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Dossier OggiScienza Arte e Scienza ARTE e SCIENZA Il dossier è articolato nelle seguenti sezioni: Articoli Glossario Competenze Collegamenti interdisciplinari Ulteriori risorse online

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Dossier OggiScienza Arte e Scienza

ARTE e SCIENZA

Il dossier è articolato nelle seguenti sezioni:

Articoli

Glossario

Competenze

Collegamenti interdisciplinari

Ulteriori risorse online

Dossier OggiScienza Arte e Scienza

Articoli

Articolo di Veronica Nicosia, pubblicato su OggiScienza

Il restauro con le nanotecnologie:

l’innovazione nei Musei Vaticani

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https://oggiscienza.it/2016/12/30/restauro-nanotecnologie-musei-vaticani

APPROFONDIMENTO – All’interno dello stato Vaticano, dove l’arte incontra la

religione, l’innovazione delle nanotecnologie incontra l’arte. Accade nel Laboratorio di

Diagnostica per la Conservazione e il Restauro dei Musei Vaticani, fondato nel 1936, dove

si studia e si esegue il restauro di importantissime opere d’arte. Si tratta di un laboratorio

in cui i restauratori lavorano fianco a fianco ai tecnici, siano essi fisici, chimici o ingegneri,

per consolidare le opere e riportarle al loro splendore.

Fabio Morresi, assistente del Laboratorio scientifico guidato da Ulderico Santamaria, ci

spiega che gli scienziati lavorano al restauro e alla conservazione non solo dei Musei

Vaticani, ma anche delle principali quattro basiliche di Roma quali San Pietro, San

Giovanni in Laterano, San Paolo fuori le Mura e Santa Maria Maggiore, oltre a quelle di

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Loreto e Padova. Morresi sottolinea l’importanza della presenza di un laboratorio

scientifico all’interno del museo, una struttura che i Musei Vaticani sono tra i pochissimi al

mondo ad avere: “Il Gabinetto ricerche scientifiche è stato creato nel 1936 del Vaticano,

che ha mostrato una mentalità molto aperta e una visione futuristica del restauro stesso.

Ora prende il nome di Laboratorio di Diagnostica del restauro in cui lavorano 11 tecnici, tra

chimici e biologi. Ognuno di loro, poi, è specializzato nel suo campo, sia esso la chimica

organica, inorganica o gli aspetti biologici o ingegneristici.”

Tutti collaborano seguendo protocolli di intervento dei restauri, dove tutte le figure sono

ben classificate e hanno compiti definiti: “Il restauro è totalmente cambiato nell’approccio.

Tutto parte da un testo, quello di Michele Cordaro, che definisce il restauro moderno e

sottolinea come sia importante dividere le competenze. Ognuno ha un ruolo preciso: lo

storico o l’archeologo sono coloro che dirigono il progetto di restauro e sono affiancati

dagli scienziati, che si occupano dello studio dei materiali e delle cause del degrado,

suggerendo così la tecnica più efficace ai restauratori, coloro che fisicamente mettono

mano all’opera e portano a termine il restauro.”

Ma qual è il lavoro di uno scienziato all’interno di un laboratorio di restauro? Spiega

Morresi: “Ci occupiamo di stabilire le cause del degrado dell’opera e mettere a punto un

protocollo di intervento per sanarlo, oppure mettere a punto un protocollo per tipologia di

intervento, per lo studio dei materiali o semplicemente per conoscenza dell’opera, quando

non è posta in restauro, come nel caso della Deposizione del Caravaggio, custodita nei

Musei Vaticani, che abbiamo avuto modo analizzare, scoprendo come l’artista l’ha

realizzata, le varie alterazioni che ci sono state nei secoli e i cambiamenti che ha subito.”

Esistono, nel mondo dei beni culturali, due tipi di analisi che uno scienziato può

effettuare su un’opera d’arte, con prelievo o senza prelievo: “Quando parlo di prelievo,

ovviamente, si intende un campione di 200 o al massimo 300 micron, una misura che

lascia capire che tipo di sensibilità debbano avere gli strumenti che utilizziamo in

laboratorio per ottenere risultati effettivi. Nel caso di analisi senza prelievo, ci avvaliamo di

analisi per immagini, come raggi X che ci permettono di stabilire la tecnica esecutiva, e di

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spettroscopia, che permette di individuare i tipi di pigmenti usati e le caratteristiche

chimiche dei materiali.”

In questa cornice, che coniuga scienza e arte, un ruolo chiave viene svolto dall’impiego

delle nanotecnologie, che vengono impiegate soprattutto per il consolidamento delle opere

d’arte soggette ad ammaloramento: “Le nanotecnologie sono entrate nei beni culturali,

soprattutto per il consolidamento, e vengono utilizzate per consolidare opere ammalorate,

oppure per cambiare e modificare le caratteristiche chimico-fisiche della superficie, per

esempio per renderla idrorepellente, oppure per cambiare e modificare le caratteristiche di

tutto il materiale. Proprio il consolidamento oggi rappresenta l’80% delle applicazioni delle

nanotecnologie, che vengono impiegate per gli affreschi, ma anche per opere lapidee,

come il restauro di materiali calcarei e graniti, o per gli smalti.”

Nel caso del restauro degli affreschi, come ad esempio quello della Cappella Sistina del

Michelangelo iniziato negli anni Ottanta e che Morresi ha avuto l’occasione di seguire, è

importante capire quali sono i materiali utilizzati per poter scegliere la miglior tecnica di

consolidamento. Il processo di deterioramento del dipinto in affresco avviene quando negli

spazi superficiali o subsuperficiali, in genere si tratta di microfratture, si verifica un

indebolimento del pigmento. L’affresco rischia così di spolverare, cioè di essere ridotto in

polvere dall’indebolimento ed essere spazzato via insieme allo sporco quando la superficie

viene pulita, per esempio con un solvente, dal restauratore.

Proprio su queste microfratture vanno ad agire le nanoparticelle, come le nanocalci, che

hanno il compito di riempire le microfratture e consolidare l’intonaco e con esso il

pigmento: “In questo caso viene in nostro aiuto il microscopio a scansione, che con un

prelievo di un campione dell’ordine di micrometri permette di avere un’analisi topografica

all’interno della sezione stratigrafica dell’affresco, indicando i punti in cui si trovano i singoli

elementi chimici e permettendo l’identificazione della zona che sarà soggetta al

trattamento di consolidamento.”

Una volta che la mappatura dell’affresco è stata eseguita, vengono applicate le

nanocalci, spiega Morresi: “Alle pitture in affresco vengono applicate le nanocalci, che

entrano nelle fratture ricarbonandole e riaderendo lo strato pittorico. Si tratta di

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nanoparticelle che non entrano in profondità nell’affresco, ma si fermano sulla superficie.

Per questo motivo è importante sapere se la pittura è in ottimo affresco o se ci sono zone

che presentano colla o olio, perché nel secondo caso le nanoparticelle non riescono a

penetrare nelle fratture, rischiando che il processo di ricarbonatazione causi uno

sbiancamento dell’affresco stesso e dunque lo danneggino.”

Le nanoparticelle vengono dunque applicate con fogli impregnati di alcol etilico, che

favorisce la diffusione nel materiale che si vuole restaurare, ma questa tecnica presenta

dei limiti. Uno di questi è proprio che si tratta di un consolidamento superficiale, quindi una

sorta di riadesione dei pigmenti, così che i restauratori possano trattare la superficie in

sicurezza, senza incorrere nel rischio che i pigmenti spolverino: “Se il pigmento spolvera,

non sarà possibile togliere lo sporco superficiale senza incorrere nel rischio di eliminare

anche il pigmento e quindi danneggiare l’affresco. Una volta operato il consolidamento a

nanoparticelle si può procedere a un restauro agendo anche con un solvente o con un

altro processo. Uno dei cardini del restauro – spiega Morresi – è che il materiale deve

essere removibile e reversibile, non deve danneggiare l’opera in nessun modo e deve

essere rispettoso dell’opera stessa. Questo è un concetto borderline, perché anche le

nanocalci non sono reversibili e l’applicazione di nanotecnologie non risponde al quesito

uno del restauro, ma c’è un motivo. Le nanoparticelle vengono impiegate in situazioni di

consolidamento e questo non può essere reversibile, perché consolidare un materiale per

poi rimuoverlo potrebbe portare a un collasso. Quindi i consolidamenti rappresentano una

deroga al cardine del restauro, ma naturalmente deve essere un materiale inerte e

compatibile con la materia che stiamo trattando.”

Le nanotecnologie vengono utilizzate anche per il consolidamento delle opere lapidee,

come per esempio le statue e le strutture in marmo. Questo materiale è molto sensibile

all’inquinamento, tanto che se esposto a piogge acide può dare vita al fenomeno del

“marmo zuccherino”, dove i cristalli sono così degradati che il marmo si sgretola sotto alla

semplice pressione di un dito, proprio come se avesse la consistenza dello zucchero: “In

questo caso le nanocalci si vanno a collocare nell’interfaccia delle facce cristalline.

L’edificio cristallino con il degrado si allenta, si formano spazi tra le facce cristalline e

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perde adesione, quindi essenzialmente il consolidamento avviene lungo l’interfaccia dei

singoli cristalli dei carbonati di calcio. Gli spazi da riempire sono davvero piccoli, quindi le

nanoparticelle sono perfette per entrare, ma vanno portate con un solvente, come l’alcol

etilico che ha un gran potere di diffusione nel materiale.”

Anche nel caso del consolidamento dei graniti le nanotecnologie rappresentano un

valido aiuto. Se le rocce granitiche hanno una struttura al silicio che non va incontro al

degrado da inquinamento, come invece accade per il marmo, esiste la possibilità che si

verifichino nel materiale venature o lesioni. Per sanare queste fratture si utilizzano le

nanosilici: “Per i graniti usiamo le nanosilici, che funzionano con un nucleo e tante codine

che risentono della struttura silicica e formano i ponticelli che ne permettono il

consolidamento. L’effetto finale è quello ottenuto con le nanocalci per i marmi e le tecniche

di diffusione con alcol etilico nel materiale sono analoghe.”

Anche nel caso degli smalti è possibile usare le nanoparticelle. Un esempio viene dal

restauro del calice che il Papa donò a San Francesco e che è custodito nella basilica di

Assisi. Si tratta di un calice decorato con medaglioni smaltati e firmato da Guccio di

Mannaia: “Nel medioevo conoscevano le nanoparticelle, ma non lo sapevano. Mannaia

gioca coi nanocoloranti creando delle immagini su smalto molto piccole, definendo dettagli

e creando giochi di luce e ombra su oggetti del diametro di pochi centimetri. Le placchette,

per esempio, sono tutte aggiunte alla struttura del calice e sono costituite da smalti

applicati su placchette di argento, che vengono incise prima di essere cotte nei forni

insieme alle polveri che, sciogliendosi, vanno a formare lo smalto stesso.”

Anche nel caso degli smalti, in aiuto di scienziati e restauratori arrivano le nanosilici,

che però vengono applicate insieme ad un polimero organico che fa da collante: “Le

nanoparticelle vanno così a riempire gli spazi vuoti da consolidare, ma il polimero organico

ne aumenta il potere adesivo e ne permette il fissaggio, ottenendo così non solo il

consolidamento ma anche la riadesione dello smalto stesso, con il risultato di avere un

riacquisto completo della lettura dell’immagine smaltata.”

Quelle che abbiamo fin qui descritto rappresentano solo alcune delle applicazioni delle

nanotecnologie nel mondo del restauro e dei beni culturali, un campo che è ancora

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all’inizio del suo sviluppo ma ha già mostrato importanti risultati per la conservazione delle

opere d’arte. E se ci chiedessimo qual è una sfida per il futuro delle nanotecnologie nel

restauro, Morresi non ha dubbi: “Vorrei toccare un punto che è una novità, quello dei

biocidi, cioè sostanze che contengono principi attivi in grado di distruggere, eliminare o

rendere innocue determinate sostanze, come per esempio funghi e licheni che attaccano

le opere d’arte. I biocidi, come i metaboliti con proprietà antimicotiche, possono essere

incapsulati in nanoparticelle, per esempio di argento o di zinco, e immersi poi in oli

essenziali, in modo da ottenere un’applicazione a lento rilascio del metabolita che

neutralizza e impedisce la crescita di funghi, licheni e batteri che possono danneggiare

l’opera.”

I primi passi sono stati fatti, ora l’arte chiama la scienza. Le nanotecnologie, che hanno

avuto un ruolo da protagonista anche nell’assegnazione dei premi Nobel del 2016, dalla

medicina vanno in aiuto anche alla conservazione del nostro inestimabile patrimonio

artistico e culturale.

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Articolo di Marco Milano, pubblicato su OggiScienza

Luce e colori, il segreto delle cattedrali

gotiche

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https://oggiscienza.it/2017/01/03/vetrate-cattedrali-gotiche-tecnologia/

APPROFONDIMENTO – Dalla vigilia di Natale fino al 9 gennaio 2017, il Duomo di

Milano è rivestito di una nuova luce, per dare maggiore splendore alla Madonnina, alla

facciata e, soprattutto, alle vetrate che decorano la cattedrale. Grazie a un centinaio di

proiettori LED, i visitatori del Duomo possono ammirare e scrutare con maggior dettaglio i

mosaici prodotti dai mastri vetrai in epoca medievale – è questa ormai una tradizione che

dura da qualche anno. Le caratteristiche delle vetrate gotiche del Duomo, così come

quelle delle più importanti cattedrali d’Europa (Notre-Dame di Parigi, la cattedrale di Reims

e di Amines, tra le altre) consentono in realtà di godere dello stesso spettacolo anche con

l’illuminazione naturale, grazie al lavoro degli artigiani medievali, tecnologicamente molto

avanzato per l’epoca.

Il vetro, materiale mistico e miracoloso

In tutte le strutture gotiche, è la luce l’elemento di innovazione rispetto al passato: in

rottura con lo stile romanico, con cui si cercava il silenzio e la contemplazione, l’arte gotica

cerca nuove espressioni che avvicinino al cielo, favorendo quindi i grandi spazi e le

architetture estese in altezza. In questa fase di cambiamento alla luce venne affidato il

compito di rappresentare la parola di Dio, definendo un punto di contatto privilegiato,

soprattutto nelle cattedrali, tra il mondo umano e quello divino.

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Per questa ragione, è il vetro il materiale prescelto per questo nuovo connubio tra arte e

fede guidato dalla luce. Le sue proprietà chimico-fisiche, ben note già da secoli prima, lo

rendevano il mezzo ideale da decorare per diventare il racconto visivo delle vicende

bibliche, utilizzando i colori non solo nelle tonalità desiderate, come negli affreschi, ma

anche in con vari gradi di trasparenza.

Un esempio di applicazione tecnologicamente avanzata del vetro, in un contesto

artistico-religioso, si può trovare alla Sagrada Familia di Barcellona: le vetrate neo-gotiche

di Antoni Gaudì sono state realizzate con il vetro soda-lime, anche detto “vetro di crogiolo”,

a base di ossidi di silicio, calcio e potassio, con aggiunta di altri minerali usati come

coloranti (per esempio ossidi di cromo o ferro). Bisogna però tornare molto indietro nel

tempo per ritrovare gli indizi delle tecniche che rendono speciali le vetrate delle cattedrali

gotiche, compreso il Duomo di Milano.

L’arte della decorazione del vetro, in particolare per gli arredi sacri, è rimasta un segreto

custodito gelosamente durante buona parte del medioevo, con accesso limitato a pochi

privilegiati, principalmente mastri vetrai, operai e alchimisti. Questa pratica era

originariamente collegata alla costruzione delle finestre delle basiliche del IV secolo d.C., e

raggiunse il culmine dello splendore in Europa, tra il XII e il XV secolo: il disegno

concordato e commissionato veniva tracciato dagli operai su modelli in metallo e liste di

piombo della grandezza della vetrata finale, su questi venivano disposti i pezzi di vetro di

differente colore e a questo punto interveniva il maestro che dipingeva i singoli pezzi in

chiaroscuro, generalmente con la tecnica del grisaille .

La Cattedrale di Chartres, tra i monumenti di stile gotico, rappresenta forse il simbolo

per eccellenza di questa tradizione. Oltre ad essere stata probabilmente la città della

scoperta e dell’introduzione dell’arte vetraria per le cattedrali, Chartres è stata, infatti,

anche il centro principale per la produzione europea di vetro in epoca medievale – il vetro

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fabbricato a Chartres si trova infatti anche nelle cattedrali di Parigi, di Bourges e di Ruen.

Le vetrate decorate di Chartres coprono una superficie di circa 3000 metri quadri, sono

state realizzate tra il 1210 e il 1240 e hanno resistito alla prova dei secoli, anche grazie ad

attenti interventi di protezione. Tra questi, la saggia decisione di staccarle dai telai di

piombo e metterle al riparo dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.

L’invetriatura dell’intera cattedrale è diventata con il tempo leggendaria, in parte perchè è

stata la prima opera di queste dimensioni a rappresentare in modo eccezionale i racconti

del nuovo e vecchio testamento, tanto da essere definita la “bibbia di vetro”.

L’opera comprende anche la Notre-Dame-de-la-Belle-Verriere, vetrata considerata dagli

storici dell’arte il culmine della pittura prima di Giotto. Quello che ha contribuito

maggiormente al suo successo è però una gamma cromatica senza pari, caratteristica, tra

le altre cose, per l’incupimento della gamma cromatica scelta lungo l’estensione dell’opera

– principalmente blu e rosso, simbolo del cielo e della terra, e giallo – appesantito per

l’esposizione agli agenti esterni. I principali artefici della colorazione delle vetrate erano gli

alchimisti, depositari di una conoscenza prettamente sperimentale. Come sono riusciti gli

alchimisti a ottenere la qualità cromatica tipica del gotico e gli effetti di trasparenza

variabile in base all’illuminazione naturale?

Gli artigiani medievali riuscivano ad ottenere tinte rosse aggiungendo al vetro fuso una

frazione di cloruro aurico, un sale d’oro dell’acido cloridrico, e varie tonalità di giallo

aggiungendo particelle di nitrato d’argento. Quello che gli alchimisti all’epoca non

potevano sapere – i primordi dei questa tecnica risalgono addirittura al X secolo – è che

queste sostanze erano di dimensioni nanometriche: le nanoparticelle di oro o di argento

funzionavano all’interno del vetro come dei moderni quantum dots riflettendo specifiche

lunghezze d’onda a diverse intensità in base alla luce incidente.

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Nanotecnologie antiche per nuovi dispositivi

Grazie alle moderne nanoscienze, la consapevolezza di quale sia la tecnologia

nascosta delle antiche vetrate gotiche fa diventare queste opere d’arte una fonte

d’ispirazione per nuovi dispositivi. Giocando sulla dimensione delle nanoparticelle di oro e

d’argento, si possono infatti produrre altre tonalità di colore: verde o arancio producendo

particelle d’oro un po’ più grosse di quelle usate sintetizzate dagli alchimisti medievali,

oppure diverse gradazioni di blu rimpicciolendo le particelle d’argento. A questi risultati

sono arrivati per esempio ricercatori della Rice University. Con queste possibili varianti di

drogaggio del vetro, si possono progettare nuovi, più versatili display per smartphone o

tablet, in grado di cambiare tonalità di colore semplicemente regolando la differenza di

potenziale applicata , un po’ come succede con la luce naturale che attraversa le vetrate

delle cattedrali, appunto.

Le proprietà ottiche delle vetrate gotiche possono essere imitate inoltre anche per

produrre lenti più resistenti per le fotocamere da montare sulle nuove generazioni di rover

per le future missioni spaziali. Le vetrate hanno infatti resistito nei secoli al

bombardamento della radiazione UV proprio per la presenza di nanoparticelle, in grado di

schermare le radiazioni più aggressive.

Oltre alle eccellenti performance ottiche, la nanoparticelle regalano ai vetri anche

eccezionali proprietà chimiche, che aiutano a purificare l’aria in prossimità della superficie,

distruggendo sostanze aggressive presenti nell’ambiente, come i composti organici volatili

(VOC) responsabili dell’odore di “nuovo” di molti prodotti.

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Articolo di Veronica Nicosia, pubblicato su OggiScienza

Come dipinge un’intelligenza artificiale?

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https://oggiscienza.it/2016/12/29/pittura-arte-intelligenza-artificiale/

APPROFONDIMENTO – Pensate ai girasoli e alle notti stellate dipinte da Vincent Van

Gogh. Oppure alla Guernica di Pablo Picasso o alle ballerine di Edgar Degas e Claude

Monet. Dietro a queste grandi opere d’arte si cela il lavoro (cerebrale) e la sensibilità

artistica dei grandi pittori. Ma cosa accadrebbe oggi se a dipingere ciò che vedono, e con

quegli stili, non fossero degli umani ma una intelligenza artificiale, che è in grado di

imparare dagli stimoli visivi che riceve e di elaborare algoritmi che la portano ad avere una

creatività propria o ad applicare dei filtri per rielaborare le immagini?

A rispondere sono gli scienziati dell’università di Tubingen, in Germania, che hanno

sviluppato un algoritmo, che fa parte degli algoritmi di deep learning, cioè apprendimento

profondo, in grado di dipingere fotografie nello stile dei vari pittori.

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Crediti immagine: Università del Tubingen, Germania

Che cos’è il deep learning?

Nello sviluppo di una intelligenza artificiale, l’obiettivo degli scienziati è quello di

ottenere sistemi che siano in grado di apprendere da stimoli esterni e dall’esperienza,

proprio come accade nel cervello umano. Per fare questo sono stati sviluppati algoritmi di

apprendimento profondo, il deep learning, dove il sistema non agisce come un classico

algoritmo in cui è già codificato cosa fare se si verifica una precisa istruzione del

programmatore, ma dove si formano reti neurali che simulano le reti create dai neuroni nel

cervello umano.

Immaginate di avere a vostra disposizione miliardi di neuroni, come accade proprio nel

cervello umano: questi interagiranno con gli stimoli esterni, li elaboreranno e costruiranno

reti in cui si immagazzinano le conoscenze. Quando si verifica una situazione, il nostro

cervello cercherà l’informazione già codificata che è la risposta più adatta nel suo database

e permetterà una reazione allo stimolo ricevuto. Ogni stimolo nuovo costituisce

un’esperienza che arricchisce il nostro database “umano”.

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Immaginate ora invece di avere a disposizione un neurone “informatico”, o meglio un

algoritmo, e di voler replicare il complicato meccanismo di immagazzinaggio delle

informazioniche si verifica nel cervello umano. Si avrà bisogno innanzitutto di un numero

superiore di algoritmi, ma sarà necessario che siano in grado di elaborare ogni volta gli

stimoli a cui vengono sottoposti e ri-programmarsi sulla base di quanto imparato e non

solo delle istruzioni singole che il programmatore può fornirgli. Questi algoritmi che

riescono così ad imparare dai loro errori, creando vere e proprie reti neurali che ricordano

il cervello umano, sono gli algoritmi di deep learning, cioè in grado di simulare e replicare

un meccanismo di apprendimento di tipo umano.

La potenza di questi algoritmi nello sviluppo di un’intelligenza artificiale appare chiara e

le potenzialità, proprio come per il cervello umano, sono molte dato che l’apprendimento

profondo avviene, proprio come per i bambini, anche attraverso stimoli che possono

essere immagini. Da questi concetti base si ottengono così programmi e applicazioni che

possono leggere le immagini ed elaborarle, come per esempio la ricerca per immagini di

Google o il riconoscimento facciale e il tag dei propri amici su Facebook, ma si possono

anche sviluppare software in grado di riprodurre opere d’arte o, in futuro, di produrre opere

d’arte inedite grazie alla loro capacità di apprendere e di rielaborare, proprio come accade

con gli esseri umani.

Come dipinge un algoritmo?

I ricercatori dell’università tedesca di Tubingen hanno utilizzato un sistema di

rappresentazione neurale che è stato in grado di separare e ricombinare il contenuto delle

singole foto e gli stili, per poi elaborare un algoritmo neurale che a sua volta ne ha

riprodotto immagini artistiche. Un vero e proprio sistema di intelligenza artificiale, basato

sulle reti neurali, in grado di produrre opere d’arte di alta qualità.

Gli scienziati hanno preso come esempio una foto di un appartamento vicino a un fiume

a Tubingen, vicino dunque all’università, e hanno lasciato che l’algoritmo elaborasse le

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immagini, ottenendo un’opera d’arte che ricordava gli stili di grandi artisti, come la “Notte

stellata” di Van Gogh, “L’Urlo” di Edvard Munch e ancora il “Relitto di una nave da

trasporto” di William Turner.

Questo accadeva nel 2015, e i risultati dello studio venivano pubblicati su ArXiv, ma

dopo un anno a che punto siamo con il deep learning nel campo dell’arte? La risposta è

che c’è ancora molto da fare, ma sempre più università e aziende stanno sviluppando

software in grado di rielaborare le immagini. Lo scorso settembre 2016 è stato pubblicato

sulla rivista Evolutionary Computation un nuovo studio condotto da Anh Nguyen,

dell’università del Wyoming, che analizza come un algoritmo possa essere “incoraggiato”

a scegliere in autonomia di rappresentare un’immagine piuttosto che affidarsi a scelte

basate su processi stocastici e quindi causali.

Attualmente dunque gli scienziati non solo sviluppano algoritmi sempre più in grado di

elaborare le informazioni, ma iniziano anche a comprendere come un’intelligenza artificiale

possa essere dotata di un “animo” indipendente, che sia rigorosamente algoritmico e

matematico, ma anche artistico.

Se in un primo momento questi algoritmi venivano impiegati soprattutto per le ricerche

per immagini, ora offrono uno sguardo anche al funzionamento della creatività umana.

Proprio come gli esseri umani infatti questi algoritmi sono in grado di apprendere, creando

complesse reti neurali, e di elaborare un’immagine applicando un determinato filtro, che

nel linguaggio umano definiremmo creatività. Un algoritmo è diventato così capace di

dipingere e non resta da chiedersi cosa ne direbbero i grandi artisti del passato di questa

“concorrenza” artificiale.

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Articolo di Eleonora Degano, pubblicato su OggiScienza

La chimica nei girasoli di Van Gogh

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https://oggiscienza.it/2016/12/06/chimica-girasoli-van-gogh-giallo/

APPROFONDIMENTO – Nei periodi impressionista e post-impressionista i pigmenti a

base di cromato di piombo, più comunemente noti con il nome di “gialli di cromo”, erano

tra i più usati dagli artisti. Nonché i prediletti del pittore olandese Vincent van Gogh, che ne

apprezzava le diverse tonalità, dal giallo-arancio al giallo-brillante, al punto da averli scelti

per dipingere molte delle sue opere. In particolare i famosi girasoli (protagonisti di due

“serie” di dipinti, la serie di Parigi e la serie di Arles). Ma molti di quei pigmenti stanno

cambiando colore e hanno fatto sì che nelle sale museali entrassero professionalità

piuttosto nuove per l’ambiente: i chimici.

È proprio quest’ambito di ricerca a essere stato premiato dalla Società Chimica Italiana,

che ha da poco conferito il Premio Levi 2015 – Sezione Giovani alla ricercatrice Letizia

Monico, per i suoi studi sulla degradazione dei gialli di cromo nei Girasoli di Van Gogh

conservati al Van Gogh Museum di Amsterdam (Rijksmuseum Vincent Van Gogh). Il

paper premiato è stato pubblicato sulla rivista Angewandte Chemie.

“I chimici lavorano nell’arte da una ventina d’anni, dunque questo tipo di misurazione è

recente”, racconta a OggiScienza Monico, che all’intreccio tra arte e chimica ha dedicato

anni di ricerca tra il Dipartimento di Chimica, Biologia e Biotecnologie dell’Università degli

Studi di Perugia e il CNR-ISTM. “Mi sono servita di tecniche spettroscopiche nuove che,

mostrandoci i diversi stati di ossidazione del cromo, ci consentono di capire perché il giallo

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di cromo diventi più scuro. In passato non potevamo spiegare l’alterazione fino in fondo,

anche perché ovviamente non abbiamo a disposizione immagini di come si presentavano

queste opere al tempo. Dunque non sappiamo quanto sia variato il colore”.

Anche per questo motivo comprendere l’inscurimento dei gialli di cromo è da sempre

una questione complessa, oggetto di dibattiti tra conservatori, storici dell’arte e scienziati

per decenni. Quali di quei gialli più scuri, quasi ocra, sono il segno del tempo che ha

cambiato il colore delle opere? Quali invece sono esattamente come li ha voluti l’artista, a

fine ‘800, quando scriveva al fratello Theo che per fare cose belle serve una certa dose di

ispirazione, “un raggio dall’alto [a ray from on high] che non ci appartiene”?

“Gli studi precedenti hanno permesso di scoprire che esistono varie tipologie di giallo di

cromo e che, ad esempio, la tonalità che va dal giallo-arancio al giallo-pallido riflette la

diversa composizione chimica. Questi gialli possono essere presenti sia come cromato di

piombo vario che come precipitati con cromato di piombo e solfato di piombo. Quelli con

maggior contenuto in solfato, i più giallo-pallidi, sono anche i più sensibili alla luce”,

prosegue Monico. Anche fattori come l’umidità dell’ambiente giocano un ruolo, ma in un

ambiente museale la luce resta il principale driver di degradazione del pigmento. “La luce

è fondamentale per la conservazione delle opere d’arte e individuare queste forme più

delicate ci aiuta a capire quali sono le condizioni migliori per farlo. Dal punto di vista

chimico cerchiamo di capire la composizione dei gialli e verifichiamo se il degrado è

avvenuto, ma allo stesso tempo forniamo informazioni preziose ai conservatori che

devono mettere a punto condizioni di illuminazione opportune”.

Scegliere le luci giuste non è un’impresa semplice. Da un lato il dipinto va protetto,

illuminato in modo che i suoi pigmenti subiscano l’azione della luce il meno possibile, ma

dall’altro bisogna anche valorizzarlo. “È complicato e ogni dipinto ha pigmenti diversi,

quindi una diversa risposta alla luce. Ci sono i rosa, i rossi, per ogni tipologia va scelta

l’illuminazione giusta. Che dia rilievo al dipinto nell’interesse di chi va a vederlo in un

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museo, ma che riesca anche a proteggerlo. Tra le possibilità più interessanti ci sono i led,

che hanno un’emissione modulabile e ci permettono di favorire l’emissione di luce rossa a

quella blu. Da un certo punto di vista contribuiamo anche a stimolare i produttori di

illuminazioni a progettare sistemi sempre più modulabili”.

La stabilità di alcuni pigmenti è legata proprio alla loro struttura cristallina e alla

composizione chimica. Se un pigmento non contiene zolfo nella sua struttura, ad esempio,

è più stabile. Per studiare quelli dei Girasoli, Monico e i colleghi si sono mossi su due

fronti. “Prima abbiamo condotto delle analisi non invasive sulla superficie del dipinto,

sfruttando le tecniche di spettroscopia convenzionale. Così abbiamo potuto differenziare i

vari tipi di di giallo di cromo e creare una mappatura delle zone più fotosensibili, quelle che

andranno monitorate più attentamente, e di quelle più ‘fotostabili’, che ci aspettiamo

rimangano intatte più a lungo”.

Alla “mappatura” delle aree più e meno fotosensibili è seguita l’analisi al sincrotrone, basata su campioni del

dipinto in possesso dei restauratori. Fotografia di Letizia Monico

La seconda parte del lavoro è stata svolta in collaborazione con l’Università di Anversa

e le facilities di sincrotrone ESRF (Grenoble) e DESY (Amburgo). Grazie alle tecniche di

spettroscopia di assorbimento a raggi X ricercatori hanno analizzato dei micro-prelievi del

dipinto forniti loro dai restauratori del museo e individuato gli stati di ossidazione del giallo

di cromo. “Queste tecniche ci hanno permesso di individuare la presenza di cromo ridotto”,

spiega Monico, “e di attribuire l’inscurimento dei gialli alla riduzione del cromo 6, quello

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originale color giallo-arancio, a cromo 3, che ha un colore ‘verdastro’”.

Nello studio premiato dalla Società Chimica Italiana ci sono i risultati applicati di 10

diversi lavori (in nove dei quali Monico è prima autrice) che hanno permesso, per gradi, di

scoprire tutta la chimica dei girasoli. “Negli studi precedenti ho descritto tutta la parte

laboratoriale, condotta su pigmenti simili a quelli dei dipinti ma che ho riprodotto come

modelli. Creare un modello più semplice ti consente di ‘giocare con la chimica’, diciamo:

su un dipinto originale trovi un sacco di cose, mentre in laboratorio sintetizzi la polvere, la

unisci all’olio e ottieni un modello semplice di cui conosci tutte le proprietà, perché l’hai

creato tu. E che ti consente di mimare tutto ciò che può essere accaduto al dipinto reale

nel corso degli anni”.

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Glossario

Composti organici volatili (COV, o VOC)

Una classe di sostanze chimiche che comprende idrocarburi alifatici, aromatici e clorurati,

aldeidi, terpeni, alcooli, esteri e chetoni. Le fonti di COV sono numerosissime: solventi,

vernici, colle, fumo di sigaretta, strumenti come le stampanti, prodotti per la pulizia della

casa e della persona e molte altre. Questi composti sono considerati un’importante fonte

di inquinamento indoor e possono avere effetti anche gravi sulla salute umana. Per

questo, ad esempio, si tende a scegliere accuratamente i materiali usati per costruire -che

devono essere certificati anche per contenuto in COV-, è importante ventilare gli ambienti

chiusi, evitare di fumare all’interno e fare un’accurata e regolare manutenzione di filtri e

caldaie in casa.

Fotosensibile

Una sostanza, un dispositivo o un materiale (come carta, pellicola o plastica) che è

sensibile alla luce e di conseguenza questa ne modifica le caratteristiche fisiche o

chimiche. I farmaci fotosensibili, ad esempio, vanno conservati lontani da fonti di luce in

appositi contenitori oscurati per evitare che vengano compromesse le loro proprietà.

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Micron (o micrometro)

L’unità di misura che indica il milionesimo di un metro - o il millesimo di un millimetro.

Nanotecnologie

Tecnologie che riguardano lo studio e la manipolazione della materia su scala

nanometrica o molecolare. Sono ormai diffuse in moltissimi ambiti dalla farmaceutica

all’informatica, fino all’energia e alla meccanica.

Nanosilici

Prodotti ottenuti grazie alle nanotecnologie e che nel restauro dei beni culturali vengono

applicati sulle superfici da proteggere o consolidare.

Neurone

La cellula funzionale del sistema nervoso che riceve, elabora e trasmette informazioni alle

altre cellule attraverso un gran numero di segnali chimici ed elettrici. Le componenti

principali sono tre: il corpo (o soma), i dendriti e l’assone.

Pigmenti

Sostanze colorate capaci di ricoprire le superfici di uno strato permanente; i pigmenti

vengono disperse in mezzi oleosi o acquosi e si possono dividere in organici e inorganici,

naturali, artificiali e sintetici. Nella pittura, fin dall’antichità, vengono usati per preparare i

colori.

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Spettroscopia

In molti ambiti della fisica moderna, dalla teoria atomica all’ottica ondulatoria, la

spettroscopia è il prezioso strumento che permette di studiare la struttura della materia

partendo dall'analisi dello spettro, cioè dalla luce che la materia emette in funzione della

sua temperatura e delle sue caratteristiche chimiche. Osservando la luce che arriva da

una stella, ad esempio, la spettroscopia permette di determinarne la temperatura e gli

elementi chimici prodotti dal suo motore, la fusione nucleare, due dei parametri chiave per

poterne individuare anche l'età e classificarla.

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Competenze

1. Nell’articolo “Come dipinge una intelligenza artificiale?”, la giornalista racconta gli

sviluppi di alcuni software in grado di imitare lo stile di grandi artisti per realizzare nuove

immagini. Dopo aver letto l’articolo, insieme a un gruppo di compagni approfondite

l’argomento con una ricerca in Internet. È possibile affermare che le immagini realizzate

da questi software sono il risultato di un processo creativo? Organizzate un dibattito sul

tema, presentando argomentazioni a favore a contro questa posizione.

2. L’articolo “Il restauro con le nanotecnologie: l’innovazione nei Musei Vaticani” esplora

le applicazioni delle nanotecnologie per la conservazione e il restauro del patrimonio

artistico e culturale. Dopo aver letto l’articolo, prepara una scheda indicando le tecniche

più indicate per ciascuno dei materiali citati, i problemi di conservazione e le soluzioni

proposte dalla scienza.

3. Nell’articolo “La chimica nei Girasoli di Van Gogh” la ricercatrice Letizia Monico

spiega i suoi studi sulla degradazione dei colori utilizzati nei Girasoli di Van Gogh. Dopo

aver letto l’articolo, insieme a un gruppo di compagni realizza un breve documentario sulle

sue ricerche. Scrivete la traccia del documentario e arricchitelo con riprese o immagini.

Presentate il documentario ai compagni e commentate il lavoro dei diversi gruppi.

4. Come racconta l’articolo “Luce e colori, il segreto delle cattedrali gotiche”, anche se

gli artigiani medioevali non lo sapevano, le nanotecnologie avevano un ruolo importante

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nella produzione delle vetrate colorate. Una simile procedura sarà utilizzata per una

telecamera robotica nella missione su Marte del 2019 dell’Agenzia Spaziale Europea.

Lavorando con un gruppo di compagni, raccogliete informazioni su questa tecnologia e

preparate una presentazione con immagini e video per illustrare i risultati ai compagni.

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Collegamenti

interdisciplinari

Filosofia

Comprendere l’evoluzione del rapporto tra arte e scienza nei secoli

In epoca classica non esisteva una divisione netta tra scienza e arte, basta pensare alle

dottrine di Pitagora, dove il mondo della natura, quello della matematica e della musica

erano intimamente interconnessi. Per non parlare poi del Rinascimento italiano con

personaggi poliedrici come Leonardo da Vinci, che rappresenta la massima coincidenza

tra arte e scienza. Quando è avvenuta la separazione tra arte e scienza? In che modo

questo rapporto si è evoluto nei secoli? Che rapporto esiste, oggi, tra arte e scienza?

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Arte

Comprendere e apprezzare il profondo legame tra scienza e arte

Ogni epoca e ogni cultura è contraddistinta da una particolare “estetica”. È per questo che

le conoscenze, anche quelle scientifiche, che si acquistano in un certo periodo

contribuiscono a creare una determinata estetica. Se in fisica troviamo la meccanica

quantistica, in arte troviamo la Quantum Art e la Geometry-Art. Se la scienza mostra i

problemi ambientali del nostro secolo, ecco che nascono la Bio –Art e la Eco-Art. Di cosa

si tratta?

Letteratura

Comprendere il dibattito novecentesco sulla cultura, e in particolare la

divisione tra arte e scienza

“Arte e scienza” è un saggio pubblicato nel 1908 da Luigi Pirandello. In questo saggio lo

scrittore italiano prende esplicitamente le distanze dall’estetica di Benedetto Croce.

Pirandello, infatti, rifiuta sia la dicotomia crociana tra arte e scienza. Cos’è questa

dicotomia? E qual è il punto di vista di Pirandello?

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Ulteriori risorse online

COV, Ministero della Salute (ITA)

http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_opuscoliPoster_283_ulterioriallegati_ulterioreallegato_3

_alleg.pdf

TED-Ed, The unexpected math behind Van Gogh's "Starry Night” (ENG)

https://www.youtube.com/watch?v=PMerSm2ToFY