Balarm Magazine | Idee, personaggi e tendenze che muovono la Sicilia | numero 1

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CORRADO FORTUNA Intervista al giovane attore palermitano GIUSEPPE LEOPIZZI MARIO BELLAVISTA TEATRO GARIBALDI LINA PROSA BEN ORMENESE LABORATORIO SACCARDI GIUSEPPE CULICCHIA SOTTOTRACCIA CIPRÌ E MARESCO FLASH MOB DON LUIGI CIOTTI LA KALSA

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Balarm Magazine è un bimestrale di approfondimento culturale e di costume stampato in 12.000 copie e distribuito gratuitamente a Palermo, Mondello, Monreale, Bagheria

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CORRADO FORTUNAIntervista al giovaneattore palermitano

GIUSEPPE LEOPIZZIMARIO BELLAVISTATEATRO GARIBALDI

LINA PROSABEN ORMENESE

LABORATORIO SACCARDIGIUSEPPE CULICCHIA

SOTTOTRACCIACIPRÌ E MARESCO

FLASH MOBDON LUIGI CIOTTI

LA KALSA

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balarm magazinebimestrale di cultura e societàanno I n°1 agosto/settembre 2007registrazione tribunale di palermo n° 32 del 21.10.2003

editorebalarm società cooperativawww.balarm.info

direttore responsabilefabio ricotta

progetto graficoernesto bonaccorso, salvo leo

redazione via candelai 73 - 90134 palermotel/fax +39 091.7495020 [email protected]

comitato di redazionebarbara randazzo, letizia mirabile, maria teresa de sanctis, marina giordano, tonya e saverio puleo

hanno collaboratoantonio guida, barbara giordano, daniele sabatucci, dario carnevale, dario prestigiacomo, francesco mangiapane, francesco puma, gaetano di chiara, giorgioaquilino, giulia scalia, laura maria simeti,manuela pagano, rossella puccio, stefanocabibbo, tommaso gambino, tony siino,veronica caggia

fotografieantonio ferrante, edoardo luciano, maurod'agati, simona barone, soraya gullifain copertina corrado fortuna (foto © 01 distribution srl)

pubblicità daria bellaviatel. 091.7495020 / mob. [email protected]

stampa artigiana grafica

progetto webfabio pileri

tiratura e distribuzione numero chiuso in redazione il 30/7/2007,stampato in 12.000 copie e distribuito gratuitamente a palermo, mondello, monreale e bagheria presso librerie, caffèletterari, wine bar, spazi espositivi, cine-teatri, locali notturni, alberghi, punti isti-tuzionali e maggiori luoghi di aggregazio-ne culturale

IN PRIMO PIANOCorrado Fortuna, intervista al giovane attore palermitano_6

MUSICAGiuseppe Leopizzi, il sorriso e la chitarra_10

Om, tutta la bellezza del mondo_13Mario Bellavista, avvocato in jazz_15

TEATROTeatro Garibaldi, storia travagliata di uno spazio cittadino_16

Salvatore Piparo, storie di palermitanità_18Lina Prosa, piccola grande donna del Sud_20

ARTEBen Ormenese e la forma virtuale_22

La bellezza nell’antichità_24Le muse del Laboratorio Saccardi_25

LIBRI Giuseppe Culicchia, ironico scrittore del nostro tempo_28

Sottotraccia, la rivista che guarda al sociale_30Socrate e la sua vita tragicomica_31

CINEMACiprì e Maresco: “i ragazzi terribili”_34“L’uomo di vetro”, una storia vera_36Caccia alle streghe, capitolo primo_37

COSTUMEFlash Mob, lo scherzo di massa_38

Palermo is burning_40

SOCIETA’Don Ciotti, un sacerdote contro le mafie_42

CIBOIl cous cous come liberazione dalle tentazioni_44

Mangiare le tenerezze, ovvero: ‘u stomacu vacante_46

ITINERARIGirovagando per la Kalsa_48

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SOMMARIO

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Cari lettori e care lettrici, colgo l’occasione per ringraziare di cuore Voi, che ci date sempre gli stimoli giusti etutti i collaboratori che hanno contribuito con il loro impegno alla nascita di Balarm Magazine. Non è un’impresafacile confezionare nella città di Palermo un prodotto editoriale come quello che avete fra le mani, ma la passio-ne e la costanza che ci contraddistinguono da parecchio tempo, sono il nostro asso nella manica. Ma adessoandiamo a noi. Sopravvissuti allo Scirocco, il vento caldo africano che speriamo non si riproponga più in questimesi, eccoci giunti alla nostra seconda fatica. Dal sacro al profano, dalla Santuzza dello scorso numero protago-nista in copertina e nel primo piano, a Corrado Fortuna, giovane attore palermitano che sicuramente molti di voiricordano in “My name is Tanino”, il film di Paolo Virzì che lo ha fatto conoscere al grande pubblico. Con immen-so piacere dedichiamo l’apertura della sezione musicale a Giuseppe Leopizzi, chitarrista, compositore e grandeappassionato di sonorità tradizionali, scomparso prematuramente a causa di un male improvviso. A seguire altredue testimonianze musicali della nostra città, la formazione degli Om, naïf quanto basta e con un disco d’esor-dio fresco di stampa, e il quartetto del jazzista Mario Bellavista, con un nuovo lavoro di recente pubblicazione. Sicontinua con la storia travagliata del Teatro Garibaldi, tra abbandono, recuperi parziali, saccheggi, fugaci rinasci-te e un futuro definitivo restauro, passando per il giovane artista Salvatore Piparo e la drammaturga Lina Prosa,che ci racconta il dramma dei clandestini nel Mediterraneo. Dal teatro all’arte con il cinetico Ben Ormenese, inmostra al Loggiato San Bartolomeo; poi un viaggio tra moda, arte e costume nel mondo antico nell’esposizioneospitata al Museo archeologico “A. Salinas” ed infine un tributo alla donna firmato dai giovani del LaboratorioSaccardi. Si continua, nella sezione dedicata ai libri, con un’intervista allo scrittore siculo-piemontese GiuseppeCulicchia; a seguire la nuova rivista “Sottotraccia” rivolta al sociale ed infine l’ultimo libro di Pietro Emanuele checi racconta la vita “contemporanea ed avvincente” di Socrate. La sezione dedicata al cinema vede protagonisti iregisti Ciprì e Maresco, reduci da “Ai confini della pietà” andato in onda su La7 a luglio; poi il film “L’uomo divetro” di Stefano Incerti, che narra la storia autentica di Leonardo Vitale, il primo vero pentito di mafia, e per con-cludere un documentario sulle “coppie di fatto” della studentessa Sofia Gangi. Ed ancora, nelle pagine di costu-me, il primo Flash Mob cittadino e “Palermo is burning”, la parodia sulle ventunenni palermitane “con gli occhia-li grandi”. Un occhio anche al sociale e alla figura di Don Luigi Ciotti, impegnato pubblicamente nella lotta allamafia. Il numero si conclude con il cibo, cous cous e tenerumi, e un giro finale per la Kalsa di Palermo alla sco-perta di storie e tradizioni. E adesso non mi resta che augurarvi buona lettura e buone vacanze.

di FABIO RICOTTAIl numero caldo dell’ESTATE

EDITORIALE

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Sono passati solo sei anni da quandoCorrado Fortuna prestò volto e voce al bizzarro

e stralunato protagonista di “My name is Tanino”, il filmdi Paolo Virzì che lo ha fatto conoscere al grande pub-blico. Da allora, questo giovane attore palermitano, cheha trovato la sua fortuna fuori dalla Sicilia, ha parteci-pato a produzioni cinematografiche di tutto rispetto.Protagonista di “Perduto amor”, opera prima di FrancoBattiato, ha recitato con Zingaretti nel film tv “Alla lucedel sole” di Roberto Faenza, e ora lo vediamo al fiancodi Nicola Savino nella commedia “Agente matrimonia-le”, diretta dall’esordiente Christian Busceglia, messine-se di origine, dove interpreta un improvvisato agenteper cuori solitari che, per rendere appetibili gli aspiran-ti sposi, costruisce loro false identità. Per conoscerequalcosa in più di Corrado, lo abbiamo raggiunto altelefono in una mattina di fine luglio. La prima sensa-zione è quella di parlare con un vecchio amico che nonvedi da anni. Si trova in una camera d’albergo diBologna e approfitta di un momento che lui stesso defi-nisce di “schiffaramento”, tra una ripresa e l’altra. Niente vacanza dunque?«Macchè sto lavorando a diversi progetti, tutti moltointeressanti. Adesso stiamo girando una fiction in quat-tro puntate per Raiuno ispirata ai romanzi di Lucarellisul Commissario De Luca. Una bella ricostruzione stori-ca per la regia di Antonio Frazzi». A giudicare da come ne parli non sembra ti pesilavorare in pieno luglio.«E come potrebbe. Fare questo mestiere significa esse-re un privilegiato e le emozioni che ti regala ti fannoscordare le levatacce alle 4 del mattino o recitare sottoil sole con indosso vestiti di lana». Dopotutto, come diceva Mastroianni, fare l’attoreè sempre meglio che lavorare.«Proprio perché attribuisco una grande dignità a questomestiere, ritengo che bisogna farlo con serietà. Odioquei colleghi che non fanno altro che lamentarsi».Chi era Corrado Fortuna prima di diventare Taninonel film di Virzì?«Era uno studente palermitano con il pallino della musi-ca, che dopo essersi diplomato al Garibaldi, si è iscrittosenza troppa convinzione a Giurisprudenza per poi pas-sare alla facoltà di Scienze Politiche di Firenze».Ufficialmente, ma di fatto…«Di fatto quello di Firenze è stato un periodo stupendo.Vivevo in una specie di mezza Comune, militavo in poli-tica nel collettivo universitario e frequentavo CarloVirzì, (fratello di Paolo Virzì, ndr) che era il leader di ungruppo musicale chiamato Snaporaz».

E’ proprio Carlo Virzì a rappresentare il tuo passa-porto vincente per il cinema, dove sei entrato dal-la porta principale.«Si, fu proprio Carlo a convincermi a fare il provino peril nuovo film di suo fratello. Quando mi diedero il copio-ne lo divorai in 20 minuti. In questa magica e surrealeavventura Paolo Virzì mi ha aiutato tantissimo: passa-vamo ore a parlare del personaggio di Tanino, fino aquando me lo sono sentito cucito addosso». Vista la tua esperienza, per fare l’attore credi ser-va più lo studio o un talento innato?«Io non so se ho talento, sento però di avere quellascintilla che tutti gli artisti devono avere per riuscire afar vivere un personaggio. Ci sono attori che sembranoavercelo nel sangue, tanto sono versatili, prendi unocome Elio Germano; altri, invece, fanno della tecnica ungrande punto di forza come Claudio Gioè che è un fuo-riclasse. Non credo esista una regola. Ciò che conta èemozionarsi e fare emozionare».

Spesso hai interpretato personaggi siciliani. Pura casualità?«Le mie scelte di solito sono orientate più che ai perso-naggi alle storie. Preferisco quelle con una forte territo-rialità, perché non amo i film dove si recita con una per-fetta dizione, con un italiano irreale. Al cinema, che èpura finzione, si tende a rappresentare la realtà e nellavita di tutti i giorni ciascuno ha il proprio accento, unacadenza riconoscibile a cui io non intendo rinunciare».Finora hai dato il volto a ragazzi buoni, teneroni eun po’ strampalati, lo stesso Giovanni, protagoni-sta del tuo ultimo film, è un disoccupato che, suomalgrado, si ritrova a fare un agente matrimonia-le imbroglione ma dal cuore tenero. Che ruolo vor-resti interpretare in futuro e diretto da chi? «Non so cosa darei per recitare in un film di Almodòvare poi mi piacerebbe fare il ruolo del cattivo. Mi affasci-na questa parte oscura che tutti noi abbiamo. In fondo

di MANUELA PAGANO

IN PRIMO PIANO

CORRADO FORTUNAIntervista al giovane attore emergente palermitano ora al

fianco di Nicola Savino nella commedia “Agente matrimoniale”diretta dall’esordiente Christian Busceglia

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siamo tutti un po’ buoni e un po’ cattivi, siamo amantie traditori, codardi e coraggiosi. Sarebbe bello cimen-tarsi in qualcosa di completamente nuovo». Sei uno che ama sperimentare. Da attore sei pas-sato ad aiuto regista nel film “Caterina va in città”di Virzì, e poi a regista del documentario “Isolafemmina” ambientato a Favignana. Ma cosa è piùbello, stare davanti o dietro le telecamere?«A me interessa raccontare storie, in qualunque modo,attraverso la musica, attraverso la scrittura, dando unvolto ad un personaggio, ma sicuramente al cinema chiracconta storie è il regista. Non nego che ho in proget-to di girare un film su Palermo un giorno o l’altro, ma èun’occasione che non voglio sprecare, perché l’emozio-ne dell’opera prima non si scorda mai». Sorride e mi racconta dell’atmosfera magica che sirespirava sul set di “Perduto amor”. «Tutti quanti, dal regista (Battiato, ndr) ai tecnici eranoin fibrillazione. Si passava da momenti di bolgia in cuitutti urlavano a momenti in cui durante le scene il silen-zio diventava assoluto e si tratteneva persino il fiato.Sul set si era come in un grande luna park, su una gio-stra che girava e da cui una volta saliti nessuno volevapiù scendere». In “Agente matrimoniale” sei un laureato che, tro-vandosi disoccupato a Milano, è costretto a torna-re in Sicilia ad inventarsi un lavoro. Cosa ha significato per te andare via da Palermo? «E’ stata la mia salvezza (sospira). Mi costa doverlo direma quello che non va della Sicilia, per dirla comeSciascia, è la stessa sicilianità. Della nostra terra nonsopporto quella mentalità che vede vincente l’atteggia-mento prepotente e la triste consapevolezza che sevuoi andare avanti in Sicilia devi accettare piccoli ograndi compromessi con qualcuno che sta sopra di te.E mi dispiace vedere, quando torno da queste parti,che le cose non sono cambiate».Tentando di alleggerire i toni gli chiedo come sivede tra dieci anni. «Sicuramente in buona compagnia. Tra i miei progetti,oltre al lavoro, c’è quello di costruirmi una famiglia conla mia compagna (l’attrice Regina Orioli, ndr) e di averedei bambini. Mi piacerebbe tanto diventare padre». Prima di salutarci arriva uno scoop inaspettato.Corrado mi annuncia che sta lavorando alle ripre-se di un nuovo film: “Aspettando il sole” direttodal regista pubblicitario Ago Panini. «E’ ambientato in sei camere d’albergo. E nella mia reci-to con Vanessa Incontrada il ruolo di un attore porno».Chi l’avrebbe mai detto!

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IN PRIMO PIANO

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MUSICA

Le notizie fanno oggi particolarmente in fretta afare il giro del mondo. Accettare quella che

riguarda la morte di Giuseppe Leopizzi è davvero dif-ficile: si accoglie con particolare struggimento il fattoche il musicista palermitano sia scomparso a 52 anniper il manifestarsi improvviso di una grave malattia.Giravano già gli inviti a partecipare ad un suo concer-to per beneficenza che si sarebbe svolto al KursaalKalhesa, a Palermo, con lui alla chitarra e RosellinaGuzzo all’arpa (nella foto in basso a destra). Eranoapparsi via e-mail o sms appelli a donare sangue perdargli aiuto, si sperava almeno in una convivenza conla malattia; l’esito è stato purtroppo quello che abbia-mo fulmineamente conosciuto. Fulmineo come lamalattia. Scompare così un musicista prezioso, appas-sionato e meticoloso divulgatore di una ricercata tec-nica chitarristica, studioso soprattutto di sonorità tra-dizionali e profondo innovatore. Chi scrive, lo conosce-va da molto tempo, avendo trascorso molti anni fa conlui tante serate ad ascoltare dischi (di chitarristi ovvia-mente), prima che si avviasse la sua carriera professio-nale. Giuseppe era il tipo che a fronte di un 33 giri conveloci virtuosismi chitarristici, lo riascoltava a 16 giriper cogliere i più intimi passaggi. Era meticoloso, vole-va essere sicuro di comprendere gli aspetti più difficilidella tecnica del fingerpicking. E ci riusciva pienamen-te. Il suo interesse si rivolgeva alla musica delle isolebritanniche, ai suoni irlandesi, al mondo celtico, ai sot-terranei legami tra questo e la Sicilia: un interessemeravigliosamente sviluppato per tutta la vita da soli-sta, in duo e con il gruppo degli Aes Dana. E’ a nomedel gruppo la prima pubblicazione discografica “TheFar Coasts of Sicily” (Hi Folks! Records, 1987).Protagonisti sono anche Licia Consoli all’arpa celtica,Donatella Gulì alla voce, Nino Macaluso al violino evoce, Nino Mezzapelle al contrabbasso, RobertoPitruzzella (anch’egli, purtroppo, recentemente scom-parso) ai flauti e tin whistle, Antonia Zane alla voce eglockenspiel. In questo disco c’è già tutta l’arte esecu-tiva e compositiva di Giuseppe, arte che avrebbe anco-ra conosciuto sviluppi. Ci sono le danze celtiche e ledelicate melodie, i riferimenti alla Sicilia in un branocome “Le strade di Erice”, e “Robin Medley” ispirato alRobin Williamson, della Incredible String Band. E c’è ilsuono della sua chitarra inconfondibile. E la produzio-ne discografica continuava con “Nierika”, che vedeanche Licia Consoli all’arpa (Strumento, 1989). Unalbum più raccolto, ricco di belle composizioni origina-li, per una etichetta specializzata: con la consueta curaGiuseppe elencava sul retro della copertina tutte le

accordature usate. E quindi si era intensificata l’attivi-tà concertistica, arrivavano i riconoscimenti in camponazionale e poi anche internazionale. Come nel caso di“Frontiera”, pubblicato con gli Aes Dana per la “FolkClub Etnosuoni” nel 2003, dopo un’intensa opera diconcerti, composizioni e ricerche. Il brano omonimo fupremiato nel “John Lennon Songwriting ContestAward”, un’importante riconoscimento per l’arte com-positiva. Anche in questo bel disco c’è la ricerca dilegami profondi tra il mondo musicale celtico e quellomediterraneo, ci sono interpretazioni condotte inmaniera sobria e ricercata, senza toni accattivanti danew age e con una padronanza tecnica di grande rilie-vo come nell’ultimo “Gelkamar”, un disco per chitarrae arpa, con Rosellina Guzzo. Si approfondiva ancoraquell’opera di ricerca e di sintesi in una produzionenella quale sono anche presenti Rino Zurzolo al basso,Walter Calloni alla batteria e Giovanni Apprendi a variepercussioni. “Gelkamar” è un disco aperto a nuovepossibilità di ricerca e di incontro tra le culture, il nomesi riferisce a un sito vulcanico dell’isola di Pantelleria,proviene dal mondo arabo. E già i titoli dei brani tracomposizioni originali e riprese di classici, spiegano

molto compiutamente i propositi del musicista. C’è iltradizionale inglese “Lord Franklin” e c’è “She MovedThrogh The Fair” legato a “Trazzere”, c’è un amalgamamolto bello tra il suono della chitarra e quello dell’ar-pa, frutto di arrangiamenti molto ben curati . E c’è dav-vero tutto il mondo musicale di Giuseppe Leopizzi:quello che aveva assimilato in tanti anni di attenzione,viaggi e studi molto attenti e quello che riusciva arestituire in modo insieme creativo e ortodosso. Senzascadere in esecuzioni troppo facili e accattivanti, con ilgiusto riferimento alle tradizioni sonore che amava eche riusciva ad interpretare in maniera originale e den-sa di prospettive che purtroppo sono svanite. E il discosi chiude con una struggente versione di “Vitti ‘nacrozza”, è l’ultima incisione di Giuseppe Leopizzi; se vicapita di ascoltarla, regalategli un sorriso.

GIUSEPPE LEOPIZZI il sorriso e la chitarraIl ricordo di un amico, un tributo al musicista recentementescomparso, appassionato chitarrista, profondo innovatore e studioso di sonorità tradizionalidi ANTONIO GUIDA

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Prendi un detto famoso come “Il mondo è bello per-ché è vario”, lo plasmi fondendolo con le tue idee e glidai forma secondo la tua sensibilità. È quanto hannofatto gli Om per dare alla luce il loro nuovo disco. Il tito-lo è quanto mai indicativo, perché si chiama appunto“Bellomondo”. Ma a sceglierlo, come spiegano i mem-bri della band palermitana, è stato Manfredi Barrale,cinque anni, autore anche dell’illustrazione di coperti-na. Il gruppo chiama la propria musica con l’aggettivo“naïf”, ma a dire il vero si tratta di un lavoro in cui l’in-genuità lascia spazio alla consapevolezza dei mezziespressivi utilizzati. Ed ecco che la naiveté degli Om stapiuttosto in un atteggiamento nei confronti del mondo:«Il messaggio principale di “Bellomondo” – affermano –può essere semplificato nell’invito a guardare la realtàcon lo sguardo spensierato di un bambino e a provarea dirimere le innumerevoli contraddizioni della nostravita». La varietà del “mondo Om” sta nell’ampiezza deilinguaggi. Non solo, infatti, il disco mescola nelle suetredici tracce generi diversi come il rock, la canzoned’autore italiana e la chanson francese, nonché unaserie di suggestioni mediterranee ed esotiche, in parti-colare centro-sudamericane, cui il largo uso di fiati con-tribuisce notevolmente. La mescolanza si manifestaanche quando nelle canzoni convivono inglese, france-se, tedesco, italiano e spagnolo, all’insegna di un respi-ro internazionale – o forse sarebbe meglio dire cosmo-polita. Chiaro esempio di questo approccio è la trasci-

nante “Le soleil à minuit”, dal ritmo che incalza e checolpisce soprattutto per il suo accattivante ritornello,così come “Sonntags Bad”. Fisarmonica e fiati (questiultimi, cui già si faceva riferimento, provengono dallaband ska dei Sottocosto) sono gli elementi che trainanogli arrangiamenti del disco in atmosfere ora sognanti omalinconiche, più spesso coinvolgenti e allegre, soste-nute da una solida base ritmica. Un’altra curiosità attie-ne al sottotitolo del disco, “Nel giardino di Esquirol”, chesi rifà a uno dei padri della psichiatria moderna, il qua-le descrisse nel 1937 lo stato allucinatorio. Gli Omriprendono il concetto come metafora del raccontarestorie e materializzare sensazioni attraverso la musica.Il gruppo è nato a Palermo nel 1998. Attorno a unnucleo di quattro elementi composto da Gabriele Ajello(voce, fisarmonica, piano, tastiere), Marcello Barrale(voce, chitarre), Francesco Prestigiacomo (batteria, per-cussioni, disturbi vocali) e Giuseppe Schifani (basso),ruotano diversi musicisti tra i quali Nicola Mogavero(sax), arrangiatore della sessione fiati, Samuele Davì(tromba e cornetta), Enzo Gervasi (sax tenore), FabioPiro (trombone a tiro), Davide Leone (basso tuba). Ildisco, prodotto da Malintenti Dischi in collaborazionecon Eggs Music e distribuito da Jestrai, è in vendita intutta Italia al prezzo di 12 euro. L’etichetta è una dellerarissime realtà della discografia palermitana, soprat-tutto in ambito pop-rock, e ha già pubblicato DonSettimo, Mimì Sterrantino e Akkura.

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OM tutta la bellezza del mondodi DANIELE SABATUCCI

Il nuovo disco della band è “un invito a guardarela realtà con lo sguardo felice di un bambino”

MUSICA

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E’ un jazz melodico, di pia-cevole ascolto, quello di “4Friends”, il primo quasi ina-spettato disco di MarioBellavista, avvocato paler-mitano che da sempre ha col-tivato, come per una necessi-tà interiore, la passione per lamusica. Nato nel 1968, ha ini-ziato a studiare il pianoforteall’età di sette anni, frequen-tando da esterno il conserva-torio di Palermo. Il 1987segna per Bellavista contem-poraneamente l’inizio deglistudi di giurisprudenza e l’av-vicinamento al jazz, e l’annosuccessivo ha visto le sue pri-me partecipazioni a dei concerti, grazie anche all’in-contro con il grande sassofonista palermitano GianniGebbia. «Suonare è un aspetto ineliminabile della miavita, – ci dice – è come camminare, come mangiare. Neho bisogno. Sempre, quando torno a casa, mi siedo alpiano e faccio venir fuori gli stati d’animo o le emozio-ni del momento, della giornata. Può essere uno sfogodi rabbia o espressione di felicità, ma in ogni caso èdavvero qualcosa di necessario». Ed anche il disco e lesue composizioni nascono dalla stessa esigenza, comesi legge nelle note interne: «I sentimenti, che si dissol-vono col tempo, rimangono cristallizzati nella musicache hanno ispirato. Sono i più vari: ansia, felicità, noia,tristezza… Sono pensieri e ricordi che oggi, grazie atre grandi artisti ho potuto mostrare in pubblico».Fondamentale, infatti, per la realizzazione del disco èstata la collaborazione del batterista palermitanoMimmo Cafiero, del trombettista genovese GiampaoloCasati e di Marc Abrams, contrabbassista newyorkesema da tempo residente in Italia, che hanno creduto inBellavista: «Da quando ho iniziato a suonare, da bam-bino, ho subito iniziato a comporre, scrivendo allameno peggio una musica che ancora non conoscevobene. A poco a poco ho raccolto il coraggio per suona-re in pubblico i miei pezzi ed avevo pensato a questodisco come una produzione casalinga, un qualcosa per

non perdere ciò che avevo scritto, da regalare agli ami-ci. Poi, Mimmo ha spinto per farne altro: ha arrangiatoi pezzi, ha contattato Giampaolo Casati e Marc Abrams,grandissimi musicisti che hanno accettato di collabora-re con noi, ha prenotato questo importante studio diregistrazione ad Udine, dove hanno inciso i più grandijazzisti europei, ed alla fine è stato lo stesso MarcAbrams che mi ha quasi costretto a distribuirlo». Unprodotto corale, dunque, come si sente in ogni pezzo,in cui il piano e i temi di Bellavista vengono arricchitidall’esperienza di professionisti del jazz che lo accom-pagnano come base ritmica e lo impreziosiscono con iloro soli, mentre le note di copertina sono del sassofo-nista americano Paul Jeffrey. “4 Friends” è nato in buo-na parte dalle suggestioni e dalle atmosfere cheBellavista ha respirato nell’isola di Filicudi, tra solitudi-ne e mare, ed è fatto di melodie accattivanti o malin-coniche, tra valzer, samba, bossanova, un chiaro sapo-re di jazz italiano ed un piano solo a concludere le die-ci tracce: «Sono molto contento del ritorno che staavendo il disco, un ritorno davvero superiore ad ognimia aspettativa. E poi – conclude Bellavista – mi fa pia-cere pensare di essere ascoltato a casa da persone chemi conoscono oppure no, essere fermato in tribunaleda gente che mi fa i complimenti. E’ una mia creaturache va in giro per il mondo».

MUSICA

MARIO BELLAVISTA avvocato in jazzdi BARBARA GIORDANO

Un nuovo disco ispirato dalle atmosfere dell’isoladi Filicudi, tra solitudine e mare

da sinistra: Giampaolo Casati, Mimmo Cafiero, Marc Abrams e Mario Bellavista

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Lo spazio teatrale è sempre stato progettato in rap-porto alle società. Il teatro greco doveva accogliere tuttala polis, quello medievale riservava i posti di riguardo aipotenti, quello all’italiana racchiudeva le classi socialiassegnando loro una precisa posizione. A Palermo, dallafine dell’Ottocento, esiste un teatro, il Garibaldi, o “LesBouffes du Sud”, come scherza Matteo Bavera (nellafoto in basso), il suo direttore artistico. Dopo anni diabbandono, recuperi parziali, saccheggi e fugaci rinasci-te, a settembre 2007, cominceranno gli attesi lavori direstauro. 4 milioni e mezzo di euro, stanziati dallaComunità Europea, da spendere in un anno. Il teatro con-temporaneo esige la possibilità di ribaltare i suoi spazi. Ilregista deve avere carta bianca per disegnare, di volta involta, lo spazio dell’attore e quello dello spettatore. Ilrestauro del Garibaldi sarà fedele a questa linea. «Oggi ilteatro si rivolge all’individuo - dice Bavera, - può anchesuccedere che si faccia uno spettacolo di 50 attori per unsolo spettatore. L’idea architettonica dei teatri ha sempre

risposto a quella artistica…e il teatro Garibaldi conti-nuerà ad essere un teatrodove l’attore avrà la massi-ma possibilità di esprimer-si… però senza scudi. Qui,quando l’attore entra inscena, lo vedono tutti, nonha una sola quinta che loprotegge, non si puònascondere da nessuna par-te e deve mettere in campoun‘energia come se fosse inun teatro all’aperto!».Inaugurato nel 1862, daGaribaldi stesso, in un tem-po in cui i siciliani ringrazia-vano il proprio eroe erigen-dogli teatri, nel corso deglianni vi si rappresentanosoprattutto opere comiche.Lungo il ‘900 funge pure da

cinema, fino agli anni’60, quando vienechiuso per qualcheanno. Nel ’65 circa,Angelo Musco juniorlo riapre e fa deilavori di salvaguar-dia. Nel ’66 ci recitaperfino CarmeloBene con “Un Amletodi meno”. Il teatro, inseguito, è chiuso ea b b a n d o n a t o .Nessun bombarda-mento, solamentetrenta anni di sac-cheggi e intemperiea ridurlo allo stato incui negli anni ’90Bavera lo chiede ingestione al Comunedi Palermo. Il 1996 è l’anno della riapertura ufficiale affi-data alla trilogia di Carlo Cecchi su Shakespeare: “Amleto,Sogno di una notte di mezza estate” e “Misura perMisura”. Comincia una nuova stagione. «Il teatro però -dice Bavera, - non si poteva tenere così per sempre… econ l‘architetto Giuseppe Marsala abbiamo cominciatoad elaborare progetti di recupero che allora presentava-mo al Ministero dei Beni Culturali che prometteva soldiper il recupero dei teatri… però non li dava mai… equando è uscito il bando di Agenda 2000 noi avevamogià bello e pronto il progetto con tutte le vidimazioninecessarie per essere approvato, lo abbiamo regalato alComune e così sono arrivati i finanziamenti». Nel 2000 ilGaribaldi diventa membro dell’Unione dei teatrid’Europa e i lavori qui prodotti cominciano ad avere unarisonanza mondiale. Compagnie di mezza Europa fannorivivere con i propri spettacoli uno spazio logorato daltempo e dall’incuria. Ora, il Garibaldi si prepara ad acco-gliere in veste nuova altri progetti internazionali. Con i“restauri invisibili”, così come li definisce Bavera, «l’im-

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magine del teatro rimarrà la stessa: avremo solamenteun modo migliore di sederci, la gradinata che mettere-mo si smonterà in mezzora anziché in due giorni, ci saràun palcoscenico più efficiente, la possibilità di fare glispettacoli anche d’inverno, condizionatori d’aria, deicamerini migliori, le docce per gli attori…». Intanto inteatro l’attività non si arresta, si èprovato il “Filottete” di VincenzoPirrotta che ha debuttato il 27luglio a Taormina. Grazie alla pro-duzione di questo spettacolo ècome se il teatro non chiudessesvolgendo piuttosto in modoregolare la sua stagione estiva. Per il 2008 si attendonodue inaugurazioni: la prima, a giugno, con “Paso doble”,uno spettacolo di Josef Nadj, coreografo di origine ser-ba, e di Miquel Barceló, scultore e artista catalano.Bavera ci parla del progetto: «I due artisti danzano insie-me in una struttura di argilla su cui lavorano e sulla qua-le ogni sera viene creata un‘opera d’arte diversa.

Attorno a questo faremo però anche altro: speriamoche Nadj possa fare un seminario sulla sua danza…invece a Barceló abbiamo chiesto di fare un’opera dalasciare al Garibaldi e vorremmo che la stessa cosa lafacessero anche altri artisti contemporanei». Un secon-do evento, ancora in fase di progettazione, dovrebbe

annoverare la presenza diVincenzo Pirrotta, Giuseppe Massama anche di maestri di calibrointernazionale come Peter Brook edi Pina Bausch con il suo “CaféMuller”. Le saracinesche rosse,oggi suggestiva entrata del

Garibaldi, a quanto pare saranno sostituite «però la lucedel sole, quel brillio di raggi che penetrano come sago-matori nei punti vitali del Garibaldi, rimarrà, perché èuna cosa straordinaria… - aggiunge Bavera - si entra inun teatro e normalmente si accende la luce, qua la luceè già accesa… senza contare quanto abbiamo rispar-miato sulle bollette dell’Enel!».

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TEATRO GARIBALDI La storia travagliata di uno spazio palermitanotra abbandono, recuperi parziali, saccheggi,fugaci rinascite e un futuro definitivo restaurodi VERONICA CAGGIA

«Oggi il teatro si rivolgeall’individuo, può anche

succedere che si faccia unospettacolo di 50 attori per

un solo spettatore»

TEATRO

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Di professione fa il ferroviere ma è uomo di teatro per natura oltreche per passione. Di Salvatore Piparo, giovane volto palermitano eautore degli spettacoli “Mare affezionato” e “Madre Palermo” andati inscena di recente a Palermo al Ccp Agricantus, colpisce subito la sua spon-tanea teatralità, la voglia di fare e di cambiare, ma soprattutto il suo amo-re per l’arte del saper raccontare. Ma chi è Salvatore Piparo? «Un fierro-viecchiu – ci spiega - così viene definito, tra gli addetti ai lavori, il ferro-viere. Il mio mestiere dunque è questo. Quanto al teatro non sono unattore ma semplicemente uno a cui piace raccontare storie. Non mi ritro-vo nei panni dell’attore professionista e non ho fatto nessuna scuola perdiventarlo. Quando salgo su un palco non mi muovo secondo delle rego-le ma ascolto solo le sensazioni e l’ispirazione del momento». Che la spon-taneità, unita all’espressività dei suoi gesti, sia una delle sue qualità mag-giori è ormai cosa certa. Ma quale è stata la motivazione che lo ha acco-stato al teatro? «Il primo incontro con il palcoscenico – spiega – l’ho avu-to grazie all’esperienza del Servizio civile e ad uno spettacolo fatto per ibambini di cui mi occupavo. Ma la miccia che ha fatto accendere in me lavoglia di scrivere e di fare teatro è stata la lontananza da Palermo. Holavorato a Milano e lì ho conosciuto un disagio, quello di tutti gli emigran-ti, la nostalgia delle mie radici e della mia cultura. Ho iniziato a scrivere:monologhi, idee, piccole sceneggiature, ispirandomi soprattutto a figuree racconti popolari palermitani. Quando sono tornato ho sentito la vogliadi raccontare e di esternare quello che avevo dentro, quello che avevoscritto a Milano, ma anche i miei ricordi di bambino, quello che mi rac-contava mio nonno. Volevo solo narrare le storie di una Palermo popola-re a chi ora non le ricorda più». Suoni, colori e suggestioni rievocanoquindi in Salvatore Piparo l’immagine di una Palermo piena di storia e distorie. Ma non è solo da queste che il giovane autore trae spunto. Anchevolti e personaggi contemporanei costituiscono per lui un punto di riferi-mento molto forte. «I miei “altarini” personali - spiega - sono cinque: pri-mo tra tutti Luigi Burruano. Quando ho visto la sua interpretazione ne “Icento passi” ho pensato: “Ecco cosa mi fa sentire fiero d’essere palermi-tano”. La sua è una di quelle voci così tipiche della nostra città, capace diconquistarmi totalmente. Poi viene il maestro dell’arte del cunto, MimmoCuticchio, per cui provo un rispetto quasi filiale e un’ammirazione pro-fonda per il modo in cui ha saputo innescare il suo tipo di teatro aPalermo. Al terzo posto non posso che mettere Salvo Ficarra ed infineVito Parrinello e Rosa Mistretta. Insieme alla coppia che ha dato vita alteatrino Ditirammu ho imparato a “sentire” il palcoscenico. Una volta VitoParrinello mi ha detto: “Vai, sali sul palco, questo teatro parla da solo,lasciati ispirare”. E così ho iniziato a fare un percorso per chi vuole unaltro tipo di spettacolo, per chi non si riconosce nell’attuale offerta citta-dina, per chi vuole recuperare la propria palermitanità».

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di LAURA MARIA SIMETI

Suoni, colori e suggestioni di una Palermo piena di storiarivivono nei racconti del giovane artista palermitano

SALVATORE PIPARO TEATRO

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In giro per i palcoscenici del circuito del teatro diricerca in Francia, già si rappresenta “Lampedusabeach”, della drammaturga siciliana Lina Prosa, vincito-re nel 2005 del premio “Annalisa Scalfi” per il Teatrocivile e recentemente insignita a Roma del premionazionale “Anima” per opere contraddistinte da un for-te messaggio sociale. E sarà sempre una compagniad’oltralpe a proporre il lavoro in Italia per la prossimastagione, mantenendo la lingua francese. Che si possaleggere in questo una qualche critica al nostro sistemateatrale e culturale? Diciamo che la risposta viene da sé;certo fa strano che, nonostante il tema sia per noi sici-liani di un certo peso e di grande attualità, i primi a por-

tarlo sulle scene siano stati i francesi, e questo sebbeneda noi sia in atto un certo rifiorire di rassegne, anchesulla drammaturgia isolana. Ma torniamo all’autrice e alsuo “Lampedusa beach”, sul dramma dei clandestinidispersi per il Mediterraneo: il mare, riferimento miticodell’antichità, qui è il luogo nel quale si consuma unatragedia del nostro tempo. «I morti del Mediterraneosono una metafora di quel che noi siamo: morti in unmare di consumismo – dice Lina Prosa e aggiunge – iclandestini muoiono su una spiaggia di morti, noi, mor-ti nella nostra condizione di ricchi». Il testo, pubblicatoprossimamente in Italia per la Meridiana edizioni, è sta-to tradotto in Francia da Jean Paul Manganaro, al qualesi deve anche la traduzione di “Cassandra on the road”,altro lavoro della drammaturga siciliana presto sullescene sempre in Francia. Mite nell’aspetto, l’accentosiciliano ricco di inflessioni trapanesi, nonostantePalermo sia da tempo il luogo dove vive, dolce e decisaal tempo stesso, Lina Prosa si presenta così, una picco-la grande donna del Sud. Ed è con la semplicità deigrandi che la scrittrice si muove all’interno di una dellerealtà più interessanti del panorama culturale isolano, enon solo, il Centro Amazzone di Palermo, del quale èideatrice e fondatrice nel 1996 insieme con AnnaBarbera. Nato per rendere concreto l’omonimoProgetto, questo è uno dei pochi luoghi in grado di rea-lizzare quella corrispondenza fra arte e società, spessoaltrove utopica, all’insegna di iniziative culturali, moltoseguite in Francia naturalmente, che riescono a coniu-gare mito, teatro e scienza (vedi www.progettoamaz-zone.it). Infatti, rendendo minime le barriere che spes-so si frappongono fra la gente e l’arte, qui è soprattut-to la funzione sociale del teatro ad essere riconsidera-ta, attraverso una ricerca teatrale nella quale «la malat-tia è un grande pretesto per conoscere la dimensioneumana – spiega Lina Prosa - per riportare il teatro allasua funzione semplice e piena, come necessità di unespediente diverso da quello che è la vita quotidiana,un utile strumento per aiutare la società ad andareavanti». Parlavamo di mito e, per una scrittrice nata aCalatafimi (provincia di Trapani), nei pressi di Segesta,uno dei siti archeologici più belli del mondo, sarebbedifficile prescinderne. «Quando ero piccola dicevo diessere nata a Segesta» dice sorridendo la scrittrice. Chequindi la sua scrittura e le attività del Centro Amazzonesiano influenzate dagli archetipi del mito greco è inevi-tabile. L’arte serve per guarire dalla vita, e obiettivo delCentro è guarire con l’arte. E questo processo di guari-gione coinvolge anche il teatro che da tutto ciò ne escepurificato, e non è poco.

Una piccola grande donna delSud ci racconta il dramma deiclandestini nel Mediterraneo

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di MARIA TERESA DE SANCTIS

LINA PROSA

TEATRO

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Non solo geometria e algida distribuzione dilinee e forme nelle opere dell’artista friulano

Ben Ormenese (Prata di Pordenone, 1930), protago-nista dell’antologica “Ben Ormenese e la forma virtua-le”, allestita presso il Loggiato di San Bartolomeo finoal 20 settembre (con pausa ad agosto), promossa dal-la Provincia regionale di Palermo in collaborazione conIl Cigno G. G. edizioni d’arte di Roma, a cura diGiovanni Granzotto e Leonardo Conti (visitabile dalmartedì al sabato, ore 16.30-19.30; domenica ore 10-13; chiusa il lunedì, ingresso gratuito). L’opera diOrmenese, esponente dell’Arte Cinetica eProgrammata, correnti affermatesi soprattutto neglianni ‘60, potrebbe sembrare a un primo sguardo unamera combinazione di piani e superfici dal taglio geo-metrico, ma dietro questi stessi piani e superfici siaprono molteplici suggestioni che uniscono immanen-za e trascendenza, epifanie di luci e ombre, spazicosmici e profondità marine. Personalità schiva e pocoincline ai riflettori del successo, alla fine degli anni ‘70,proprio quando era protagonista dimostre personali in Italia e all’estero eoggetto d’attenzione della critica, attuòuna vera e propria fuga, un tentativo d’az-zeramento del suo percorso. Una notte del1978, infatti, bruciò molte delle sue operee si ritirò a Sacile, vicino Pordenone,abbandonando Milano, città d’adozionedove s’era trasferito nei primi anni ‘60,quando aveva deciso di dedicarsi solo allapittura. La mostra propone, con una sele-zione di 38 opere, le tappe salienti del suo itinerariocreativo, partendo da alcuni pezzi più antichi, salvati-si dal ‘rogo’ provocato dall’artista, sino a quelli piùrecenti. Ne emerge uno sviluppo coerente, che metteal centro la luce veicolata dalla modulazione di formee piani, con una forte attenzione per i volumi e le pos-sibilità espressive della materia, segno di un’inclina-zione da scultore o da ebanista, visto che il legnorimane uno dei suoi materiali preferiti, almeno finoagli anni ‘90. Lo si nota passando in rassegna la serieLAM, strutture lamellari in cartone inserite in teche dilegno e plexiglass dipinte, o quella degli “Studi croma-tici” (intarsi e tasselli di legno dipinto), sino al “Totem”(1994): esso si erge nella tridimensionalità dello spaziocon i suoi intrecci di piani lignei, ossatura di un sem-plice corpo geometrico che però potrebbe esser rilet-to come simulacro di un guerriero, feticcio animista oapparizione di un’antica divinità. Ciò che colpisce lospettatore è proprio questa dimensione liminare, il

sottile, ambiguo passaggio dall’astrazione alla ricono-scibilità di una forma, forse per suggestione, forse perassociazione, che rende ogni pezzo veicolo di nuoveimmagini. I vibranti giochi luminosi, rafforzati dall’usodi superfici specchianti, dal distendersi delle ombreattraverso i piani, dalle sovrapposizioni di texturelineari che invadono come reticoli magmatici gli spazi,si uniscono alla forza dei colori – prediletti il nero, ilbianco, il rosso, il blu – scardinando la mera scansionegeometrica delle forme e imbastendo scenari polimor-fici. Emerge, nella produzione di Ormenese, la sua for-mazione legata a studi d’architettura: le sue opere,infatti, non perdono mai la tensione costruttiva e sem-brano spesso assimilabili a bozzetti di edifici, a model-lini in pianta e alzato ove la distribuzione articolatadegli spazi si basa sull’avvicendarsi combinatorio eplastico di piani e linee. Rispetto ad altri autori dellecorrenti optical, programmata e cinetica, che rifuggo-no da ogni traccia di vissuto e di soggettività per rifu-giarsi dietro al rigore della geometria, mettendo in

gioco l’individuo solo in termini di percezione e altera-zione ottica dei fenomeni visivi, Ormenese, forse per ilsuo legame iniziale con l’Informale e l’amore perl’Espressionismo, non perde mai il gusto per la mate-rialità tattile dell’oggetto, per la densa espressività deicolori, sintetizzando fisicità, geometria e forma. Purinclinando, nelle opere più recenti ad acrilico e tecni-ca mista su tavola, a qualche cenno di decorativismoe a una dimensione quasi ludica, inserendo cromiesgargianti quasi pop, paesaggi stilizzati, percorsi daonde travolgenti fatte da reticoli di fili, trame, intrec-ci, scacchiere, rombi, losanghe, egli non abbandona laconsistenza plastica delle sue architetture pittoriche,sempre obbedienti a una tensione strutturale. Nei“Teatrini” (2005-6) rinnova la sua indagine sullacostruzione degli spazi: unendo rigore astratto e ten-sione lirica, Ormenese fa nascere dalla sottile compe-netrazione dei piani e delle linee scatole spaziali dariempire con infiniti e fantastici scenari del possibile.

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BEN ORMENESE e la forma virtuale

di MARINA GIORDANO

Le suggestioni cinetiche dell’artista friulano in mostra fino al 20settembre al Loggiato di San Bartolomeo

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Il desiderio, accompagnato da unfilo più o meno sottile di vanità, di esal-tazione del proprio prestigio sociale, diapparire coltivando fascino e seduzioneè un’esigenza che si avverte in ogniepoca. E’ la bellezza, simbolica prota-gonista nelle sue molteplici sfaccetta-ture, a catturare ed incantare l’occhiodello spettatore che percorre l’itinera-rio della mostra ospitata al Museoarcheologico “A. Salinas” di Palermo daltitolo “Moda Costume Bellezza nelMondo Antico. Ornamenti dal MuseoArcheologico di Firenze dall’Egittoall’Etruria ”(visitabile fino 4 novembreda lunedì a venerdì, ore 8-13.15 e 15-18.15, sabato, domenica e festivi ore 8-13.15). La mostra presenta oreficerie eornamenti antichi, che esprimono mae-stria, perizia tecnica e cura del detta-glio. L’esposizione è articolata in sezio-ni: la prima, dedicata all’Egitto deifaraoni, offre uno spaccato “intimo” delvivere sociale, che si rivela nella consi-stenza quasi “intangibile” del lino pergli abiti, nell’uso di parrucche, diposticci e treccine applicate sui capellio ancora nell’ostentazione dei monili,oltre che in manufatti di notevole pre-gio come bracciali di varie fogge, orec-chini, anelli e diademi. L’attenzione perl’aspetto esteriore si realizza forse conmaggiore urgenza nella cosmesi rap-presentata, come pezzo unico nellamostra, da uno specchio, simbolo del-l’importanza della cura del corpo, che sirivela nell’uso di olii, balsami, trucchiper il viso, e simbolo quasi archetipicodel sé che ha attraversato culture eopere d’arte di secoli e latitudini diffe-renti. La seconda sezione é dedicataall’Etruria: più ricca di materiali, essa

abbraccia un arco di tempo più ampioche si dipana da un periodo (fine VIII-fine VII sec. a.C.) caratterizzato dallaprevalente impronta orientale, al perio-do classico, fino all’Ellenismo. Di gran-de interesse, per quanto riguarda l’ab-bigliamento sia maschile che femmini-le, è la tunica, con le maniche cortelavorata a quadretti o a losanghe perl’uomo e tessuta a quadretti per la don-na. Corollario fondamentale del mododi vestire sono le acconciature soprat-tutto femminili: per tutta l’età orienta-lizzante le donne portavano i capellidivisi in due grosse bande da una scri-minatura e raccolti da fermatrecce inoro laminato; un mondo di lusso e raf-finatezza popolato da fibule a drago,fibule con arco a sanguisuga liscio ocon protuberanze realizzate in oro, inargento o in elettro, orecchini a “bau-letto”, a figura umana e ancora collanea grani e con pendenti; oggetti realiz-zati da artigiani provenienti dal vicinoOriente, artefici di nuove tecniche qua-li la filigrana, la godronatura e la granu-lazione. Le donne, riccamente ingioiel-late, amavano ostentare la loro condi-zione di sposa non meno importante diquella di preservatrice del mistero dellafecondità. Sono, invece, tipici dell’etàclassica diademi di fogge diverse (atralci di foglie d’olivo e d’alloro), colla-ne a perle globulari o con pendenti:gioielli d’ispirazione locale e decorati astampo con scene anche complesse. Lavisita alla mostra si dipana, dunque,come un’immersione nell’universoaccattivante del culto della bellezzanell’antichità, un viaggio affascinantetra arte, artigianato, costume e culturamateriale da non perdere.

di STEFANO CABIBBO

Un viaggio affascinante tra moda, arte, artigianato e costume nel mondo antico

La bellezza nell’antichitàARTE

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Se siete interessati a scoprireche cosa ne pensano della que-stione femminile i quattro giovaniartisti palermitani del LaboratorioSaccardi, “Donna/Woman” visembrerà senza dubbio interes-sante. La donna, in tutte le suedeclinazioni, è infatti studiata,osservata, scrutata con occhioquasi anomalo in questa mostraallestita alla galleria francescopantaleonearteContemporanea(via Garraffello 25; visitabile fino al15 settembre; aperta giovedì altrigiorni su appuntamento, telefono091.332482). Ma l’aspetto piùcurioso è senza dubbio il fatto chesia stata proprio una donna, l’arti-sta Aleksandra Mir, ad aver curato l’evento e ad averproposto il tema a Marco Barone (Palermo, 1978),Giuseppe Borgia (Palermo, 1978), Vincenzo Profeta(Palermo, 1977) e Toti Folisi (Sant’Agata di Militello,1979). Neanche Madonna o Condoleeza Rice sono sta-te risparmiate dall’ironia pungente e spesso maschili-sta del quartetto palermitano che le ritrae, in alcunidipinti, in situazioni piuttosto imbarazzanti.Raccogliendo materiale da internet, gli artisti hannorealizzato una sorta di campionario di Blog al femmini-le, infiltrandosi così nella sfera intima e più personaledelle ragazze incontrate virtualmente. Nel video“Beautiful Fake 2007” un’amica racconta gli episodidella sua soap opera preferita davanti alla telecamera.La donna, dunque, viene presentata quasi come un“animale esotico degno di studio sia per la piacevolez-za della sua forma esteriore che per la sua interpreta-zione seducente, come anche per i più incomprensibiliaspetti del suo comportamento”, scrive AleksandraMir. Il piccolo acrilico su tela “Kreuzubermalung 2007”,un ritratto al femminile di Hitler, è in realtà la rappre-sentazione del calvario subìto dagli uomini a causa del-le donne. Come afferma infatti la curatrice, si tratte-rebbe in parte di uno “spaventoso manifesto di unarivendicazione femminista al potere, giunta ad unaconclusione incontrollabile”. Il linguaggio ironico e naïf

dei Saccardi entra in contrasto con il messaggio provo-catorio o tagliente di alcuni lavori ed è proprio questoscarto stridente che li rende accattivanti. Dare libertàal ciclone Saccardi significa però “interrompere per unattimo le lezioni imparate dal Femminismo” sostiene laMir “per vivere le fantasie maschili, le paure ed i loroeffetti ed imparare qualcosa di nuovo”. Una visionedella donna che ci fa molto riflettere anche su coloroche la osservano e, degni protagonisti di una societàvotata al voyeurismo e alla superficialità, cavalcano almeglio l’onda del sistema dell’arte contemporanea. Ledonne sono al centro di “Donna/Woman” “come com-pagne nell’intimità, come oggetti del desiderio distan-ti, irraggiungibili e detestati, come personaggi pubbli-ci, entità simboliche, come amiche e come nemiche”,afferma ancora la curatrice, spingendo però i ragazzidel Laboratorio Saccardi a guardare “la parte femmini-le di se stessi e riflettere l’essere donna all’interno ditutti gli altri”. Sembra infine che per guadagnarsi ilrispetto del Laboratorio Saccardi, istaurando un rap-porto di fiducia e simpatia, si debbano necessariamen-te abbandonare e dimenticare, come dice AleksandraMir, seppure per poco tempo, le lezioni delFemminismo storico…A voi, dunque, la scelta di diven-tare amiche, nemiche o soltanto muse ispiratrici, degliscapestrati del Laboratorio Saccardi!

ARTE

Le muse del Laboratorio SACCARDIdi GIULIA SCALIA

La donna dipinta con l’ironia pungente e spessomaschilista del quartetto di artisti palermitani

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Dieci anni e li dimostra. Perché in due lustri è diven-tata più ricca, più coinvolgente, più presente sul territo-rio. Più grande. Ideata nel ’98 dalla Giunta Musotto, lamanifestazione “Provincia in festa” taglia un traguardodi tutto rispetto, forte di una formula semplice e origina-le che per poco meno di un mese offre a piazze, teatri espazi di cultura un carnet sempre diverso di musica,spettacolo, arte, enogastronomia, sport, ambiente, soli-darietà. “E’ un anniversario importante, quello di que-st’anno – commenta il presidente della Provincia,Francesco Musotto – che ricorda non solo la fortunataidea di unire in un unico circuito le peculiarità e le ric-chezze del territorio, ma anche gli entusiasmi, il talento,l’identità delle comunità che vivono in provincia e checon la Festa hanno trovato un nuovo modo di percepireil senso di appartenenza. Un indubbio merito della mani-festazione – aggiunge Musotto – è stato quello di ‘arruo-lare’ artisti già noti e apprezzati ma anche nomi nuovi,spesso siciliani, che, soprattutto nel campo dello spetta-colo, hanno avuto modo di mettersi in vetrina”. E’ sboc-ciata così la musica e le musiche, di tutti i generi, colori,suggestioni. Musica per ballare, ricordare. Talenti inossi-dabili come Bryan Ferry (nella foto in basso), in scena alvelodromo “Paolo Borsellino”, una sofisticata OrnellaVanoni a Villa Giulia, il “visionario” di suoni e armonie,Nicola Piovani, ospite dell’ultima serata della Festa nel

2001. Ma hannoavuto spazio eoccasioni anchele contaminazionidi culture e melo-die: con Noa, cheper una toccantecoincidenza hacantato cinquegiorni prima del-l’attentato alleTorri gemelle;con il “Concertoper la pace”, cheha visto incro-ciarsi voci e note

di gruppi di musica etnicasiciliani e interpreti stranieri.E poi la musica che riscaldale piazze e scioglie le plateepiù ingessate: tanto latino-americano, pop e reggae, isuccessi evergreen dellacanzone italiana e non solo.I mattatori che fanno dellamusica un gioco di presti-gio, un pretesto per diverti-re: Renzo Arbore, al teatrodi Verdura con gli “SwingManiacs”, tra amarcord naifanni ’80 e revival della can-zone napoletana d’autore;Fiorello, acclamato campio-ne di gag e ironia allo stadio“Renzo Barbera”, in un oneman show da annali. Treformazioni hanno poisegnato il filone popolare-mediterraneo: i “Kajorda”, in scena a Villa Bordonaro aiColli, gli “Asteriskos”, con la loro singolare ‘orchestra’ distrumenti tradizionali, riesumati in chiave folk; i“Matrimia”, ospiti nel cortile settecentesco di palazzoComitini per la rassegna “Sogni di note di mezza estate”,mentre piazza Magione è diventata per tre serate un sukdi ritmi e sapori, con i concerti dell’Orchestra di piazzaVittorio, dei Tinturia e di Roy Paci con gli Aretuska. Ma laFesta della Provincia è stata anche teatro, con i classici,la commedia, dialettale e non, il cabaret; letteratura, conil Premio internazionale di Marineo, che ha avuto comedestinatari eccellenti anche personaggi del mondo del-l’arte, del giornalismo e dello spettacolo, da Carla Fraccia Bruno Vespa, da Lando Buzzanca a Leo Gullotta; ‘cro-naca’ dei nostri tempi, grazie al contributo degli intellet-tuali e scrittori coinvolti nel ciclo “Incontri con l’autore”,da Paolo Mieli a Marcello Veneziani, da Beppe Severgninia Giulio Giorello. Ad aprire la kermesse, ogni anno, gliappuntamenti istituzionali: la commemorazione di unpresidente storico della Provincia, rievocato con una

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medaglia in bronzo, convegni, mostre documentarie epubblicazioni monografiche; l’annullo postale; la conse-gna delle benemerenze civiche a rappresentanti delmondo delle professioni, della cultura, della scienza, del-lo sport, del volontariato, delle forze dell’ordine, dellapolitica, da padre Pintacuda a Sergio Flaccovio, dall’atto-re palermitano Toni Sperandeo algiovane Salvatore Cetola, il ragazzopugliese che nell’agosto del 2005diventò eroe per caso, salvandoalcuni suoi compagni di volo neldisastro aereo dell’Atr 72. Fu lacerimonia di quell’anno, al teatroPoliteama, una delle pagine piùintense dell’album della festa: la rassegna ebbe unadedica speciale per le vittime dell’incidente e all’inaugu-razione intervenne anche il presidente della Provincia diBari, Vincenzo Di Vella. In primo piano anche l’arte, conla mostra di Gloria Argèles, artista argentina dall’estroimmaginifico, e la collettiva sul cinetismo internazionale,

che ha fatto da preludio al gemellaggio con il prestigio-so museo dell’Hermitage di San Pietroburgo. Spaziod’elezione, il loggiato San Bartolomeo di Palermo.Protagonista degli appuntamenti più “gustosi”, il territo-rio, con le tradizionali giornate di escursioni nelle riservenaturali e nei castelli e l’eccellenza in tavola, ovvero le

degustazioni di prodotti tipici localitrasformate in veri e propri festivalenogastronomici. Con il vino signoredelle tavole e del palato. Infine losport: una serata su tutte, con irosanero in campo per il triangolaredella Coppa dei Comuni. A sfidarsi,con il Palermo, la Sampdoria e

l’Olympiakos di Atene. Da pochi mesi si era avverato ilsogno della serie A, i gonfaloni degli 82 comuni sfilavanosul prato dello stadio Barbera per la parata inaugurale,per ogni vessillo una parola, una particolarità, un vantolocale. Una serata non come tante. E naturalmente nonera solo calcio.

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DIECI ANNI ALLA RIBALTA“Provincia in festa” taglia uno storico traguardo.Musica, teatro, sport e memoria si incrociano nella tradizionale manifestazione di settembre

Fiorello e Arbore, Bryan Ferry e la Vanoni,

Mieli e Severgnini, tra i personaggi

delle edizioni passate

da sinistra: Fiorello, Maurizio Gambino, Sasà Salvaggio e Francesco Musotto

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GIUSEPPE CULICCHIAUN’ESTATE AL MAREGARZANTI, PP 207 / EURO 15,50

di SAVERIO PULEO

L’ultimo libro diGiuseppe Culicchia,“Un’estate al mare” èuna storia feroce masemplice che ha ilpasso svelto e felicedei romanzi genera-zionali. Luca eBenedetta dopo unbreve fidanzamentosi sposano e vanno inviaggio di nozze aMarsala, nei luoghidove lui ha trascorsobuona parte dell’in-fanzia. È l’estate dei campioni del mondo del2006, dei Prodi e dei Berlusconi che dicono lemedesime cose che vanno ridicendo quest’altroanno e del crac “vallettopoli”. Benedetta, donnasuperficiale e in carriera, che a forza di superla-tivi inventati ammorba la lingua italiana, vuole atutti i costi un bambino, probabilmente perchéTarita, la sua migliore amica «c’è rimasta al pri-mo colpo»; Luca, quarantenne ipocondriaco eirrisoluto, col terrore della calvizie, è ancora alleprese con la misteriosa morte del padre avvenu-ta negli stessi luoghi molti anni prima. Sullacosta marsalese, fra lo Stagnone e Mozia i duerischiano di naufragare. Luca ritrova voltiappartenenti al passato, come la tedesca Katia,dimenticato amore giovanile, e soprattutto si facoinvolgere da Andrea, la figlia tutta ormonidella sua ex fiamma, in una torrida passione.Culicchia, abbozza un quadro desolante dell’ita-lietta odierna, e tuttavia il suo stile brillante e lariuscita comicità di molti episodi non bastano amitigare la mancanza di profondità della storia.Facciamo l’appunto maggiore all’impianto nar-rativo: il mistero della morte del padre di Luca,ben alimentato sin dalle prime pagine, si risolvein modo peraltro accennato, in appena cinquerighe. Un romanzo lieve, che fra luci e ombre faridacchiare a denti stretti e macerarsi il giusto.

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naggi, il finale è diverso. Credo fondamentale il nonessere gelosi. E’ stato bello vedere la mia immaginazio-ne diventare altro. Per esempio, il mio finale è voluta-mente tronco; il film ha esigenze diverse e tutto torna,ma quello è il film di Ferrario, quindi è giusto così».Consideri spiazzante l’approccio al libro attraversolo schermo?«E’ inevitabile e te l’aspetti; quando un tuo libro diven-ta film incontra il pubblico che non avrebbe trovatorestando in libreria. Poi il film, oltre che in sala, passamagari anche in tv e la cosa s’allarga. Penso sia anchequesto uno dei motivi di ristampa di “Tutti giù per ter-ra”; il film ti permette di confrontarti con un pubblicoche non t’ha mai letto o con chi t’ha letto e s’è fatto sueaspettative. Insomma si scatenano strani meccanismi,in un ping pong tra te, il film, il libro. Alla fine, cosa fon-damentale, la storia gira e vive. Il fatto che il libro ven-ga ancora letto, a tredici anni dalla sua uscita, per meè un piccolo miracolo. Un libro oggi ha una vita mediaun po’ più corta, purtroppo».Dato i tuoi natali a Torino e la mezza sicilianità.Come vede lo scrittore del nord la letteratura delsud e viceversa?«Faccio fatica a vedere una letteratura del sud e una delnord. Ci sono scrittori molto radicati alle origini, cheraccontano realtà parecchio diverse perché lo stivale èlungo. Per certi versi, però, il Paese ha uniformato ilmateriale di scrittura. Penso al caso Saviano. Credo chesi possano scrivere storie di camorra anche ambientan-dole a Milano o a Torino, senza troppe difficoltà. Forsebisogna provare a farlo».Quindi aldilà delle identità regionali tu vediun’Italia unita sotto l’aspetto letterario?«No, più che dalla letteratura dall’assenza di rispettodelle regole. Fino a qualche anno fa si diceva che leregioni del sud erano area non controllata dallo Stato ec’era l’anti-Stato. Oggi il fenomeno s’è esteso al nord,ma è meno appariscente. La mancanza di senso civico èquell’unità che si ritrova sia nei romanzi ambientati nelnord est, che raccontano il boom economico e i retro-scena, ma anche nei romanzi sulla realtà meridionale».A concludere, può una scrittura ironica, graffiante,politicamente scorretta, com’è definita la tua,essere specchio sociale e aiutare a invertire la ten-denza del non rispetto delle regole?«No, non credo assolutamente. Sono pessimista sullapossibilità che la letteratura possa cambiare il mondo.Oggi il modello culturale non è l’intellettuale che scriveil libro o l’articolo sul Corriere della Sera, ma la DeFilippi, i tronisti e le veline».

LIBRI

Giuseppe Culicchia, classe ‘65, sangue siculo-pie-montese, è uno degli autori più ironici e graffianti del-l’ultima generazione. Scoperto da Tondelli; casual-mente disegna per La Stampa il formichiere Anselm,ispiratore poi di due romanzi. Oggi collabora anchealle strisce di Linus. Con “Tutti giù per terra”, roman-zo d’esordio, il protagonista Walter approda al cine-ma, interpretato da Valerio Mastandrea. Balarm l’haincontrato alla libreria Kalòs alla presentazione dell’ul-timo romanzo “Un’estate al mare” (Garzanti).Hai esordito con Pier Vittorio Tondelli suPaperbang. Un tuo ricordo su questa prima espe-rienza di scrittura?«Un ricordo bellissimo. Conobbi Tondelli alla Fiera delLibro di Torino, da poco uscito con “Camere separate”.Mesi dopo seppi che cinque miei racconti sarebberoapparsi nella sua collana d’esordienti under 25, l’ulti-ma antologia; nel ‘90 Tondelli morì. L’incontro mi sor-prese perché lui da scrittore di successo avrebbe

potuto tirarsela, invece fu di estrema gentilezza,disponibilità e con un atteggiamento rilassato, dotenon comune, che mi colpì. Quando cominci a scrivereuno dei problemi è l’impossibilità di farti leggere dachi è del mestiere. Aumentano le insicurezze e vai allacieca, senza sapere se ciò che stai facendo ha un sen-so. Una domanda ingenua a Tondelli, dandogli i mieiracconti, fu quella se dovevo continuare a scrivere. Luirise, poi disse: “Figurati! E’ una cosa che dovrai scopri-re tu, se vorrai continuare a scrivere oppure no”».Poi il successo, “Tutti giù per terra”. Come vede loscrittore la realtà dei suoi personaggi sul grandeschermo. Qual è l’effetto?«Sicuramente spiazzante. Quando vedi il film, anchenon montato, ti rendi conto che facce, movimenti,accenti immaginati sono diversi. Poi capisci che è unaquestione di libertà. Come tu hai scritto in libertà tota-le, pure il regista è libero di far nascere il suo film; dallibro alla sceneggiatura, cambia o butta certi perso-

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Uno scrittore che disegna il nostro tempo, ironico, graffiante e politicamente scorretto

GIUSEPPE CULICCHIAdi TOMMASO GAMBINO

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399 a.C. Chi è quell’uomo che bevve la cicuta e chediventò martire dell’antadichein (ingiustizia)? ArthurSchopenhauer scriveva che “La morte di Socrate e la cro-cifissione di Cristo fanno parte dei grandi tratti caratteri-stici dell’umanità”. Libri e tesi, scritti e studi di filosofi estorici dell’alta scienza ci hanno dimostrato che Socratefu pilastro della filosofia. Ma se ci avessero raccontatodelle frottole sul conto del famoso filosofo ateniese?Questa è la domanda che si snoda sin dalle prime battu-te nel libro “Vita tragicomica di Socrate” (Salani edito-re, 2007, pagg 160, euro 10). Pietro Emanuele, già auto-re di “Cogito ergo sum” e “ I cento talleri di Kant”, riper-corre la storia del famoso filosofo dai piedi nudi, con isuoi demoni e le sue parole fissate dal fido Platone.L’autore scrive e riscrive con tono dissacrante e accesavena ironica tanto dell’uomo che del filosofo, sgranandoattentamente i vissuti della sua quotidianità e quella deipanegirici che lo resero martire ed eroe. Il “discutibile”mito di Socrate dipenderebbe soprattutto dalla sua mor-te, perchè “se fosse morto di vecchiaia, non sarebbediventato, come invece è accaduto, il simbolo del liberopensatore martorizzato”. Per Pietro Emanuele, infatti,Socrate condannato a bere dagli Ateniesi la cicuta nonscappò alla condanna per fedeltà filosofica al suo inse-gnamento sulla giustizia legale e al rispetto dei suoi det-tami a cui l’individuo deve subordi-nare, ma perchè non poté farne ameno. Frutto della casualità sem-brerebbe essere stata anche la sto-ria “teoria della dotta ignoranza”,nata tra una battuta e l’altra.Centosessanta pagine di filosofiasopra le righe e riadattata a divertente e inedita riletturadi Socrate dei suo vizi e delle sue poche virtù. Il filosofosembrerebbe molto più simile alla macchietta tracciatadal commediografo Aristofane nelle sue “Nuvole” chealle dissertazioni che nei secoli lo inserirono tra i padridella filosofia. A non essere risparmiati da questo setac-cio, altre figure importanti, note grazie proprio al nomedel filosofo: la moglie Santippe che secondo Emanuele

non fu brutta e bisbetica ma bella e complice delle mal-fatte socratiche. E il fedele Platone, attento scriba inten-to a fissare le parole del maestro nel tempo, in realtà eraun arrivista, “rampollo palestrato di una famiglia aristo-cratica”, che ricattando Socrate fece passare attraverso ilnome del sommo maestro i propri scritti. Tra le fila ironi-che del libro, che smonta “socraticamente” le credenzelegate al grande filosofo, si crivellano le varie manipola-zioni mitologiche che fanno di Socrate un Cristo ante lit-

teram. La penna intelligente e anti-conformista di Pietro Emanuele,sveste la filosofia dai suoi tribunaliinaccessibili - e per alcuni tediosi -per renderla contemporanea eavvincente, più semplicementenarrativa. Insomma chi era in real-

tà Socrate? Uomo comune, vittima di se stesso e dellapropria superbia, vittima del tempo che ne ha tessuto deipaesaggi immaginari. Ed ancora, invadente ed impiccio-ne uomo della Grecia classica, sopravvalutato e, nel cor-so dei secoli, protetto in un egotismo maniacale. Tutto acausa della scarsità di documentazioni a disposizione,sottolinea Emanuele. Dunque, l’autore lancia un monito:leggere attentamente le avvertenze!

SOCRATE e la suavita tragicomica

di ROSSELLA PUCCIO

Ma chi era veramente il famo-so filosofo ateniese?

La penna anticonformistadi Pietro Emanuele sveste

la filosofia dai suoi tribunali inaccessibili

LIBRI

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Di ritorno da viaggi di confine che mai saziano, leparole sono mezzi forse irresponsabili se veicolanoinformazioni veritiere. Quale, allora, il giusto valore daassegnare loro, se non quello immaginato dalla volon-tà dell’autore e dalla passione, a volte estrema, del-l’editore? La nuova idea di rivista della Navarra Editoresegue i passi di chi dimentica il marciapiede e salta epercorre muretti, sale e scende gradini di vicoli chepuzzano, si appoggia a pareti di intonaco in cadutalibera, scruta la città, come un chirurgo che nulla vor-rebbe ricucire. Sottotraccia (Navarra Editore, 8 euro),di pubblicazione semestrale, si lancia al target degli

incontentabili, la resistenza di chi vuol essere a cono-scenza di circuiti ai molti “invisibili”, non perché privi dicolore, ma perché spesso paralleli a realtà più eviden-ziate e in voga. Nato da firme appartenenti al mondodegli assistenti sociali e della psicologia, è un lavorocorposo (ben 168 pagine) e interessante e, anche sepuò risultare ripetitivo e accademico, è una buona fon-te informativa. «Un atto di corresponsabilità verso l’al-tro con la A maiuscola», riporta l’incipit di introduzionealla rivista; dunque, ancora una volta, un passo versol’Alterità, movimento a favore del diverso che, poichétale, alimenta fobie. “Teoricamente”, “LavoriSocialmente Utili”, “Agorà”, “Brain Drain”, “In giro peril mondo”, “Turbolenze”, “Una foto, frammenti di sto-rie”, questi i titoli che suddividono il percorso cartaceo,introducendo storie disseminate lungo il quotidianosconosciuto, o sentito dall’eco di voci di strade perife-riche. Il primo articolo inizia al sentiero di Sottotracciaopponendolo al cristallino mondo «sopra-traccia, (…)uno scintillio di novità, di straordinarietà, di individua-lità e globalità», sfidando la sorte antieconomica di unprogetto che preferisce «attardarsi pretestuoso intor-no e dentro il dettaglio». Dalle informazioni sull’orien-tamento formativo, argomentando le faglie di un siste-ma che, secondo l’autore, sfrutta male il suo potenzia-le educativo, si passa alla denunzia della perditad’identità dell’uomo. E’ la «colonizzazione dellecoscienze», città ormai trasformatesi in campi di batta-glia, luoghi in cui si relazionano e si evitano migliaia diestranei inquieti, sottratti al benessere dalla viziataatmosfera urbana. Ci sono poi storie di omicidi minori-li che non si suole raccontare, ragazzi palermitani che,esercitando il falso potere dell’assassinio, si sono acco-stati alla morte prima di aver iniziato ad investigare lavita. Noemi Scibona per dieci mesi le ha sviscerate daifascicoli del Tribunale per i Minorenni. Il lettore, ormaiaddentrato fra carta e inchiostro, leggerà poi di donneimmigrate che continuano a vivere in un contesto occi-dentale la comunità islamica e le sue tradizioni, cosìcome potrà sapere di più degli emigrati stranieri rin-chiusi all’Ucciardone e al Pagliarelli: dannati fra i dan-nati. Immancabile poi uno sguardo alle realtà estere,con un articolo sulla tutela ai minori nella regione spa-gnola Castilla – La Mancha. Infine, consigli di lettura efilm da tenere in conto, e la cornice di foto di SalvatorePipia. Questi e molti altri i temi di Sottotraccia, solo iprimi fra i numerosi da attingere dalla cantina dellebattaglie senza riflettori, delle parole archiviate infascicoli, dei sud del mondo, quando sud è ancorasinonimo di emergenza.

SOTTOTRACCIA

di TONYA PULEO

La nuova rivista della NavarraEditore dedicata al sociale

LIBRI

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Un luogo pieno di suggestione e di storia incastona-to in un angolo di verde di Palermo. Sono le sorgentidel “Gabriele”, all’interno del potabilizzatore di viaRiserva Reale, che lo scorso mese di maggio hanno vistoprotagonisti cittadini e turisti accorsi in massa in occa-sione della manifestazione “Palermo apre le porte, lascuola adotta la città”, organizzata dal Comune. Per laseconda volta, l’Amap, l’azienda che gestisce il servizioidrico integrato nel capoluogo, ha reso possibile la visi-ta alle sorgenti del “Gabriele”, con il prezioso aiuto del-l’istituto IPSIA “E. Ascione” diPalermo, i cui allievi, seguitidai loro insegnanti, hannofatto da ciceroni insieme aglistessi operatori dell’Amap.«Queste manifestazioni –spiega Bruno La Menza,Presidente dell’azienda - por-tano solo benefici, soprattut-to sul piano dell’immaginealla città di Palermo. Le sor-genti del Gabriele sono uno diquei luoghi che hanno unvalore storico, legato a unodei più importanti serviziofferti ai cittadini: quello del-l’erogazione dell’acqua.L’acqua di queste sorgenti è un bene prezioso per ipalermitani ed è pure per questo che anche quest’annoabbiamo deciso di riaprire le porte del “Gabriele”.Vogliamo fare capire a tutti quanto è preziosa l’acqua,con quale cura viene raccolta. Il nostro è anche un invi-to alla gente a risparmiare questa importante risorsa.Per l’intera stagione estiva - aggiunge - non ci sarannoproblemi nella distribuzione idrica perché le riserve ciconsentiranno di mantenere le quantità assicuratedurante i mesi invernali, ma è bene che i cittadini impa-rino a gestire le loro abitudini cercando di evitare almassimo gli sprechi». Notizie sulla sorgente Gabrielerisalgono già agli inizi del Settecento ed è ampiamentedescritto nei quaderni del barone Di Villabianca. Laparola “Gabriele” deriva dall’arabo Garbel o Garbellel,vale a dire grotta irrigante. Le acque di queste sorgenti

affioravano a cielo aperto ed erano immerse in una fol-ta vegetazione di tipo palustre che caratterizzava lazona. Oggi le sorgenti affiorano ad una quota di 98metri sul livello del mare è sono rappresentate dall’af-fioramento “Gabriele”, “Gabriellotto”, “Campofranco”,“Cuba” e “Nixio”, le cui acque sono raccolte in un torri-no e miscelate con quelle trattate dall’impianto di pota-bilizzazione per poi venire immesse nella rete idrica cit-tadina. La resa massima della sorgente si è riscontratanel 1958 con il prelievo di 7.375.426 di metri cubi annui,

corrispondenti ad una portata media di 234 litri alsecondo. La resa minima, invece, è quella del 2002 conil prelievo di 4.203.906. metri cubi, corrispondenti aduna portata media di 133 litri al secondo. Numeri chefanno capire quanto sia importante la sorgente del“Gabriele” per il fabbisogno idrico della città. Rispetto alpassato il sito è rimasto pressoché immutato, anche seovviamente sono stati necessari degli accorgimenti: pri-mo fra tutti una copertura. Nonostante ciò, le sorgentidel “Gabriele” non hanno perso il loro fascino.Quell’acqua che emerge dal suolo in tutta la sua purez-za, quelle pareti di pietra e quel clima sempre “inverna-le” sono la testimonianza di un piano perfetto dellanatura. Chi fosse interessato ad approfondire di più l’ar-gomento può scaricare dal sito www.amapspa.it la bro-chure illustrativa della sorgente del Gabriele.

In visita alle sorgenti del GabrieleCittadini e turisti hanno potuto ammirare, per il secondo anno,le suggestive e storiche sorgenti

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oscenamente tutto almaschile, dominato da unamafiosità endemica ed irre-versibile, da un fatalismo dimarca sicula che sconfina inun esoterismo da poveri cri-sti e da una religiosità che,con scandalo, denuda in spe-cial modo i vizi resistenti diquella brutta bestia chiamatauomo. E’ l’essenza del tragit-to di due autori crepuscolari,sopravvissuti guerriglieri diun modo tutto “contro” e“contrario” del fare cinema.E questo fin dagli esordi tele-visivi, negli studi della TVM diAnna Manzo (moglie attualedi Daniele Ciprì) con “Internonotte” e poi con la “CinicoTV” arrivata a Raitre per illu-minata intercettazione diEnrico Ghezzi; fin dalle pelli-cole della clamorosa operaprima, “Lo zio di Brooklyn” edel fatale “Totò che visse duevolte”, capolavoro maledetto(fotografato da Luca Bigazzicapace di regalare una sgra-

nata lucentezza al bianco e nero degli autori) che con-tribuì a far definitivamente fuori la censura cinemato-grafica in Italia, naturalmente dopo averla subita.Recuperata e metabolizzata, in chiave beckettiana, lalezione di stile di Pasolini e Sergio Citti, il doppio sguar-do abbacinato dei cineastipalermitani provò ad elaborareil lutto della commedia all’ita-liana morta e sepolta con “Ilritorno di Cagliostro”, film adue dimensioni (commedia edramma insieme) la cui fratturaè accentuata dalla presenzadell’attore nano DavideMarotta, gran cerimoniere chiamato ad officiare ilfunerale del cinema di genere (con un implicito sberlef-fo alla debole epica del trash!). Da allora in poi, Ciprì &Maresco hanno provato a mutare registro scoprendo ladolorosa ed aspramente poetica faccia nascosta delcinema puro tanto amato/odiato. Lo hanno fatto rievo-cando la Palermo scomparsa attraverso la vicenda pro-

fessionale ed esistenziale di Franco Franchi e CiccioIngrassia in “Come inguaiammo il cinema italiano”,investigazione straziata ed ironica su quello che pote-va essere e non fu la più grande coppia comica nostra-na. Dopo le danze, i rutti, i peti e i banchetti sulle cene-ri del reale degrado siciliota ed italiota, ecco la messain campo di uno scenario parallelo, l’imprevedibilebestiario montato sul fatiscente palcoscenico del cine-ma più invisibile ed imbarazzante, quello davvero maivisto dove, ridotti a burattini, convivono tragicamentemaschere sia maschili sia (finalmente!) femminili comeil personaggio della poetessa, prima in “Il ritorno diCagliostro” e poi ne “I migliori nani della nostra vita”.Ecco, con il prezioso ausilio di Claudia Uzzo (aiuto regi-sta e montatrice, da tempo anima femminile del duo),la fantacronaca de “Ai confini della pietà”, parafrasicaustica della mitica serie TV degli anni ’50 ed occasio-ne per evocare, fra gli altri, la doppia identità del regi-sta Giorgio Castellani, pseudonimo di Giuseppe Greco,figlio del boss di Cosa Nostra Michele detto “il Papa”.Novello Ed Wood, pasionario del cinema (per sinceravocazione), il nuovo antieroe di Ciprì & Maresco fu,negli anni Ottanta, l’artefice produttivo di un film,“Crema, cioccolata e pa...prika”, che costò infondateaccuse e lacrime amare a Franco Franchi, per l’occasio-ne accompagnato, oltre che dal fido Ingrassia, ancheda Barbara Bouchet e Renzo Montagnani. La sua è sta-ta una carriera registica all’insegna del “vorrei, nonposso ma faccio lo stesso” proseguita con memorabilicult quali “Vite perdute” (con il cast dei “Mery per sem-pre” boys), “I Grimaldi” (sentito omaggio mélo alla figu-ra del padre, interamente girato nel cuore di Ciaculli) eil recente, inedito su grande schermo, “La mafia deinuovi padrini (Diabolico intrigo)” uscito in sordina nel

mercato del Dvd. Un personag-gio di pirandelliano spessoreormai entrato a far parte dellagalleria spettrale di Ciprì &Maresco, autori di una televisio-ne forte come il cinema che, trachiaroscuri, ci restituiscel’aspetto plumbeo e ridicolo del-la misera epica dei nostri “pieto-

si” giorni. E questo lasciando spazio pure ai sublimi ulu-lati poetici del grande teatrante Franco Scaldati, anco-ra in “Ai confini della pietà”, capace di raccontarci in unframmento la sostanza di cui è fatto il doppio di quelmondo che Ciprì & Maresco hanno reso concreto, l’uto-pia di una terra vista dalla luna così come non è, ma piùvera di un sogno (o forse no).

CINEMA

Si può dire che l’intera produzione di Ciprì &Maresco nasca e progredisca sotto il segno del doppio.E questo non solo per via della fortunata alleanza di unbinomio che è stato capace, da vent’anni a questa par-te, di regalarci un unico corpus d’autore originale ecorrosivo, buono a sbaragliare regole, dogmi e para-digmi di cinema e televisione, nella nostra disastrataitalietta impoverita dal conformismo mediatico. Findall’inizio dei fulminanti esordi sul piccolo schermo,all’insegna di un’indipendenza fieramente esibita, dop-pia è stata soprattutto la dimensione della loro Palermometafora dell’Apocalisse: da un lato c’è la realtà di undegrado probabilmente irredimibile e dall’altro la suarappresentazione in bianco e nero che n’esalta la com-ponente espressionistica, da incubo orrorifico a citarel’essenza stessa del cinema che fu e che non potrà(mai) più essere. E così, andando per temi, ecco il bellodel brutto, il cinismo a braccetto con la pietas, il fem-minile del maschile e viceversa, e la morte che c’è nelnostro quotidiano vivere: uno sguardo argutamentedoppio e disincantato fino allo spasimo, mai contrad-

dittorio ed anzi ostinatamente coerente. Tutto ciòappare apprezzabile sia ai fan di lungo corso, sia acoloro che si sono imbattuti per la prima volta, nellesorprendenti puntate di “Ai confini della pietà”, il nuo-vo programma televisivo del duo, ospitato nel corag-gioso palinsesto de La7 (anche se mandato in ondarigorosamente “fuori orario”), che insieme a “I migliorinani della nostra vita”, andato in onda la scorsa stagio-ne per venti settimane, continua a celebrare e liquida-re, senza nostalgia ma anzi con acida autoironia, ilCinicomondo virtuale già sperimentato nei loro corti elungometraggi. Il mondo dei motti macabri alla “Siamodavvero pietosi!” affidati al compianto FrancescoTirone ciclista - filosofo (la cui esemplare parabola dimarginalità è stata rievocata con l’ausilio dei suoiSuperotto familiari); a quello dei memorabili peti diPaviglianiti buonanima; e quello della galleria di freaksdi casa (o cosa) nostra, specchio da fiera che deformaad arte la fatiscente realtà di una condizione umanavotata alla catastrofe. Una grande, cinica e liberatoriarisata per travolgere, mettendolo in scena, un universo

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Il tragitto di due autori crepuscolari all’insegna di un’indipendenza fieramente esibita

CIPRI’ E MARESCO: “i ragazzi terribili”

di FRANCESCO PUMA

Palermo metaforadell’Apocalisse:

la rappresentazione in biancoe nero n’esalta la componente

espressionistica, da incubo orrorifico

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Quel viaggio affascinante che la settima arte regalaallo spettatore portandolo a spasso nel tempo e fra glieventi, è di sicuro una gran cosa, ma ben poco è parago-nabile al sollievo che ci accompagna quando alla fine diuna proiezione capita di dire «per fortuna è solo un film!».Non sempre però questo accade, soprattutto quando quelche il cinema propone, racconta con veridicità e impegnocivile fatti dei nostri tempi, fatti troppo recenti per esseregià nei libri di storia, eppure fatti che a ben guardare sonoproprio quelli che poi fanno la nostra storia. È fra questogenere di film che si colloca assai meritatamente “L’uomodi vetro”, terzo lavoro di Stefano Incerti (David Donatellonel “95 quale miglior regista esordiente con “Il verificato-re”), con David Coco (il protagonista, nella foto), TonySperandeo, Anna Bonaiuto, Ninni Bruschetta, FrancescoScianna, Tony Palazzo, Elaine Bonsangue e IleniaMaccarrone. Il film è tratto dal libro omonimo di SalvatoreParlagreco (Edizioni Bompiani) e si ispira alla storia auten-tica di Leonardo Vitale, il primo vero pentito di mafia, unsemplice manovale di quell’organizzazione criminosa allaquale viene iniziato dallo stesso zio sin da adolescente,organizzazione che il giovane Leonardo non esita a sfida-re nel momento in cui la propria coscienza entrata in crisiglielo impone. E il bisogno di raccontare i delitti di cui si èmacchiato, ancora ragazzo, diventa così urgente da met-tersi contro quella cultura dell’omertà nella quale lui stes-so era stato allevato. Il film (va dal 1972 al 1984) narra deltravaglio di questo giovane dall’anima tormentata, il suo

coraggio ma anche la sua paura. Ed è lo smarrimento deisuoi occhi a colpire, gli occhi di un semplice, un non-eroeche non esita a scegliere, fra un’ottima dittatura e unapessima democrazia, la prima. È il magistrato AntoninoSaetta che gli pone il quesito, uomo di legge inizialmentescettico di fronte al fiume di nomi fatti da Leonardo, eppu-re poi pronto ad accettare quale verità quel che da quegliocchi smarriti gli arriva. Ma sarà solo la mafia a dare cre-dito fino in fondo alle parole del pentito. Infatti lo uccide-rà nel 1984, a soli due mesi dalla sua scarcerazione (12 glianni passati fra carcere e manicomio giudiziario), mentretutti i mafiosi e i personaggi con la mafia collusi da luinominati verranno prosciolti. Il film è estremamente durosoprattutto perché, la storia oltre ad essere drammatica èanche vera e ci coinvolge tutti pienamente. A chiusura delfilm anche una frase del giudice Giovanni Falcone qualeamaro commento alla vicenda, il che lascia ancora mag-giore sconforto allo spettatore. Se è vera l’affermazione“la storia siamo noi”, allora la società, cioè la gente comu-ne ma anche le istituzioni, dovrebbe accogliere le tantesollecitazioni alla giustizia e all’onestà che dal cinema ulti-mamente ci arrivano. Eppure “L’uomo di vetro”, nono-stante l’ottimo successo riscosso alla 53° edizione delTaormina Film Fest, qui presentato quale evento d’apertu-ra, non ci sembra sia stato ben distribuito. Peccato, speria-mo si rimedi. Infine ancora un ricordo commosso al giudi-ce Antonino Saetta, anche lui poi ucciso dalla mafia il 25settembre del 1988.

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“L’UOMO DI VETRO” una storia veradi MARIA TERESA DE SANCTIS

Una pellicola ispirata alla storia autentica diLeonardo Vitale, il primo vero pentito di mafia

CINEMA

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“È più facile disintegrare un atomo che un pregiu-dizio”, diceva Albert Einstein. E lo è ancora di più se ilpregiudizio riguarda un argomento ancora scomodocome quello di gay, lesbiche o transessuali. A disinte-grare questo preconcetto ci ha provato un’energicaragazza palermitana di ventitre anni, Sofia Gangi,studentessa di Giurisprudenza. Mossa da passione ecuriosità per questo mondo nascosto, ha realizzato eprodotto un documentario di 50 minuti, dal titolo:“Caccia alle streghe - Opus Gay, Vol. I”. Il film èstrutturato come un excursus storico, dalla nascitanegli anni ’70 a Palermo del movimento LGBT (lesbi-che, gay, bisessuali, transessuali) fino al Gay Pridetenutosi lo scorso giugno aRoma. «In un contesto didiscriminazione e differenzafra i cittadini – spiega Sofia,nella foto al centro – ho sen-tito il bisogno di parlare dinuovi modi di raccogliere larabbia, la delusione e le pro-poste di chi vive ai marginidella politica, delle istituzio-ni». Storie di gay, lesbiche,transessuali che hanno deci-so di raccontare, con intervi-ste di carattere personale epolitico, la loro vita, il loropercorso di legittimazione eaffermazione. «L’idea di rea-lizzare il documentario inuna città come Palermo – racconta Sofia – è nata dal-l’esigenza di dare voce ad amici ed amiche, compagnie compagne, che vivono nel silenzio, poiché questasocietà, che si professa aperta e di larghe vedute,rifugge la comprensione di un amore difforme daquello che i modelli sociali di riferimento ci trasmet-tono». Il trailer del film è stato presentato in antepri-ma a “LiberaFesta”, l’annuale manifestazione diRifondazione Comunista, nell’ambito di un dibattitosui diritti civili al quale hanno partecipato ChiaraAcciarini, sottosegretaria alla Famiglia, Titti DeSimone, deputata del Prc e gli esponenti di Arcigay,Lady Oscar, Articolo Tre. Un lavoro genuino e rispet-

toso, asciutto e descrittivo quello di Sofia, di narrazio-ne e documentazione. Musica e immagini si intreccia-no ai racconti dei protagonisti, ripresi attraverso i pri-mi piani dei loro sguardi o del loro gesticolare. Adesempio, le espressioni di Massimo e Gino (nella foto),la storica coppia di omosessuali che ha celebrato ilprimo matrimonio gay a Palermo negli anni ’80. Sonoloro a raccontare di quanto sia stato difficile trent’an-ni fa affermarsi, non solo come omosessuali, maanche come coppia. Durante l’intervista Massimo citaun verso del poeta Nino Gennaro: “nella vita o si èfelici o si è complici”. Quelle parole hanno scandito idue momenti topici della loro vita. La fase in cui han-

no vissuto nel silenzio e nella quale sono stati compli-ci di quella società che crede che l’omosessualità nonsia un problema, fino a quando è vissuto nel silenzio.E il momento, invece, di rottura in cui si prendecoscienza, “ci si ama per ciò che si è, e ci si dice nonsono malato. Da quel momento si inizia a voler vive-re”. Massimo e Gino, ma anche Isabella, Luigi oCristina di 22 anni, che racconta la sua vicenda diermafroditismo ormonale, sentendosi come “unapenna rossa alla quale è capitato accidentalmente iltappo blu, che però ha sempre scritto in rosso”. Ildocumentario sarà presentato al prossimo Festivaldel Cinema giovane.

MUSICA

CACCIA ALLE STREGHE, capitolo primodi DARIO CARNEVALE

Il documentario della studentessa Sofia Gangiaffronta un tema delicato e di profonda attualità

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Se cercate su Wikipedia, l’enciclopedia libera fat-ta dagli utenti su internet, il significato del termi-

ne “flashmob”, probabilmente rimarrete insoddisfatti.Si parla di un gruppo di persone, la maggior parte del-le volte sconosciute fra loro, che si riunisce all’improv-viso, da qualche parte in uno spazio pubblico, metten-do in atto una azione bizzarra, senza alcun motivo, perpoi disperdersi dopo la performance. Questo è tutto. Ladomanda che però ognuno di noi naturalmente si por-rebbe dopo aver letto una definizione delgenere, è il classico e intramontabile, “cuiprodest”, quale sia la ragione per cui perio-dicamente, nelle parti più sperdute del glo-bo, degli allegri buontemponi, escano dicasa per incontrarsi con perfetti sconosciu-ti e mettere in atto dei gesti tanto insensa-ti quanto gratuiti. Ecco, Perché? Il succes-so del primo flashmob palermitano, realiz-zato lo scorso 7 luglio a piazzaCastelnuovo, ci conferma nel nostro titu-bare: pure a Palermo, perché? Proseguendo nella lettu-ra della pagina di Wikipedia, si capisce che ciò che sta acuore a molti flashmobbers è “rompere la monotonia”;l’idiozia del gesto, la sua singolarità costruirebbe unarottura della temporalità abituale della città, in grado dirinnovarla, di rifondarla. Grazie alla generosità dei fla-shmobbers, in questo caso “utili idioti”, la città potreb-be così riconoscersi viva, destarsi dal torpore delloscorrere del tempo sempre uguale a se stesso.Prospettiva interessante, se non fosse per il fatto diessere a esaurimento: il raduno di piazza Castelnuovo,in questo senso, potrebbe essere pensato solo comeeccezione alla regola, funzionerebbe solo come rottura,postulando un qualcuno da stupire, uno spettatoreignaro da destare dal torpore. In realtà, il flashmob,nella sua presunta insensatezza, dice anche altro.Questo tipo di manifestazioni ci fa toccare con manoche Internet può essere utilizzata in modi molto più“incisivi” di quanto il senso comune sia disposto a rico-noscere. In questo senso, essi possono essere pensaticome un uscire allo scoperto, un coming out di un pez-zo di società ancora in minoranza, un dire “io sono” diuna forza sociale nuova che attraverso questo tipo dimanifestazioni si riconosce e si presenta alla maggio-ranza di persone che di Internet conoscono soltanto ilsito del Grande Fratello o quelli che offrono pornogra-fia a portata di mano. Il noto teorico Howard Rheingoldha proposto un nome per questa avanguardia, smartmobs, masse intelligenti e per giunta in movimento.Tutto il contrario degli “utili idioti” che avevamo ipotiz-

zato all’inizio. Gli smart mobs sono, al contrario, gliinnovatori dei nostri anni, quelli che stanno cambiandonei fatti il modo di mettersi in relazione in società. Daglianni Novanta a questa parte si è fatta tanta retorica sulruolo di Internet, il mondo si è prevedibilmente divisoin “apocalittici” e “integrati”, predittori di immani scia-gure portate dalla nuova tecnologia e supporter dellarete come strumento di democratizzazione. Di questeinterminabili discussioni a conti fatti è rimasto ben

poco, mentre gli effetti della “rivoluzione digitale” sonosempre più visibili ed effettivi nella vita di tutti i giorni.Se fino a qualche anno fa, Internet era più che altro unapromessa (o una minaccia a seconda dei punti di vista),adesso è vita quotidiana e la sua logica, quella final-mente chiara della “grande conversazione”, lungi dal-l’essere limitata alle interazioni virtuali nella scatola delpersonal computer, pervade ogni aspetto della nostrasocialità. I flashmob sono il momento dell’orgoglio del-la minoranza in rapidissima espansione che sta portan-do avanti questo cambiamento da sé, utilizzandoInternet per “stare al mondo”, per socializzare, lavora-re, organizzare il proprio tempo, innamorarsi, viaggia-re, informarsi, in una parola “interagire” con gli altrifuori e dentro la rete. I mobbers, cancellando ogni fine,ogni proposito dalle loro performance, ci costringono ariflettere proprio su questo, orientano il nostro sguardoverso il “loro modo”, ci dicono che, al giorno d’oggi, èpossibile organizzare una cretinata-in-sincrono in piaz-za, ci dicono che le relazioni strutturate nel “mondo vir-tuale” possono far breccia in quello “reale”, ci dimo-strano coi fatti che la stessa differenza fra reale e vir-tuale è di comodo, ci dicono che è possibile manifestar-si dal nulla e scomparire nel nulla dopo avere colpito, altempo di Internet. Sdoganano tutto sommato ciò che iterroristi di Al Qaida avevano già capito 10 anni fa enello stesso tempo ci invitano a prendere atto di que-sto cambiamento, mostrandosi, ostentando la lorodiversità e contemporaneamente indicandola come aportata di mano.

COSTUME

FLASH MOB, lo scherzo di massa

di FRANCESCO MANGIAPANE

Un evento tra happening e nonsense, tra tecnologia e trasgressione: un dire “io sono” di una forza sociale nuova

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O ventunenne palermitana, quando dieci anni faero io ad avere ventun’anni pensavo che tu, bambinadi allora, mi avresti preso in giro oggi. I miei genitoriprendevano in giro i “matusa” e io inorridivo sentendoi ragazzi degli anni ’80 dire “torsolo di cattiva effigie”(era una battuta del tempo, ndr) invece di “trunzo dimalafiura”. Eppure è così, si cresce, i sociologi ci chia-mavano generazione X perché eravamo un po’ indefi-niti e poi siete arrivati voi, che siccome eravate ancoraindefiniti siete stati etichettati con la Y, la Y della vostragenerazione, quella prima della net generation. Miaspettavo che ridessi di me, dei miei Daft Punk e deimiei cartoni giapponesi. Invece, ironia della sorte, ioguardo te e sorrido delle tue manie e dei tuoi compor-tamenti. Ti abbiamo scritto anche una canzone che èdiventata un fenomeno virale sulla Rete e si chiama“Palermo is burning”, quella che si scarica da Rosalio(www.rosalio.it). Tu hai quattro cellulari ma spesso nonsei raggiungibile perché “li hai lasciati nell’altra stan-za”, riempi i Moleskine che furono scrigno dei pensierie degli schizzi di Hemingway, Chatwin e Van Gogh di“TVUMDB” e “ke” con la kappa mentre segui le lezioniall’Università nella facoltà che ha voluto papà o colle-zioni crediti in corsi di laurea improbabili con nomitronchi tipo Dams oppure Stams. I tuoi begli occhi chedovresti mostrare li nascondi bene dietro occhiali dasole giganti che non togli mai e che ti fanno somiglia-re a una drosophila, però il tuo perizoma invisibile è

ben in vista fuori dai jeans a vita bassa d’ordinanza,targati Rich. Impazzisci per musica a cui non sai attri-buire un genere e per un gattino scimunito di nomeHello Kitty che attacchi ovunque, soprattutto sul tuomotorino a ruote alte. Ti ho visto alla Cuba con la col-lana di perle di mamma mentre bevevi vodka e RedBull e mi hai detto che di politica non ti interessi per-ché sei atea, però ti lamenti se tutto va male. Pensi chei ragazzi della tua età siano immaturi e ti butti inimprobabili storie con professionisti furbastri a cuiall’apice della passione dichiari: «Te la do perchécomunque ho i miei valori». Eppure il principe azzurrocontinui ad aspettarlo. Vorresti trascinarmi al cinema avedere Scamarcio e dici di odiare la tv e “Uomini e don-ne”. Io ti credevo. Anche se avevo visto lo sfondo diGlauco sul cellulare; anche se alle 14.45 sparivi dallacircolazione. Poi ti è scappato l’inequivocabile: «Ma iltronista ha scelto o no?». E ancora ti entusiasmi quan-do pensi a un viaggio “pauroso” che ti porterà in unametà “particolare”, magari a Ios in Croazia dove ti pal-peranno in discoteca e il mare è più blu (?) di Mondello,oppure al mitico Erasmus spagnolo dove davvero rim-piangerai la tua Palermo, i bacini di mamma e i soldinidi papà. O ventunenne, lavora su te stessa. La vanità èqualcosa di meraviglioso, soprattutto a ventun’anni;però spesso in te io vedo soltanto quella. Palermo cre-scerà come te e se diventerai una donna intelligente,oltre che bella, anche Palermo lo sarà.

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PALERMO IS BURNINGdi TONY SIINO

Da Milano a Palermo il fenomeno radiofonico che parodizza le ventunenni “fighette” palermitane

COSTUME

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La prima volta che incontrai don Luigi Ciotti funel 2001, in uno di quei campeggi che le giova-

nili di partito organizzano d’estate. Dovrebbero esse-re dei momenti di formazione politica, ma alla finel’arsura e il mare hanno la meglio e ai workshop eseminari vari è difficile trovare più di una decina dipersone. Per questo rimasi stupito quando all’incontrocon don Ciotti vidi la sala gremita di circa duecentoragazzi provenienti da ogni angolo d’Italia. Non tro-vando posto a sedere, fui costretto a starmene in pie-di in fondo alla sala, ma un fastidioso brusio disturba-va l’ascolto. Don Ciotti, che aveva cominciato a parla-re da poco, interruppe il discorso, per trenta intermi-nabili secondi stette in silenzio e con uno sguardosevero e corrucciato passò in rassegna i presenti, fin-ché il brusìo svanì. Da quel momento e per un’ora difila, non si sentì altro che la sua voce e il ronzio dellezanzare. Questo è don Ciotti. Se ti aspetti d’incontrareun filantropo pacioso e conciliante, potresti rimaneredeluso. A lui non interessanogli applausi, la bonaria empa-tia del pubblico. Non fa nullaaffinché la massa lo segua, mafa di tutto perché i singoli tro-vino nelle sue parole – maancor più nei suoi «fatti» - lostimolo per ragionare, perconoscere e per agire.«Occorre conoscere per capire– è solito ripetere - Bisogna capire per cambiare. Ma ènecessario sapere che il cambiamento è un processo,un cammino spesso non lineare in cui tocca avventu-rarsi senza garanzie sui punti di approdo e sui tempidi percorrenza». Un cammino che don Ciotti ha comin-ciato ad intraprendere già prima di diventare prete, daquando non ancora maggiorenne trascorreva le nottisui treni della stazione Porta Nuova, a Torino, per aiu-tare i giovani sbandati del capoluogo piemontese. «Laspinta verso gli altri è un qualcosa che proviene dalnostro interno e che ci invoglia a metterci in gioco»,dice. E lui di mettersi in gioco non sembra stancarsimai, spinto com’è dalla tenacia e dall’ostinazione tipi-che dei montanari delle Dolomiti, dove è nato e cre-sciuto. Prima dà vita al «Gruppo Abele», organizzazio-ne che lotta contro la droga e la prostituzione. Nell’85presiede la Lega per la lotta all’Aids. Nel 1995 fondaLibera, associazione grazie alla quale è riuscito ademancipare il tema della legalità dallo spazio retoricoe fisico in cui per anni è stato relegato, il Mezzogiorno,come dimostrano le oltre mille sedi sparse in giro per

l’Italia. «Da Corleone ad Aosta, da Locri a Trieste, ilproblema della legalità coinvolge tutti i cittadini»,spiega don Ciotti, per il quale la lotta alla mafia vaaffrontata a partire proprio dai luoghi in cui si decido-no le sorti del Paese, ossia nei Palazzi del potere: «Lalegalità significa rispetto delle regole, da parte di tut-ti, anche dei potenti che hanno schiere di avvocatipronte a difenderli quando le infrangono. Chi subiscecondanne deve restare fuori, non può nascondersidietro ai banchi del Parlamento. Invece troviamo qual-cuno in commissione Giustizia e persino in commissio-ne Antimafia. Negli ultimi anni la criminalità organiz-zata ha ucciso 2500 persone. Com’è possibile, se tuttidicono di voler combattere le mafie, che esse conti-nuino a prosperare?». Non ha paura di dire ciò chepensa, don Ciotti. Non ha timori reverenziali, perchésa che la morale predicata è, nel suo caso, strettamen-te legata all’etica quotidiana. Quell’etica che ritrovia-mo nelle carovane antimafia o nelle «48ore per la

legalità», ma soprattutto nellecooperative che ogni giorno daBagheria a Monreale, daCastelvetrano a Gioia Tauro tra-sformano silenziosamente ilduro lavoro dei campi in lottaalla mafia. E questo non soloperché operano sui terreni con-fiscati a boss del calibro diProvenzano, Riina, Matteo

Messina Denaro e Piromalli (tanto per citarne alcuni),ma in primis perché tali cooperative sono composteda giovani e ai giovani danno lavoro. «Il lavoro comediritto e non come favore», spiega don Ciotti.Applicando i metodi dell’agricoltura biologica, le coo-perative producono pasta, olio, vino, salsa. Tanta fati-ca unita ad una buona dose di coraggio, dal momen-to che non sono rari episodi come quelli occorsi allacooperativa Valle del Marro di Gioia Tauro, che recen-temente ha subito due attentati intimidatori da partedella ‘ndragheta locale. «E’ in atto una controffensivada parte delle organizzazioni mafiose, evidentementepreoccupate dai risultati che si stanno ottenendo neicampi della legalità. Non ci faremo intimidire», avver-te don Ciotti. E aggiunge: «In Parlamento c’è un dise-gno di legge che prevede la possibilità di revoca sulbene confiscato da parte di chiunque abbia un inte-resse giuridico. Il rischio è di vanificare, in nome di unmalinteso garantismo, il lavoro di chi è impegnato nel-la difficilissima opera di individuazione e riutilizzosociale dei beni mafiosi».

SOCIETA’

DON LUIGI CIOTTIun sacerdote contro le mafie

di DARIO PRESTIGIACOMO

Se ti aspetti d’incontrare un filantropo pacioso e conciliantepotresti rimanere deluso. A lui non interessano gli applausi

e la bonaria empatia del pubblico

«Negli ultimi anni la criminalità organizzata ha

ucciso 2500 persone. Com’è possibile, se tutti

dicono di voler combattere le mafie, che esse continuino

a prosperare?»

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ne si intuoista, lo zafferano, la paprika e si abbandonail tutto al suo destino, naturalmente a fiamma modera-ta e col coperchio. Nel frattempo il tipo, non vedendo-vi ricettiva, ha abbandonato il campo e si è spostato inquello vicino, quello della ragazza accanto a voi. Vigirate e l’immagine della canottiera con la striscia ver-ticale scura vi nausea. Meglio guardare avanti, tiposcecchi con la carota e ritornare alle immagini preliba-te di un alimento che ha origini antichissime. Sembrache Mosè e Giacobbe, con le loro peregrinazioni, lo dif-fusero nell’Africa settentrionale e di lì, attraversoscambi commerciali, venne esportato in tutto ilMediterraneo. La grandezza deigrani varia, ma la materia è sem-pre quella: semola di farina, lavo-rata con acqua e cotta al vapore.Anche i condimenti cambiano aseconda dei paesi, del clima e sono arricchiti da spezieo da verdure tipiche del luogo: nella Francia meridiona-le e in Tunisia il cous cous viene accompagnato da unbrodo di pesce, arricchito di verdure e ceci; in Maroccoe Algeria si preferisce un sugo di carne ovina con legu-mi, verdure e spezie che favoriscono la conservazionee aiutano la digestione (ogni ingrediente di una ricettaha motivi storici e fisiologici, che spesso vengono igno-rati). Nella stessa Italia la ricetta varia da regione aregione. In Sardegna viene accompagnato da un tritodi carne ovina cotta in umido con piselli e cavolfiori, a

Livorno con un sugo fatto da polpettine di carne, cavo-lo e pomodoro e si potrebbe continuare. Addirittura inSicilia varia da provincia a provincia. Non dimenticheròmai il cous cous con i pistacchi, che ho mangiato adAgrigento. La ricetta è nata grazie alle manine dellesuore dell’Ordine Cistercense del Monastero di SantoSpirito, cosa confermata anche da alcuni studiosi.Quello che ho gustato io era fatto da una signora, chegestiva una pensione, un po’ andatella cu cirivieddu,cucinava divinamente. In realtà però preferisco quellosalato, mi da più soddisfazione! Eravamo rimasti allafiamma moderata. Mentre la carne cuoce, è opportuno

preparare il cous cous, utilizzandoquello precotto, se non volete sta-re sedici ore a ‘ncocciare. Seguitele istruzioni, ammorbidendolo conun po’ di brodo della carne, tanto

per darci u culure. Lasciatelo riposare e, quando è fred-do, scocciatelo con una forchetta e servitelo inumiden-dolo con il brodo. Godetevi la manciata, allontanandol’incubo di ciò che avete vissuto. La prossima volta cheincontrate questi esteti raffinati pigghiate ‘n capo eraccontategli le vostre leccornie, specificando aneddo-ti storici, tipo l’origine del cous cous, descrivete passopasso la lentezza della preparazione, vedrete che queifanciulli egocentrici, spesso dotati di un Io ipertrofico,voleranno via appena sentono odore di confronto. Voisarete salvi!

L’ABBINAMENTO IL VINO

di GIORGIO AQUILINO

La varietà degli ingredienti utilizzati svela in un attimo la naturadella nostra pietanza: un alimento ricco e complesso, come la suastoria e le antiche origini orientali. Dopo il primo assaggio, emergecon tutta la sua prorompenza una netta e decisa aromaticità, la

stessa che avvolge il turista dinanzi alla semplice vista dei suk, i tipici mercatiarabi. Questa caratteristica impone di scegliere un vino persistente e dotato diun buon corredo aromatico. Ma non è tutto! Proseguendo l’analisi sensoriale delpiatto rileviamo infatti la tendenza dolce delle carni che, aggiunta alla inevitabi-le succulenza, suggerisce un vino dotato di freschezza gustativa e caldo di alcol,sì da asciugare le componenti liquide che la semola non riesce a trattenere. Allaluce di queste osservazioni, i vini prodotti in Marocco, Algeria e Tunisia, nono-stante non vengano consumati dalla quasi totalità della popolazione in nome deltabù islamico che vieta il consumo di alcool, sarebbero perfetti. Dal momentoche questi ottimi vini sono difficilmente reperibili in Italia, consiglio di orientarela scelta su un bianco maturo ottenuto dal vitigno autoctono grillo. Le sue carat-teristiche sembrano poter bilanciare con la giusta armonia il nostro cous cous.

CIBO

Non sono una maniaca della palestra e detesto gliuomini e le donne vunci (gonfi) come scatolette avaria-te, spelati e con le vene grandi quanto oleodotti, ca sipappariano come fossero in passerella. Piacciono, for-se, perché sono triangolari e incarnano figure geome-triche in movimento. Parlano di aminoacidi, di protei-ne, di pollo e bianco d’uovo. Poi ci sono quelli che fraun muscolo e l’altro hanno gli ormoni che fanno la ola.Si aggirano fra i tappeti, cercando approcci improbabi-li, dimentichi del proprio stato. La scena è raccapric-ciante: tu bloccata sul tappeto, che cerchi di distrartidalla fatica, determinata, nonostante i 35° esterni e i37° interni, a evitare l’accriccamento totale; un soloventilatore barcollante che inganna con il rumore - ititolari della palestra sono attenti alla salute degli iscrit-ti e mai vorrebbero che ‘cci venisse un colpo, ‘unsam’a ddio avissero a paari quarcheccosa; la radio cheaffligge con canzonette, che accuttuliano il cervello equesti idranti umani sprizzanti di sudore, felici dispruzzarlo e di dimostrare quanto faticano, che rac-contano le gesta culinarie e incensano le proprie capa-cità di chef. Diciamo che sarebbe il caso di eliminarmi orenderli inoffensivi per una manciata di ore, giusto iltempo di finire l’allenamento. Ti narrano della pasta

con gli scampi e dell’insalata capricciosa, che cu cavu-ru ri muoriri è l’ideale!, ti invitano - scherzando, perchéhanno una coda quanto quella di un cavallo - a man-giare qualcosina e nonostante tu faccia finta di nulla epoi li preghi di smetterla, loro continuano. Te lo devo-no fare capire bene che sono grandi chef! Invece tusogni un bel cous cous di carne, aromatico e succu-lento e certo più leggero di maionese e salumi vari. Tiastrai totalmente mentre quello continua a parlare, losguardo si perde nel vuoto e i cuscinetti degli attrezzisi trasformano in tocchi di carne. Fai un breve riepilo-go e pensi che tutto sommato non è così difficile dapreparare. Un po’ lunga la cottura della carne, ma perun amore mille pene. Bisogna ‘ngranciare la cipollatagliata grossolanamente e l’aglio schiacciato nell’olioextravergine, aggiungere i tocchi di carne (montone oagnello o semplicemente manzo), farli rosolare, conl’aggiunta di qualche rametto di rosmarino, una fogliadi alloro, sale e pepe e sfumarli con un bellu bicchieredi vino rosso. Poi unire due, tre pomodori per 600grammi di carne, tre patate grosse a tocchetti, una bel-la manciata di ceci, già lessati, una zucchina genovese,due carote, una costa di sedano, e un bel peperoncinolungo. Si aggiungono l’acqua tiepida, ca si ‘nno la car-

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IL COUS COUScome liberazione dalle tentazioniLa dannazione della cucina, la salvezza dell’anima: il cous cous di carne, aromatico e succulento di LETIZIA MIRABILE

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«E’ un po’ lunga la cotturadella carne, ma per un

amore mille pene»

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È il primo giorno che vi concedete a mare. Come tut-ti i medici raccomandano, arrivate sullo scoglio roventealle undici e mezzo. Per fortuna avete trovato un postoriparato, lontano dai vari acquitrini pieni di alghe verdo-gnole. L’unico inconveniente è che lo scoglio è appunti-to e se non state attenti potrebbe crearvi altri orifizi.Sarete una nuova vedetta lombarda!Vi sistemate alla meno peggio e cer-cate di rilassarvi. Per prevenire lescottature è necessaria la crema conuna protezione alta. Voi l’avete. Acasa. Sarete una vedetta lombardaabbronzata. Decidete di bagnarvi lecorna, per non fare friggere il cervel-lo. Una bella nuotata rigenerante èquello che ci vuole. Riemersi, udite ivicini, spaparanzati alla facciazzavostra, che hanno acceso la radio.Che gioia! Prendete il libro e, con fareimperioso, lo sventolate, nella speranza di fare capireche potrebbe disturbarvi il frastuono. Ma quelli riman-gono impassibili. Alle dodici e un quarto i galantuominie le gentili consorti vanno via, hannu a priparari.Finalmente la pace. Vi spalmate sulla piattaforma peromogeneizzare l’ustione. Che sia di un unico colore! Alletredici e trenta alienati, capite che è meglio andare via.I vostri sensi cominciano a tradirvi. Arrivate al motore ela sella ha raggiunto i 50° Fahrenheit. Chiaramente ve ne

accorgete dopo essere saliti. Velocità di crociera 20Km/h. Di più sarebbe pericoloso. Il casco è una specie diferro da parruccheria. Giunti a casa con un pirtuso allostomaco, trascinate le stanche membra. Dopo una belladoccia, rinfrancati, vi sedete a tavola e sentite il peso diuno sguardo raggiante. Che magnifica sorpresa!

Pasta con i tenerumi! «Li ho trovati! Sono freschissi-mi!». Meno male. Voi speravate in un bel pesce alla gri-glia, una mega insalata, e invece no! Minestra.Buonissima per carità, ma inconsistente e soprattuttotroppo calda. «L’ho fatta come dici tu, con gli spaghet-toni, così non si scuociono e il caciocavallo. Sei conten-to?». A fine pasto, di nuovo sudati, sorridete e dite«Ottima, veramente, ma la prossima volta vieni con mea mare, prendiamo qualcosa di pronto!».

INGREDIENTI PER 4 PERSONE:2 kg di tenerumi, 500 gr di spaghettoni spezzati, mezza scatola di polpa dipomodoro, dadini di caciocavallo q.b., sale, pepe e olio secondo gusto.

PREPARAZIONELessare i tenerumi e una zucchina lunga tagliata a tocchetti in acqua bol-lente. Appena pronti calare la pasta e aggiustare di sale. A cottura ultima-ta unire il picchio pacchio, preparato con un soffritto di aglio e cipolla,insaporire con i dadini di caciocavallo stagionato, una spolverata di pepe eun filo d’olio extravergine. Servire caldo.

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MANGIARE LE TENEREZZE, ovvero: ‘u stomacu vacante

di LETIZIA MIRABILE

«Una minestra buonissima per carità, ma inconsistente e soprattutto troppo calda»

CIBO

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Quando la Sicilia divenne un emirato e Palermo fueletta capitale, la Città si espanse, fuori le mura delCàssaro (al Qasr, il castello), sul progressivo interra-mento dei fiumi Kemonia e Papireto. Poiché anchequesta nuova zona ben presto si dimostrò insufficien-te per far fronte alle esigenze di nuove costruzioni, nel-l’anno 937, si rese necessario creare una nuova citta-della, anch’essa fortificata come il Cassaro, nella qualespostare i numerosi uffici amministrativi della Palermoaraba e la stessa residenza del governatore della Sicilia.Tra la città e il mare, in un’area di circa otto ettari, il cuiperimetro era costituito dalle attuali via dello Spasimo,vicolo dei Bianchi, via Merlo e via Castrofilippo, toccan-te a nord piazza Marina, a quel tempo coperta dalmare, venne a formarsi, tra il 937 e il 938, il quartieredella Kalsa (al Halisah, l’eletta). Nelle mura di cinta siaprivano quattro porte: una verso la città detta delleBandiere, due verso la cala (porta dell’Arsenale e portaKutamah) e la quarta chiamata delle Vittorie, che si tro-vava nel sito dove oggi è l’oratorio dei Bianchi. Proprioda questa ultima porta, oggi Porta dei Greci, la tradizio-ne vuole che nel 1072 sia entrato vittorioso, avendosconfitto le armate saracene, Roberto il Guiscardo allatesta dell’esercito normanno. La bella e immensa città

di Palermo - Balarm in arabo,- tramandata dai cronisti deltempo, era quella di una pre-stigiosa città orientale, ricca dimoschee, di sontuosi palazzi edi ricchi mercati affollati e pie-ni di merci preziose, e la Kalsaera il suo fiore all’occhiello.L’antica cittadella degli Emiri,nel tempo, non più isolata damura, si andò saldando, conun sistema razionale di vie,alla zona dei mercati deiLattarini e della Fieravecchia(piazza Rivoluzione). Nel XVIIsecolo, prima ancora che lacittà venisse divisa nei quattromandamenti di Palazzo Reale,Monte di Pietà, Tribunali eCastellammare, la Kalsa, insieme all’Albergheria,Seralcadio e Amalfitania (Loggia), costituiva uno deiquattro più antichi quartieri della città di Palermo.All’interno del quartiere, oggi, possiamo trovare nume-rosi monumenti e prestigiose architetture; tra i più rap-presentativi: le Chiese della Magione (nella foto a sini-stra), della Gancia e di San Francesco d’Assisi e sontuo-si palazzi come Palazzo Abatellis, Ajutamicristo e Mirto.Oltre alle bellezze artistiche la Kalsa si distingue ancheper il tesoro etno/antropologico che si racchiude entroil suo perimetro e che raramente è conosciuto nellasua interezza. La nostra nota, in realtà, non vuole darenotizie storiche e artistiche su questo antico quartieredi Palermo, che si possono trovare, tra l’altro, in unaqualsiasi guida turistica, si propone, invece, di accen-dere nel lettore la curiosità, ideale leva a smuovercidalla nostra naturale e iniziale staticità, alla ricerca delnuovo, del non visto che certamente troveremo inquesta parte della nostra Città. Il quartiere in parola èun rione popolare e proprio in questo sta la sua prezio-sità essenziale poichè si potrà sentire il cuore palpitan-te della vera Palermo. Qui i gesti e le manifestazioni

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dell’uomo sono privi di inutili fronzoli e di studiati for-malismi, qui la gente è così come appare, al naturale.L’ospitalità, poi, nelle sue variegate forme è di casa: sechiedi avrai più di quello che avresti voluto e anche senon chiedi, interpretando un tuo muto appello, contra-riamente alla solitudine e alla mancanza di altruismo edi socialità alle quali, ormai, ci siamo, purtroppo, abi-tuati, oltremodo sorpreso e sospettoso, troverai sem-pre una mano tesa alla quale aggrapparti.Camminando per le vie della Kalsa,ti accorgi di vivere un’altra dimen-sione, è come se il tempo fossesospeso su una indefinita spaziali-tà. Il lavoro di parecchie bottegheartigiane, svolgendosi in strada che diviene, così, unlaboratorio totale a cielo aperto, attira lo sguardocurioso del turista o del passante emozionalmente pre-so da tale inconsueta vista. Il dinamico etno museo chele strade di questo particolare quartiere, mostrano atutti, in maniera del tutto semplice e naturale, fa sì cheagli occhi e alle orecchie venga fornita tutta una gam-ma infinita di suoni e viste, impareggiabile caleidosco-

pio di una semplicità di vita alla quale non siamo piùabituati. Frotte vocianti di ragazzi stanno in strada o inpiccoli slarghi, a trattenersi in antichi giochi chepotrebbero essere oggetto di ricerche per studiosi ditradizioni; venditori ambulanti animano con le lorocaratteristiche abbanniate (grida) i vari vicoli; comariche si intrattengono, davanti ai loro usci a raccontarsile novità del giorno od a tessere chiacchere e chiacche-re su un qualche fattaccio accaduto nel vicinato; pas-

sando per viuzze, prima ancora diarrivarci, sentire il prepotenteodore del vino di una taverna eintravedere, poi, nella penombradell’interno, tavoli ai quali sono

seduti giocatori di tressette, spesse volte rissosi, con inuna mano le carte e nell’altra l’immancabile bicchieredi vino. Vagando per la Kalsa, sempre che l’animo sipredisponga all’accettazione più completa di un diver-so modo di vivere e sempre che la mente sia sgombrada pregiudizi di ogni sorta, sembra immergersi in unlavacro di semplicità esistenziale che il progresso,regresso, ha allontanato, già da tempo, da noi.

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Girovagando per la KALSAQuella che un tempo fu l’antica cittadella degliEmiri, oggi è un rione popolare dove si puòsentire il cuore palpitante della vera Palermodi GAETANO DI CHIARA

Un tempo la Kalsa era il fiore all’occhiello dell’antica Balarm

CIBO

il chiostro della Magione

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