigmatizza una loro eventuale involuzione patologi­ca. Intanto, la visione durkheimiana dello Stato è nettamente differente da quella individualistica (Rousseau, Kant, Spencer). Eppure Durkheim non si riconosce nel misticismo statolatrico di Hegel. Il compito dello Stato non è quello di ingrandirsi, ma di «chiamare ad una vita morale sempre più alta un numero sempre maggiore di cittadini» (p. 90). Al­lora l’ideale nazionale convive con l’ideale umano e tra il patriottismo e il cosmopolitismo non c’è antagonismo. L’esigenza degli Stati demo­cratici è quella di organizzare la vita sociale in senso razionale. Perciò l’idea della fisica dei costumi non annulla la funzione dell’educazione.

23. Cfr. M. Weber, Parlamento e governo (1918), trad. it. Laterza, Roma–Bari 1982, p. 28. Ancora: «Per la burocrazia ciò avrebbe il risultato di accrescere, offrendole più libertà di movimento, la tentazione di mantenere la propria potenza giocando su contrasti di interessi materiali e servendosi di un sistema rafforzato di mance per patronati e forni­ture, e soprattutto di rendere illusorio ogni controllo dell’amministrazione» (ivi, p. 29). Inoltre si nota che «gli italiani, e dopo di loro gli inglesi, hanno sviluppato la moderna organizzazione economica capitalistica» (ivi, p. 33).

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«Anzitutto, nell’ambito della società democratica l’educazione non rap­presenta un’attività di margine che esula dal campo degli interessi e dei compiti fondamentali dello Stato, ma costituisce un istituto sociale di primaria importanza, che condiziona con la sua opera lo sviluppo dello spirito democratico»24. Senza spirito democratico e autoconsapevolezza c’è solo tradizionalismo stagnante e solidarietà meccanica. L’educazione favorisce la solidarietà organica. «Per questo, quanto più un individuo è cosciente di sé stesso e riflessivo, tanto più è aperto ai mutamenti. Gli uomini incolti sono spiriti ciecamente empirici e immutabili, sui quali non fa presa nulla» (p. 105). La democrazia, infatti, è il regime più con­forme all’attualità. E il diritto obbligatorio non esclude l’attività educa­tiva “supererogatoria” volta a sensibilizzare verso tutto ciò che riguarda la “personalità umana”, per accrescere il numero degli uomini migliori e per promuovere lo sviluppo di personalità dinamiche.

Giorgio Vuoso

24. G. Santomauro, Il problema educativo nella dinamica del pensiero sociologico di E. Durkheim, cit., p. 207. Cfr. inoltre C. Montaleone, Biologia sociale e mutamento: il pensiero di Durkheim, FrancoAngeli, Milano 1980, p. 183.

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