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NOTIZIARIO UNIVERSITÀ LAVORO Marzo 2012 Indice Notiziario la Repubblica La grande fuga dalluniversità, ci va solo il 60% dei diplomati La Voce La lunga attesa della Riforma Gelmini Il Sole 24 Ore Lobbligo di investire in cultura La Voce Ricette per la crescita: più ingegneri e meno filosofi Lavoro e Diritti Cassazione: nei contratti di formazione lavoro se non si adempie allobbligo di formazione scatta il tempo indeterminato Corriere della Sera Lavoro, «modello tedesco» per la riforma dellarticolo 18 Corriere della Sera Polizza assicurativa per limpiego. Nuovo lavoro in quattro riforme La Repubblica Meno lavoro per i ceti medi. Ignorati impiegati e insegnanti, si cercano solo qualifiche alte

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Aprile 2011

NOTIZIARIO UNIVERSITÀ LAVORO

Marzo 2012

Indice Notiziario

la Repubblica – La grande fuga dall’università, ci va solo il 60% dei diplomati

La Voce – La lunga attesa della Riforma Gelmini

Il Sole 24 Ore – L’obbligo di investire in cultura

La Voce – Ricette per la crescita: più ingegneri e meno filosofi

Lavoro e Diritti – Cassazione: nei contratti di formazione lavoro se non si adempie all’obbligo

di formazione scatta il tempo indeterminato

Corriere della Sera – Lavoro, «modello tedesco» per la riforma dell’articolo 18

Corriere della Sera – Polizza assicurativa per l’impiego. Nuovo lavoro in quattro riforme

La Repubblica – Meno lavoro per i ceti medi. Ignorati impiegati e insegnanti, si cercano solo

qualifiche alte

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16 Marzo 2012

LA LUNGA ATTESA DELLA RIFORMA GELMINI di Giliberto Capano La riforma dell'università è stata approvata più di un anno fa. Ma la legge 240 prevede un complesso intreccio di norme, già approvate o ancora da approvare, che rendono impossibile per ora un qualsiasi giudizio sui suoi effetti. Servono almeno altri tre o quattro anni perché entri a pieno regime. E dunque per capire se, come e dove il disegno riformatore inciderà effettivamente sul funzionamento del sistema universitario. Una lunga attesa sia per chi ha accolto con favore la legge Gelmini sia per chi ne ha rilevato fin dall'inizio alcune evidenti problematicità. Sono passati quasi quindici mesi da quel 22 dicembre del 2010 in cui venne approvata definitivamente la riforma Gelmini dell’università. La legge 240/10 ha riscritto completamente l’architettura normativa del sistema universitario italiano, indugiando forse troppo in un’ansia iper-regolatrice che poteva rallentare notevolmente l’attuazione di principi generali. In effetti, per entrare completamente a regime, la legge Gelmini necessita dell’emanazione di almeno quarantacinque atti governativi (tra decreti legislativi, decreti ministeriali, regolamenti e decreti di natura non regolamentari) e di almeno quattordici atti regolamentari da parte di ciascuna università (che, ovviamente, sono tenute a emanare anche un nuovo statuto coerente con i principi costitutivi stabiliti dalla legge). Pertanto, come facilmente prevedibile, a più di un anno dalla sua entrata in vigore, la riforma è ancora in fase di carburazione ed è lecito aspettarsi che i motori potranno girare a pieno regime non prima del 2014. GLI ATTI APPROVATI E QUELLI DA APPROVARE Vediamo di capire il perché, cominciando dagli atti governativi. Al momento ne sono stati emanati ventiquattro e due, assolutamente strategici nel disegno attuativo, sono in dirittura d’arrivo: il primo riguarda i criteri per la selezione degli “abilitabili” e di coloro che possono aspirare a fare i commissari e il secondo la programmazione, il monitoraggio e la valutazione delle politiche di bilancio e di reclutamento degli atenei. Siamo insomma poco oltre la metà degli atti necessari. Per quanto concerne gli statuti, invece, non siamo a nemmeno a metà del guado, perché solo ventitré delle sessantasette istituzioni universitarie statali sono arrivate a emanare il loro statuto (e almeno tre di queste, Catania, Genova e Torino-Politecnico, hanno subito il ricorso al Tar del ministero). Certamente nei prossimi due o tre mesi tutte le università saranno riuscite a far entrare in vigore la loro nuova carta costituente, ma la lentezza del processo statutario inciderà ulteriormente sulla farraginosità della messa in opera proprio perché, per approvare la gran parte dei quattordici regolamenti interni necessari al funzionamento del nuovo regime, è necessario aver formalizzato il passaggio al nuovo statuto. QUEL CHE RESTA DA FARE Al quadro generale giova affiancare, per argomentare ancora meglio il fatto che la legge Gelmini comincerà a lavorare a pieno regime solo dal 2014, alcune altre puntualizzazioni: Solo entro la fine dell’anno in corso tutti gli atenei avranno completato le fasi basilari per l’adozione del nuovo impianto istituzionale imposto dalla legge 240: l’elezione dei nuovi senati, la formazione dei nuovi Cda, la prima attuazione della riorganizzazione dipartimentale, la costituzione, ove previste, delle strutture di raccordo per la didattica. È lecito aspettarsi, quindi, che la complessità della prima attuazione del

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ridisegno organizzativo interno necessiti di almeno un anno per riuscire a trovare assetti e modalità di funzionamento stabili. Solo entro l’anno in corso (in teoria a ottobre) verrà bandito il primo concorso nazionale per l’abilitazione alle due fasce professorali. E quindi forse solo con l’inizio dell’anno accademico 2013-2014 avremo i primi professori selezionati con il nuovo sistema concorsuale, sulla base di concorsi locali per i quali ogni ateneo si deve dotare di regolamenti propri; A partire dal 1º gennaio del 2014 le università dovranno adottare la contabilità economico-patrimoniale e analitica e il bilancio unico, quindi un sistema di governo e programmazione delle proprie finanze che non solo è decisamente diverso da quello attuale ma che ha anche profonde implicazioni organizzative e gestionali, al momento assai sottostimate negli atenei; Il nuovo sistema stipendiale (fondato su scatti triennali attribuiti dagli atenei sulla base di regolamenti autonomi) potrà iniziare a essere utilizzato solo a partire dal 2014, visto il blocco degli stipendi in vigore fino al 31 dicembre del 2013 (e non a caso nessuna università ha ancora provveduto a ragionare sui criteri da adottare per gestire una competenza così rilevante, come quella della progressione stipendiale dei professori, sulla quale mai avevano avuto la minima autonomia); Il nuovo sistema di accreditamento dei corsi di studio inizierà a entrare a regime (secondo quanto disposto dal Dlgs 19/2012, se l’Anvur emanerà gli atti necessari nei sei mesi previsti) a partire dall’anno accademico 2013-2014 e avrà bisogno di almeno un quinquennio per avere effetti sistemici sul comportamento delle università relativamente all’organizzazione e gestione della loro offerta formativa. UN GIUDIZIO IMPOSSIBILE Come si può capire, il processo di attuazione della legge 240/2010 è davvero ancora nella fase di assemblaggio di tutti gli elementi necessari alla sua operatività. E quindi non è possibile, per ora, alcuna valutazione sulla sua efficacia nel raggiungere gli obbiettivi previsti, come il miglioramento della qualità della governance e dell’accountability delle università; la competizione meritocratica tra le istituzioni universitarie ai fini del finanziamento pubblico, il miglioramento della qualità della didattica offerta. Gli unici dati a disposizione su cui discutere riguardano il contenuto delle norme adottate, sia dal governo sia dalle università. Ad esempio si può ragionare, e lo si farà certamente in modo approfondito nei prossimi mesi, su come gli atenei abbiano attuato nei loro statuti i principi posti dalla legge 240 relativamente alla composizione degli organi di governo e al ruolo e alle competenze dei dipartimenti e delle strutture di secondo livello. Oppure si possono analizzare le regole adottate in ogni ateneo per il reclutamento dei ricercatori a tempo determinato. Anche se, in moltissimi casi, è davvero difficile dedurre effetti pratici da norme spesso abbastanza generali fino a quando non le si vedrà in azione. Nulla di più. Per il momento, quindi, è impossibile vedere effetti pratici, negativi oppure positivi, dal complesso intreccio di norme approvato e da approvare. Bisognerà attendere almeno altri tre o quattro anni per capire se, come e dove il disegno riformatore della legge 240 avrà davvero avuto un impatto sul funzionamento del sistema universitario. L’attesa è lunga, quindi, sia per chi ha accolto con favore il contenuto della legge Gelmini sia per chi ne ha rilevato fin dall’inizio alcune evidenti problematicità, dalla debolezza delle previsioni sull’assetto del governo degli atenei all’eccessiva minuzia regolativa.

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13 Marzo 2012

RICETTE PER LA CRESCITA: PIÙ INGEGNERI E MENO FILOSOFI di Nicola Persico La mancanza di sbocchi lavorativi per i laureati italiani è un problema serio. Tuttavia, a renderlo ancora più grave contribuiscono le scelte dei giovani, che spesso si orientano verso le facoltà umanistiche tralasciando quelle scientifiche o manageriali. Dovremmo invece seguire l'esempio di Singapore, un paese che non ha risorse naturali, ma che negli ultimi anni è cresciuto più dell'Italia. Perché ha investito nel capitale umano dei suoi giovani e oggi produce, in proporzione, il doppio dei nostri ingegneri e manager, un ottavo dei nostri avvocati e un quarto dei nostri umanisti. Il Corriere della Sera ha di recente pubblicato un articolo dal titolo “I laureati italiani? Sempre più disoccupati”.1 Ovviamente, la mancanza di sbocchi lavorativi in Italia è un serio problema. Però credo che sia reso ancora più grave dalla scelta improvvida della facoltà universitaria. IL CAPITALE UMANO DI SINGAPORE Nel 2004, quando insegnavo alla University of Pennsylvania, mi capitò sotto mano il libretto universitario più spettacolare che abbia mai visto: doppio major (laurea, diciamo) in economia e matematica, tutti A (il voto più alto possibile), e percorso universitario finito in tre anni invece di quattro. A chi apparteneva questo libretto? A Jasmin Lau, studentessa di Singapore, una delle due arrivate quell'anno a University of Pennsylvania con una borsa di studio dello Stato di Singapore. L'aneddoto rivela un fenomeno più generale. Singapore sta facendo qualcosa di buono con i suoi studenti. Infatti, se guardiamo i punteggi Pisa del 2009 gli studenti di Singapore risultano secondi al mondo per capacità matematiche, mentre l’Italia è al trentaquattresimo posto in classifica. 2 Singapore è anche una delle nazioni cresciute più velocemente negli ultimi trenta anni, e infatti ha ampiamente scavalcato l'Italia per Pil pro-capite.3 Le due cose sono collegate: Singapore cresce non perché abbia risorse naturali--non ne ha--ma perché ha capitale umano. COSA STUDIANO A SINGAPORE? E allora, se Singapore ha capito tutto dell'istruzione, perché non andare a guardare cosa studiano i suoi studenti? Mi riferisco in particolare alla distribuzione degli studenti fra le diverse discipline di studio perché una cosa che mi ha sempre colpito dell'Italia è quante persone studiano discipline come Filosofia, che hanno scarsi sbocchi lavorativi.

1 L’articolo, pubblicato sul Corriere della Sera del 6 marzo 2012, riprende un rapporto di Almalaurea sul mercato del lavoro che è

interessante e consiglio a tutti. 2 Pisa, Programme for International Student Assessment, è un’indagine internazionale promossa dall’Ocse che mira ad accertare

con periodicità triennale conoscenze e capacità dei quindicenni scolarizzati dei principali paesi industrializzati. 3 Passando da un reddito pro capite pari al 40 per cento di quello Usa nel 1980, all'82 per cento nel 2010. Il rapporto Usa/Italia nello

stesso periodo è rimasto praticamente invariato.

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Ho perciò costruito la seguente tabella incrociando i dati Istat sulla tipologia delle lauree rilasciate nel 2004 da corsi di 4-6 anni, con i corrispondenti dati per Singapore. 4 Naturalmente per riconciliare le differenti classificazioni ho dovuto fare alcune scelte un po' arbitrarie, ma nulla che infici il messaggio di fondo. La tabella riporta le percentuali di laureati per disciplina. Si nota come i laureati italiani si concentrino su discipline umanistiche, mentre quelli di Singapore si concentrano su discipline scientifiche e manageriali.

Se prendiamo Singapore come un modello di una nazione che vive di capitale umano, che mi sembra debba essere la vocazione dell’Italia, vediamo che non solo c'è una differenza di livello di istruzione (vedi i punteggi Pisa), c’è anche una differenza di composizione della coorte dei laureati. Non è dunque troppo sorprendente che un sistema come quello di Singapore, che produce il doppio (in proporzione) dei nostri ingegneri e manager, un ottavo dei nostri avvocati e un quarto dei nostri umanisti, sia più capace di innovare e di crescere. MA L'UMANESIMO PAGA? Perché gli studenti italiani sono così sbilanciati a favore delle discipline umanistiche, non solo rispetto a Singapore, ma anche rispetto a qualsiasi concezione realistica della composizione della domanda di lavoro? È possibile che, in una maniera o nell'altra, tutti gli umanisti che produciamo se la passino meglio degli scienziati? Per saperne di più mi rivolgo di nuovo all'Istat. La tabella seguente riporta un altro dato sul campione dei laureati italiani di cui alla tabella precedente: la percentuale dei laureati in ogni disciplina che, a tre anni dalla laurea, avevano un lavoro di tipo continuativo, dipendente, e a tempo indeterminato, il mitico "posto fisso" insomma. La tabella evidenzia considerevoli discrepanze che vanno più o meno nella direzione che ci si aspetterebbe. Eccetto per i geo-biologi, i laureati in tutte le discipline scientifiche hanno una probabilità di impiego fisso superiore al 50 per cento, così come i laureati in discipline economico/manageriali. Nessun'altra disciplina raggiunge la soglia del 50 per cento.

4 Si veda, rispettivamente, "I laureati e il mercato del lavoro: Inserimento professionale dei laureati. Indagine 2007", a cura di

Francesca Brait e Massimo Strozza. Prospetto 1.2, pag. 16. E Ang Seow Long, "Gender Differentials in Fields of Study among Graduates", Statistics Singapore Newsletter, September 2006.

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Metto subito le mani avanti: la tabella dà un quadro troppo netto. Gli architetti, per esempio, non sono quasi tutti disoccupati: lavorano, e anche in modo continuativo; ma lo fanno come lavoratori autonomi (50,9 percento di essi, secondo l’Istat)mentre la tabella riporta solo i lavoratori dipendenti. Per questa ragione la tabella va interpretata con cautela. Ma, nonostante questa limitazione, credo che la misura che ho scelto sia comunque correlata con quello che intendo misurare, cioè la facilità per i laureati di trovare un buon lavoro stabile. 5 Tenendo a mente la cautela interpretativa, la tabella ci dà comunque un messaggio: le discipline umanistiche non pagano, quelle scientifico/manageriali sì. O, per essere più precisi, è più facile trovare un lavoro dipendente a tempo indeterminato laureandosi in scienze o economia, che non in discipline umanistiche. In conclusione: è vero che è difficile trovare lavoro, però è vero anche che la popolazione investe nel tipo di capitale umano meno vendibile sul mercato del lavoro.

5 Misure che includono lavoro autonomo, occasionale, etc. sarebbero a mio giudizio meno utili perché sospetto che alcuni (molti?)

di quegli architetti che si dichiarano lavoratori autonomi non abbiano abbastanza lavoro. Ecco perché ho preferito riportare la percentuale di lavoratori dipendenti come misura della facilità di trovare lavoro.

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12 Marzo 2012

Cassazione: nei contratti di formazione lavoro se non si adempie all’obbligo di formazione scatta il tempo indeterminato Di Massima di Paolo

La Corte di cassazione, con sentenza n. 3625 dell’8 marzo 2012, ha affermato che, nelcontratto di

formazione lavoro, qualora manchi l’addestramento pratico, il lavoratore va assunto a tempo

indeterminato poichè, viene a mancare il presupposto stesso del contratto di formazione.

Il caso ha riguardato il ricorso presentato da una ditta avverso la decisione del Tribunale di primo grado con

la quale, si respingeva il ricorso avverso una cartella esattoriale per il pagamento di contributi INAIL e INPS

di un lavoratore assunto con contratto di formazione lavoro.

Il giudice di merito aveva accertato che il lavoratore era stato adibito, dalla data di assunzione a quella di

cessazione del rapporto di formazione lavoro, alla funzione di carrellista , “consistente nella guida di muletti

per spostare prodotti finiti”.

Secondo la corte d’appello, il lavoratore “non aveva ricevuto alcuna formazione né teorica né pratica

essendo stato adibito a mansioni elementari e ripetitive”, talchè “era mancato il presupposto legittimante

del contratto di formazione” (Cass. nr. 9294/2011 e nr 11365/2008).

Secondo gli Ermellini, per orientamento giurisprudenziale, nel contratto di formazione e

lavoro,“l’addestramento pratico, finalizzato all’acquisizione da parte dl lavoratore della professionalità

necessaria all’immissione nel mondo del lavoro, costituisce parte integrante della causa del contratto

stesso”.

In mancanza di tale presupposto, dunque, e”non è integrata la fattispecie del Cfl. Infatti, proseguono i

giudici, “il contratto di formazione lavoro è un contratto a causa mista che prevede a fronte della

prestazione di lavoro, l’obbligo datoriale di corrispondere una retribuzione e di fornire un addestramento

finalizzato all’acquisizione della professionalità necessaria per la definitiva immissione del giovane nel

mondo del lavoro”.

Ove manchino tali presupposti, il contratto va considerato a tempo indeterminato.

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IL NEGOZIATO: CHE COSA CAMBIA CON LA PROPOSTA DEL GOVERNO SUL TAVOLO DELLE PARTI SOCIALI

Polizza assicurativa per l'impiego Nuovo lavoro in quattro riforme Il periodo di transizione più breve (ridotto dal 2017 al 2015) Indennità di disoccupazione di 1.119 euro fino a 18 mesi ROMA - Come sarà il nuovo mercato del lavoro? La trattativa fra governo e parti sociali non è ancora finita ma le indicazioni di massima sul nuovo sistema ci sono già. Si tratta di uno schema probabilmente destinato a essere in parte modificato vista la reazione negativa delle parti sociali. Riordino dei contratti Oggi esiste una giungla contrattuale. Siano 46 come dice la Cgil o molti meno come dice la Confindustria sono comunque troppi. E generano precarietà, soprattutto fra i giovani. Con la riforma i contratti a termine costeranno di più (ci sarà un'aliquota dell'1,4%). Le imprese saranno quindi scoraggiate a utilizzarli mentre dovrebbero trovare più conveniente ricorrere al contratto di apprendistato, sul quale per i primi tre anni non si pagano contributi o se ne pagano pochissimi (dipende dalla dimensione dell'azienda). Durante l'apprendistato il lavoratore dovrà ricevere una formazione certificata e non potrà essere licenziato se non per giusta causa o giustificato motivo. Al termine l'azienda deciderà se stabilizzare l'apprendista con un contratto a tempo indeterminato oppure se concludere il rapporto di lavoro. Il sistema si baserà sulla riforma varata dal precedente governo, che prevede tre forme di apprendistato: di base, professionalizzante, di alta formazione. Per farlo decollare, però, entro il 25 aprile le Regioni dovranno varare le leggi di loro competenza. Le parti sociali sono sostanzialmente d'accordo su questo capitolo, con qualche richiesta. I sindacati vogliono la soppressione almeno delle associazioni in partecipazione e la limitazione di co.co.pro e voucher. Le piccole imprese sono contrarie a far costare di più i contratti a termine. Le due stampelle Per gli ammortizzatori sociali il modello ideato dal ministro Fornero prevede una sorta di copertura universale impostata su due livelli. Da una parte rimane la cassa integrazione ordinaria pagata dalle aziende e dai lavoratori secondo gli schemi attuali. Rimarrà anche la cassa integrazione straordinaria, un ripensamento da parte di Fornero di fronte alle richieste delle parti sociali. Però il ministro ne ha limitato il ricorso alle aziende che si devono ristrutturare - anche pesantemente - ma che non sono destinate alla chiusura. In questo caso niente «scivolo o mobilità» come avviene attualmente ma ricorso all'assegno di disoccupazione condizionato da verifiche come avviene in Germania: se il lavoratore non accetta l'impiego offerto dalle agenzie di collocamento rischia di perdere l'assegno mensile. L'assicurazione sociale È la novità dell'incontro di ieri. Il ministro del Lavoro Elsa Fornero ha annunciato che l'assicurazione sociale per l'impiego dovrebbe sostituire le attuali indennità di mobilità, incentivi di mobilità, disoccupazione per apprendisti, una tantum co.co.pro. e altre indennità e si applicherà a tutti i lavoratori dipendenti privati e ai lavoratori pubblici con contratto a tempo determinato. Insomma tutto quanto previsto anche dalla cosiddetta cassa in deroga dovrebbe confluire in una sorta di Inail per la disoccupazione universale. Una idea che la Fornero ha sempre avuto ed espresso sin dalle prime complicate riunioni della trattativa avviata alla fine di gennaio. Per usufruire della futura assicurazione sociale - che dovrebbe arrivare a partire dal 2015 - occorrerà avere due anni di anzianità assicurativa e almeno 52 settimane lavorative nell'ultimo biennio; durerà da 8 a 12 mesi per tutti i lavoratori uomini e donne per salire a 18 nel caso di disoccupati oltre i 58 anni. L'importo massimo sarà circa di 1.119 euro mensili con un abbattimento del 15% dopo i primi 6 mesi e un ulteriore 15% dopo altri 6 mesi. L'aliquota contributiva pagata da tutte le imprese sarà

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dell'1,3%, incrementata di 1,4% - cioè sale complessivamente al 2,7% - nel caso di contratti che si riferiscono a lavoratori a tempo determinato. Se l'azienda stabilizza il dipendente «precario» l'aliquota torna all'1,3%. Licenziamenti È il capitolo ancora da affrontare, l'ultimo, il più delicato della riforma. Non ci sarà più l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori così com'è ora e i tempi delle cause di lavoro dovrebbero essere velocizzati. Il diritto di chi è stato licenziato a essere reintegrato nel posto di lavoro verrà limitato. Secondo il governo e la Confindustria dovrebbe restare solo per i licenziamenti discriminatori. In tutti gli altri casi - licenziamenti per motivi economici e disciplinari - il lavoratore riceverebbe invece un indennizzo economico proporzionale all'anzianità di servizio (forse con un tetto pari a 18 mesi di retribuzione, come nel modello tedesco) deciso dal giudice o da un arbitro scelto tra le parti. L'esecutivo sarebbe però disponibile a rafforzare le tutele per i lavoratori delle aziende con meno di 15 dipendenti (oggi escluse dall'articolo 18). Se invece dovesse passare la proposta della Cisl, uscirebbero dal diritto al reintegro solo i licenziamenti per motivi economici (scatterebbe un indennizzo secondo una procedura sindacale, come per i licenziamenti collettivi) ma non quelli disciplinari. Infine, se dovesse passare la linea minimalista della Cgil, l'articolo 18 non verrebbe toccato ma si stabilirebbero norme per accelerare i processi riguardanti i licenziamenti e forse si aprirebbe alla possibilità di ricorrere all'arbitro. Le nuove regole sui licenziamenti si applicheranno inizialmente ai nuovi assunti ma non è escluso che dopo un paio d'anni siano estese a tutti. R. Ba. Enr. Ma. 13 marzo 2012 | 9:32 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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