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N N E E W W S S Febbraio 2016 opo aver costituito ufficialmente il gruppo di progetto attraverso un atto dispositivo del Direttore Responsabile, il Distretto 63 Cava /Costa d’Amalfi ha avviato un processo di Audit clinico-organizzativo del sistema distrettuale di Cure Domiciliari erogate a favore degli anziani ultrasessantacinquenni. Obiettivo dell’iniziativa è garantire il miglioramento della qualità dell’assistenza. “Attraverso l’Audit clinico, i professionisti sanitari effettueranno una valutazione sulle cartelle cliniche degli pazienti in modo da migliorare la qualità delle cure erogate - evidenzia il Dott. Pio Vecchione, Direttore Responsabile DSB 63. A distanza di quasi quattro anni dall'attivazione del nuovo sistema delle Cure Domiciliari e delle sue rimodulazioni fino ad oggi succedutesi – aggiunge il Dott. Vecchione - il Distretto 63 ritiene utile e necessario, anche sotto il profilo metodologico, avviare un processo di autovalutazione di quanto finora realizzato”. Per attuare l’Audit clinico-organizzativo è stato predisposto un piano di realizzazione, che individua attori e tempi di implementazione. La metodologia dell'Audit rappresenta un valido strumento per rilevare livelli di adesione da parte del personale ai modelli organizzativi clinico assistenziali adottati, rilevare livelli di integrazione multi professionale ed interdisciplinare di fatto realizzati, identificare punti di forza e di debolezza e definire azioni di intervento/miglioramento da intraprendere sui diversi temi organizzativi che i professionisti del Distretto 63 intendono approfondire ai fini di migliorare le performance dell'organizzazione. Effettuando l’Audit clinico, il Distretto 63 intende: - sostenere processi di autovalutazione atti a migliorare gradualmente l’appropriatez- za del comportamento dei professionisti nella cura ed assistenza dei pazienti, attraverso il costante autocontrollo e l’eventuale modifica dei “modi di fare” assistenziali; - valutare l’adeguatezza e l’efficacia della attività clinico-assistenziale rispet- to a linee guida, regole, norme e comportamenti su cui realizzare il consenso dei cittadini, dell’organizzazione e dei professionisti. “Il Distretto 63 della ASL Salerno imbocca con decisione una strada che porta verso un nuovo modo di lavorare - sottolinea il Dott. Vecchione - in grado di produrre contemporaneamente un innalzamento del livello di qualità delle strutture sanitarie distrettuali e un aumento della soddisfazione dei cittadini”. D AVVIATO AL DISTRETTO 63 UN AUDIT CLINICO DELLE CURE DOMICILIARI Portare a casa di chi ha bisogno ciò che serve nei tempi e modi giusti, proteggendo la scelta della libertà e non solo la libertà di scelta

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NNEEWWSS Febbraio 2016

opo aver costituito ufficialmente il gruppo di progetto

attraverso un atto dispositivo del Direttore

Responsabile, il Distretto 63 Cava /Costa d’Amalfi ha

avviato un processo di Audit clinico-organizzativo del sistema

distrettuale di Cure Domiciliari erogate a favore degli anziani

ultrasessantacinquenni. Obiettivo dell’iniziativa è garantire il

miglioramento della qualità dell’assistenza. “Attraverso

l’Audit clinico, i professionisti sanitari effettueranno una

valutazione sulle cartelle cliniche degli pazienti in modo da

migliorare la qualità delle

cure erogate - evidenzia il

Dott. Pio Vecchione,

Direttore Responsabile DSB

63. A distanza di quasi

quattro anni dall'attivazione

del nuovo sistema delle

Cure Domiciliari e delle sue

rimodulazioni fino ad oggi

succedutesi – aggiunge il

Dott. Vecchione - il

Distretto 63 ritiene utile e

necessario, anche sotto il

profilo metodologico,

avviare un processo di

autovalutazione di quanto finora realizzato”.

Per attuare l’Audit clinico-organizzativo è stato

predisposto un piano di realizzazione, che individua attori e

tempi di implementazione. La metodologia dell'Audit

rappresenta un valido strumento per rilevare livelli di

adesione da parte del personale ai modelli organizzativi

clinico assistenziali adottati, rilevare livelli di integrazione

multi professionale ed interdisciplinare di fatto realizzati,

identificare punti di forza e di debolezza e definire azioni di

intervento/miglioramento da intraprendere sui diversi temi

organizzativi che i professionisti del Distretto 63 intendono

approfondire ai fini di migliorare le performance

dell'organizzazione.

Effettuando l’Audit clinico, il Distretto 63 intende:

- sostenere processi di autovalutazione atti a migliorare

gradualmente l’appropriatez-

za del comportamento dei

professionisti nella cura ed

assistenza dei pazienti,

attraverso il costante

autocontrollo e l’eventuale

modifica dei “modi di fare”

assistenziali;

- valutare l’adeguatezza e

l’efficacia della attività

clinico-assistenziale rispet-

to a linee guida, regole,

norme e comportamenti su

cui realizzare il consenso

dei cittadini,

dell’organizzazione e dei professionisti.

“Il Distretto 63 della ASL Salerno imbocca con

decisione una strada che porta verso un nuovo modo di

lavorare - sottolinea il Dott. Vecchione - in grado di produrre

contemporaneamente un innalzamento del livello di qualità

delle strutture sanitarie distrettuali e un aumento della

soddisfazione dei cittadini”.

D

AVVIATO AL DISTRETTO 63 UN AUDIT CLINICO DELLE CURE DOMICILIARI

Portare a casa di chi ha bisogno ciò che serve nei tempi e modi giusti, proteggendo la scelta della libertà e non solo la libertà di scelta

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La logica dell’Audit clinico-organizzativo

Il termine “medical Audit” ed il suo metodo vennero

introdotti dall’epidemiologo Paul Anthony Lembcke, il quale

nel 1956 pubblicò su JAMA l’articolo “Medical Auditing by

Scientific Methods” e di cui venne pubblicato postumo,

“Evolution of the Medical Audit”.

Lembcke definì l’Audit medico “una valutazione

retrospettiva delle cure mediche attraverso la revisione delle

cartelle cliniche”. Nel 1989, nel documento “Working for

patients” elaborato dall’NHS (National Health Service), il

medical Audit viene riconosciuto, per la prima volta, come

parte dell’attività professionale medica e citato ufficialmente

tra i principali strumenti strategici, finalizzati a sostenere la

riforma sanitaria prevista nel Regno Unito. In tale documento

il medical Audit viene definito: “analisi sistematica della

qualità delle cure mediche, incluso le procedure utilizzate per

la diagnosi e il trattamento, l’uso delle risorse e gli outcome

del processo e la qualità di vita del paziente”.

Nel 1991, il termine evolve nella dizione, attualmente

utilizzata, di clinical Audit, così definito dal Department of

Health: “analisi sistematica della qualità delle cure erogate,

incluso le procedure utilizzate per la diagnosi e il

trattamento, l’uso delle risorse e gli outcome del processo e

la qualità di vita del paziente”. L’Audit clinico, quindi, assume

carattere multidisciplinare e diventa uno strumento per la

valutazione e l’assicurazione di qualità di tutto il processo

sanitario. Nel 1996, nel documento “Clinical Audit in NHS.

Using Clinical Audit in the NHS: A position statement” viene

riportata la seguente definizione:“attività condotta da clinici

finalizzata a migliorare la qualità e gli outcome

dell’assistenza attraverso una revisione tra pari strutturata,

per mezzo della quale i clinici esaminano la propria attività e

i risultati rispetto a standard espliciti e, se necessario, la

modificano".

La definizione più attuale di Audit clinico è contenuta nel

documento “Principles for best practice in clinical audit”,

pubblicato nel 2002 dal National Institute for Clinical

Excellence (NICE): “l’Audit clinico è un processo finalizzato a

migliorare le cure offerte al paziente ed i risultati ottenuti,

attraverso il confronto sistematico delle prestazioni erogate

con criteri espliciti, l’implementazione di cambiamenti a

livello individuale e di team e il successivo monitoraggio dei

fattori correttivi introdotti”. Il Ministero della Salute, nel

2006, ha definito l’Audit clinico come: “Metodologia di analisi

strutturata e sistematica per migliorare la qualità dei servizi

sanitari, applicata dai professionisti attraverso il confronto

sistematico con criteri espliciti dell’assistenza prestata, per

identificare scostamenti rispetto a standard conosciuti o di

best practice, attuare le opportunità di cambiamento

individuato ed il monitoraggio dell’impatto delle misure

correttive introdotte”.

Da queste definizioni, è opportuno

sottolineare che l’Audit si differenzia dalla

semplice raccolta di dati, la quale si limita

a confrontare la pratica clinica da quella

definita dagli standard; ciò costituisce

solo una parte del processo di audit che

si focalizza solitamente su pochi dati, li

confronta, ad esempio, con le

raccomandazioni di una linea guida di

buona qualità, cerca di capire quanto e

perché la pratica clinica si discosti da quelle

raccomandazioni, e prova a mettere in atto azioni di

miglioramento che almeno riducano quello scostamento.

L'Audit è una metodologia, strumento di autovalutazione

che si focalizza su specifici problemi clinico/assistenziali o

su aspetti della pratica corrente che vengono valutati in

termini di struttura, processo o esito. Ciò che lo connota è la

competenza clinico-assistenziale dei partecipanti, la

confidenzialità dei risultati e l’esplicito interesse al

miglioramento della qualità delle cure. La sua principale

caratteristica è quella di fondarsi sul confronto e la

misurazione delle pratiche professionali con standard di

riferimento. Tale concetto è sempre più accolto nel mondo

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sanitario; gli operatori sanitari infatti, richiedono più

frequentemente riferimenti precisi per fornire cure

appropriate; i pazienti, più e meglio informati, richiedono una

qualità dell’assistenza sempre più adeguata alle conoscenze

scientifiche.

L’Audit clinico è applicabile ad aree dell’assistenza per le

quali sia ipotizzabile sviluppare interventi di miglioramento;

ciò significa che non è ragionevole impegnarsi in un processo

di Audit allorché il divario tra la prassi esistente e quella

ottimale sia minimo o quando, pur avendo livelli di assistenza

sub-ottimali, le possibilità di introdurre cambiamenti siano

limitate o quando non siano

conosciuti i livelli ottimali di

assistenza. In ogni caso, prima di

intraprendere un Audit è necessario

esaminare attentamente la

situazione e assicurarsi che l’Audit

sia il metodo più appropriato per

trovare le soluzioni al problema

individuato.

La metodologia dell’Audit clinico

Metodologicamente l’Audit

clinico consta di un ciclo schematica-

mente articolato in quattro fasi: I.

Preparazione, II. Attuazione, III. Azioni di miglioramento,

IV. Valutazione dei risultati (NICE, 2002). È

opportuno sottolineare, prima della loro illustrazione, che la

scomposizione in fasi ha uno scopo puramente didattico, in

quanto il processo nella realtà si svolge senza soluzioni di

continuo.

La fase I, corrispondente alla preparazione o

pianificazione dell’Audit, prevede tre momenti fondamentali:

la scelta del tema, la costituzione del gruppo di lavoro e la

definizione dei criteri di comunicazione. Per quanto riguarda

la scelta del tema, essa può essere organizzata in base ad

aspetti come la struttura, le risorse, i processi e gli esiti, ma

resta comunque vincolata alla presenza di standard di

riferimento, di dati affidabili e accessibili e alla possibilità di

sviluppare interventi di miglioramento. Nella costituzione

del gruppo devono essere evitate relazioni di tipo gerarchico;

all’interno di esso vanno annoverati professionisti con ruoli

diversi, che avranno specifiche mansioni all’interno del team.

Figura fondamentale del gruppo è il team leader. Per ogni

progetto di Audit dovrà esserci un team leader che detterà i

cronoprogrammi e gli obiettivi da raggiungere. Nella

costituzione del gruppo dovrà essere presa in considerazione

la possibilità di coinvolgere pazienti o utenti dei servizi, in

quanto la loro esperienza è fondamentale per valutare la

qualità delle cure (accountability). La comunicazione è un

asse trasversale dell’Audit, necessaria in tutte le fasi; per

questo occorre stabilire modalità di comunicazione ad hoc

a seconda della fase e dei destinatari. È necessario quindi

che sia mantenuta sempre la stessa modalità di

comunicazione per tutta la durata dell’Audit.

La fase II prevede 7 differenti tempi: definizione degli

obiettivi, valutazione dell’esistente, la selezione dei

criteri, standard e indicatori, la raccolta dati, l’analisi e la

valutazione, la condivisione e la comunicazione dei risultati. Il

gruppo è chiamato a individuare degli obiettivi specifici in

base alle aree trattate. Utile allo scopo possono essere

forme verbali quali: Per migliorare? Per rafforzare?

Per cambiare? (NHS Excutive,1996). Una volta stabiliti gli

obiettivi, essi devono divenire il focus delle attività. La

valutazione dell’esistente è il momento basato sulla raccolta,

rispetto al tema scelto, delle prassi in uso, derivanti dalla

consuetudine organizzativa e da documentazione operativa

(protocolli, procedure, schede ecc.). Lo step corrispondente

alla selezione di criteri, standard e indicatori rappresenta il

fulcro del lavoro; infatti attraverso la loro selezione è

possibile misurare dove e come il processo di cura specifico

si discosta dalle pratiche in uso. Le fonti di riferimento dove

reperire criteri, standard e indicatori non hanno una vera e

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propria gerarchia, ma è opportuno estrapolarli seguendo

un approccio evidence-based. Generalmente si fa riferimento

a fonti normative (esempio: leggi, decreti, ordinanze,

ordinamenti ecc.), fonti professionali (esempio: linee guida,

raccomandazioni, consensus, studi specifici ecc.), fonti

metodologiche (esempio: documenti nazionali e internazionali

relativi ad Audit). La scelta dei criteri dovrebbe basarsi su

aspetti come la condivisione professionale, la pertinenza con

gli aspetti dell’assistenza studiati, la traducibilità degli stessi

in indicatori e la possibilità di essere misurati. Capitolo a

parte meriterebbero gli standard e gli indicatori. Uno

standard è “un livello di cura che deve essere raggiunto per

ogni criterio” e la scelta dovrebbe essere guidata da alcuni

principi quali: uno standard per ogni criterio, uno

standard realistico, uno standard condiviso.

Gli indicatori, rappresentando informazioni selezionate

che rendono misurabili i criteri, vengono utilizzati per

effettuare la sorveglianza e la valutazione,

consentendo quindi scelte e decisioni. Un buon indicatore

dovrebbe essere pertinente, rilevante, valido, riproducibile e

praticabile. Inoltre, un indicatore deve essere considerato

come un’informazione che consente una descrizione del

fenomeno e che permette una misurazione e

comparazione (esempio: in percentuale, tasso, media ecc.),

riconoscendo così il possibile divario tra prassi esistente e

best practice. La raccolta dati dovrebbe essere guidata da

alcuni principi fondamentali, come per esempio il rispetto

delle normative in materia di privacy. Bisogna scegliere per

prima cosa il campo di applicazione, definendo il numero di

servizi da coinvolgere (risultati specifici o trasversali), il tipo

di studio (sono possibili solo due tipi di studio nella prassi

dell’Audit clinico: quello prospettico che in media dura 6-8

settimane e quello retrospettivo che interessa 10-12

settimane), i criteri di inclusione e di esclusione,

delimitazione e dimensione del campione (essendo l’Audit

clinico una pratica con un tempo limitato, è fondamentale

creare un campione omogeneo), modalità di raccolta dati

(questionari, checklist, osservazione diretta ecc.). Dopo la

raccolta dati avviene l’analisi dei risultati, che di

norma dovrebbe essere eseguita nel minor tempo possibile,

per evitare che eventuali cambiamenti intercorsi

modifichino il contesto in cui ha avuto luogo l’Audit. L’analisi,

qualunque sia il metodo utilizzato, mira a stabilire in

percentuale se, per ciascun criterio stabilito, gli

standard sono rispettati (% di compliance). I dati devono

essere presentati in forma quantitativa, in modo da poter

operare l’identificazione e l’analisi dei punti di forza e di

debolezza. Nell’analisi dei punti di forza, il gruppo di lavoro

confronta i risultati ottenuti dalla valutazione con i

riferimenti, verificando se le pratiche che sono state oggetto

di Audit rispondono agli standard prefissati e agli

obiettivi stabiliti. Non è sempre possibile né è sempre

necessario ottenere un punteggio del 100%. L’analisi dei

punti di debolezza permette di chiedersi perché e come le

prassi in uso siano tanto lontane dagli standard e dagli

obiettivi prefissati. Questa fase permette di operare al

contempo anche l’analisi delle cause degli scostamenti, altro

aspetto importante dell’Audit clinico. Attraverso questa

analisi è possibile gerarchizzare le criticità emerse, in modo

da poter indirizzare gli sforzi e le raccomandazioni di

miglioramento nella direzione risultata più deficitaria

(priorità). La condivisione e la comunicazione dei risultati

sono tempi distinti in cui rispettivamente avviene la

trasmissione dei risultati a ogni servizio coinvolto, in

modo che i professionisti possano, dove serve, completare

l’analisi dei problemi. Solo dopo i risultati dell’Audit clinico

vengono trasmessi all’esterno dei servizi coinvolti. La forma

universalmente accettata è quella del rapporto scritto, in cui

dovrebbero essere evidenziati il metodo utilizzato, i risultati,

la griglia per la valutazione e il protocollo dell’Audit, le aree di

miglioramento e le raccomandazioni.

La fase III di valutazione conta due sotto

processi: definire il piano di azione e guidare e supportare il

cambiamento (Wienand, 2009). Gli ambiti di miglioramento e

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le raccomandazioni emerse dall’analisi devono essere

declinati in un piano di azione. Per la riuscita del piano è

necessario puntualizzare le strategie per la realizzazione del

programma di miglioramento. Per prima cosa bisogna

operare un’analisi del contesto in cui il piano deve essere

calato, poi è necessario definire gli obiettivi in termini di

miglioramento, individuare le azioni da attuare (persone,

responsabili, risorse, tempi ecc.) e infine individuare gli

strumenti necessari per attuare il piano d’azione. Potrebbe

essere di aiuto redigere un documento scritto nel quale

viene proposto il piano di implementazione in cui si dovrà

evidenziare schematicamente: cosa deve essere migliorato,

gli obiettivi di miglioramento, chi si

avvantaggerà delle azioni di miglioramento, chi

sono i responsabili delle implementazioni,

le modalità e i tempi di implementazione e

di monitoraggio. Nota a parte merita il discorso sul-

l’apertura al cambiamento. Un cambiamento

all’interno di un contesto professionale potrebbe

essere recepito come una minaccia, una critica

all’operato attuale, un aumento del carico di

lavoro. È fondamentale, per non inficiare

l’intero percorso di Audit, che il cambiamento

sia accettato da tutti i professionisti, secondo una

strategia multilivello. Coinvolgere tutti i

professionisti, avere un atteggiamento positivo,

stabilire i benefici individuali e collettivi, offrire supporto

tecnico per i servizi risultati carenti potrebbero essere

strategie per la guida al cambiamento.

La fase IV di valutazione dei risultati conta due passi: il

re-Audit e sostenere il cambiamento. Durante questa fase

occorre individuare il metodo più appropriato per la

valutazione, quale lo svolgimento di un secondo audit (re-

Audit), oppure la valutazione con l’utilizzo di indicatori. Inoltre

è necessario che il cambiamento si inserisca in un

processo di miglioramento continuo della qualità, e pertanto

esso va sostenuto e mantenuto nel tempo. Il re-Audit è

necessario se l’Audit ha evidenziato numerosi e

significativi scostamenti dagli standard. Esso permetterà di

valutare l’efficacia delle azioni intraprese, di mostrare le

differenze tra il primo e il secondo Audit e di valorizzare i

progressi realizzati. Oppure, quando l’Audit ha evidenziato

un divario significativo solo su alcuni criteri, il re-Audit si

dovrà focalizzare solo sui criteri risultati fortemente carenti,

e le azioni da intraprendere dovranno essere immediate,

laddove queste comportino un rischio reale per il paziente.

L’utilizzo di indicatori viene contemplato dal gruppo di lavoro,

qualora non sia necessario un re-Audit.

L’Audit clinico è universalmente riconosciuto come uno

strumento di Clinical Governance e il suo utilizzo dovrebbe

essere implementato in tutti gli ambienti sanitari, in quanto è

uno strumento utilizzato per valutare il grado di aderenza

della pratica clinica alle migliori evidenze scientifiche. Questo

sottolinea l’importanza dell’Audit clinico come strumento di

miglioramento della qualità dei servizi e delle cure offerte

(Scally e Donaldson, 1998).

Cure Domiciliari: le ragioni per averne cura

La decisione del Distretto 63 della ASL Salerno di

puntare il focus sul sistema delle Cure Domiciliari e di

implementare un percorso di Audit clinico-organizzativo

parte dalla convinzione che questo fondamentale aspetto

dell’assistenza rappresenta un elemento portante delle

organizzazioni sociosanitarie pubbliche (Costa, 2007). Infatti

essere curati a casa rappresenta un bisogno reale per

moltissime persone. In questa cornice, per essere erogati dal

servizio pubblico, gli interventi di cura devono essere

“appropriati”, in altre parole fondati sulla loro certa

necessità da parte degli utenti e operatori e sulla loro

provata efficacia.

Non vi è dubbio che sia elevata la rilevanza

epidemiologica delle Cure Domiciliari. È sufficiente riferirsi

all’esperienza comune per osservare che un grande numero

di persone trascorrere lunghi periodi della propria vita in

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condizioni di necessità terapeutico-assistenziali, di cure

anche di elevata intensità e complessità nell’ambito delle

cosiddette “malattie croniche”. I continui progressi delle

scienze mediche (includendovi la clinica, la chirurgia, le

tecnologie, il nursing e tutto quanto concorre al successo

nelle fasi di acuzie o di riacutizzazione delle malattie)

consentono infatti tassi di sopravvivenza sempre più elevati,

che spesso si accompagnano a sequele ed esiti che

impongono protratte fasi di assistenza/riabilitazione

estensiva o di lungo termine. Si può sintetizzare che la

dimensione quantitativa di questa fascia di utenti sia di

parecchi punti percentuali della popolazione generale, con

valori a due cifre (> 10%) per quella più anziana (Istat, 2010;

Ministero del lavoro e delle politiche sociali, 2011),

La “cronicità” costituisce campo di azione sempre più

problematico, vera sfida per i nostri sistemi di welfare ed è

dimostrato che il livello di assistenza ospedaliero non è

adeguato a intervenire in quest’ambito, chiamato ad agire,

all’opposto, in tempi brevi-brevissimi, sollecitato

continuamente ad essere misurato sul successo della

riduzione dei tempi di degenza, della riduzione dei ricoveri

impropri, dell’incremento del case mix, ad esprimere un tipo

di lavoro quindi radicalmente diverso. Non è più tempo per

l’ospedale di essere luogo ospitale per tutto e per tutti (Genet

et al., 2012). Se consideriamo modernamente l’evento

ricovero in ospedale non più come risposta definitiva “tutto-

o-niente” (presenza-assenza di guarigione) bensì come fase

intermedia di un concatenamento più lungo e complesso

(percorso) di cure e assistenza che necessariamente

coinvolge altri setting, professionalità multiple, investimenti

di risorse altre ed uso di altri strumenti non presenti e

pertinenti per “l’ospedale” (in questo ragionamento

nell’ospedale vanno incluse anche le prestazioni ambulatoriali

pre o post-degenza), riesce facile comprendere che le

risposte a livello territoriale, e domiciliare in primo luogo,

sono irrinunciabili, e devono essere date in modo

conseguente e coerente, anche per non disperdere quanto

effettuato durante la degenza. Il fine ultimo è di assicurare le

massime possibilità di mantenimento della salute (Bernabei

et al., 1998). La realizzazione delle cure a casa si pone quindi

come elemento certo di bisogno rispetto alla dimensione

dell’offerta.

Un secondo requisito oggi posto nell’organizzazione

sociosanitaria è quello dell’orientamento all’utente-paziente-

cittadino, le cui attese vanno sempre tenute in prima

considerazione, pur rendendole compatibili con

l’appropriatezza in generale. Nell’evoluzione dei sistemi di

attenzione e cura alle persone da tempo si è introdotto quindi

quale obiettivo da perseguire il rispetto della libertà di scelta,

della preferenza dell’assistito. Se è certamente importante il

valore del bisogno reale, ciò non può essere distante

dall’attenzione a questo vincolo: la preferenza delle modalità

di cura di un vasto gruppo di persone malate. Cresce

nell’opinione pubblica la percezione che affetti ed emozioni

sono fattori importanti per la ripresa, avvolgono la persona

in difficoltà e richiedono rispetto, sostegno e conforto

adeguato (Agenas, 2012).

Considerato che curare una persona a casa è un diritto

soggettivo della persona e dei suoi familiari (tutelato dalla

Costituzione), spetta alle Istituzioni pubbliche compiere gli

atti dovuti per consentire la costruzione e il buon

funzionamento in ogni territorio di un circuito di Cure

Domiciliari. Collegato a quest’assunto di principio, la

rappresentanza pubblica degli interessi dei cittadini deve

curare l’aspetto dell’equità di accesso, oggi considerato

prima potenziale causa di disuguaglianza di salute (IRCCS-

INRCA, 2013). Ed è proprio a questo livello che si creano le

maggiori disparità e che il Distretto ha tra i primi suoi

mandati di legge (DL 229/99) proprio quello di assicurare

pari opportunità di accedere e fruire dei servizi a tutti i

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cittadini, soprattutto se soggetti deboli, molto facilmente

presenti tra gli assistiti a domicilio. Infatti il Distretto è

l’Istituzione che meglio corrisponde all’esigenza di conoscere

la domanda, organizzare l’offerta e curare che questa sia alla

portata realmente di tutti, dando addirittura uno sguardo più

attento a chi rischia di “rimanere nascosto nelle ultime file”

(Da Col, 2014).

Requisito essenziale per realizzare e governare un

avanzato sistema di Cure Domiciliari di elevata qualità e

sicurezza (quindi sempre complesso) è che esista

un’organizzazione cui sia affidata la responsabilità

organizzativa, produttiva, e che di ciò risponda. Nessuno

oserebbe pensare che possano essere sparse qua e là

funzioni diverse, prestazioni multiple (mediche, chirurgiche,

riabilitative, ambulatoriali, assistenziali ecc.) al di fuori di un

insieme governato. Le Cure Domiciliari sono efficaci ed

efficienti quando sono costituite da un insieme complesso di

prestazioni multi professionali e multi disciplinari collocate in

un percorso-programma coerente, con forte livello di

integrazione tra i vari attori, in vera continuità e contiguità;

quando il percorso di cura è tracciato con specifiche

valutazioni effettuate pre - durante - post la loro erogazione

(Pesaresi, 2009). Non è pensabile quindi che queste possano

esistere isolate, svincolate da un contesto più ampio

“territoriale”, che va ad incidere non solamente sul paziente-

assistito ma sulla famiglia, sulla rete relazionale, talora sulla

comunità intera. Questo elemento di governo e

coordinamento è il Distretto, prima e principale

organizzazione di riferimento per il governo della salute nel

territorio e primo soggetto deputato a creare/rafforzare le

reti di cure primarie.

Il ruolo del Distretto si rivela nel porre in connessione

tra loro i singoli elementi dei diversi interventi a casa, di porli

in continuità con quanto può avvenire prima o dopo/durante

la fase di cura domiciliare (ad es. ricovero in ospedale, in

residenza, ecc.), quindi in una logica/visione unitaria e

coordinata, sempre a vantaggio della reale presa in carico

globale e continuativa. Il lavoro distrettuale per progetti

personalizzati è l’unico a consentire la congiunzione

dell’intero patrimonio di risorse disponibili per il soggetto,

che vanno ben al di là di quelle messe a disposizioni dal livello

istituzionale. Né va sottovalutato che al Distretto è deputato il

governo della medicina di famiglia, ed i medici convenzionati

che vi fanno riferimento (di medicina generale ma anche i

pediatri, i medici della continuità) rappresentano nodi

essenziali della rete, risorse sempre disponibili, pur che si

sappia coinvolgerle e farle aderire nel giusto modo, con il

preciso scopo di far giungere a casa “le persone con le

giuste competenze, nei tempi e modi giusti” (Corona e

D’Adamo, 2012). Questo rende l’intervento appropriato e –

lungi dall’essere monodimensionale-monotematico – si

prende carico della complessità della situazione, mai la

semplifica, sempre la sostiene e la affronta nel suo insieme

in modo unitario globale e coerente. In questo consiste il

lavoro di un “buon Distretto”.

Oggi solo il vincolo delle disponibilità monetarie sembra

costituire acceleratore e freno possibile per lo sviluppo. Ma

questo punto di vista fa perdere di vista che nel settore della

cura alla persona, a fronte di capitali economici sempre

meno consistenti, le Cure Domiciliari certamente sono quelle

che attualmente richiedono meno. Se si assumesse la

decisione di raddoppiarne le consistenze, si è stimato che

questo comporterebbe per le aziende sanitarie il passaggio

dall’uno al due per cento dei propri budget di spesa corrente

annuale (Lipszyc et al., 2012).

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Inoltre va considerato che la presenza in una comunità

di un circuito di attenzioni alle cure a casa genera

arricchimento della comunità, sia in termini economici, sia di

sviluppo umano, ma soprattutto comporta la crescita del

capitale delle relazioni. Non è possibile approfondire in

questa sede il tema del capitale sociale, ma numerose

esperienze testimoniano che, ove questo sia elevato, la

domanda di prestazioni è inferiori e migliori gli indicatori di

salute e benessere (Minelli, 2007).

Ad una visione superficiale, la buona sanità sembra

richiedere immancabilmente l’allocazione di ingenti risorse

finanziarie, in difetto delle quali tutto sembra spegnersi e

venir meno. Ma, quantomeno nel campo dell’assistenza a

lungo termine, per colmare il gap tra bisogni crescenti e

offerta diminuente, è necessario ricorrere sì ad aumenti dei

capitali economico-finanziari ma ancora più, per mantenere

sostenibilità, equità ed economicità, incrementi del capitale

sociale.

In questo quadro, il Distretto rappresenta, se

adeguatamente indirizzato, formato e dotato, il luogo

istituzionale in cui si producono le iniziative a questo

indirizzate. In uno scenario che va sempre più assumendo

come proprio feticcio il prodotto, la produttività, l’efficienza,

bisogna riposizionare il valore delle prescrizioni rispetto al

ruolo giocato dalle relazioni. La crescita dei legami sociali, le

relazioni costruite con/nel territorio rappresentano fattori

ancor più rilevanti. Entra così in gioco la comunità,

espressione non solo delle somme dei singoli, ma di identità

collettive che andrebbero poste in campo quali fattori di

crescita e leve del cambiamento positivo (Apicella et al.,

2013).

Oggi salute e benessere sono, per molti versi, diventati

prodotti da vendere ed acquistare sul mercato, beni quindi

acquisibili con il denaro. Su questo tema è diffuso il dissenso

che il regime di mercato rappresenti il migliore regolatore

dell’offerta e della qualità dei prodotti, nella certezza che il

consumatore sappia sempre compiere la migliore scelta per

lui e per altri, adeguando bisogni, qualità della risposta e

capacità di spesa, quindi ottimizzando il massimo del

beneficio e la minima spesa. È stato documentato che ciò non

corrisponde al vero; molti fatti sotto gli occhi smentiscono

questa visione (Cotichelli, 2013).

La libertà di scelta, propria dei meccanismi di mercato,

per chi sta male e soffre appartiene (forse) solo ai ceti

sociali più fortunati. Se si vuole salvare la salute anche quale

bene pubblico, bisogna porsi il problema dell’equità, che è

prerogativa e requisito indissolubilmente legato a quello della

libertà non solo del singolo individuo ma di tutti. Portare

quindi nella casa di chi ha bisogno ciò che serve nei tempi e

modi giusti, conservare gradi di libertà di vita e di

espressione delle proprie preferenze di tempi ritmi ed

organizzazione di vita eleva la coesione sociale, mantiene più

uguaglianza sociale. Per questo le Cure Domiciliari si

collocano come contributo all’esercizio della tutela dei diritti,

costituiscono quindi vera scelta e pratica di democrazia,

percepita e vissuta non solamente da chi è purtroppo

costretto a servirsene ma diviene davvero per tutti

occasione di progresso e benessere (CARD, 2011).

Numeri e dati per orientarsi

A sostegno delle argomentazioni appena articolate, si

riportano di seguito alcuni dati sintetici in grado di dare

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un’idea della cifra delle questioni in campo. Nonostante la

sintesi, paiono chiari i problemi più rilevanti e lo scarto tra

questi e le misure ad oggi pensate per fronteggiarli.

L’andamento demografico in Italia non consente dubbi:

gli ultra65enni al censimento 2001 rappresentavano il

18,7% della popolazione totale (età media della

popolazione totale 41,4; indice di vecchiaia 131,4); nel

2021 saliranno al 23,9% (45,7 età media, indice di

invecchiamento 188,9). In pratica a breve un cittadino

su quattro richiederà i servizi propri di quell’età; si

sottolinea che la metà di questi anziani avrà varcato la

soglia dei 75 anni, collocandosi quindi in fasce di

bisogno e dipendenza molto elevate (Federsanità ANCI

et al., 2009).

La larga maggioranza degli italiani abita in case di

proprietà; infatti solamente il 13% della popolazione

paga un canone; tuttavia, il 10% non ha un

riscaldamento adeguato e nel 19% delle abitazioni si

riscontra importante umidità. Resta il fatto che questo

patrimonio abitativo, con i limiti correggibili, dovrebbe

incoraggiare la diffusione delle cure a casa e

scoraggiare il proliferare di residenze.

Le famiglie, incluse le assistenti familiari, continuano a

sopportare il carico prevalente di cura di persone

anziane non autosufficienti (Ministero del lavoro e delle

politiche sociali, 2011) con una copertura formale dei

bisogni prevalenti minima, nel range del 5-10%,

considerando singolarmente voci quali l’aiuto

domestico, l’organizzazione dell’assistenza, il sostegno

psicologico, l’assistenza sanitaria, la mobilità ed i

trasporti, l’assistenza personale, il sostegno

finanziario.

La stima dei potenziali caregiver (popolazione 50-79

anni su > 80enni non autosufficienti) mostra un trend

drammaticamente decrescente: anno 2005=21,88;

2015=17,35; 2035= 12,02). Un cittadino ultra65enne su

sei – dieci al nord – dispone oggi di una “badante” (7%

in media in tutto il Paese), valore che sale al 48% delle

persone non autosufficienti; in media queste assistenti

lavorano in casa per 5 hr/die. La spesa privata per

questo “esercito” di assistenti familiari (stima:

774.000 “badanti” attive, 700.000 straniere) ammonta

a circa 10 miliardi di €/anno. Un contratto di 54

ore/settimana vale circa 25.000 €/anno (Pasquinelli e

Rumini, 2008). Questa ingente spesa privata equivale

al 10% della spesa sanitaria pubblica ed è all’incirca

equivalente a quanto stanziato dallo Stato per le

indennità di accompagnamento. Va notato che la

crescita del fenomeno è stata imponente: nel 1991 le

“badanti” erano 180.000, nel 2009 760.000. Si

osserva quindi una vera risposta di “mercato”

certamente non proporzionale a quelle delle istituzioni.

La diffusione dei servizi domiciliari in Italia è ridotta

rispetto all’Europa settentrionale (4,9% vs 13%), che

impegnano un quarto delle risorse dell’assistenza a

lungo termine, l’1,08% della spesa sanitaria.

Mediamente, questi servizi raggiungono il 5% della

popolazione anziana (vs 9,5% in Germania, 7,9% in

Francia, 7,1% in Regno Unito).

La limitata forza delle Cure Domiciliari è ubiquitaria.

Anche in Regioni “ricche” (es. Lombardia), l’assistenza

domiciliare sanitaria (ADI delle ASL) copre appena il

4,7% del totale degli ultra65enni, salendo al 30% degli

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anziani non-autosufficienti; l’assistenza domiciliare di

parte sociale (SAD) non supera il 2% (1,7%) negli

anziani in generale e l’11,1% dei non-autosufficienti

(IRCCS-INRCA per Network nazionale per

l’invecchiamento, 2013).

Negli ultimi 15 anni si sono verificati fenomeni

allarmanti:

1. l’utenza anziana in ADI è salita da 1,9% (2001) a

4,1% (2013), ma in media sono calate le ore totali

/anno di assistenza pro capite: da 26 (2002) a

20 (2014), con disuguaglianze clamorose tra le

regioni (range 4-75 ore). Appare clamorosa

questa associazione inversa tra ampiezza della

copertura e intensità dei servizi e permane

apparentemente inconsistente il tempo di cura

istituzionale.

2. l’utenza in SAD è rimasta stabile: intorno a 1.6-

1.8%, con una spesa media nel 2013 di 1.860 euro

per utente, pur con ampio divario regionale (937

€/p.c. in Molise; 4.393 in Valle d’Aosta).

3. la reale assistenza domiciliare integrata riguarda

solamente 1,4 per cento anziani.

La percentuale di Pil nel nostro Paese dedicato ai

servizi domiciliari è pari allo 0,29; all’assistenza

continuativa (servizi domiciliari, residenziali e

indennità di accompagnamento) all’ 1,28; al welfare è

destinato il 26%. La percentuale di spesa sanitaria

destinata all’ADI è pari all’ 1,08, con range 0,3-3% nelle

diverse regioni.

Nell’assistenza a lungo termine da sempre in Italia

erroneamente si privilegiano i trasferimenti monetari

(42%) anziché i servizi, a differenza di quanto avviene

in Paesi come la Germania (24%) o la Norvegia (14%).

Nel 2010 le indennità di accompagnamento (utenza da

5,5% della popolazione anziana del 2001 a 9,5% del

2008) hanno raggiunto una spesa superiore a 12,5

miliardi di euro (7,5 nel 2002), di cui 11 miliardi per

anziani non autosufficienti. La percentuale di

ultra65enni percettori dell’indennità oscilla dal 2,1%

tra 65 e 69 anni a 23,8% oltre 80 anni. Da una parte, è

lecito chiedersi se, quanto e come sia possibile

riconvertire queste risorse verso servizi istituzionali,

dall’altra pare indiscutibile l’urgenza di potenziare le

Cure Domiciliari e ancor più dirimere le profonde

disuguaglianze territoriali.

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