Antarès, Prospettive Antimoderne, Numero 6 (2014)

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America ! America? Sguardi sull’Impero antimoderno PROSPETTIVE ANTIMODERNE N. 06/2014

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  • America!America?

    Sguardi sullImpero antimoderno

    PROSPETTIVE ANTIMODERNE N. 06/2014

  • n. 06/2014

    America! America?

    pag. 2 Introduzione di Giorgio Galli

    pag. 3 Editoriale: America s, America no

    Saggi:pag. 6 Giorni di ordinaria follia di Claudio Bartolinipag. 9 Il mito dellallunaggio di Mattia Carbonepag. 13 Edward Hopper: lultimo dei puritani di Ilaria Floreanopag. 16 Woody Allen e larte della fuga dal nostro Occidente di Marco Iaconapag. 19 Lantiamericanismo tradizionale di Julius Evola di Alberto Lombardopag. 22 Fra le pagine dAmerica di Gianpiero Mattanzapag. 25 Il secolo di Mr. Hyde: lAmerica vista da Geminello Alvi a cura di Riccardo Paradisipag. 28 La vergine dei pavoni nei territori del diavolo di Silvio Raffopag. 31 Il popolo del mais di Diego Sobr

    Interviste:pag. 34 Marcello Veneziani: americanismo e antiamericanismo a cura di Andrea Scarabellipag. 35 Lucio Valent: nascita e ascesa di una potenza egemone a cura di Emanuele Guarnieri

    Miscellanea:pag. 41 Adriano Olivetti: una visione di armonia politico-sociale di Mario Sammarone

    Narrativa:pag. 46 Quando i lill di Pierfrancesco Prosperi

    Recensioni:pag. 49 Neil Gaiman: American Gods di Emanuele Guarnieripag. 51 J. R. R. Tolkien: La caduta di Art di Rita Catania Marrone e Andrea Scarabelli

    pag. 54 Segnalazioni

    Antars, Prospettive AntimoderneRIVISTA TRIMESTRALE GRATUITA

    Direttore responsabile: Gianfranco de TurrisDirettore editoriale: Andrea ScarabelliCaporedattori: Rita Catania Marrone, Emanuele GuarnieriRedazione: Gianpiero Mattanza, Valerio Morosi, Natale Pezzimenti, Luca SiniscalcoHanno scritto: Claudio Bartolini, Mattia Carbone, Rita Catania Marrone, Ila-ria Floreano, Luca Gallesi, Giorgio Galli, Emanuele Guarnieri, Giorgio Guido, Marco Iacona, Alberto Lombardo, Gianpiero Mattanza, Riccardo Paradisi, Pierfrancesco Prosperi, Silvio Raffo, Mario Sammarone, Andrea Scarabelli, Luca Siniscalco, Diego Sobr, Lucio Valent, Marcello VenezianiIllustrazioni di: Alessandro Colombo, Irene Pessino

    Progetto grafico e AD: panaro designImpaginazione: Studio Caio Robi Silvestro

    Edizioni Bietti - Societ della Critica srl, Sede legale: C.so Venezia 50, Milano www.edizionibietti.it

    In attesa di registrazione presso il Tribunale di MilanoStampa: ProntoStampa srl, Via Redipuglia 150, Fara Gera dAdda (BG)

    [email protected] anche su Facebook, alla pagina Antars Rivista.

    Sguardi sullImpero antimoderno

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    Il presente numero dedicato a una presentazione dei sintomi della crisi della modernit, i quali si manifestano proprio laddo-ve nata, vale a dire negli Stati Uni-ti. Gli approcci dei saggi sono mol-to eterogenei fra loro, quasi questi segnali non si traducessero in una completa sintomatologia. Elemen-to unifi cante, come precisa ledito-riale, lantimodernismo, inteso non tanto come antimodernit ma nei termini di una messa in di-scussione delladorazione acritica e dellesaltazione di un momento storico. Del quale, a proposito del-la ideologia dei diritti delluomo, sempre citata nelleditoriale, rima-ne fondamentale laccettazione del concetto di eguaglianza secondo la lettura che ne diede Alexis de Tocqueville: Comporre una so-ciet in cui gli uomini fossero cos simili e di condizione tanto egua-le quanto pu essere consentito allindole umana Non solo egua-li, ma liberi. Credo che il quan-to sia consentito si riferisca non a una impossibile e astratta eguaglianza assoluta ma a un eguale esercizio dei diritti, condizione necessaria per essere liberi anche se non su ciente, come prova una societ come quella nordameri-cana, nella quale lindividualismo economico ha tradotto il diritto alla ricerca della libert dei padri fondatori in una struttura classista che il tempo non ha reso pi duttile, ma rigida (ben altro dalla so-ciet liquida di Bauman).

    Tra gli scritti, il pi organico lintervista a Lucio Valent. Il ter-mine schizofrenico vi fi gura due volte, allinizio e alla fi ne della storia nordamericana, prima a proposito del rapporto tra colo-ni e madrepatria e poi di quello con la comunit europea. Al di l della accezione rigorosamente medica, il termine indica la persistenza di una patologia legata a quello che il fi lo condutto-re del mio saggio Limpero antimoderno. La crisi della modernit statunitense da Clinton a Obama (Edizioni Bietti, Milano 2013). Le stragi ricorrenti continuano, con coincidenze che mi paiono confermare la validit dellanalisi: il libro usc in concomitanza con la bomba esplosa durante la maratona di Boston, e ho cominciato a scriverlo il 16 settembre, il giorno in cui lafro-americano Aaron Alexis, che era stato tra gli eroici soccorritori dell11 settembre, nonostante precedenti di turbe mentali diventato contractor della Marina, entrava in divisa paramilitare nella sua pi importante base

    operativa (Navy Yard, nel centro di Washington), sparando con un fu-cile a pompa e provocando dodici morti. Dapprima si parl di com-plici, poi questi vennero esclusi ma ancora non si chiarito come sia stato possibile, n la ragione per la quale, solo pochi giorni dopo, il 4 ottobre, una madre con un bim-bo a bordo abbia forzato un posto di blocco alla Casa Bianca, fi nendo uccisa dalla polizia: follia endoge-na nel cuore dellimpero.

    Oltre alle stragi precedenti da me segnalate, una ha avuto un se-guito, quella alla scuola di New-town, nel Connecticut, dove il 14 dicembre 2012 il ventenne Adam Lanza uccide dodici bambini e sei adulti. Si diff onde la voce che non sia mai avvenuta, che una fi n-zione orchestrata da Obama e dai media della sinistra per ottenere una limitazione alluso delle armi. Oltre dieci milioni di spettatori vedono un breve fi lmato di trenta minuti che registra sul posto di-screpanze minime, contraddizioni

    e rettifi che delle prime versioni, per sostenere trattarsi di uninven-zione. Nel febbraio 2013, a Newtown arrivano da tutto il Paese ne-gazionisti, che vogliono raccogliere prove della montatura. Forse si trattato di una campagna promossa dai fabbricanti di armi. Nel giugno dello stesso anno, una assemblea della comunit decide di abbattere ledifi cio per ricostruire la scuola altrove. Mentre conclu-do lo scritto, altre stragi si verifi cano a New York e in Arizona.

    La traduzione artistica di questa schizofrenia oggetto di due saggi: quello su Flannery O Connor e quello dedicato al fi lm Giorni di ordinaria follia. Mentre i negazionisti di Newtown fan-no pensare, in contesti molto diversi, ad altri momenti drammatici della crisi della modernit nordamericana, altra cosa sono i dubbi sulla versione u ciale dell11 settembre e un altro sorprendente negazionismo, che rifi uta di credere al culmine tecnologico della modernit, larrivo sulla Luna, contrappunto ad Andrea Zanzotto e il mito dellallunaggio.

    Completano i sintomi, in termini di trasformazione e allontana-mento, i saggi Il popolo del mais, il petrolio giallo, indice di una frattura insanabile dellidea che lAmerica ha di se stessa, e Woody Allen e larte della fuga dal nostro Occidente: se i sogni come via di fuga sono il termometro della felicit, forse stata abbandonata la sua ricerca, base moderna della Costituzione nata dal 1776.

    Introduzionedi Giorgio Galli

    Il fascicolo di Antars appena dato alle stampe, che in-daga gli Stati Uniti dAmerica come paradigma del vacillare della modernit, potrebbe considerarsi come ideale continuazione del n. 4, dedicato alla crisi del modello capitalista, struttura eminentemente moderna. Modernit e americanismo sono elementi di unequazione davvero sin-golare. Spesso vengono considerati sinonimi, specialmente dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, come notato da Romano Vulpitta in un suo recente studio (Lan-tiamericanismo in Italia, Roma 2012, p. 30). Questo per non toglie che, al tempo stesso, gli USA esibiscano le nu-merose contraddizioni della modernit. Tali considerazioni accomunano intellettuali dei pi svariati indirizzi, tra cui Alain de Benoist che sostenne queste tesi gi dopo l11 settembre e Giorgio Galli, nel suo recente Limpero an-timoderno (della collana lArcheometro di Bietti, com-plemento di Antars), studio che stato in certa misura il canovaccio del presente fascicolo. Trattandosi di un domi-nio molto vasto, non potremo che limitarci a dare qualche indicazione e messa a punto.

    Anzitutto, parlare di antiamericanismo non equivale a essere contro lAmerica, ma contro il culto degli USA, esattamente come lo ripetiamo da tempo, ma di fronte a obiezioni poco ponderate, repetita juvant antimodernit e antimodernismo sono atteggiamenti ben distinti. Il primo il rifiuto aprioristico dellepoca storica in cui si vive (atteg-giamento tanto sterile quanto, in fin dei conti, impossibile), il secondo lindirizzo assunto da questa rivista la mes-sa in discussione delladorazione acritica di quel momento storico, della sua celebrazione ed esaltazione. Di certo non saranno sufficienti rettifiche di questo tipo a rimuovere pre-giudizi assai pi antichi, ma si fa quel che si pu...

    Discutere sullidentit della realt americana ci dice qual-cosa non soltanto su di loro, ma anche su noi stessi. Loro lattuale potenza che detiene legemonia globale. Noi che rispetto agli USA definiamo la nostra identit europea mo-derna. E il bilancio, a dire il vero, non dei migliori. Il dibat-tito, spesso marcato da una certa virulenza, scatenatosi nei primi anni del nuovo millennio sullesistenza o meno di un impero americano ha visto schierarsi opinionisti, saggisti e giornalisti. La ferocia con cui si reagisce di fronte a quelle posizioni che criticano limpero statunitense spesso for-midabile. Siamo ancora nel dominio tutto italiano delle etichette: spesso e volentieri si qualificano le opposizio-ni semplicisticamente come fasciste o marxiste per non ascoltarle, relegandole a un passato che lAmerica avrebbe finalmente sepolto. Eppure, come scrive Marco Tarchi in un suo studio sul quale ritorneremo, non necessario ricorrere a nostalgismi di sorta per criticare gli Stati Uniti, impero

    inconsapevole di essere tale (Ignatieff ) che non conosce n tollera freni, promuovendo una sregolata esportazione di capitalismo e democrazia. Di modernit, insomma.

    Lantiamericanismo una di quelle tematiche che fanno saltare del tutto le vecchie opposizioni politiche, per come si sono cristallizzate nel nostro Paese. un fenomeno trasver-sale, che supera le barriere ideologiche di ieri, spaziando dalla Rerum Novarum di Leone XIII ad Americanismo e Fordismo di Gramsci (Torino 1975), da Adorno e Horkheimer fino a Sombart e Spengler. Daltra parte, come esistono antiameri-canismi di destra e sinistra, anche il filoamericanismo supe-ra le antiche opposizioni, caratterizzando avversari di cui sempre pi palese la radice comune. Incredibile? Basterebbe leggersi gli editoriali delle testate pi famose allindomani dell11 settembre per riscontrarvi le stesse parole dordine. Il gi citato Vulpitta (op. cit., p. 71), a questo proposito, nota come oggi lantiamericanismo sia appannaggio di frange po-litiche radicali, i centristi di destra e di sinistra non essendo che appendici europee degli USA. Parole che non possiamo che sottoscrivere.

    Non c dunque un antiamericanismo solo: daltra parte, scrive Vulpitta (op. cit., p. 16), la molteplicit delle avver-sioni al sogno americano riflette le innumerevoli sfaccetta-ture di questo stesso sogno nonch, ovviamente, i diversi rapporti intrattenuti dagli statunitensi con quello che defi-niscono sprezzantemente Row (rest of the world). Claudio Finzi (Europa Occidente Americhe, Roma 2009, p. 7) a sua volta parla di Americhe, al plurale, mentre Giorgio Galli ri-corda come sarebbe meglio riferirsi agli Stati Uniti e non allAmerica tout court, anche perch esistono altre realt politiche oltreoceano (che, oltretutto, degli Stati Uniti su-biscono sovente lingerenza, gli interessi, le ambizioni).

    Perch questo excursus su destra e sinistra? Per quale ragione tornare ancora su categorie la cui bancarotta e il cui fallimento progettuale almeno a livello italiano, sebbene molti ancora ci costruiscano su carriere sono sempre pi sotto gli occhi di tutti? Semplicemente perch sono i filtri con i quali gli USA stessi interpretano ogni posizione che metta in dubbio il carattere assoluto della loro missione ci-vilizzatrice. Quando in Europa si avanzano dubbi sulla le-gittimit delloperato statunitense, si filo-sovietici oppure pazzi reazionari. Eppure, ad onta di quanto lopinione ame-ricana percepisce, essere scettici non equivale ad auspicare il ritorno di Mussolini (il cui parere sugli USA fu peraltro molto pi complesso di quanto abitualmente si creda) n a essere marxisti o comunisti, ma nasce dalla constatazione dei numerosi danni, a livello politico ed economico, che ses-santanni di dominio planetario, di colonizzazione cultu-rale e psicologica (Marco Tarchi, Contro lamericanismo,

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    Roma-Bari 2004, p. 141) hanno causato. Eppure la critica statunitense si ben vaccinata contro queste accuse, come daltra parte i suoi allievi nostrani hanno ben imparato, sco-prendosi da un giorno allaltro tutti americani. La tra-sversalit menzionata, purtrop-po, riguarda anche gli anatemi che colpiscono i dissensi...

    Non serve essere filosovietici per pronunciarsi contro lAme-rica: come dimenticare le te-stimonianze di chi denunci, ad esempio, la comunanza tra i satelliti dellunione sovieti-ca e i vassalli dellimperiali-smo statunitense (Alain de Be-noist, Limpero del bene, Roma 2004, p. 149) o gli orizzonti del tutto analoghi che permearono le ideologie dei due blocchi? Come ignorare quanto scrisse Ernst Jnger, nel suo Stato mon-diale, a proposito dellidentit di stella bianca e stella rossa? Come non ricordare le parole del filosofo Julius Evola, a cui dedicato uno specifico con-tributo, il quale, sulle colonne della Nuova Antologia, defin in tempi non sospetti america-nismo e bolscevismo identici, da un punto di vista metastori-co come le braccia di una te-naglia in procinto di stringersi sullEuropa?

    Riferimenti perlopi sbattu-ti nel dimenticatoio, soff ocati da un terrifi cante buonismo da primi della classe, che tuttavia pronto a squalifi care lavversa-rio come Male Assoluto, nulla risparmiando, nulla escludendo, laddove si tratti di annientarlo moralmente, fi sicamente, spi-ritualmente il mondo non capisce quanto siamo buoni! di George W. Bush, pronunziato un mese dopo lattacco al World Trade Center. La straordinaria ingenuit degli americani li por-ta a non concepire nemmeno che da qualche parte del pianeta qualcuno possa essere in disaccordo con la loro missione. Lolografi a della inarrivabile bont americana, cos defi ni-ta da Marco Tarchi (op. cit., p. VI), facilmente riscontrabile in quello che un capolavoro della vulgata a stelle e strisce, sul quale ritorneremo in questo numero (Lantiamericanismo in Europa, Soveria Mannelli 2007, p. 11), in cui Russel A. Berman, lungi dal considerare sintomatico di un certo agire americano le ondate di antiamericanismo diff use in Europa, aff erma che queste recano le strutture ossessive di un modo di pensare fatto di pregiudizi e stereotipi (p. 50), una

    fantasia politica, una visione illogica e ideologica (p. 52), uneccedenza isterica che va oltre la ragione (p. 76). Che lantiamericanismo sia in buona parte condizionato da ele-menti storici esterni agli USA naturale. Accade per qualsiasi

    fattore storico, perch non do-vrebbe valere anche per questo? Ma che la condotta globale statu-nitense non ne sia minimamente responsabile...

    Molti di costoro, poi, giungo-no allimprudenza di parlare di declino dellimpero [sic!] statu-nitense, minimizzando il ruolo ricoperto dagli USA a livello globale. Anche qui, valga quanto detto sopra. Ascrivere agli Stati Uniti la responsabilit di qual-siasi cosa accade sul pianeta eccessivo e unilaterale questa, forse, sarebbe unautentica os-sessione. Il che non toglie per che gli USA rimangono la po-tenza militare pi importante e influente del mondo, nonch il centro planetario della finanza. Come non ricordare le parole di una Eleonora Duse Ma ils se tuent, ces gens la! (Ma questi si ammazzano!) sgomenta di fronte alla Borsa di Chicago?

    Simile posizione, tuttavia, non in nulla e per nulla assimi-labile a molti di quei movimenti no-global, i quali, pretendendo di monopolizzare le opposizio-ni a un sistema pur totalitario e imperialista (non imperiale!), offrono la sponda a quegli stessi filoamericani, nostrani e statu-nitensi. Detti movimenti con-testano appieno la dimensione politica statunitense ma non a sufficienza quella culturale, nu-trendosi in fondo delle premesse dello stesso sistema che vorreb-bero criticare giungendo perfi-no, per una curiosa, ma non im-prevedibile, eterogenesi dei fini, a rafforzarlo. Mancando spesso e

    volentieri di ogni sorta di portata realmente rivoluzionaria, sono le loro guerriglie urbane a puntellare il capitale, quando questultimo vacilla, agli occhi dellopinione pubblica. Ma gli attuali new global, occupy..., indignados e via dicendo non detengono il monopolio dellantiamericanismo, sebbene oltreoceano ma non solo si finga dignorarlo. anche grazie a costoro che lAmerica diventata un mito, che vede fautori a oltranza, persuasi che essa sia il faro della nuova umanit, e detrattori tout court, che la dipingono come in-carnazione del Male.

    Non che gli americani non abbiano la minima responsa-

    rica si costituita per uscire dalla storia, scriveva Octavio Paz. Sono gli Stati Uniti ad aver voltato le spalle al rest of the world, alle raffinate muse dellEuropa (Emerson) e non viceversa, come sottende il vittimismo di certi filoamericani. Il distacco dallEuropa da parte del perpetuo monumen-

    to ed esempio a emulazione e aspirazione degli altri pae-si (Thomas Jefferson), della Nuova Gerusalemme (Ge-orge Washington), si palesa gi nella dichiarazione del presi-dente Monroe, che precluse al mondo europeo qualsiasi deci-sione di ordine politico allin-terno del continente america-no, situato in una magnifica condizione di isolamento, alienato dalle scaramucce po-litiche del Vecchio Mondo e del Row dal vasto oceano che ci separa da quelli, come scrisse Jefferson allo scienziato tedesco Alexander von Hum-boldt (Ivi, p. 15). In queste righe possibile decifrare buo-na parte delle scelte politiche che seguiranno, mettendo a repentaglio la pluralit delle culture, la loro ineguaglianza patrimonio inalienabile che tanto scandalo genera presso i progressisti, che vorrebbe-ro omologarle in un disegno unico, di cui, guarda caso, essi stessi sarebbero i guardasigilli , quella loro irriducibilit che un dovere salvaguardare e proteggere dallegualitarismo propagandato dai bombarda-menti e dal politically correct a mano armata, nellepoca dellamerican dream...

    Il presente numero ospita la rassegna di una serie di critiche controcorrente agli USA, che esplorano luniverso america-

    no aff rontando tematiche e punti di vista poco noti. Come ha scritto Giorgio Galli nella sua introduzione, non intende for-nire una sintomatologia completa della crisi della modernit statunitense, non ha la pretesa di essere una guida allimpero antimoderno ma un pungolo, uno stimolo atto a considerare la realt globale in cui ci troviamo catapultati al principio del XXI secolo come un multiverso a pi dimensioni, senza che alcuno oh yes, we can si arroghi il diritto di regolare tutti gli orologi del pianeta sul proprio. Gli articoli contenuti in que-sto fascicolo aff rontano la crisi della modernit assumendo come punto di riferimento gli Stati Uniti, luogo che alla mo-dernit politica come messo a fuoco da Giorgio Galli ha dato i natali, ma che esibisce, al contempo, tutti i sintomi di quella crisi che cifra fondamentale del nostro tempo.

    bilit nella costituzione del mito che li ha come oggetto. Lideologia americana infatti impregnata da un messia-nismo senza pari. Costanzo Preve (Lideocrazia imperiale americana, Roma 2004, p. 11) la definisce una ideologia messianica di origine puritana seicentesca, frutto di una (apparente) laicizzazione della dottrina calvinista. Concetti, questi, gi formulati nellormai introvabile Il male americano del 1978, firmato da Giorgio Locchi e Alain de Benoist, primo volume dedicato allan-tiamericanismo nel secondo dopoguerra italiano. Eric Voe-gelin, nella sua Nuova scienza politica (Torino, 1968) colora il progetto americano di tinte addirittura gnostiche.

    Da parte americana? Come non ricordare le parole del presidente John Adams, che parlava degli USA come di una Repubblica pura e virtuosa che ha il destino di governare il globo e di introdurvi la perfe-zione delluomo (cit. in Alain de Benoist, Limpero del bene, cit., p. 15). la celebre dottrina del destino manifesto, che vede gli americani, popolo eletto da Dio, impegnati in unopera di evangelizzazione planetaria e contrapposti allEuropa non solo come potere a potere ma come altare ad altare (Metternich). Il tutto, senza esclusione di mezzi: raccapric-cianti, ad esempio, le parole di Benjamin Franklin, il quale consider lalcool venduto agli Indiani dAmerica come un mezzo fornito dalla Provviden-za, al fine di distruggere que-sti selvaggi per lasciare spazio ai coltivatori della terra (cit. in ivi, p. 31). Siamo innanzi a un nazionalismo dalle forti tinte messianiche (William Pfaff ), il quale si serve dellideologia dei diritti delluomo, denunciata da Marco Tarchi (op. cit., p. 20) e Alain de Be-noist (Oltre i diritti delluomo, Roma 2004), la quale, in tut-ta la sua innocenza, incarna la diffusione su scala globale di un paradigma regionale, relativo al solo Occidente, spesso e volentieri accompagnando olocausti e carneficine.

    La realizzazione di questo messianismo escatologico fa da sfondo anche ai rapporti tra Nuovo e Vecchio Mondo. Gli stessi Pilgrim Fathers, protestanti estremisti, voltarono le spalle allEuropa, mossi dal desiderio di fondare nel non-luogo del continente americano unutopia incarnata. La fuga indotta dal malvagio mondo europeo li portava verso una nuova terra promessa (Finzi, op. cit., p. 60). LAme-

    Lantiamericanismo

    una tematica che fa saltare

    le vecchie opposizioni politiche,

    almeno per come si sono

    cristallizzate nel nostro

    Paese

    Quello americano

    un buonismo da primi della classe, pronto a sualificare

    lavversario come Male assoluto,

    nulla escludendo laddove si tratti

    di annientarlo moralmente e

    spiritualmente

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    dove la ferita aperta, spalancata, dolorosa. Per mettere a fuoco i mutamenti di prospettiva sul fenomeno che il cinema statuni-tense ha proposto in epoca postmoderna, inevitabile prendere le mosse dai fotogrammi con i quali Schumacher, nel 1993, apre e chiude il suo Un giorno di ordinaria follia. Il primissimo pia-no sugli occhi sbarrati di Michael Douglas, preludio alla rivolta armata delluomo comune William Foster, una dichiarazione di intenti piuttosto esplicita del regista, solido mestierante di cinema action e non certo autore tra i pi ra nati nelluso del linguaggio fi lmico. Un close-up, per Schumacher, non implica altro che limmediata funzione di un close-up. Dunque, la scelta di iniziare la messa a tema della strage a venire dallo sguardo dellindividuo comporta unattenzione spasmodica al protago-nista, alla sua follia che di l a poco comporter la defl agrazione dello stragismo soggettivo. La scelta di una prospettiva indivi-dualista torna nel fi nale, quando Foster, ormai fi sicamente mor-to, viene mostrato in un video di famiglia rimasto acceso nella casa della ex moglie. Ancora il primissimo piano sugli occhi, questa volta mediato dallo schermo televisivo, a signifi care che Foster, dopo aver dato la vita per compiere la sua personalissi-ma strage, pronto a rivivere in forma di notizia, di precedente storico, di ammonimento alla nazione. Di cile, dunque, posi-zionare Un giorno di ordinaria follia nello spazio riservato alle grandi trattazioni macrosociali del cinema americano.

    Eppure, accanto allindagine minuziosa e complessa del suo protagonista, Schumacher incoraggia la formulazione di ipo-tesi sulla relazione tra gli obiettivi della strage di Foster e il rapporto tra questultimo e la societ capitalista americana. Il fi lm procede infatti su un doppio binario evidente in termini di sceneggiatura. Se da una parte luomo comune viene raccontato come unicum, la cui sola motivazione resistente di carattere individualista (Vado a casa come dichiarazione di intenti immutabile e sottesa a tutta la narrazione), dallaltra messo in contatto con simboli sociopolitici ben evidenti e multiformi. Nel corso del suo pellegrinaggio sulla via di casa, Foster sem-pre pi armato (dalla mazza al coltello, dal mitra al bazooka) e anarchico, deciso a smentire qualunque lettura tesa a incasel-larlo in uno schieramento politico univoco. Se inizialmente appare reazionario nelle parole e nei comportamenti rivolti a un negoziante coreano (Vieni nel mio Paese, prendi i miei soldi e non hai neanche il riguardo di imparare la lingua?), con il prosieguo della narrazione rivolge le sue armi contro ogni persona o entit ritenuta in contrapposizione ai propri ideali di uomo americano liberal. Poco importa che i destinatari dello stragismo siano teppisti sudamericani, homeless, soci di un golf club di lusso, gestori di un fast food o neonazisti, facendo appa-rire di volta in volta il protagonista come estremista di destra o rivoluzionario di sinistra, progressista o conservatore, capitali-sta o antimoderno. Ci che conta soltanto la matrice comune ai gesti di ribellione stragista: la difesa del tutto opinabile in termini etici, ma altrettanto coerente a livello programmatico dei diritti del cittadino. Io sono dalla sua parte, lo capisce? Siamo uguali, aff erma il negoziante neonazista tentando un inquadramento politico. Noi due non siamo aff atto uguali. Io sono americano e lei un maniaco stronzo, risponde William Foster, infastidito da questo tentativo di omologazione e deci-so a riaff ermare (lo far attraverso lomicidio) la propria diver-sit da modelli che non siano in tutto e per tutto aderenti ai (dis)valori del conformismo statunitense. Non un caso che Foster lavori alla fabbrica del Ministero per la Difesa, n che la

    targa della sua auto reciti California D-Fens: il suo obiettivo ristabilire lordine degli Stati Uniti, tornando a casa (corpo sociale americano primario) e, nel frattempo, ribellandosi in forma stragista a tutti gli attacchi disfunzionali a tale ordine. Cerco di proteggere lAmerica. Dovrebbero darmi un premio, invece lo danno a un chirurgo plastico!, sentenzia prima di essere ucciso, sentendosi tradito e abbandonato proprio da co-loro (fi glia, ex moglie, cittadini americani) per i quali arrivato a tanto.

    Nella resistenza allomologazione di Foster dunque ribadito lapproccio fortemente individualistico al fenomeno stragista adottato dallopera di Schumacher, interessato esclusivamen-te alla follia soggettiva, sebbene nata da un istinto ribelle nei confronti delle anomalie del sistema. nella presa di distanza dal reale (la storia di Foster pura fi ction, distante da ogni pos-sibile riferimento a un singolo caso di cronaca) che il regista e lo sceneggiatore Ebbe Roe Smith trovano la loro dimensione archetipica, confi gurando una narrazione che diventa emble-matica descrizione della vita americana, senza per esserne la rappresentazione esatta. Negli anni Novanta, il cinema statu-nitense adotta unottica di lettura fi nzionale nei confronti dello stragismo interno, evitando di confrontarsi con lesattezza cro-nachistica. Un giorno di ordinaria follia diventa cos paradigma di realt, simulacro di ci che si legge sui giornali e si vive per le strade, via di fuga artistica per mezzo della quale rifl ettere su ci che sta succedendo davvero. Lo stragismo rappresentato in tutti i suoi risvolti individuali, con quella distanza dalla ferita pulsante del reale che permette di andare fi no in fondo in termi-ni tematici, linguistici e drammaturgici. In poche parole: niente paura, solo fantasia, come verr ribadito a chiare lettere dal successivo Assassini nati (Natural Born Killers) di Oliver Stone, uscito nelle sale lanno successivo e ancor pi estremo e libero del precedente di Schumacher.

    A distanza di un decennio, per, il cinema americano si pren-de le proprie responsabilit e vira verso una profondit di ri-fl essione ben pi matura e consapevole. Lo stragismo interno, dopo lattacco subito l11 settembre, diventa un fenomeno di primissimo piano tanto nella rifl essione sociopolitica quanto nella vita americana di tutti i giorni. Il cinema accoglie e fa sua una necessit primaria, tornando a pi riprese a occuparsi del-la strage alla Columbine High School avvenuta nel 1999 come exemplum per una piena presa di possesso dellargomento nelle sue urgenze reali(stiche) pi evidenti. A dieci anni esatti dalluscita di Un giorno di ordinaria follia, la rifl essione fi lmica sullo stragismo subisce uno scarto non indiff erente. Con Ele-phant, Gus Van Sant ricostruisce le ventiquattro ore precedenti la strage (anche la storia di Schumacher copriva larco di una giornata), raccontandole dalla prospettiva di dodici personag-gi ed evitando cos ogni coinvolgimento a carattere soggettivo. Se dunque il cinema fa un passo avanti nella rappresentazione della contemporaneit disfunzionale, ne compie uno indietro nella ricerca delle motivazioni alla base del gesto stragista. In termini di presenza sullo schermo, i due killer della Columbi-ne High School ottengono pari dignit rispetto agli altri per-sonaggi, a dimostrazione di quanto linteresse fi lmico non sia orientato sulle ragioni del loro agire, quanto invece sulla crona-ca di una tragedia americana. Van Sant raggela il tono emotivo della pellicola, consegnandoci una follia immotivata (le poche battute neonaziste dei killer o la loro condizione di emarginati a scuola sono il rifl esso di interiorit burrascose ma non spiega-

    stampo olistico (il folle reso tale dal contesto capitalistico che lo ospita, dunque il suo gesto la conseguenza di un sistema di vita ancora pi folle), interessante considerare come il cinema arte moderna e, dunque, preposta alla rifl essione sui fenome-ni contemporanei abbia preso in considerazione il fenomeno nellarco degli ultimi ventanni, modifi cando il proprio approc-cio in tema di stragi intestine e la propria rappresentazione del fenomeno in forma di fi ction. 1993: Un giorno di ordinaria fol-lia (Falling Down, Joel Schumacher); 2003: Elephant (Gus Van Sant); 2013: La notte del giudizio (Th e Purge, James DeMona-co). Curiosamente, tra i testi chiave per comprendere i muta-menti delle consuetudini cinematografi che stragiste intercorro-no esattamente dieci anni, come a sancire un endemico bisogno nutritivo dellimmaginario artistico americano, quasi obbligato a tornare puntualmente e con cadenza regolare a battere

    di Claudio BartoliniGiorni di ordinaria follia

    Kiss Kiss, Bang Bang. Un bacio e una pistola, per ama-re lAmerica e allAmerica ribellarsi in forma di strage. Gesto di follia o lucida reazione al sistema? Violenza connaturata alluomo a stelle e strisce o rivolta armata contro gabbie e strutture disumanizzanti? Gesto anticapitalista o estre-ma adesione al capitale, perpetrata per mezzo di quelle stesse armi sul cui commercio esso ha posto le proprie basi di politica interna e (soprattutto) estera? Di cile spiegare senza margini di errore in cosa consista esattamente il fenomeno dello stragismo, che dal 1968 ha scandito stagioni di sangue in terra statuniten-se. Sangue americano versato su suolo americano, a causa di gesti americani di cili da motivare, ben pi semplici da considerare nel loro esito terminale. Se la forbice interpretativa della socio-logia comprende letture a matrice individualista (il responsabile di una strage il folle che la commette) contrapposte ad altre di

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    Negli ultimi

    ventanni, il cinema

    statunitense si spesso

    soffermato sul fenomeno

    dello stragismo armato

    te, n spiegabili, dal cinema di inizio millennio) e lucidamente incastonata in un tessuto fi lmico artisticamente ricercatissimo. Niente introspezione, insomma, soltanto la lucida messa in sce-na di una realt nella quale la quotidianit degli stragisti ha pari valore rispetto alle altre.

    La macchina da presa dellautore non stacca mai lobiettivo dagli studenti: nessuna dispersione o fuga, a vantaggio della cronaca e di un realismo poetico, quasi lirico, utilizzato per co-niugare documentarismo e arte attraverso piani-sequenza musi-cati sugli alunni e il loro modo di muoversi e mappare luniverso sociale conosciuto (la scuola), in un sofi sticato montaggio a in-castro delle singole vicende. Il cinema fi nzionale inizia a rispon-dere a unurgenza ben precisa, de-legando al documentario la ricer-ca delle ragioni devianti (Michael Moore aveva ragionato nel 2002 sul commercio delle armi, parten-do dalla stessa strage, in Bowling a Columbine) e assolvendo al com-pito di ricostruire con lecito distacco emotivo una realt al-trimenti patrimonio esclusivo di letture a posteriori. In Elephant il reale ritorna, attualizzato e visibi-le nel suo svolgersi e non, sempli-cemente, nelle sue conseguenze a strage avvenuta. Lo spettatore di Van Sant ha modo di assistere a come avvenuto il massacro e non, semplicemente, a cosa av-venuto. Tuttavia, non pu com-prendere del tutto le cause della follia, poich questa tipologia di approccio fi lmico tesa a raccon-tare e non a motivare. Questione di responsabilit, perch se Schu-macher poteva permettersi lettu-re introspettive su un personag-gio da lui (e da Roe Smith) creato, Van Sant non pu arrogarsi la paternit su individui realmente esistiti. Ecco dunque spiegato il passo indietro in termini emotivi e individualistici, compiuto da unarte matura e consapevole delle proprie responsabilit, delle urgenze cui rispondere, ma anche dei propri limiti.

    Dopo aver ideato storie stragiste negli anni Novanta e aver riattualizzato cronache stragiste nel primo decennio del nuovo secolo, il cinema americano scarta di nuovo e supera la storia, imparando a formulare possibili disfunzioni future in materia di stragismo. Durante la lavorazione del suo Gangster Squad del 2013, Ruben Fleischer gira una sequenza nella quale una sparatoria allinterno di un cinema provoca morti e feriti tra i civili. Dopo il massacro di Aurora del 2012, il fi lm esce nelle sale mutilato della suddetta sequenza, segno di una volont di distacco dalla lettura realista di un simile episodio fi nzionale. Sospendendo ogni giudizio su tale scelta, rimane una curiosa capacit preveggente dellartista sulle potenzialit stragiste in seno alla societ americana.

    A distanza di altri dieci anni esatti da Elephant, nelle sale americane esce La notte del giudizio, il cui ottimo riscontro ai botteghini rende conto di unindubbia e cacia nel ritrarre le endemiche disfunzioni proprie al senso comune statunitense. Trattasi di una pellicola ambientata nel 2022, in unAmerica nella quale, allo scopo di mantenere lordine e debellare il crimi-ne, i Nuovi Padri Fondatori hanno istituito un periodo di dodi-ci ore ogni anno denominato sfogo. Durante questa fi nestra tem-

    porale, le istituzioni rinunciano volontariamente al proprio ruolo e i cittadini sono liberi di esprimere ogni impulso, certi della liceit di ogni loro azione. Stragismo auto-rizzato, patrocinato e incoraggiato dallo stesso governo, sovrastruttu-ra pesante in grado di schiacciare ogni residuo soggettivo. La teo-rizzazione dello sfogo come ca-tarsi liberatoria grazie alla quale vivere in pace il restante periodo dellanno altro non che lestre-mizzazione dellesistente, la messa in potenza delle direttrici devianti narrate in forma liberamente nar-rativa negli anni Novanta e in pe-dinamenti artistici del reale eff et-tuati nei primi anni Duemila. C meno fantasia di quanto sembri, ne La notte del giudizio, excursus (anchesso di ventiquattro ore die-getiche) sulle potenzialit distorte di un sistema sociale esposto al rei-terarsi del fenomeno stragista. Se, nel caso della sequenza di Gangster Squad, il legame con la realt pros-sima ventura stato ribadito dagli eventi immediatamente successivi alle riprese, lopera di DeMonaco non pu godere di un riscontro immediato. Ma lelemento di in-teresse della sua rifl essione non risiede nella prefi gurazione in s

    talmente estrema da non godere di alte percentuali di possi-bile realizzazione quanto nella maturit cinematografi ca della quale indice e rilevatore.

    Per giungere a una simile operazione di intrattenimento so-ciologico, il dispositivo fi lmico ha acquisito negli anni gli stru-menti per poter coniugare le correnti fi ction di Un giorno di ordinaria follia a quelle sociologiche di Elephant, diventando foce per un discorso che si fa (divertente) previsione di scenari possibili, basata sui dati certi del fenomeno stragista.

    Arte del racconto capace di rideclinare, a ancare e rappre-sentare, quindi oltrepassare la contemporaneit, il fi lm si fa strumento di lettura sempre pi consapevole delle ferite pul-santi del corpo sociale statunitense. E allora non ci stupirebbe pi di tanto se, giunto allanno 2022, il cittadino americano fosse costretto a installare armature blindate e sistemi di sicu-rezza di livello massimo, mentre il suo vicino di casa a la la lama del suo machete preparandosi allannuale sfogo. Kiss Kiss, Bang Bang.

    di Mattia CarboneIl mito dellallunaggio

    Storia e poesia: due campi del sapere e dellumano appa-rentemente distinti, eppure cos simili. Non forse la po-esia la storia dellanima dei grandi poeti? La testimonian-za, il documento di un vissuto (e quindi profondamente storico) di cui non rimane che la debole traccia duna parola? I fatti, cos come avvenuti, rimangono sempre al di l del documento che li tramanda; il nostro rapporto con ci che preterito ga-rantito soltanto da quelle magre testimonianze che ne hanno voluto lasciare gli spiriti autenticamente storici. Si pu essere a un tempo poeti e storiografi ? Forse non si pu non esserlo. Un poeta, in quanto reca una testimonianza, storico nella sua essenza, chiamato a corrispondere al verifi carsi della storia in quanto suo osservatore. Non sar forse oggettivo, miraggio di esattezza cartesiana che leterno scontro di ideologie e interpre-tazioni non ancora riuscito a dissipare da molta storiografi a contemporanea, giornalettistica, aff amata di verit dure come il marmo. La sua testimonianza vivr sempre del particolare

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    momento di cui fa parte, e quindi porter con s tutte le idio-sincrasie, le sviste e i luoghi comuni del proprio tempo ma anche lo spirito essenziale di quellepoca.

    Il fatto storico, insomma, non qualcosa sussistente in s e per s al di fuori di una cifra, una data, un conto di vittime o di partecipanti: esso piuttosto il ricettacolo dellinterpretazio-ne che se ne vuol dare allin-terno della catena degli eventi, oppure loggetto di una trasfi -gurazione poetica, che di quel fatto vuol svelare la dimensione mitica, la capacit di parlare a chi lo ha vissuto (o a chi ne leg-ger) come testimonianza non solo del proprio tempo, ma di ci che esso testimonia come momento fondamentale della lunghissima storia del genere umano. In ci consiste il trat-to di fondazione della grande poesia di ogni tempo: aprire e consolidare i mondi storici, consegnandoci il complesso di valori e signifi cati su cui si basa la sua autocomprensione.

    C un fatto della nostra sto-ria contemporanea che, per il suo valore mitico e simbolico, ha impressionato un poeta del-la nostra tradizione al punto di suggerirgli un poemetto che racchiude in s le due dimen-sioni della poesia e della storia, svelandone lidentit origina-ria. Il poeta Andrea Zanzot-to; il poemetto, Gli Sguardi i Fatti e Senhal1; levento storico, lo sbarco degli astronauti ame-ricani sul suolo lunare del 20 luglio 1969.

    Di fronte al valore simbolico di un evento, la domanda sulla sua verit fattuale se si sia cio verifi cato o meno oziosa. Vale per sempre il detto di Jung su Dio, della cui realt metafi -sica non si pu dire nulla ma la cui infl uenza simbolica e cultu-rale ha un eff etto di verit che prescinde completamente dalla sua esistenza2. Inutile, quindi, tutta la polemica sulla presunta truff a del Governo americano ai danni dei poveri creduloni del 69 e di oggi (ancora convinti che la bandiera americana possa sventolare su una Luna priva di atmosfera o non gettare ombra sul suolo, dal momento che

    stata incollata sui fotogrammi da un maldestro fotomontatore dantan). Che sia successo o meno, luomo ha toccato la Luna il 20

    luglio 1969. O meglio, un suo rappresentante, dalla nazionali-t ben defi nita: un americano.

    C una logica in questo: che la Luna sia stata visitata per la prima volta nel XX secolo, mez-zogiorno splendente dellet della tecnica, atto a produrre i mezzi necessari; che ne siano gli Stati Uniti, i padroni incon-dizionati del Secolo, i respon-sabili. In un certo senso, anche Zanzotto, quando scrive Gli Sguardi, percepisce e trasmette questa necessit, pur restando fermo su una posizione total-mente negativa nei confronti del fatto (nome dato allallu-naggio in diversi momenti del poemetto). S, perch il fatto, al di l della vuota retorica di cui stato reso oggetto, perce-pito dalla sua sensibilit poetica nei termini di una profanazio-ne e un ferimento.

    Lasciamo parlare il poeta: Il ferimento del mito originario lunare (cio di Diana) non solo il ferimento di un qualche cosa che sepolto nel profondo delluomo e che riappare come trascendenza-lontananza un punto di fuga cui bisogna ap-prossimarsi ma anche, nel-la realt attuale, la distruzione capillare dei tessuti psichici che hanno retto lumano per decine di millenni3. Alleven-to dellallunaggio attribuita una valenza negativa, in quanto simbolo del destino di profana-zione della sfera del sacro e del trascendente che nel Novecen-to ipertecnicizzato raggiunge il suo culmine: lo shuttle atterrato sul suolo lunare trasfi gura-to in un coltello aff ondato da mani assassine nellimmenso corpo di bellezza dellastro e lannuncio di questa dissacra-zione dato, ironicamente, dai fi lmcroste in moda e i fu-metti in ik, prodotti fi lmici e fumettistici di una sottocultu-ra che ha perso totalmente la

    dimensione sacrale e mitica; il sangue diviene immagine di un ferimento, atto di violazione (anche, metaforicamente, sessua-le) da parte del genere umano il quale, guidato da unansia di

    Di fronte al

    valore simbolico di un evento, la domanda

    sulla sua verit fattuale appare

    oziosa. Che le polemiche

    sulla realt dellallunaggio

    siano vere o false, luomo

    ha toccato la superficie lunare il 20 luglio 1969

    ricongiungimento male interpretata e male assecondata, fi nisce per annullare in un solo colpo quella distanza che era garanzia del valore simbolico della Luna, punto di fuga dellattivit mi-tica e simbolica. In questo senso, il piccolo passo per luomo un avvenimento epocale: rappresenta esemplarmente la fi ne del genio mitologico-simbolico e sancisce il suo defi nitivo trapasso nel mondo polveroso e asettico della tecnica.

    Eppure, in un altro passo, Zanzotto parla dellallunaggio come di un evento abbastanza banale. Per quale motivo? In primo luogo perch non ha mo-tivazioni che non siano banali, e queste motivazioni consistono soprattutto nella lotta di presti-gio tra le due superpotenze (o meglio superimpotenze) che, in margine allelaborazione di un programma missilistico per di-struggersi a vicenda, mettono a punto anche il razzo per andare sulla Luna. Siamo di fronte a un sottoprodotto delle macchine atomiche le quali, nel loro ten-tativo di distruggersi a vicenda, scoprono anche momenti di pau-sa in cui elaborare qualcosa di assolutamente inutile, come ap-punto la conquista della Luna4. Con unacutezza degna del suo occhio storico, Zanzotto con-testualizza il grande passo per lumanit nella logica del con-fl itto di prestigio e potenza tra Russia e Stati Uniti durante la Guerra Fredda: nulla pi che un inutile trofeo, una vittoria simbo-lica sul nemico che non avrebbe portato alcun vantaggio, nemme-no in termini scientifi ci5. una contraddizione: se lallunaggio inteso come ultimo atto del lento processo di decomposizione del mito, daltra parte vediamo che esso si presenta a sua volta come un atto simbolico assolutamente svincolato da un profi tto o un progetto di funzionalit tecnica, ma dettato da un ultimo fremito di vita mitica nel corpo esanime delluomo tecnicizzato del No-vecento. Anche la denuncia di questa contraddizione si perce-pisce nelle parole di Zanzotto: In realt, nella conquista della Luna, si rivolto un inchino, non sappiamo se pi idiota o astuto, al precipitato mito anti-chissimo, alla Luna come emblema dellirraggiungibile, pun-to di luce dellassoluto, test di ci che sta di fronte allumano, quasi immagine stessa della trascendenza. Si sa che nella fan-tasia collettiva di pressoch tutti i popoli questo fantasma di trascendenza, di irraggiungibilit, molto spesso ra gurato

    appunto nella Luna, nellemblematicit della Luna. Chi aves-se, pertanto, toccato la Luna, si sarebbe aggiudicato il titolo di unassoluta supremazia. dunque un caso di dissacrazione funzionalizzata, che ha in s tutti i tratti pi ripugnanti (bana-li) della realt odierna6.

    Molto interessante risulta lespressione utilizzata per riassu-mere le considerazioni sullallunaggio: dissacrazione funziona-lizzata. Questa nozione ha molto in comune con il concetto

    kerenyiano di mito tecnicizzato: esso non scaturisce dal movi-mento simbolico originario (di carattere collettivo e spontaneo) che presiede alla formazione dei mitologemi genuini, ma con-fezionato ad hoc, quasi riprodot-to in provetta da una ristretta comunit (per lo pi politica) che se ne serve per il consegui-mento di propri fi ni, sfruttando linnato potere del simbolo per convincere il maggior numero di persone della felicit dei suoi propositi7. Un mito, insomma, che non scaturisce prendendo a prestito le parole di Zanzot-to dai tessuti psichici che hanno retto lumano per mi-gliaia di anni ma piuttosto un traviamento simbolico, una dissacrazione funzionalizzata: un pervertimento fi nalizzato, appunto, al conseguimento di determinati scopi, quali ad esempio la supremazia sul nemi-co sovietico. Kernyi parlava, in quegli anni, da studioso di mito-logia in un mondo vessato dalla retorica pseudo-mitologica dei totalitarismi, rappresentanti per eccellenza di quella pratica di riesumazione forzata di miti defunti (dissacrazioni, direm-mo, funzionalizzate), rimessi a nuovo da un velo di belletto retorico per ergersi a stendar-di di una presunta rinascita del genere umano, condotta allin-segna della sopraff azione e della distruzione.

    con una certa inquietudine che si rileggono, ora, le parole di uno Zanzotto critico della cul-tura e della civilt, che presen-

    ta il faccione amichevole dello Zio Sam sotto una nuova luce, quella di un potere ubriaco di s che, nella magrezza dei tempi, sfrutta linnata forza dei miti per aff ermare la propria suprema-zia sul nemico, calpestando senza pudore i recinti del sacro e del simbolo, dissacrandoli e funzionalizzandoli a proprio piaci-mento, per la gloria di un altro mito, del tutto nuovo stavolta: quello americano, fatto di vittorie disseminate lungo tutto il

    LAmerica sfrutta il potere eterno

    dei simboli al fine di imporre

    la propria supremazia, violando i

    confini del sacro in nome di

    un mito del tutto nuovo, uello statunitense

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    sentiero del Secolo, miraggi di benessere e ansie da accerchia-mento che denunciano una debolezza congenita.

    A quel seme di cattivo irrazionalismo che giace al fondo di qualsiasi pervertimento della natura originaria del mito, spon-tanea e collettiva, Zanzotto risponde con una preghiera consa-pevolmente utopica, forse un poco ingenua, ma sincera: Se in un mondo gi molto migliore del presente, con squilibri molto pi ridotti, si fosse anche poeticamente messo a punto un pro-gramma spaziale, la cosa sarebbe stata bellissima, vorrei dire re-ligiosa, un vero atto di culto, non solo lunare8.

    La realt moderna per ben diversa, e Zanzotto ne consa-pevole. Questo evento storico, banale o eccezionale che dir si voglia, che del mito e del sacro conserva solo una traccia sbiadi-ta, pu tuttavia riscattare la propria tremenda povert grazie alla poesia: sar il poeta a scoprire, sotto la patina delle opinioni, dei fi lmati di consumo e del chiacchiericcio multimediale, il vero signifi cato storico dellallunaggio: il destino di annientamento del mito e del simbolo nellet della tecnica.

    Come precisa lo stesso Zanzotto, un discorso poetico che voglia fi ssare gli elementi della profanazione e della dissolu-zione del mito non pu presentarsi altrimenti che disgregato, frammentario, in modo che la forma divenga immagine della verit che si vuole mostrare. E larchitettura formale de Gli Sguardi infatti articolata in quarantanove voci, segnate da trattini e divise in lasse di varia misura, che dialogano con una voce centrale e stabile (la cui presenza segnalata da virgolette supplementari) che riferisce il punto di vista dellistanza lunare profanata. Ma il discorso poetico, costitutivamente disgregato9, non vuole cristallizzare in forme fi sse i personaggi e gli attori della sua messinscena: esso lascia piuttosto alle fi gure che im-piega una generale indeterminazione, unapertura di senso che mima (o tenta di farlo) la costitutiva vaghezza del simbolo; la voce centrale non sar quindi solo listanza lunare, o una sua prosopopea, ma anche, di volta in volta, il Femminino, lordine semiotico del linguaggio, il deposito inconscio delle proiezioni delle migliaia di esseri umani che, secondo Zanzotto, fi n dalla notte dei tempi rivolgono alla Luna le proprie preghiere, proie-zioni di desideri pi o meno consci; non da ultimo, essa viene identifi cata con la parola, che nasce dallincontro tra lincon-scio del poeta e il dettaglio centrale della prima tavola del test di Rorschach, come in una seduta di psicoanalisi. Con geniale artifi cio, Zanzotto assimila e sovrappone due luoghi simbolici dellumano: il primo, la Luna, oggetto del discorso culturale e simbolico, che raccoglie in s le interpretazioni e i miti di cui la cultura millenaria delluomo le ha fatto dono; il secondo, la macchia del Rorschach, luogo del discorso individuale e semio-tico, pozzanghera informe nella quale si riversano le proiezioni e i desideri dellinconscio dei singoli umani sottoposti a tera-pia; tuttavia, dalla sovrapposizione di questi due elementi riesce una sentenza storica sulla vera natura del mito, il quale, sulla scia di Carl Gustav Jung e di Kroly Kernyi, presentato come formazione simbolica condivisa, unanimemente riconosciuta, originata dai movimenti sotterranei e proteiformi di una psiche individuale che trabocca irresistibilmente nella collettivit. In questo senso, si capisce un po meglio perch lallunaggio ame-ricano rappresenti la distruzione capillare dei tessuti psichici che hanno retto lumano per decine di millenni: sedimenta-zioni di proiezioni psichiche originarie, i simboli della cultura franano, trascinando via linconscio collettivo, in una sorta di gigantesca slavina di senso.

    LAmerica solo lennesimo attore di questa riesumazione in vitro del fantasma sbiadito del mito. Il poeta, dal canto suo, ci comunica questa verit scommettendo proprio su una nuova narrazione, quella della Luna vittima della violazione da par-te delle superimpotenze del XX secolo, Diana stuprata dagli astronauti in una squallida orgia spaziale; pu essere, questo, un tentativo di rifondare il mito, a mezzo di una poesia che signifi chi questa violazione per mezzo di un simbolo e di un racconto, quello del razzo che penetra nel corpo della Luna: un mito della Volont di Potenza, della Guerra Fredda e, in ultima istanza, del destino di annientamento della mitografi a stessa. La contraddizione feconda: da una parte ci avvisa del rischio, dallaltra ci consegna la speranza che, pure in forma marginale, come disciplina poco pi che individuale (il poemetto fu pub-blicato in cinquanta copie in una tipografi a di paese), la religio-ne mitica delluomo possa sopravvivere alla povert dei tempi. Intanto, la poesia scommette su se stessa come testimonianza autenticamente storica, trasmettendo un nuovo complesso di valori grazie ai quali possiamo guardare al nostro tempo come allepoca del tramonto del mito: in ci che consiste il tratto di fondazione di tutta la grande poesia.

    1. Andrea Zanzotto, Gli Sguardi i Fatti e Senhal, tip. Bernardi, Pie-ve di Soligo 1969, ora in Poesie e prose scelte, Mondadori, Milano 1999. Si noti che la pubblicazione del poemetto avvenne lo stesso anno dellallunaggio.

    2. Concetto che si pu riassumere in una boutade dello stesso Jung (Tipi psicologici, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 39): Lidea di energia s, ammettiamolo pure, un mero concetto verbale, ma cos straordina-riamente reale che la societ per azioni di una centrale elettrica ne paga i dividendi.

    3. Poesie e prose scelte, cit., p. 1531. Questo brano e i successivi sono tratti da una conferenza sul poemetto che il poeta tenne nel 1973 a Ivrea assieme allamico e critico Stefano Agosti.

    4. Ibidem.5. E cos minima la refurtiva, e poi subito persa, recita uno degli

    ultimi versi del poemetto: la refurtiva appunto lo scarso bottino di frammenti di roccia lunare che gli astronauti riportarono dal viaggio per i ricercatori.

    6. Ibidem.7. Cfr. Kroly Kernyi, Dal mito genuino al mito tecnicizzato, in Atti

    del colloquio internazionale su Tecnica e casistica, Roma 1964; Furio Jesi, Mito e linguaggio della collettivit, in Letteratura e mito, Einaudi, Torino 1968; Joseph Campbell, Le fi gure del mito, Red, Como 2002; Carl Gu-stav Jung, Kroly Kernyi, Prolegomeni allo studio scientifi co della mitolo-gia, Bollati Boringhieri, Torino 2012; Mircea Eliade, Mito e realt, Borla, Roma 2007.

    8. Poesie e prose scelte, cit., p. 1531.9. La rinuncia alla comunicativit in senso stretto e al complesso dei luo-

    ghi comuni che assicurano la trasmissione dei messaggi tra i parlanti impli-ca necessariamente un risvolto di debolezza della voce poetica: la parola di Zanzotto, persa nella confusione di uno smottamento magmatico della lingua, risuona come uneco dal fondo di una valle, lontana e fi oca. Sia il senso sia il signifi cato non sono presi in carico da una voce che si fi nga forte e roboante, ma emergono dalla rovina del discorso comunemente inteso, la quale , a un tempo, il veicolo e il contenuto del messaggio dellautore. Una dicitura quale poesia debole, vista la temperie culturale di un Paese e di unepoca, che non forse del tutto impropria.

    Fisicamente, Edward Hopper sembra fatto per il mito, come Lincoln: testa magnifi ca, ampiamente e superbamente cal-va, quasi geologicamente sopravvissuta. Occhi azzurri fermi e profondi, che ti fi ssano volentieri, salvo scivolare via dopo aver raccolto le informazioni necessarie. Bocca vasta e generosa, unita a un naso tondo da due pieghe profonde e mobili. Guance quadra-te chiuse su un mento quadrato e ben defi nito. Cos il critico e amico Brian ODoherty descrive lartista, nato il 22 luglio 1882 a Nyack, sul fi ume Hudson, da Garret ed Elizabeth rispettivamente un commerciante di origine olandese, letterato frustrato e amante di Michel de Montaigne, e una gentildonna borghese e battista di ascendenze francesi, padrona di casa autorevole e autoritaria. Edward Hopper , in eff etti, morfologicamente americano. Gene-rato da un mescolamento di razze e culture, silenzioso e massiccio come le rocce del Grand Canyon, capace di silenzi monumentali, amante fedelissimo della luce netta e abbagliante che inonda i vasti orizzonti di Cape Cod, Hopper anche il creatore inconsapevole di

    quei luoghi comuni dellamericanit che a lui, ineluttabilmente, vengono ascritti la stazione di benzina, la sala cinematografi ca, il locale notturno, il motel, la casa neovittoriana, la strada che si perde nellinfi nito o in una selva oscura. E che altri artisti (pittori, fumettisti), ma soprattutto il cinema, insieme o dopo di lui, hanno contribuito ulteriormente, alacremente, a volte inconsciamente, a rendere icone. LAmerica una costruzione culturale recente, i cui miti non hanno radici profonde come quelli europei. E, una vol-ta liberatasi dallinfl uenza di Madre Europa con fatica, impeto guerresco e risultati non sempre apprezzabili , deve ricostruire il proprio immaginario collettivo, darsi unidentit che abbia un im-patto degno del suo incalzante sviluppo economico. Lo fa attraver-so i mezzi che le sono pi congeniali, oppure che pi si distinguono da quelli utilizzati nel vecchio continente o ancora nel caso siano i medesimi (come pittura e letteratura) che hanno una marcata impronta di originalit. Ecco allora che gli scrittori inventano un nuovo modo di scrivere; il cinema si impone nel dettare simboli,

    di Ilaria FloreanoEdward Hopper: lultimo dei puritani

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    ricorrenze e fi losofi e (la frontiera, il self made man o leroe solita-rio); la pittura cerca nuovi soggetti, trovandoli nelle luci dei parchi di divertimento, negli incontri di boxe, nei grattacieli, vale a dire in tutte quelle espressioni della volont di potenza su cui linconscio collettivo americano ha basato la sua fortuna. La straordinariet di Hopper ci che, di fatto, lo rende lartista americano pi famoso insieme a Pollock e Wahrol sta nellaver ignorato i sintagmi pi espliciti della modernit americana e di averne sviluppati altri che, pur impliciti o forse proprio in quanto tali hanno un portato simbolico mastodontico (proprio come il Grand Canyon o i silenzi dellartista). Daltra parte, cosa rappresentano le coppie non comu-nicanti, le stazioni di benzina vuote e le strade senza fi ne se non la sublime solitariet delluomo moderno americano e il suo inesauri-bile anelito allorizzonte?

    Hopper scopre intorno ai dodici anni la propria vocazione arti-stica, dopo una breve parentesi in cui ha sognato di diventare ar-chitetto navale e costruire quelle barche che, per anni, ha osserva-to scorrere lungo il fi ume davanti alla casa (neovittoriana) in cui nato. I genitori gli regalano un album da disegno, lo iscrivono a una scuola dillustrazione, assecondano la sua ambizione fi gurativa e gli permettono di studiare alla New York School of Art, dove Edward rimane per sei anni e in cui tiene anche qualche lezione.

    La New York di inizio Novecento un ribollire di tensioni con-trapposte da cui scaturiscono, imperiosi, svariati sintagmi della mo-dernit: gli automat, dov possibile acquistare una fetta di dolce e un caff servendosi da distributori automatici; la metropolitana che sfreccia sottoterra o in aria; quei grattacieli che, come tanti spilli confi ccati in un cuscinetto, scandiscono lorizzonte visibile dal tra-ghetto sorgendo sulle rovine di antiche case abbattute, senza che nemmeno una targa ricordi il caso accidentale che tra quelle mura ha fatto talvolta nascere personaggi di qualche rilievo politico e/o culturale. Ma di grattacieli, nei dipinti di Hopper, non c traccia laddove appaiono, non sono che macchie scure interrotte che tuttal pi incombono minacciose o fanno ombra.

    Lartista vive in un appartamento, che raggiunge dopo aver percorso a piedi settantaquattro scalini, nel Greenwich Village, in Washington North Square, con il bagno in comune e riscaldato soltanto da una stufa panciuta. Ci rester per tutta la vita, evitan-do la mondanit promiscua del quartiere degli artisti, preferendo la lettura di Gide accanto alla fi nestra, ignorando le richieste della moglie Jo (sposata allalba dei quarantun anni) di migliorare, alme-no un poco, il comfort casalingo. Consuma molti pasti negli ante-nati dei fast-food (preferendo su tutti quelli di chop suey) e trascorre gran parte del proprio tempo libero al cinema. Eppure, si rapporta alla modernit limitandosi a sfruttarne alcuni prodotti, per trova-re lispirazione con cui dipingere quadri che solo superfi cialmente possiamo defi nire nostalgici. In essi riecheggia unAmerica perdu-ta, nascosta dietro la narrazione degli eff etti che la vita moderna ha prodotto: unAmerica radicata sotto lHouse by the Railroad tran-ciata di netto dal binario della ferrovia, oppure naturale, nei ritratti di fari e abitazioni sulloceano, sensuale, tra le tende leggermente mosse dal vento, e spirituale, nel raggio di luce che colpisce una donna seduta sul letto, come fosse unepifania. Quando ad apparire invece lAmerica in cui Hopper studia, lavora e cerca aff annosa-mente lispirazione, aerea, selvaggiamente urbanizzata, parca di incontri e contatti, gi tendente a un consumismo sia pratico sia sentimentale. Questa natura bifronte, squisitamente statunitense, d origine a concentrati di modernit in forma di metropoli avan-zate in grado di dettare ritmi e destini in tutto il mondo e, contem-poraneamente, si perde nella vastit di territori che rimangono non-

    conquistati (ma pur sempre conquistabili). Hopper ugualmente bifronte e, anche per questo, la sua opera diventa paradigmatica ed emblematica.

    Frugale per necessit, prima, e per scelta, poi, Hopper un ap-passionato francofi lo: tra il 1906 e il 1910 trascorre diversi mesi a Parigi, dove a tta un appartamento dietro il Muse dOrsay e stu-dia gli impressionisti. Della ville lumire, della sua libert intellet-tuale e sessuale e della sua infl uenza artistica, Hopper si liberer a fatica solo dieci anni dopo, quando accetter la necessit (concreta e concettuale) di rinunciare alle pennellate brevi e frenetiche, agli eff etti cromatici, alla ricerca dellistantaneit caratteristici di Monet e compagni, per trovare un proprio territorio delezione pretta-mente americano. Questo chiedeva la critica newyorkese, che im-piegher anni a riconoscere il valore del pittore, apprezzato a lungo solo come illustratore (ironia della sorte, vista lesclusiva qualit alimentare di tale attivit).

    La Francia come una donna, amata troppo e senza reciproci-t lartista la lascia per lAmerica, meno incantevole, forse, ma pi solida e disponibile. Hopper diventa Hopper quando la sua volont semplice di dipingere la luce del sole sulla parete di una casa lo conduce a eleggere soggetti pittorici che la critica e il pub-blico casalingo sentono particolarmente vicini: siano i paesaggi di spiaggia, rocce e oceani di Gloucester, Provincetown e Truro (dove negli anni Trenta gli Hopper si costruiscono una casa in le-gno), oppure i campioni dellumanit metropolitana, cio coniugi immersi nei propri pensieri, maschere del cinema, donne solitarie, commessi di bar.

    Lo sguardo dellartista in movimento: Hopper resta spesso inattivo tra un quadro e laltro, lispirazione per lui una musa capricciosa che lo abbandona e si fa inseguire a lungo. Il pittore la ritrova passeggiando lungo avenues e streets, guardando decine di fi lm al mese, viaggiando in treno e in metropolitana.

    Osservare la citt dietro un fi nestrino, a velocit sostenuta, o ve-derla riprodotta su un grande schermo lo conduce a inquadrare la realt in un modo particolare, che diventer la sua cifra stilistica. I suoi dipinti appaiono spesso come il risultato dello sguardo indi-screto di un voyeur, capace di cogliere al volo una situazione intima, che dovrebbe essergli preclusa ma che la modernit, coi suoi mezzi, gli rende al contrario accessibile. Uno sguardo strutturalmente mo-derno, che si traduce nella critica (polemica o ironica) di ci che la modernit implica.

    Potremmo defi nire i quadri di Hopper come scatti rubati: Hop-per non , in verit, un amante della fotografi a praticata, ma conosce e apprezza lopera di Eugne Atget e Matthew B. Brady non a caso, particolarmente attratti dagli spazi urbanizzati. La qualit fotografi -ca delle sue creazioni, conferita dagli strumenti tipici della pittura taglio, colore peraltro uno dei motivi principali della persistente attrazione di molti registi verso il corpus pittorico hopperiano.

    Il bisogno di privacy e la sua progressiva perdita, tratti specifi ci dellartista, sono una condizione esistenziale e un dato sociologico su cui meditare: discreto fi no a essere scorbutico, Hopper vive in una citt la cui vocazione primaria essere visibile e rendere visibili. Nel 1927, questa opposizione si traduce in un quadro, Automat, in cui una donna siede al tavolo con una tazza di caff davanti e un muro di buio alle spalle. Dovrebbe essere una vetrina e rifl ettere linterno del locale, invece solo uno schermo nero punteggiato di globi bianchi: sono le plafoniere appese al so tto, o pi probabil-mente i pensieri vuoti della donna ritratta. In quel buio profondo si nascondono gli occhi della citt eppure, la protagonista vista dallinterno, inconsapevole di essere osservata. Nel 1942, Hopper

    realizza invece Nighthawks, forse il suo quadro pi celebre, nel quale la prospettiva ribaltata: vediamo quattro individui allinterno di un bar, di notte, come fossero in un acquario. Sono sempre inconsa-pevoli dello sguardo della citt, ma ritratti dallesterno dentro uno spazio ben illuminato, che ne mostra relazioni (possibili) e aliena-zione (conclamata).

    Alienazione: il risultato della modernit per antonomasia, la ca-ratteristica principale dei suoi protagonisti, la condanna che gli in-tellettuali europei dellOttocento sfuggivano, rifugiandosi in torri davorio arredate come nel Medioevo e la cui onda lunga negli Stati Uniti diventa dato esistenziale ineluttabile. Abitanti conformati di spazi ristretti, gestibili e familiari si ritrovano scaraventati nel ruolo di cittadini allinterno di una metropoli sempre pi estesa, in oriz-zontale e in verticale, tentacolare e complessa, in cui a milioni ci si contende lo spazio, il lavoro e i sentimenti. Il tempo ridotto a mer-ce di scambio, il pericolo si annida nellombra, sfuggita allillumi-nazione elettrica. Hopper stende ampie pennellate che oppongono la luce artifi ciale al buio, i suoi personaggi sono quasi sempre donne sole o coppie che non comunicano, in non-luoghi che presuppon-gono una temporaneit ineluttabile: il teatro, la hall o la stanza di un albergo. Inevitabile che la critica lo etichetti come cantore della solitudine moderna e che il noir, il genere cinematografi co che pi di ogni altro propone il tema dellalienazione (a livello di sceneg-giatura, messa in scena e messa in quadro), peschi a piene mani dal repertorio hopperiano quando si tratta di defi nire scenografi e (un esempio per tutti: la stazione di benzina gestita da Burt Lancaster, nellincipit de I gangsters di Robert Siodmak del 1946, un palese omaggio allopera Gas, del 1941).

    Sarebbe per scorretto intendere lalienazione hopperiana come esclusivo risultato della sua scelta iconografi ca. vero anzi che il senso di tale alienazione risiede nelleff etto di Unheimlichkeit quel senso cio di estraneit di cui allimprovviso si ammanta ci che fi no a un attimo prima era un oggetto mite e conosciuto che il pittore negli anni sviluppa, elaborando una poetica del tutto personale.

    Facciamo un passo indietro. Hopper viene ascritto dalla criti-ca a lui coeva e successiva al fi lone del realismo: erede di Th omas Eakins e Winslow Homer, padri dellarte fi gurativa americana, lar-tista dipinge, in eff etti, situazioni assai realistiche. Con lavvento dellastrattismo capitanato da Jackson Pollock, la sua scelta di cam-po appare evidente, dal punto di vista sia politico sia strettamente artistico. Mentre Pollock aderisce al Federal Art Project, promosso nel 1935 dal presidente Franklin Delano Roosevelt a sostegno degli artisti americani, Hopper si rifi uta strenuamente di chiedere un sussidio al proprio Paese, e in particolare a un presidente di cui non condivide lorientamento, preferendo aff rontare da s la crisi e criticando in cuor suo chi fa il contrario. Mentre Pollock inventa la tecnica del Dripping e lAction Painting, portando alle estreme conseguenze i germi delle avanguardie astrattiste europee (le qua-li, contaminandosi con le istanze statunitensi e non controllate da una classe intellettuale allenata, generano prodotti abnormi, atle-tici, super-omistici), Hopper si rinserra nelle proprie posizioni di realista, partecipando attivamente alla nascita e allo sviluppo della rivista Reality e ribadendo in pi occasioni venendo meno a una sua legge, non scritta, per cui di pittura si parla poco e si scrive an-cor meno il disprezzo nei confronti della tecnica astrattista, che considera essenzialmente come mera decorazione. Larte per larte condurrebbe a un suo depotenziamento, ossessionato dallorigina-lit e scevro di personalit, mentre il vero artista deve limitarsi a tradurre la propria reazione (fi sica ed emotiva) ai fenomeni natura-li di nuovo la luce, netta e implacabile, che scandisce e defi nisce

    lorizzonte americano, e la scelta di titolare quasi sempre le opere con un momento del giorno e/o orario e luogo (Seven AM, Dawn in Pennsylvania, Morning in a City).

    In realt, il super-realista Hopper giunger a realizzare quadri composti di rettangoli e quadrati (Sun in an Empty Room) e forse tra lui e Pollock la distanza meno abissale di quanto si possa pen-sare tanto che qualcuno li considera gli assi cartesiani dellarte americana. Questo perch i suoi quadri, pur squisitamente reali-stici, creano nello spettatore quel senso di inquietudine ed estra-neit a cui si accennava prima. C quasi sempre qualcosa che non torna, nelle opere di Hopper: sia il colore usato per dipingere le gote della donna, eccessivamente bianco, come fosse il cerone di un clown, o lincombere impertinente di foreste scure su strade e case che sembrano sul punto di essere inghiottite, o anche il fatto che un negozio non abbia oggetti esposti, che presso una stazione di benzina non ci siano automobili, che in un quadro intitolato come la marca di unautomobile non ci siano auto, che in un al-tro, ambientato in un cinema, non si vedano lo schermo n, tanto meno, il fi lm proiettato.

    La modernit, imprescindibile, viene osteggiata: il suo essere ontologicamente deviata viene tradotto dallartista di Nyack, ad esempio, attraverso luso di una prospettiva aberrante o diago-nali secche e incongrue che indirizzano, sottilmente ma ineso-rabilmente, lo sguardo dello spettatore proprio dentro la foresta oscura, oppure a ridosso del soggetto ritratto. Guardando un suo quadro si ha la sensazione di essere in bilico, collocati a forza in una posizione non equilibrata da cui si potrebbe scivolare in ogni istante, di essere talvolta oppressi da so tti e pareti meno dritti di quanto dovrebbero, sfi orati da un vento che spira continuamente portando con s chiss quali miasmi, segreti o intuizioni (positive o negative?). Sopra ogni altra, si prova la sensazione che qualcosa di terribile stia per accadere o, pi probabilmente, sia appena av-venuto: dalla stazione vuota potrebbe essere or ora schizzata via lautomobile di due rapinatori, addentratisi nella selva per sfuggire alla polizia che li insegue. I falchi della notte, luomo e la donna seduti vicini al bancone del bar, potrebbero avere ancora le mani macchiate del sangue di un omicidio.

    per questa sua qualit narrativa, intrinseca e non ricercata, che Hopper ha suscitato ammirazione ed emulazione in molti registi: i suoi quadri, istanti congelati, contengono migliaia di possibili evolu-zioni le quali, tendenzialmente, provengono o conducono a uno squilibrio. Perch lUnheimlichkeit del contesto lo impone. Perch la metropoli nasconde troppi pericoli. Perch lAmerica si liberata dal giogo materno dellEuropa preferendo lhybris e le mero. Per-ch la modernit sancisce la fi ne della possibilit, per lultimo dei puritani, di un lavoro su di s lento e pacifi co. Per questo, pi facile pensare che dietro alla vetrina vuota si stia consumando una col-luttazione seguita a un tentativo di furto, o che la donna che fuma davanti alla fi nestra stia elaborando un piano per scappare da un amante manesco.

    Per Wim Wenders, il regista tedesco che pi di ogni altro si la-sciato aff ascinare da Hopper e al quale ha dedicato omaggi esplici-ti e dichiarati (al contrario di Hitchcock, che a lui ha ugualmente guardato, senza mai ammetterlo apertamente), se si torna a osserva-re un quadro di Hopper a distanza di qualche minuto sembra che le cose si siano leggermente spostate. come se nel quadro fosse la-tente un ladro nascosto, che, tentando di scappare dallo spettatore, rientrato troppo presto, si muovesse appena gli voltiamo le spalle, e cos facendo spostasse gli oggetti della nostra stanza.

    La modernit, secondo Edward Hopper.

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    Woody Allen e larte della fuga dal nostro Occidente

    di Marco Iacona

    te bourgeoisie con sensibilit artistica, che va alla ricerca di spazi, luoghi e personaggi che nulla hanno di reale. Cause o motivazio-ni? Semplice insoddisfazione, evasione dalla prigione della nor-malit, richiamo di un altrove, con norme, vicende e personalit inconsuete. Uno laltrove, una la fantasia del protagonista. Na-sceranno immagini in serie e larte (registica) della consolazione si trasformer in consolazione dellarte. Una facile inversione di polarit. Facile per chi ha capacit comunicative e di scrittura, o per chi in grado di sognare senza annientare se stesso. O magari si trasformer in consolazione della magia, alla quale Allen dar credito come piccolo grande frammento dirrealt. Un Allen tuttaltro che realista, un analista attratto dal signifi cato dellesi-stenza, ora dal lato maschile ora da quello femminile, allinterno di un quadro di vita borghese. Occidentale. Come dimenticare poi la patria americana? Il Paese degli aff aristi, dei superfi ciali di successo e dei grandi comunicatori (Celebrity)? Gli uni sotto-

    26 giugno 2008. LAdnkronos batteva una notiziona: Woo-dy Allen, regista e scrittore newyorkese, era stato sdogana-to a destra. Lagenzia riprendeva un mio articolo che recensiva Pura anarchia, Bompiani 2007: diciotto micro-rac-conti semiseri, assurdi ma taglienti. Spettatori e lettori distratti daranno seguito a noiose lamentele, incapaci di andare oltre il clich del cineasta quasi organico alla sinistra chic. Tre anni dopo Allen realizzava uno dei suoi fi lm migliori, Midnight in Paris, record al botteghino e buone critiche. Nulla di osceno n di sov-versivo: la storia di un uomo della nostra epoca che incontra per pura magia i protagonisti della cultura degli anni Venti Scott Fitzgerald, Cole Porter, T. S. Eliot, Picasso e i surrealisti. Incon-tri che non rimangono semplici episodi, perch gli artisti non sono come tutti gli altri (Ombre e nebbia). Una vicenda, anzi una fi losofi a, non nuova allinterno della produzione alleniana: la fuga dalla realt. Un membro della classe media o della peti-

    braccio agli altri. Vada come vada: adeguarsi la parola dordine. C un momento nel quale si portati a scegliere tra la realt e la fantasia, dice Allen nel lavoro di Robert Weide, Woody Allen. A documentary (2012). Tutti, naturalmente, sceglieremmo la fan-tasia, ma proprio l continua il regista che si nasconde la follia. Cos, alla fi ne si costretti a scegliere la realt: che ferisce, di continuo. La realt vince sempre: uno dei segnali pi forti nei fi lm del newyorkese. Eppure, non detto che il tema centrale sia propriamente questo. Di quale realt si tratta? Di quella priva di una fantasia oramai sconfi tta, in un eterno riproporsi di temi realistici? Di quella nata da una relazione con limmaginazione, con una tesi, unantitesi e una sintesi? Siamo proprio sicuri che lingrediente fantasia in Allen sia una cattiva compagnia, un subdolo rivale, un comprimario utilizzato per far risaltare il pun-to di vista della cruda realt? Non ci sar dellaltro?

    La fantasia, con i suoi ingredienti, che muteranno di volta in volta, insomma la malattia o la cura? Certo non una cura defi ni-tiva nulla c di pi lontano delle insidie delleternit in Allen ma tale da produrre una svolta in certo senso di media gittata. Le risposte le fornir lo stesso regista.

    Cominciai a pormi delle domande alla fi ne dei Novanta, quan-do vidi una delle migliori pellicole di Allen, Harry a pezzi. Con un fi nale da togliere il fi ato, un dialogo tra Harry Block, scrittore in crisi, in di colt nel mondo reale, e un amico morto, che si materializza allimprovviso. Allen non solo un grande regista ma anche uno scrittore brillante, capace. Sa dove porre gli accen-ti, ha il dono del ritmo. Harry: Io non sono bravo a vivere. Il morto: No, per scrivi bene. Harry: Scrivo bene, ma di-verso, perch l posso manipolare trame e personaggi. Il morto: S, esatto, crei il tuo universo ed migliore insomma del mon-do che abbiamo, secondo me. Harry: Io non funziono nel mondo che abbiamo, io sono un fallimento. Il morto: Non lo so. Io credo che tu dia gioia a un sacco di persone.

    Il dialogo sinterrompe con una breve sentenza: Essere vivi essere felici. Altro tema fondamentale. Per un agnostico, laldil quellaltrove che pu dare soddisfazioni, seppur momentanee non esiste come regno a se stante, perch compagno dellin-dividuo nel qui e ora, cio sulla terra. Dipende dalla capacit di astrazione. Laldil invenzione, arte pura: ma tuttaltro che inutile. Lindividuo sogna, crea con la sua fantasia, questultima prende corpo e stabilisce con chi lha partorita una singolare alle-anza. C sempre un dialogo tra le diverse parti dellio, tra quella che vive di concretezza e unaltra, che si nutre di astrazioni. La risultante non un disastro senza opportunit di replica: Allen non antropomorfi zza le ansie per dilatare il volume dei propri in-cubi, quanto piuttosto per trovare una soluzione. E la risultante non la pazzia che nel vivere per sempre di e nei sogni ma il ritorno a casa. Lisola della verit, nella quale servirsi di una con-sapevolezza acquisita, di una crescita interiore. Luogo nel quale spendere una nuova ricchezza, con strumenti in pi per poter-si difendere, con un unguento da applicare sulle ferite. vero, i personaggi inventati da Harry, quelli nei quali questi proietta se stesso e le proprie amanti, gli hanno salvato la vita. Loro vivono grazie a lui e, alla fi ne, sar lui stesso a vivere grazie a loro. Per con-tinuare a raccontare, per continuare a produrre arte. Arte, sogni e fantasie, titoli da convertire in felicit.

    Al fondo di queste tematiche troviamo due condizioni. La prima relativa non solo alla consapevolezza di essere felici. Ini-zialmente, questa condizione pu essere superata dallequazione vita uguale felicit. Quanto invece al coraggio di dirsi felici con

    assoluta convinzione, qui il discorso rimane aperto alla relazione alleniana tra vita e morte. La morte, come dice Jago nellOtello di Verdi, il nulla, e la certezza di essere lontani dal nulla il primo traguardo. Ma lesistenza piena di nevrosi e frustrazio-ni. Chi non ossessionato dalla miseria dellanonimato? E chi invece non malato di conformismo (Zelig)? La quotidianit devastata da ansie, punizioni e autopunizioni. Dai disagi eredita-ti dai maestri della drammaturgia dellangoscia (E. Girlanda, A. Tella, Woody Allen, LUnit/Il Castoro, 1995), Shakespeare, echov, Ibsen e O Neill. Qui sinnesta la seconda condizione: vivere il pi a lungo possibile in compagnia dei sogni, con in ta-sca ogni genere di fantasia, e fermarsi naturalmente sullorlo del precipizio della follia. La felicit sar il ricordo desser stati felici, la possibilit di esserlo ancora o per la prima volta. Oppure, come direbbe Mark Twain, un minuto di libert dallinfelicit.

    Midnight in Paris un gioiello darte. Potrebbe sorprendere la defi nizione di fi lm (o commedia) inclassifi cabile, dalla trama labirintica, come Il Trovatore di Verdi. un cerchio magico che parte e si conclude sulle note di Si tu vois ma Mre di Sidney Bechet (1952). dai tempi della Dea dellamore, con musica di Vassilis Tsitsanis, passando per Match Point, con Enrico Caruso che canta Una furtiva lagrima, che non si vedeva un inizio cos. Gil un giovane americano, innamorato della Parigi degli anni Venti, scrittore mancato, ingenuo e sognatore. Ma, una volta a Parigi, grazie ad alcuni misteriosi viaggi nel passato, si rende con-to che lamore per il tempo che fu nasconde linsoddisfazione per il presente. La miccia laccende Adriana, una donna che lo attrae terribilmente, ex amante di Modigliani, Braque e Picas-so, che sceglie di vivere nella Parigi della Belle poque, quella di Toulouse-Lautrec, Degas e Gaugin i quali per preferirebbero a loro volta popolare unaltra epoca: il Rinascimento. Sorpreso ma padrone del gioco, Gil decider di rimanere ancorato al Ter-zo millennio. Ovviamente rovescer la propria vita; deluso dalla relazione con Inez, promessa sposa americana, cercher un nuo-vo amore nel rapporto con un ragazza che vende oggetti depo-ca: una parigina, che sembra uscita dal suo unico e incompiuto romanzo.

    Questa la magia: la svolta nellesistenza (o metamorfosi); e questi gli altri temi alleniani: la contaminazione tra arte e vita e la rilevanza dei sogni. E poi, quellaltrove, che al tempo stesso altra et e altro luogo. O altro giudizio. Attraversa la mente un fi lm che precede di quasi dieci anni Midnight in Paris, cio Hol-lywood Ending. La Francia ne protagonista occulta: l i giudizi vengono capovolti, il nero sar il bianco e il bianco sar il nero. Ecco, l tutto diverso: Qui sono un poveraccio, ma laggi un genio, dir Val/Woody, regista newyorkese alla fi ne delle sue disavventure: una profonda crisi, pi umana che professio-nale, una cecit come parentesi metaforica, poi fi nalmente la dovuta pace con i propri demoni. Come ogni fi aba che si rispetti, il fi lm si concluder con un vissero felici e contenti. Con un viaggio nella terra promessa. Parigi. E attraverso un viaggio tra Camus e Kafk a, sul quale fi nir per non farsi troppe doman-de, Gil salver la propria anima e sfuggir al proprio destino di autore al servizio del mercato cinematografi co. Le notti immerse nellirrealt di casa Cocteau o con Dal e Man Ray, cio la di-mensione-sogno, riempiono la realt di Gil non di altre impro-babili fantasie (si stava meglio prima con varianti a volont), ma lo spingono verso scelte rivoluzionarie. Paradosso (perch Allen genio del paradosso): non sar Luis Buuel a cambiare la sua vita, in senso strettamente professionale, ma sar lui a cambiar-

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    Come via di fuga,

    i sogni sono il termometro della felicit. O li catturi o

    saranno loro a catturare te

    la a Buuel. Suggerendogli, quasi per gioco, la trama dellAngelo sterminatore. Mentre sar Hemingway a cambiare la vita di Gil: da straordinaria maschera di collezionista desperienze, pi da uomo che da prosatore, consigliandogli di non fi darsi di Inez.

    Midnight in Paris una poesia recitata con un linguaggio mul-tiplo. Esempio eterodosso di assolutizzazione ma non di estre-mizzazione della vita, attraverso lesempio salvifi co (in terra) di una manciata di artisti. Il riassunto sta nella frase di Gertrude Stein: Compito dellartista non di soccombere alla dispera-zione ma di trovare un antidoto per la futilit dellesistenza. E compito dei personaggi creati dallartista sperimentarlo. Ma il fi lm cattura unaltra interpretazione. Non si vive nel passato, dice Allen. E non si vive di passato. Le alternative? Follia e insoddisfa-zione. Chi vive di passato trascor-re la vita accumulando pagine su pagine senza alcun risultato.

    Ci che passa per la mente mentre vedi Alice, capolavoro del 1990, fase fi nale del periodo farrowiano (da Una commedia sexy in una notte di mezza estate a Mariti e mogli), una frase pre-cisa: questo benedetto passato deve passare! Parole che sincrociano e accoppiano alla frase che Alice/Mia ripete in continuazione: sono sposata da sedici anni! Per convin-cere chi? Se stessa, del passare del tempo. O forse per ripassare a memoria ci che conta davvero: una vita luccicante. Un apparta-mento in Upper East Side New York, un buon matrimonio e due fi gli. E poi: le amicizie, le accon-ciature e il lettino del massaggia-tore. Ma conta per la falsa Alice, per le maschere che celano le sue potenzialit. naturale: per ucci-dere, o semplicemente riscrivere il passato e sanare le ferite, serve aiuto. Questa volta un tipo ve-nuto da chiss dove, un cinese specializzato in medicina alterna-tiva: il dottor Yang (il contrasto per eccellenza), che non centra nulla con lOccidente che conosciamo. Quello oltre le fi nestre. Guardiamo Allen cos: critico della contemporaneit, mesto cantore delle crisi personali del ceto borghese, quello benestante, modaiolo, con ottime scuole e discreto successo.

    Il pi bergmaniano tra gli americani universalizza e deintellet-tualizza negli esiti le proprie insicurezze, in tempi e luoghi nei quali il bisogno non fonte di schiavit. Nei quali c uno strano fenomeno chiamato tirannia del tempo libero. Che farsene? l che il passato si ripresenta uguale a se stesso. Ma nei momenti apparentemente insignifi canti che il destino si prende la briga di bussare alla porta il che poi, naturalmente, in uno con la capa-cit di sognare, con la parte segreta della nostra personalit, che crea e riconosce il valore di un altrove. Di qualunque sostanza sia fatto. Siamo alle solite. Yang una specie di stregone un medi-cine-man e somministra delle erbe ad Alice, romantica (come Gil), cattolica e perbenista. Le strane medicine, che danno pure

    linvisibilit, sgretolano le sovrastrutture, risvegliano la creativit e riscrivono il passato. Anzi, se ne servono. Alice aveva solo lil-lusione della felicit. Era il prodotto della sua stessa insincerit: la brava moglie di un uomo ricco. La sua blanda religiosit era il mastice di un ambiente fanatico e incomprensibile. Quando Yang se ne ritorner in Tibet, avendo concluso la propria prodi-giosa missione, Alice decider di seguire Madre Teresa di Calcut-ta in India. La sola ragione per cui una religione ha senso aiutare poveri e bisognosi, per piet o per giustizia. Torner trasformata e in armonia con se stessa.

    Credo per di aver imparato a distinguere un Allen ottimista da uno pessimista. Forse lesito del suo agnosticismo, dellas-senza di una relazione tra cielo e terra. Per chi non naviga in ac-

    que tranquille, di cile immagina-re un futuro diverso. Si fantastica, daccordo, ma il fi nale non sar confortante. Le illusioni seduco-no, ma chi pu davvero cambiare il presente? lAllen sfi duciato, quello tentato dalla politica. A suo modo, naturalmente, cio da libertario e anarchico con le spal-le coperte. La rosa purpurea del Cairo non Midnight in Paris. Lambientazione dovrebbe far ri-fl ettere: il New Jersey nel periodo della Grande Depressione. Cecilia una cameriera innamorata dei divi di Hollywood altra fi ssa-zione di Allen , suo marito un operaio disoccupato. Per lei niente letteratura, n poeti, n agopun-tori, ma i miti in carne e ossa della settima arte. Diretta, eccitante, apparentemente immediata, la pi insincera tra le arti. Troppa real-t non quello che vuole il pub-blico (Stardust Memories). Gli attori sono egocentrici, le storie vuote con manichini in smoking e telefoni bianchi a portata di mano. Un Occidente povero, che costru-isce un mondo irrimediabilmente

    artifi ciale. la legge della compensazione. Anche qui accade qualcosa di inconsueto. Tom Baxter un esploratore che ama lEgitto, ennesimo altrove. la piccola star di un fi lm che aff asci-na, diverte e distrae i lavoratori. Il quinto giorno di programma-zione, uscir dallo schermo per far coppia con Cecilia, nella vita reale. Ne verr fuori una mezza rivoluzione. Interverr perfi no Gil Shepherd, che indossa i panni di Tom. La romantica Cecilia potr scegliere tra due uomini, in apparenza identici: Tom, essen-za della perfezione ma creazione dellimmaginario, e Shepherd, vero ma ina dabile. Naturalmente opter per il secondo, cio quello reale. Ma rimarr immediatamente delusa. Sar quella sua miserabile esistenza a non lasciarle alternative.

    La rosa si concluder cos comera iniziata, con la voce di Fred Astaire e il primo piano di Cecilia/Mia. Al cinema con aria so-gnante. Ultimo messaggio in controtendenza: i sogni come via di fuga sono il termometro della felicit. Come i peggiori ne-mici. O li catturi e te ne servi o saranno loro a conquistare te.

    di Alberto Lombardo

    Lantiamericanismo tradizionale di Julius Evola

    Il processo per cui le distruzioni spirituali, il vuoto stesso che luomo divenuto uomo economico e grande im-prenditore capitalista si creato intorno a s, lo costringo-no a far della sua stessa attivit guadagno, aff ari, rendimento un fi ne, ad amarla e volerla in se stessa pena lessere preso dalla vertigi-ne dellabisso, dallorrore di una vita del tutto priva di senso1. La posizione critica del fi losofo romano Julius Evola (1898-1974) nei confronti dellAmerica merita di essere conosciuta per loriginale