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GABRIELE D'ANNUNZIO O falce di luna calante (Canto novo). metro: tre strofe di quattro versi senza rima (due novenari, con accenti fissi sulla seconda, quinta e ottava sillaba; e due doppi senari, il secondo tronco, con accenti fissi sulla seconda e quinta sillaba). La raccolta traduce in poesia un'esperienza, vissuta dal diciannovenne D'Annunzio, di immersione panica nella natura estiva della Versilia assieme a Lalla (Elda Zucconi). Talora la solarità e la pienezza della vita lasciano il campo a una sensualità meno intensa. Ne è un esempio O falce di luna calante, un notturno in cui è rappresentata una situazione di sospensione. La luna si riflette sul mare, in un bacio luminoso tra cielo e terra, ma si riflette anche sulla messe dei sogni degli uomini e sugli aneliti notturni del mondo vegetale. Anche durante la notte opera la fusione panica, ma si fa più sommessa. La poesia si regge sull'immagine della falce di luna (v. 2): di essa nella prima strofa sono presenti il versante letterale e analogico, nell'ultima solo il secondo. La catena tematica "falce"-"messe" ha un doppio significato: è simbolo della pienezza dell'estate (il culmine di questa linea di significato è costituito dall'espressione sensuale del v. 9), ma si carica anche di valenze negative: la luna è calante, suggerendo la fine dell'estate; le acque sono deserte (v. 2); la "messe di sogni" sarà tagliata; tutto tace (v. 8). Questa dialettica non ha carattere drammatico, ma inerente al panismo, che coinvolge tutti i momenti della natura, diurni e notturni, di vita e di morte, dato che tutta (cielo, mare, terra, mondo vegetale, animale e uomini) è riassorbita in un'unica dimensione. Il bipolarismo semmai serve a rappresentare il trascorrere del tempo: la falce, pronta a mietere i sogni, è quella del tempo. La luna è, in effetti, il più primitivo strumento di misurazione del tempo. La lirica pullula di richiami di suoni, riprese di termini e immagini, ripetizioni di interi versi. Produce un gioco di echi che è tutt'uno con la trama: la luna si specchia sul mare e riecheggia nei sogni notturni degli uomini. Il ritmo, dattilico e costante, crea una cadenza musicale con effetto ipnotico. La sera fiesolana (Alcyone) metro: tre strofe di 14 versi, in cui si alternano endecasillabi, novenari, settenari, quinari e versi di dodici e tredici sillabe. A ogni

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GABRIELE D'ANNUNZIO

O falce di luna calante (Canto novo). metro: tre strofe di quattro versi senza rima (due novenari, con accenti fissi sulla seconda, quinta e ottava sillaba; e due doppi senari, il secondo tronco, con accenti fissi sulla seconda e quinta sillaba). La raccolta traduce in poesia un'esperienza, vissuta dal diciannovenne D'Annunzio, di immersione panica nella natura estiva della Versilia assieme a Lalla (Elda Zucconi). Talora la solarità e la pienezza della vita lasciano il campo a una sensualità meno intensa. Ne è un esempio O falce di luna calante, un notturno in cui è rappresentata una situazione di sospensione. La luna si riflette sul mare, in un bacio luminoso tra cielo e terra, ma si riflette anche sulla messe dei sogni degli uomini e sugli aneliti notturni del mondo vegetale. Anche durante la notte opera la fusione panica, ma si fa più sommessa.

La poesia si regge sull'immagine della falce di luna (v. 2): di essa nella prima strofa sono presenti il versante letterale e analogico, nell'ultima solo il secondo. La catena tematica "falce"-"messe" ha un doppio significato: è simbolo della pienezza dell'estate (il culmine di questa linea di significato è costituito dall'espressione sensuale del v. 9), ma si carica anche di valenze negative: la luna è calante, suggerendo la fine dell'estate; le acque sono deserte (v. 2); la "messe di sogni" sarà tagliata; tutto tace (v. 8).

Questa dialettica non ha carattere drammatico, ma inerente al panismo, che coinvolge tutti i momenti della natura, diurni e notturni, di vita e di morte, dato che tutta (cielo, mare, terra, mondo vegetale, animale e uomini) è riassorbita in un'unica dimensione. Il bipolarismo semmai serve a rappresentare il trascorrere del tempo: la falce, pronta a mietere i sogni, è quella del tempo. La luna è, in effetti, il più primitivo strumento di misurazione del tempo.

La lirica pullula di richiami di suoni, riprese di termini e immagini, ripetizioni di interi versi. Produce un gioco di echi che è tutt'uno con la trama: la luna si specchia sul mare e riecheggia nei sogni notturni degli uomini. Il ritmo, dattilico e costante, crea una cadenza musicale con effetto ipnotico.

La sera fiesolana (Alcyone)metro: tre strofe di 14 versi, in cui si alternano endecasillabi, novenari, settenari, quinari e versi di dodici e tredici sillabe. A ogni strofe segue un terzetto, composto da un endecasillabo, un ternario (il vocativo "o Sera"), un dodecasillabo e un quinario. La più antica lirica di Alcyone, scritta nel 1899 alla Capponcina, appartiene alla prima sezione che presenta con testi ambientati in giugno i temi della raccolta: la compenetrazione natura-arte, l'antropomorfismo della natura, la metamorfosi. L'equivalenza uomo-natura si traduce in tre strofe tessute di corrispondenze e simmetrie; ognuna consta di un solo lungo periodo con frequenti enjambement, che conferiscono fluidità e continuità. Apparentemente al centro sono due amanti (la presenza femminile è affidata a un discreto "ti") che contemplano i colli di Fiesole, in una giornata in cui la primavera sembra prendere congedo. D'altra parte, la presenza umana non è centrale nella lirica, ma il paesaggio, che perde le sue connotazioni realistiche per diventare paesaggio dell'anima. Tale trascolorare avviene attraverso un'antropomorfizzazione, per cui ogni aspetto naturale è umanizzato: ogni presenza

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umana pare dissolversi e da questa atmosfera di mistero la sera emerge trasfigurata in una creatura femminile.

La prima strofe inizia con una sinestesia ("fresche... parole"), ampliata dalla similitudine musicale affidata a una triplice allitterazione ("come il fruscio che fan le foglie"); nei primi tre versi si intrecciano sensazioni tattili e foniche. Poi, un gusto pittorico dilata i valori cromatici ("annera", "inargenta", "cerule"), mentre appaiono le prime spie dell'antropomorfismo. Il paesaggio, infatti, sente, patisce, parla: al v. 8 appare la personificazione della Luna, che distende un velo; al v. 11 la campagna, dotata di capacità sensitive umane, coglie l'effetto benefico del velo e beve la pace sperata. L'atmosfera onirica è avvalorata dalla ripetizione di "par".

La triplice antifona, la cui struttura ricalca il Cantico delle creature di San Francesco, è dedicata alla sera introdotta sempre da un vocativo e alla sua metamorfosi. La creatura che ne emerge è tratteggiata secondo i canoni dello Stil Novo: il "viso di perla" (v. 15) ricorda la Vita Nova (Donne ch'avete: "color di perle ha quasi..."); "i grandi... occhi" (v. 16), attributo della donna angelo, qui indicano le pozze ove la pioggia si è fermata.

La seconda strofe presenta un attacco identico alla prima, con la variazione dell'aggettivo: a "fresche" subentra "dolci" (nuova sinestesia), entrambi risalenti all'incipit della canzone petrarchesca Chiare fresche e dolci acque. La natura è umanizzata: "commiato lacrimoso" (v. 22), attribuito alla pioggia, diventa quasi pianto d'addio; i "novelli rosei diti" (v. 23) sono i germogli dei pini che giocano (vv. 23-24) col vento; il fieno "patì la falce" (v. 27), cioé è stato tagliato, ma con un'idea tutta umana di dolore. Il ritmo è, rispetto alla prima strofe, più rapido grazie all'uso del settenario dopo i primi due endecasillabi e in accordo col cadere della pioggia. L'immagine degli olivi "fratelli" (vv. 29-31) è francescana: fratellanza, santità, letizia rimandano ai caratteri della religiosità francescana.

La seconda antifona (vv. 32-34), incentrata su sensazioni olfattive, ripropone la metamorfosi della sera in donna dalle vesti profumate, trattenute da una cintura (paronomasia: "cinto che cinge"), come Beatrice nel capitolo II della Vita Nova.

L'ultima strofe si regge sull'anafora di "io ti dirò" (vv. 35 e 39) e sul polisindeto. Qui interviene l'ennesima trasformazione della natura: le colline con le loro linee ondulate si trasformano in labbra femminili, rese seducenti dalla volontà di svelare un segreto. La strofe è giocata sul conflitto tra tensione a decifrare il linguaggio degli "antichi rami" e il divieto che chiude le labbra e intensifica, mentre sembra negarla, la volontà di dire. Il poeta è unico interprete del mistero, cogliendo la volontà di dire della natura. Il lessico immerge in un'atmosfera fiabesca ("reami d'amor") e sacra: "fonti eterne", "antichi rami", "mistero sacro". L'ultima antifona lega il tema della loda a quello della morte pura: la sera dilegua nella notte che sopraggiunge e che è annunciata, in un clima d'attesa, dalle prime stelle.

La pioggia nel pineto (Alcyone)metro: strofe di 32 versi, di varia misura, fra il ternario e il novenario, con predilezione per il senario. Libera è la corrispondenza delle rime, sostituite spesso dalle assonanze. Ogni finale di verso trova una o più corrispondenze foniche nella sua strofa; quando non sembra accadere, si ha una rima interna, determinando sempre un ternario interno o alla rima o dopo la rima.L'attacco della poesia è ispirato a Sentence del poeta simbolista francese Henri de Régnier ("Écoute, sur le seuil..."). Si possono individuare tre motivi: il più vistoso è la registrazione della sinfonia di suoni che la pioggia, cadendo sulla vegetazione

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versiliana, suscita e delle altre voci della pineta (il coro delle cicale, l'assolo della rana). Il secondo è la metamorfosi del poeta e della sua compagna (Ermione, cioé la Duse) in creature silvane. Più in ombra il terzo motivo: quello della poesia, come sintesi musicale dei suoni della natura. All'equivalenza tra poesia, natura e musica D'Annunzio è condotto da Verlaine (de la musique avant toutes choses) e Wagner.

Due volte appare l'espressione "la favola bella", ma nell'iterazione del sintagma alla fine della lirica si nota uno scambio tra il passato remoto e il presente e tra i pronomi di prima e seconda persona. "La favola bella" si rivela essere la poesia, che canta l'amore, suprema illusione, e la metamorfosi; prima che essa avvenga, ancora sulle soglie del bosco, il poeta afferma di essere incantato da quella favola. A metamorfosi compiuta, a poesia completata, tempi e pronomi sono mutati. E' la donna ora ad essere incantata, illusa dalla poesia che per il poeta è esperienza conclusa: la poesia è cosciente della propria natura effimera.

La lirica inizia col duplice invito alla compagna a cogliere parole non umane. In quest'esortazione iterata, che scandisce i tempi e i modi dell'immersione panica dei due amanti, è chiusa la tensione a cogliere l'essenza delle cose. Altra iterazione coinvolge una parola chiave: "piove", che ricorre dieci volte (tre volte "pioggia", tre "pianto"); il primo "piove" è congiunto alla preposizione "da", gli altri alla preposizione "su" quasi ad accompagnare la pioggia in un movimento verticale dall'alto in basso. I cinque "piove" all'inizio dei vv. 10, 12, 14, 20, 22 sostengono una enumerazione, a coppie o terzetti, di cinque elementi naturali (tamerici, pini, mirti, ginestrie, ginepri) e cinque umani. Ecco che nell'orchestrazione suscitata dalla pioggia si delineano i tratti umani destinati alla trasformazione (volti, mani, vesti, pensieri), disposti in una climax ascendente, che procede dall'esterno all'interno dei due amanti: i volti diventano "silvani", quando ancora gli amanti sono sulle soglie del bosco; le "vesti", bagnate, aderiscono al corpo e quasi scompaiono; i "pensieri" diventano per sinestesia "freschi" e dunque quasi purificati; l'anima pure è "novella".

Al v. 52 si annuncia la metamorfosi dei due amanti; adoperando la prima persona plurale, il poeta afferma di essere immerso con Ermione nello spirito silvestre. Passando alla seconda persona, si rivolge alla donna di cui coglie la trasformazione con evidenza maggiore che la propria. Il volto di lei madido è come una foglia, i capelli profumano come ginestre e la donna diventa un essere generato dalla terra ("terrestre"). In loro si attua la compenetrazione fra dato sensibile (la pioggia) e immaginazione poetica, che trasforma le sensazioni in musica.

Nella terza strofa riprende variata la sinfonia della pioggia, mentre il canto delle cicale si attenua ("s'allenta, si spegne", "trema, si spegne", "risorge, trema, si spegne"). La strofa è intessuta di notazioni acustiche in cui si perdono le isolate denotazioni visive. Al v. 88 un nuovo richiamo all'ascolto introduce, dopo la cicala, la figlia del limo (non sfugga l'opposizione alto-aria/ basso-fango né l'allitterazione del suono /i/), che canta in un luogo oscuro e indefinito. La metamorfosi è al culmine, mentre il volto di Ermione pare inondato di pianto, suscitato dal piacere: la pelle si fa verde, il cuore una pesca non toccata, gli occhi sorgenti, i denti mandorle acerbe; dai malleoli l'intrico vegetale sale alle ginocchia, suggerendone un radicamento nella terra (si notino l'allitterazione di /v/ e /r/ e la forza avvolgente dei due verbi "allaccia" e "intrica").

Le stirpi canore (Alcyone) metro: strofe di 37 versi liberi, dal ternario al novenario. Modello di questa poesia, scritta nell'estate 1902, è le Corrispondenze di Baudelaire. Si tratta di un testo metapoetico, dove la poesia parla di se stessa, celebrata da

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D'Annunzio per la sua naturalità. Essa è, infatti, figlia della natura, voce del grande tutto, poiché tra parole e cose c'è una misteriosa corrispondenza, che solo il poeta-superuomo può esprimere completamente. Partendo da questo assunto, seguita a proporre esempi di come la sua poesia possa essere pesante, leggera, profonda, lieve, duttile (insomma sia capace di ogni stile e registro) in una continua similitudine con gli elementi naturali.

La lirica è strutturata in due momenti: nel primo è introdotto il tema (la poesia figlia della natura), che, poi, dal v. 7, è sviluppato attraverso uno schema fisso di analogie riproposto per 14 volte. Ad ogni carattere della parola poetica corrisponde un aspetto della natura.

Le rime sono presenti in tutti i versi, tranne al v. 19, in assonanza con altri sei. Frequenti sono le assonanze, le consonanze, le paronomasie, le allitterazioni. Da notare anche le variazioni di timbro e di tono, in parallelo con quelle di significato: "sono profonde come" (vv. 8-9: timbro scuro della /o/), "terrene... serene" (versi 10-11: tono basso della /e/); "dumi confuse... fumi confusi" (vv. 15-17: timbro scuro della /u/).

Meriggio (Alcyone). metro: quattro strofe di 27 versi, più un verso di chiusura; i versi vanno dal quadrisillabo al novenario; rime, assonanze e rime interne sono numerose e irregolari.Composta nel 1902, la poesia descrive l'estate al suo culmine e una nuova metamorfosi panica del poeta, che perde la propria identità nel silenzio del mezzogiorno, su una spiaggia presso la foce dell'Arno. Il dissolvimento nella natura non è, però, esperienza da tutti: solo chi sa andare oltre la sorte umana può cogliere questa vita divina. La struttura è simmetrica: le quattro strofe si possono dividere in due gruppi di due. Il primo è dedicato alla rappresentazione del paesaggio e del momento temporale; il secondo descrive l'evento che in quell'ambiente si compie.

La prima strofa si apre con una panoramica su uno scorcio marino ed è pervasa da una sensazione di calma e lentezza. Di effetto e la triplice anafora negativa, che offre un'idea di stasi; la climax ascendente consente di introdurre il motivo del silenzio, che caratterizza il paesaggio. La sinestesia "chiaro silenzio" (vv. 15-16) esprime in sintesi l'ambiente presentato. Dal v. 13, il panorama si allarga: dalla spiaggia ci si spinge a Capo Corvo e all'isola del Faro, a Capraia e Gorgona, verso le Alpi Apuane. Lo spazio immenso rende più forte l'impressione dell'immobilità e della indeterminatezza. La strofa si chiude con uno scorcio montano: si determina un'opposizione fra orizzontalità del mare e verticalità delle montagne. Essa è una variante di quella fra mare, simbolo femminile, e il sole, simbolo maschile.

All'inizio della seconda strofa, l'inquadratura stringe sul fiume, per aprirsi verso lo spazio aperto. L'impianto è identico, come l'impressione che vuole creare: il silenzio e immobilità. Molti elementi della prima strofa sono ripresi: la costruzione inversa (vv. 29-33), l'immagine del bronzo sepolcrale (v. 34), le frasi negative (vv. 39-40, 46), espressioni o singoli termini (es. "pallida", v. 35). Se il soggetto della prima strofa è il mare, quello della seconda è la foce, il luogo simbolico in cui il fiume diventa mare, perdendo identità. È dunque il simbolo della metamorfosi che il poeta sta per vivere.

I primi due versi della terza strofa riassumono il significato delle strofe precedenti. La metamorfosi si snoda in diverse fasi: l'inizio è descritto attraverso la metafora della maturazione dell'estate sul capo del poeta. In questa immagine si colgono un aspetto letterario (la personificazione dell'estate) e un aspetto ideologico: l'estate è un frutto

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che solo il poeta può cogliere. La sacralità del vento è affidata al silenzio e alla presa di distanza da ogni consuetudine umana (vv. 64-66). Il momento decisivo è la perdita del nome (v. 68). Subito dopo l'io poetico si scompone nei suoi elementi corporei e si fonde con la natura.

Nella quarta strofa il processo passa ad un piano religioso. Ai vv. 82-88 la natura si immedesima nelle parti corporee del poeta; ai vv. 89-97 l'io si annulla negli elementi naturali. Mentre le prime due strofe sono descrittive, le ultime sono più enfatiche, come provano le ripetizioni e il taglio solenne. L'espressione chiave "non ho più nome" (v. 68) è ripetuta ai vv. 99 e 105, racchiudendo l'intero rito.

La sabbia del tempo (Alcyone, Madrigali dell'estate).metro: madrigale di due terzine di endecasillabi, legate dalla rima centrale e da una quartina di endecasillabi a rima alternata.Uno dei Madrigali dell'estate, un gruppo di undici brevi componimenti, composto tra settembre e ottobre 1903, la lirica prende le mosse da una sensazione termica e tattile, attorno a cui ruota il tessuto metaforico. Da tale sensazione percepita da una mano in ozio, quasi autonoma dal soggetto cui appartiene, si genera la coscienza della fine dell'estate e dello scorrere del tempo. Al v. 4 appare l'ansia che assale il poeta.

Nella prima strofa la mano e il cuore del poeta suggeriscono immagini di misurazione cronologica, di cui diventano strumenti. Il v. 4 introduce una connotazione temporale, l'avvicinarsi dell'equinozio di autunno, mentre il v. 5 si chiude con una metafora sinestetica: il colore dorato delle spiagge salate sarà meno brillante, perché si avvicina l'autunno.

La seconda strofe presenta un accumulo di immagini legate alla sabbia. La mano è "urna" e il vocabolo, dalle connotazioni funebri, istituisce un raccordo fra il giorno breve e la morte. Il cuore "palpitante" è "clessidra": il participio è legato all'ansia del poeta e la clessidra è strumento di misura del tempo. Ultima immagine è quella della meridiana, un emblema evocato dall'ombra crescente degli steli esili e senza fiori, come l'ago nel quadrante, "tacito", perché privo di ogni meccanismo.

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GIOVANNI PASCOLI

Arano (Myricae, L'ultima passeggiata 1)metro: madrigale di dieci versi, due terzine e una quartina di endecasillabi. In questa sezione sono 16 componimenti omogenei per ambientazione e struttura metrica, come Lavandare. Vi troviamo una delle linee ispiratrici della raccolta: l'ambiente della vita dei campi raccontati attraverso quadri naturalistici. Si tratta di una scena di aratura. La vicenda non appartiene ad un luogo e ad una stagione realistici. Si rappresenta piuttosto uno spazio sacro, al quale è opposta la minaccia di uno spazio esterno negativo. Il rosso dei campi, la nebbia, il passero, il pettirosso sono simboli di questo contrasto.

La prima terzina è sintatticamente sospesa e ritmicamente in crescendo: questi effetti sono ottenuti con l'iperbato: "al campo... arano". La proposizione principale è subito interrotta da un inciso che occupa tutta la terzina ed è conclusa al principio della strofa successiva. I due membri dell'iperbato sono uniti da una forte assonanza e dall'identica posizione; "arano", in particolare, conclude la prima terzina, ma per posizione e significato introduce e riassume la seconda; quindi, poiché riprende il titolo, fa da centro a tutto il componimento. L'ambiente è rappresentato attraverso effetti di colore: dal rosso dei campi al bianco della nebbia. L'allitterazione dei suoni /bri/-/bra/-/fra/ (vv. 2-3) connota le immagini di un senso di morte, in particolare la nebbia, ricorrente in abbinamento con l'alba che segue una notte tragica. Questa prima strofa è caratterizzata dagli enjambement: nei dieci versi del componimento se ne contano sei; l'uso della punteggiatura crea, invece, un gioco di pause, soprattutto nella seconda terzina e nella quartina.

Se esse, nella prima strofa, sottolineano il crescendo ritmico, nelle altre vogliono dare risalto al lavoro degli uomini e all'atteggiamento degli uccelli, il cui punto di vista è rappresentato nella quartina. Il componimento dà infatti l'idea di un passaggio dal campo lungo al primo piano e di uno stacco dal punto di vista umano a quello animale. Quest'ultima focalizzazione richiama la poetica del fanciullino e la sua capacità di regressione nell'anima delle creature della natura. Il passero è simbolo positivo in Pascoli, perché è capace di rinunciare a migrare.

Il poeta, infine, passa dalla registrazione di impressioni visive nelle terzine a quella di impressioni quasi psicologiche nei primi due versi della quartina e di quelle uditive nel finale, sottolineate dalle allitterazioni dei suoni /s/ e /t/, dall'onomatopea "tintinno" e dalla sinestesia "tintinno come d'oro" (v. 10).

Lavandare (Myricae, L'ultima passeggiata, 4). Come in Arano, anche qui appare un campo arato, avvolto dalla nebbia. Ma qui è mezzo grigio, mezzo nero, l'aratro è senza i buoi e sembra dimenticato. L'aratura è compiuta solo a metà: uomini e animali sono usciti di scena. Lontano si ode il canto delle lavandaie, che il poeta ascolta perché sta passeggiando per l'ultima volta prima dell'inverno. È un triste canto popolare che parla di partenza e di abbandono: l'inverno è tornato, ma ancora non è tornato al paese qualcuno che era partito promettendo di tornare. Anche qui le immagini sono simboli di un panorama interiore, fatto di incompiutezza, abbandono e solitudine: un mondo intero sta finendo, perché i disvalori della modernità assediano il mondo contadino.

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Alle tre strofe corrispondono tre diverse inquadrature. Nella prima terzina il paesaggio è rappresentato tramite impressioni visive. I due verbi, "resta" e "pare", al centro della terzina sono riferiti all'aratro di cui danno un'immagine statica e dinamica. Il punto di vista è quello di un apparente narratore esterno.

Nella seconda terzina le impressioni sono uditive, sottolineate dalla rima fra i due emistichi del verso centrale ("sciabordare"/ "lavandare"). Il rumore dei tonfi accompagna ritmicamente il canto delle lavandaie.

Nella quartina le impressioni uditive si amplificano. La voce narrante diviene la voce della cantilena delle lavandaie, riprodotta in un discorso indiretto libero (Pascoli fonde due stornelli marchigiani). Dalla visione muta della prima strofa si passa alla percezione sonora della seconda e all'immersione della voce narrante nel canto. Il verso finale della cantilena richiama il paesaggio iniziale.

Il testo ha una tessitura musicale: sono numerose le assonanze (v. 1, v. 2, vv. 2-3), così come le ripetizioni, le rime interne e gli omoteleuti (vv. 2,3,4; vv. 2,5), le allitterazioni, le onomatopee (vv. 5-6). La costruzione ritmica riproduce l'andamento della cantilena: l'effetto è ottenuto con il rallentamento del ritmo grazie agli enjambement, all'uso di parole lunghe e alla fissità degli accenti. Il primo cade sempre sulla quarta sillaba tranne che nel v. 1.

X agosto ("Marzocco" 1896; poi in Myricae, Elegie, 3). metro: quartine di novenari e decasillabi a rime alterne. La poesia ricorda la morte del padre del poeta, avvenuta il 10 agosto 1867, nella notte di san Lorenzo, quando le stelle cadenti sono più numerose e brillanti. Pascoli si rifà alla cultura contadina, che le chiama "lacrime di san Lorenzo". La poesia è giocata su alcune analogie: le stelle cadenti sono lacrime; la vicenda di Ruggiero è accostata alla morte di una rondine; l'immagine della croce accomuna il padre di Pascoli e la rondine sotto il simbolo del martirio di Cristo. L'intreccio delle analogie trasforma il lutto per il padre in una vicenda universale, una allegoria del male. La sfiducia verso la natura umana e la società è totale (per cui chi esce dal nido cade sempre vittima della violenza) e davanti allo spettacolo della crudeltà umana anche il cielo ha una reazione emotiva. Il pianto celeste apre e chiude la lirica, rendendo ridondanti gli ultimi versi.

Dopo l'invocazione al santo, il poeta interpreta il fenomeno delle stelle cadenti in chiave morale. Nella seconda strofa, è introdotto il primo termine dell'analogia, la rondine. Essa cade tra gli spini ed "ora è là, come in croce". L'autore del delitto è una forza ignota, forse l'umanità. Il verbo che trasmette il senso del delitto è senza soggetto: "l'uccisero". Con la quarta strofe, la rondine è trasformata in correlativo di Ruggiero, che fu ucciso anch'egli mentre tornava al "nido"; pronuncia al momento del delitto la parola "perdono", chiara eco delle parole di Cristo sulla croce. Questa interpretazione è confermata anche dalla grafia del titolo: la X è una croce. Sarebbe, però, un errore pensare ad un Pascoli cristiano: il Cielo scruta l'atomo opaco "dall'alto dei mondi sereni": è lontanissimo e forse indifferente.

La struttura è simmetrica: la prima strofe è dedicata al cielo; la seconda e la terza alla rondine; la quarta e quinta all'uomo; la sesta al cielo. Le strofe centrali sono in parallelo: il primo verso della seconda e della quarta è incentrato sul momento del ritorno; il secondo, che si apre con "l'uccisero", segna il vertice della tragedia; le due strofe si chiudono sui doni che i "martiri" riportavano al nido. La terza e quinta strofe sono disposte in chiasmo: al primo distico della terza che fotografa la rondine tra gli spini risponde il secondo della quinta, dominato dall'immagine immobile dell'ucciso.

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Entrambi indicano il cielo. Il secondo distico della terza e il primo della quinta presentano un tema affine: il nido che invano aspetta il ritorno del martire. Parallele sono anche le invocazioni, a san Lorenzo e al Cielo, della prima e sesta strofe.

L'assiuolo (1897, "Marzocco"; poi in Myricae, In campagna, 11). metro: tre strofe di sette novenari, a rima alternata, più un monosillabo onomatopeico ("chiù"), in rima col sesto verso di ogni strofa (si tratta del verso che emette l'assiuolo, piccolo uccello rapace, simile al gufo). Si tratta di versi tutti regolarmente dattilici, con accenti sulla seconda, sulla quinta e sull'ottava sillaba.Il tema in apparenza è il ricordo di una notte illuminata dalla luna invisibile: mentre un temporale è lontano, il verso dell'assiuolo è insistente: è, però, una poesia simbolista, dove la natura si carica di significati a volte enigmatici che solo il poeta sa comprendere.

La poesia si apre con una domanda: in apparenza è uno spunto per la memoria del poeta, che cerca di ricordare. Ma la risposta, senza una struttura sintattica, fa restare il lettore sospeso in un vuoto di senso. La doppia metafora del v. 2 ("notava in un'alba di perla") sembra nascere da una percezione sinestetica: il colore perlaceo dell'alba si fonde, infatti, con la consistenza della luce in cui nuota il cielo. Ai vv. 5-8 il temporale è descritto da una metafora ("soffi di lampi"), derivata implicitamente da una sinestesia: in apparenza, si tratta di un fenomeno lontano, ma il verbo del v. 5 ("venivano"), ripetuto in anafora al v. 7, sembra renderlo vicino. La voce dell'assiuolo è introdotta da una formula neutra ("una voce dai campi", v. 7), poi amplificata attraverso una climax dai penultimi versi delle altre strofe: al v. 15 è un "singulto", al v. 23 un "pianto di morte".

Al centro della poesia troviamo una triplice anafora di "sentivo": è l'unica presenza linguistica dell'io poetico. Nella sua indeterminatezza il verbo si adatta alle sensazioni uditive come anche alle emozioni del poeta. Le tre sensazioni sono ordinate secondo un crescendo di indeterminatezza e di intensità: il "cullare del mare" cede alla percezione vaga di un "fru fru tra le fratte" e infine a una sensazione soggettiva, un "sussulto", che, come precisa la similitudine del v. 14 ("com'eco d'un grido che fu"), scaturisce dal ricordo di un dolore lontano.

L'ultima strofe, dopo una definizione dello scenario, in cui spicca il valore evocativo del verbo "tremava", introduce l'elemento sonoro delle cavallette, paragonate ai sistri. I vv. 19-20 sono notevoli per la sonorità delle /s/, richiamata anche da "invisibili" (v. 21), mentre il suono /i/ è preponderante ai vv. 20-21. Emerge qui come cellula sonora il nome latino della dea Iside (Isis), due volte in anagramma e letteralmente. In questo mito, Osiride, re dell'Egitto e dio del sole, è ucciso a tradimento da Tifone, il dio della tempesta: il suo corpo, fatto a pezzi, è ricomposto da Iside (la luna) che da lui concepirà un figlio, Oro. Probabilmente la leggenda suggeriva un'identificazione tra mito e propria storia personale al poeta, che, tra l'altro, amava rappresentare l'assassinio del padre come un temporale.

Un'altra chiave di lettura può essere legata al rapporto con il "Corvo" di Edgar Allan Poe. In questa poesia lo scrittore americano racconta la visita di un corvo, che a mezzanotte di un giorno cupo bussa alla sua porta. Il poeta non sa se farlo entrare, perché è triste, avendo da poco perduto l'amata Lenore. Aperte le finestre, il corvo si posa su un busto: a tutte le domande dell'uomo, disperato, l'uccello risponde con nevermore (=mai più). Pascoli conosceva la poesia, forse in traduzione; probabilmente, modella il pianto di morte del suo uccello sulla risposta del corvo, dato che "chiù" in dialetto napoletano significa "più". Il verso sarebbe dunque la risposta

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negativa che l'assiuolo dà alle domande del poeta. Anche se la natura notturna sembra parlare una lingua vitale, l'ultima parola è quella della morte.

Novembre ("Vita nuova" 1931; poi in Myricae, In campagna, 18)metro: tre strofe saffiche, formata da tre endecasillabi e un quinario, con rima alternata.Apprezzata da Giosuè Carducci, la lirica presenta in superficie alcuni caratteri carducciani: il metro barbaro, la simmetria strutturale, la trasparenza espressiva. In realtà anche qui Pascoli non vuole disegnare bozzetti, ma ricostruire una situazione interiore attraverso simboli. Novembre, nel caso l'estate di San Martino, non è un periodo temporale reale, ma una stagione dell'animo. Si tratta di un'illusione di primavera, simbolo di ciò che significa la vita umana: vivere, agire, amare sono una illusione in un cosmo dolente, condannato all'autunno della coscienza, che può raggiungere pienamente solo il poeta. L'unica via di salvezza sta nella regressione totale: dal mondo dei vivi al mondo dei morti.

La poesia è strutturata in tre nuclei tematici che corrispondono alle tre strofe: nelle prime due si confrontano due punti di vista antitetici a proposito dello stesso fenomeno; nella terza, l'apparente antitesi è risolta da un giudizio inappellabile: l'estate di San Martino è l'estate fredda dei morti.

Per prima parla la voce dell'idealista ingenuo che disegna un quadro di impressioni primaverili. Il suo discorso è tutto nel segno della vita che nasce: l'aggettivo "gemmea" richiama l'immagine della fioritura, ribadita al v. 2; il sole chiaro e l'idea di bianco implicita nei nomi degli albicocchi e del prunalbo chiariscono l'impressione della luce; l'"odorino" amaro sposta l'impressione sul piano olfattivo e rivela una matrice interiore ("senti nel cuore"). La principale non ha verbo ed è strutturata a chiasmo: ciò crea un clima di sospensione e di astratta perfezione.

All'idealista risponde il realista: il suo discorso è opposto al precedente dal punto di vista sintattico (la prima strofa si avvita su una consecutiva, la seconda è paratattica), ritmico (la prima è ascendente, la seconda discendente), tematico (all'impressione di rinascita della vita subentra un'impressione di morte). Il terreno cavo allude a dove sono sepolti i morti. Anche l'allitterazione del suono /s/ è abbinata a una idea di morte attraverso il richiamo al canto XIII dell'Inferno.

Nella terza strofa il poeta parla lentamente e adduce prove decisive fino alla sentenza finale. C'è un'atmosfera di silenzio intenso sottolineata dalla allitterazioni e da una nuova ellissi: si ode il cadere delle foglie, immagine che sintetizza la visione dell'evento esterno con la visione interiore della fragilità umana. Al v. 9 la punteggiatura determina una triplice cesura.

Il lampo - Il tuono (Myricae, Tristezze, 9-10).metro: ballate piccole di endecasillabi. Il lampo sembra la veloce inquadratura di una scena di natura e di umanità sconvolta da una folgore: una descrizione impressionistica, come suggerisce l'uso dell'asindeto, che conferisce rapidità, e del passato remoto. Ma dopo il primo verso, che, con il suo attacco improvviso e la scelta del verbo al singolare (cielo e terra di fronte alla violenza del fulmine sono un'unica massa inerte), sembra preparare ad una descrizione oggettiva, il resto è caratterizzato da un taglio più soggettivo, che è decodificabile solo pensando che il testo sia una metafora della morte del padre. Così, si riesce a spiegare le qualificazioni riferite al cielo e alla terra (nei vv. 2-3,

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caratterizzati dal parallelismo, dalla scelta di due parole sdrucciole nella stessa posizione versale e dagli accenti ritmici sulle stesse sillabe). I quattro versi finali sono costruiti su una similitudine simbolista: una casa illuminata all'improvviso nel buio sembra un occhio che si apre nella notte. L'affinità fra la "casa bianca bianca" (geminatio con valore di superlativo) e il bianco dell'occhio indurrebbe a pensare che essa sia il simbolo della famiglia, vittima della violenza, il "tacito tumulto" (espressione ossimorica rafforzata dall'allitterazione). I due aggettivi riferiti all'occhio ("largo", "esterrefatto") rallentano l'endecasillabo e il loro valore ne risulta potenziato. Evidentemente, l'occhio esterrefatto, cioé atterrito, è quello di un uomo ucciso a tradimento.

Se Il lampo è fondato sul contrasto cromatico tra bianco e nero, Il tuono è una variazione uditiva sul tema del temporale, costruita sul contrappunto fra il fragore della tempesta e la ninna nanna della madre. Il poeta manipola la lingua così da ottenere effetti di suono: il rotacismo (vv. 1-2) imita il rumore assordante del tuono; le fratture ritmiche dei versi pieni di parole tronche rendono artificiosa la sonorità; evidenti in particolare l'allitterazione del suono /n/ (v.1) e dei gruppi /fr/ e /ri/ (vv. 2-5). Il ritmo si distende nel finale, dove i disillabi piani prendono il posto dei disillabi tronchi.

Il gelsomino notturno (1901; poi in Canti di Castelvecchio)metro: strofe saffiche (formate da tre endecasillabi e un quinario) con rima alternata. Scritta in occasione del matrimonio dell'amico Gabriele Briganti, la lirica sembra un rapido schizzo di una natura notturna, forse un giardino vicino ad una casa che si prepara al sonno. Ma il contesto porta a decodificare in modo simbolico molti elementi naturali: i calici aperti di notte per farsi fecondare e l'"urna segreta" dove cova una nuova vita solo simboli della femminilità umana. I bisbigli e il gioco delle luci preludono a una notte d'amore, in parallelismo con la vita dei fiori e degli insetti. L'argomento è quindi l'eros, filtrato attraverso la sensibilità del poeta, poco propenso a lasciare spazio alle pulsioni sessuali e che si propone come controcanto della felicità degli sposi.

Pascoli, infatti, mentre la natura mette in moto i meccanismi della fecondità, pensa ai suoi morti, come dimostra il v. 2, che incrina con una nota funebre il clima gioioso della natura notturna. La presenza delle farfalle notturne è ambigua: alcune specie, quando stendono le ali, mostrano una sagoma di un cranio; le fosse su cui cresce l'erba possono essere interpretate come canali o tombe; l'ovario della pianta è per metafora un'"urna", cioé propriamente il contenitore delle ceneri dei morti.

Oltre alla vista e all'udito, la gamma delle percezioni si allarga alla sfera dell'olfatto, in Pascoli spesso legato alla tematica sessuale. L'avvicinamento tra olfatto e il rosso appare qui un riflesso dell'inconscio. C'è un parallelismo implicito fra la durata dell'odore che passa col vento e la durata della notte di nozze.

La semplicità della sintassi, quasi solo paratattica, compone un quadro nitido e preciso della natura. La poesia procede per accumulo di dettagli: i fiori notturni, le farfalle crepuscolari, la casa, i nidi, le fragole rosse, le stelle, il vento sono affiancati senza collegamento logico che non sia la loro compresenza nel paesaggio. Nell'ultima strofe è l'unico frammento narrativo: l'attività delle farfalle ha dato i suoi frutti e nell'urna cresce una nuova vita. Anche il senso complessivo della poesia è ora modificato, perché il lettore deve reinterpretare i rapidi accenni alla presenza umana dei versi precedenti. La sospensione del v. 20, che sembra non dire ciò che segue allo spegnimento del lume, assume così un significato sessuale.

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Alexandros ("Convito" 1895, poi in Poemi conviviali)metro: sei strofe di dieci terzine dantesche (con un endecasillabo isolato finale), a rima incatenata. La lirica è incentrata sul personaggio storico di Alessandro Magno (IV sec. a.C.), interpretato attraverso la leggenda medievale che lo considerò un eroe assetato di avventura e conoscenza. Pascoli, però, lo modernizza, facendogli capire l'inutilità e la negatività della sua azione. L'idea di fondo è che le conquiste materiali e teoretiche dell'uomo moderno sono un falso progresso, un errore che sfocia nel nulla.

Conquistata l'India, giunto in riva all'Oceano, Alessandro è arrivato alla fine delle sue imprese. Sente inappagata la sete di conquista, ma non ci sono più terre da conquistare. L'unico lembo di terra inesplorata brilla sugli scudi dei soldati: la Luna, lontana, solitaria, inaccessibile. Anche Alessandro deve riconoscere la propria sconfitta; davanti a sé ha il vuoto: la terra che sprofonda nel mare, il sogno impossbile di una terra irraggiungibile nella notte fulgida del cielo.

Nella prima Alessandro prende coscienza di essere arrivato ai confini della terra ed è costretto all'immobilità: folto è il campo semantico che fa capo alle idee di conclusione e inutilità. Nella seconda ricorda il viaggio (ciò che gli resta) e condensa gli ostacoli superati in due simboli, le "fiumane" e le "montagne". Affiora la causa del fallimento: la sproporzione fra la realtà e l'immaginazione. Alla fine è perfino colto da nostalgia: "il sogno è l'infinita ombra del vero".

Nella terza e quarta strofa l'eroe è definitivamente conscio della sconfitta: ora sa che la felicità sta solo nell'attesa. Trasforma i ricordi in un percorso di regressione nel passato (pubblico, familiare, culturale) per trarne le radici lontane del proprio essere. La battaglia di Isso contro i Persiani di Dario (333 a.C.) rappresenta tutte le battaglie che ha combattuto; la città di Pella è il simbolo della sua gioventù. Suggestiva è l'immagine del giovane che insegue il sole al tramonto. Come se fosse prossimo a morte, lega in un bilancio finale il padre Filippo con l'auleta Timoteo, il canto sacro ascoltato da giovane con l'eco che gliene resta nel cuore, lo squillo dell'araldo con il grido dello spirito possente che lo incita a proseguire.

Nelle ultime due strofe la parola passa all'autore. La quinta presenta un ritmo da ballata: si notino la triplice ripetizione e la cadenza che ne consegue (vv. 42-3, 45-6, 47-8). Il poeta abbozza un ritratto di eroe turbato dal destino: il suo occhio nero e il suo occhio azzurro simboleggiano rispettivamente la morte e il cielo, lo sdoppiamento di Alessandro fra agire e fermarsi; le belve e le forze incognite simboleggiano lo sgomento davanti alla morte. La scena si sposta in Epiro, dove si attende il suo ritorno: là sono rimaste le sorelle, che filano per lui, e la madre, Olimpia, che anche lei dispera nel ritorno del figlio. Ha scelto di smarrirsi nel sonno, una strada diversa da quella di Alessandro, quella che porta in direzione opposta alla realtà.

In questa poesia la componente erudita si vede nella tendenza a riprodurre vocaboli antichi ("brocchier" v. 3, "mistofori" v. 3), ad usare nomi tecnici (v. 4), toponimi e nomi di personaggi spesso con una grafia particolare. La ricercatezza formale è evidente soprattutto sul piano delle figure retoriche, come l'ossimoro "notte fulgida" (v. 10), il chiasmo (vv. 11-13), il polittoto (v. 14). L'endecasillabo sembra ricercare dolcezze di accenti, ma è frantumato in una somma di versi brevi, come nel primo verso dimostra la presenza di quattro sinalefi.

Digitale purpurea ("Marzocco", 1898; poi in Primi poemetti).metro: terzine dantesche, in tre parti, di nove strofe.

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Ispirata ad un ricordo delle sorelle di Pascoli, che finirono in collegio a Sogliano sul Rubicone dopo la morte dei genitori, la lirica racconta l'incontro, dopo molti anni, tra Maria (lo stesso nome della sorella del poeta) e Rachele (forse Ida, che si sposò, lasciando la casa di Pascoli): esse siedono in un luogo dai contorni sfumati, parlando dei comuni ricordi. Tra gli altri, emerge l'esperienza di un pomeriggio, quando hanno visto la digitale, la pianta che uccide con il solo profumo e dalla quale la suora maestra le esorta a stare lontane. Tuttavia, la bruna Rachele, dagli "occhi ardenti", dopo qualche giorno, durante un temporale, va a cercare il fiore e se ne fa catturare (forse morendo?), mentre la bionda Maria, pura e dallo sguardo semplice, se ne tiene distante. Tra le due, dunque, c'è una forte opposizione che si intuisce essere anche di sensualità: la reticenza di Rachele al v. 4 fa, ad es., intuire che il fiore rosso cui, come si saprà in seguito, ha ceduto è simbolo del peccato. Non a caso del fiore è sottolineato il profumo dolce, ma inebriante ed infatti le sensazioni olfattive sono da Pascoli spesso legate al sesso (vv. 19-21).

Nei primi versi della seconda sezione, l'atmosfera olfattiva del poemetto si arricchisce: il monastero dove le fanciulle vivono è pieno d'incenso, nel ricordo l'odore delle rose e delle violaciocche si confonde con un profumo di "innocenza e mistero" (due sostantivi in contrasto). Pascoli sregola il quadro: dopo il profumo sensuale della digitale, ecco un insieme di profumi sublimi, intonati allo sfondo.

Anche nel momento cruciale del racconto, quando Rachele si fa affascinare dal fiore, l'olfatto è centrale: il vento porta con sé ancora odore di rose e violaciocche (reminiscenza corretta del mazzolino di Leopardi nel Sabato del villaggio). E' la dolcezza del profumo che conduce Rachele alla perdizione, che coincide con un temporale (vv. 67-68): la fanciulla viola un tabù, cede al male e la natura sottolinea l'evento.

Metrica e sintassi sono in profonda distonia: il poeta spezza la frase poetica rispettando le naturali pause della sintassi; raramente l'interpunzione o l'enjambement interferiscono col naturale andamento ritmico dell'endecasillabo. Ritmo, sintassi e significato sono accostati in modo dissonante: periodi brevissimi contenuti in un solo verso (vv. 1, 11, 26, 44); rapide battute di dialogo (vv. 6, 7, 16, 51, 57); frequenti enjambement; punti fermi nell'endecasillabo; iperbati (vv. 26-8, 35-6, 50, 63-5, 73-4); parentetiche e interrogative; monosillabi o parole tronche che rendono martellante il ritmo. L'intreccio creato da Pascoli attraverso le iterazioni risulta evidente dai primi versi: "l'altra" e "altri" ricorrono quattro volte ai vv. 1-5; "esile" e "semplici" due volte. Alcune parole ritornano in versi contigui o vicini, magari con qualche piccola variazione e finiscono per trasformare le terzine dantesche in un metro cantilenante: per citarne solo alcune, "anni", "fiore", "oggi".

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GUIDO GOZZANO

L' amica di nonna Speranza. metro: cinque strofe, rispettivamente di 7, 12, 14, 10, 6 distici. Nella seconda strofa i vv. 33-40 sono la trascrizione di parte di una romanza del Giordanello, musicista e poeta napoletano del '700.Entrando in una stanza che ha mantenuto l'atmosfera pre-unitaria, borghese, ingenua, artefatta, il poeta si imbatte in un vecchio album fotografico: la foto di un'amica della nonna lo induce a rievocare il passato attraverso scene di vita quotidiana. La prima strofa è un elenco degli arredi del salotto della nonna: per 13 versi si snoda una frase solo nominale; nell'ultimo verso compare il poeta con un'esclamazione che prepara il terreno alla narrazione del racconto di secondo livello. Protagoniste sono, così, le "buone cose di pessimo gusto", in contrasto con le ambientazioni lussuose di tanti interni dannunziani: si tratta di emblemi della convenzionalità borghese, ma con una loro "bontà", per la loro ingenuità e per il mondo di ricordi che sono capaci di evocare.

La stanza si anima di personaggi: i fratellini irrompono con foga, disobbedendo ai genitori; le fanciulle sono fresche e belle nei loro scialli variopinti; gli zii, dabbene, sono ritratti in tutta la loro convenzionalità. Mentre le ragazze suonano al piano, la conversazione si anima: si discute con lo stesso tono leggero di moda, di lirica, dei fatti risorgimentali. Quando il discorso rischia di farsi scabroso, le ragazze s'allontanano in giardino, dove si scambiano le loro confessioni amorose. Il poema si chiude con un ritorno al presente: il poeta vagheggia un impossibile amore per la foto di Carlotta.

Il poeta evoca con pochi tratti e con precisi riferimenti culturali (le opere di Verdi, i versi di Prati, i libri di Goethe e di Foscolo, le musiche del '600) un piccolo mondo antico, cui guarda con distacco e con rimpianto per le gioie della vita mai vissute.

Il testo sembra semplice, ma sono accurati i riferimenti a situazioni dell'epoca. Si osservino le varianti nello schema metrico, come le rime imperfette (vv. 89-90) o nascoste dalla ipermetria (vv. 101-102); l'introduzione di modalità del parlato, con il ricorso alle sospensioni segnalate dai puntini e alle dichiarazioni; il tono volutamente basso dato dal lessico comune in cui spiccano i riferimenti colti e i preziosismi letterari (il verbo dantesco "immilla", v. 12); l'uso dell'asindeto (v. 32).

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GIUSEPPE UNGARETTI

In memoria . Questa poesia trae spunto dall'incontro con un giovane arabo, Moammed Sceab, ad Alessandria, dove frequentano la stessa scuola. I due si ritrovano a Parigi dove abitano nello stesso albergo; la loro amicizia si nutre degli stessi interessi: entrambi sono lettori appassionati, discutono di temi letterari e filosofici.

Moammed si suicida, perché non può trovare casa in un paese che non sente suo. La poesia a lui dedicata diventa il simbolo della crisi delle società, derivata dall'incontro tra civiltà diverse e dall'urto tra le tradizioni e il fatale progresso dell'umanità.

Anche questa lirica diviene quindi spunto per una dichiarazione di fiducia nel potere consolatorio della poesia. Anche Ungaretti è un uomo sradicato, dovunque vada sempre straniero: a questa mancanza di punti di riferimento fissi, il poeta vorrebbe ritornare nell'innocenza di un paese nuovo.

Il porto sepolto . La lirica, che ha dato il titolo alla prima raccolta di Ungaretti, prende spunto da un dato biografico: al poeta che abita fuori Alessandria, due giovani ingegneri francesi, i fratelli Jean e Hanri Thuile, parlano di un porto sommerso d'età tolemaica. Esso diventa per lui l'allegoria dell'inconscio umano.

La prima strofa descrive la genesi dell'atto poetico: il poeta scende nel porto sepolto (discesa che ha implicita una connotazione mitica e dantesca) e ne emerge vivificato. La poesia è un atto iniziatico, mistico, rituale: è una discesa verso i segreti dell'uomo; ciò che il poeta fa tornare alla luce si traduce in canto, ma subito egli lo disperde: dopo la creazione a lui resta solo quel nulla, che è rivelazione inesauribile. In questo atto ricorda la Sibilla dell'Eneide di Virgilio, la quale affida il suo oracolo alle foglie disperse dal vento.

Tipico di Ungaretti è il gioco dei contrasti tra buio e luce, gioia e dolore, espresso nell'immagine del porto cui si oppone la luce. La lirica colpisce anche per le novità formali: l'annotazione diaristica che precede la poesia si oppone alla parola ridotta al minimo, creando un effetto di straniamento.

San Martino del Carso.La guerra pone il poeta anche in presenza della natura, che egli impara a conoscere in modo nuovo. Come in altre liriche di guerra, si sovrappongono due piani: il paesaggio interiore e esteriore, sconvolti dal conflitto.

L'analogia tra la distruzione di un paese di montagna e la perdita di molti compagni (rafforzata dallo spostamento semantico di "brandello", che è in genere riferito alla carne) occupa le prime due strofe: nella prima la distruzione appare nel suo senso letterale, nella seconda in senso figurato. La terza e la quarta sviluppano in modo simmetrico l'analogia tra il cuore del poeta (associato a un cimitero) e il paese. La simmetria è enfatizzata anche dalla struttura circolare della poesia, che si apre sul motivo del paese distrutto e si chiude sulla ripresa in chiave analogica di tale motivo.

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Le prime due strofe sono giocate sulle opposizioni presenza/ assenza (le case, un tempo in piedi, ora in rovina; gli amici, un tempo vivi, ora morti) e spazialità/ quantità (lo spazio vuoto evocato dai brandelli di muro; il gran numero dei legami affettivi). Le ultime due strofe ricompongono le antitesi presenti nelle prime due, identificando muro-paese-croce-cuore in un archisema.

Questo effetto semantico è enfatizzato da procedimenti sintattici e fonici. Le prime due strofe mostrano un parallelismo costruito sull'inversione: si aprono con un complemento e si chiudono col soggetto. Nelle ultime due è presente la parola "cuore" con funzione differente (complemento e soggetto); inoltre, la disposizione delle parole è caratterizzata da un'altra inversione fra soggetto e predicato, la quale crea un chiasmo fra "cuore"-"paese" e "croce"-"cuore".

Mattina . Anche questa lirica è stata scritta al fronte, quando il poeta è di stanza vicino a Trieste. La guerra è presente sullo sfondo, come lo scenario di distruzione nel quale si verifica il miracolo del mattino, simbolo del ritorno della speranza dopo la paura.

Il titolo specifica una frazione del tempo rispetto all'eternità espressa da "immenso". Il poeta è investito da una luce assoluta: di fronte all'eterno, è solo una creatura dal tempo limitato, ma ora partecipe della vita universale. I due versi, ridotti in sostanza a due parole, hanno così il sapore di un'illuminazione su una dimensione inesprimibile a parole, quella dell'infinito che si manifesta a chi cerca, oltre il dolore, il senso della vita.

Soldati . metro: versi liberi. Unendo i due distici in un verso, la lirica risulta formata da un doppio settenario (= alessandrino).Riprendendo un antico topos, quello del paragone tra la caducità delle foglie e della vita umana (già in Iliade: "Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini; le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva fiorente le nutre al tempo di primavera; così le stirpi degli uomini: nasce una, l’altra dilegua"; e nel poeta greco Mimnermo: " Al modo delle foglie che nel tempo fiorito della primavera nascono e ai raggi del sole rapide crescono, noi simili a quelle per un attimo abbiamo diletto del fiore dell’età, ignorando il bene e il male per dono dei Celesti. Ma le nere dèe ci stanno a fianco, l’una con il segno della grave vecchiaia e l’altra della morte. Fulmineo precipita il frutto di giovinezza, come la luce d’un giorno sulla terra. E quando il suo tempo è dileguato è meglio la morte che la vita"), il poeta esprime il motivo della precarietà umana, reso urgente dalla sua partecipazione alla guerra. Spostato col reggimento in Francia, Ungaretti deve sopportare in un bosco un prolungato cannoneggiamento tedesco, durante il quale osserva cadere insieme alberi e vite umane.

La lirica usa i procedimenti tipici dell'ermetismo: la mancanza di punteggiatura, l'uso dei versicoli, il gioco delle analogie. Il titolo è parte integrante del corpus dei versi, costituendo il primo termine del paragone: ad esso si ricollega il "si sta" iniziale, dove l'uso dell'impersonale indica la spersonalizzazione degli uomini come soldati e la loro condivisione della stessa condizione. I versi sono frammentati, come se in questo modo confermassero la discontinuità della vita.

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EUGENIO MONTALE

I limoni (Ossi di seppia)metro: quattro strofe di 10, 11, 13, 15 versi di lunghezza variabile, soprattutto endecasillabi e settenari. I versi lunghi sono quasi sempre doppi settenari. 20 su 49 versi sono implicati in una rima perfetta, sono presenti poi altre rime imperfette o interne.Il limone diviene simbolo della poetica di Montale che, ripudiando le avanguardie e D'Annunzio, si rifà a Pascoli e sul filo di Gozzano instaura un rapporto diretto con gli oggetti, che sono la realtà nei suoi aspetti umili. L'attacco è polemico: rifiuta i poeti laureati che hanno falsato la realtà, rappresentandola con uno stile aulico per avere onori e gloria: egli ama uno stile semplice che gli permette di ritrarre la vita, come appare ogni giorno. Le forme semplici e discorsive, che predilige, s'accordano, infatti, col paesaggio aspro della Liguria.

Montale vorrebbe penetrare nel mistero della natura, non per cercare, però, la verità assoluta, ma quella intonata alla nostra intelligenza, una "favilla" di Dio. Il profumo dei limoni sembra aprirgli uno spiraglio su questo segreto, ma la conoscenza umana ha un limite e l'illusione si spegne. All'assolata Liguria, al silenzio della natura, subentrano il rumore assordante della città, la pioggia, la noia dell'inverno, le giornate corte che gravano l'anima di tristezza. Ma anche in questa nuova condizione può succedere che da un portone semiaperto appaia il giallo dei limoni e che il cuore ritrovi così un filo di speranza.

Forse un mattino andando (Ossi di seppia)metro: quartine di versi liberi a rima alternata (con la variante ipermetra: "miracolo" : "ubriaco").Il tema della lirica è la rivelazione della verità che il poeta attende e insegue, il "miracolo" che illumina il mondo scoprendone il senso. In questo caso, esso è la rivelazione del nulla, cioé dell'inconsistenza del mondo, ridotto a proiezione cinematografica, illusione spettacolare che cela il vuoto assoluto del non-essere. in linea con un nichilismo, vagamente leopardiano, Montale vive un'esperienza che lo conduce a negare tutto: gli basta voltarsi, ad un tratto, nell'aria tersa di un mattino qualunque per rendersi conto d'essere solo nel deserto: gli altri uomini, che "non si voltano", non rischiano di scoprire il nulla guardando dietro all'apparenza delle cose, ma aderiscono passivamente all'inganno.

All'efficacia della rappresentazione collabora il tessuto fonico: un gioco di assonanze e allitterazioni crea effetti di eco i quali ripetono la vertigine dell'esperienza: l'identità quasi assoluta fa di "arida" l'eco di "aria" e di "vedrò" l'eco di "vetro"; la serie di /l/ al v. 3 rende sonora la rivelazione del nulla. Efficace il forte enjambement tra i vv. 3 e 4 che sembra rappresentare graficamente la solitudine dell'io.

A Liuba che parte (Occasioni)Nel 1939 l'ebrea Liuba Blumenthal lascia l'Italia fascista per tornare in Inghilterra, prendendo il treno alla stazione di Firenze. Il poeta, che non l'ha mai vista prima, assiste ad una tragedia che è insieme individuale e collettiva. La partenza della donna è rievocata con leggerezza grazie al gatto che Liuba salva, portando via con sé: esso diviene il simbolo della sacralità dei legami familiari, della civiltà di chi compie il suo

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dovere verso chi è più debole. Liuba salva, coll'animaletto, anche la sua anima dalla barbarie che devasterà l'Europa. La gabbia o cappelliera con cui porta via i suoi effetti personali è come l'arca di Noè: la garanzia di una continuità che salvi la possibilità della rinascita. Anche la poesia può salvare la propria profondità dalla pesantezza di una realtà insostenibile.

L'apparente leggerezza del testo trova la propria forma metrica nello schema dell'antica ballata, uno schema nascosto grazie all'uso di rime interne e consonanze che sembrano sostituire le rime perfette in modo assolutamente casuale. La ballata risulta così composta da un ritornello di un solo verso ("Non il grillo ma il gatto") e da due piedi di quattro versi a rima alternata ("focolare" : "consiglia" : "lare" : "famiglia"; "rechi" : "cappelliera" : "ciechi" : "flutto" : "leggera" : "riscatto"; fuori dallo schema ABAB CDCD "basta" : "sovrasta").

La casa dei doganieri (Occasioni). metro: due strofe di cinque versi, si alternano a due di sei, con prevalenza di endecasillabi; lo schema di rime riproduce nelle prime tre strofe quello del sonetto. Libera è la disposizione delle rime nell'ultima strofa. Una casa su una scogliera a picco sul mare evoca nel poeta il ricordo nostalgico di una donna ora assente, il cui amore poteva realizzarlo totalmente. L'edificio diviene il simbolo della frontiera tra la realtà quotidiana e un oltre solo vagheggiato.

La prima strofa propone il ricordo di un paesaggio marino aspro, vivificato dalla donna, presentata solo attraverso la notazione psicologica di irrequietezza intellettuale (la metafora "sciame dei tuoi pensieri", vv. 4-5). L'immagine non coincide con quella che il tempo ha plasmato: la casa ora è "vecchie mura" (v. 6), sferzate dal vento. Lo smarrimento è trasmesso attraverso immagini: la bussola è impazzita, i dadi mostrano numeri di cui non si capisce il valore. Preme al poeta rilevare la rottura del contatto tra la sua memoria e quella della donna, insuccesso sottolineato dalla ripetizione della negazione "Tu non ricordi" (vv. 1 e 10, come negative sono altre espressioni verbali: "non è più lieto", "più non torna", "né qui respiri", "io non so"). Ciò che il ricordo ha reso si allontana in un attimo: gli elementi del paesaggio testimoniano l'imperturbabile ciclicità della natura e la forza distruttrice del tempo, che condanna gli uomini alla morte e ne dilegua i ricordi.

Lo svanire di questa possibilità è raffigurato dall'orizzonte in fuga (v. 17). Lontano è intravista una speranza, ma l'anelito (la domanda del poeta) è inappagato: il mare ricorda che, se le onde sembrano le stesse, il tempo è trascorso e con esso ogni possibilità di far risorgere il passato. Il poeta, prigioniero della sua perplessità, non sa distinguere passato e presente: chi va, travolto da un'altra dimensione del tempo o della vita, e chi resta.

La prevalenza di versi lunghi e gli enjambement conferiscono alla poesia un andamento prosastico. La struttura sintattica enfatizza tale andamento, col prevalere delle principali, accostate per paratassi. L'effetto che ne deriva è di una pensosa elencazione mentale, più che di un discorso articolato. La struttura è scandita dalla triplice anafora di "Tu non ricordi" (vv. 1, 10, 21), che crea un'opposizione tra un tu lontano e l'io poetico che conserva il ricordo.

La bufera (La bufera e altro, 1). metro: endecasillabi, eccetto due settenari (vv. 3, 10) e un quinario sdrucciolo (v. 9); il v. 19 è un endecasillabo spezzato su due linee. L'andamento strofico vede un terzetto

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iniziale, tre strofe di sei versi (sette nell'ultima, per la spezzatura), un verso conclusivo. Rare le rime.La poesia, pubblicata sul periodico "Tempo" nel 1941, esce nel 1943 in un volumetto di 15 poesie stampato a Lugano e divenuto la prima sezione de La bufera e altro, Finisterre. Il titolo indica una località spagnola, capo estremo proteso sull'Atlantico, nella quale un tempo si credeva che le terre emerse finissero, e allude alla seconda guerra mondiale. Stessa valenza caratterizza la lirica La bufera.

Il componimento si sviluppa secondo una fitta sequenza di immagini: i primi tre versi introducono lo sconvolgimento meteorologico. La poesia è costruita senza verbo reggente. Questa assenza è forse dettata dalla rinuncia a descrivere la bufera in termini razionali. L'atmosfera della guerra è anticipata dalle omofonie "sgronda", "grandine", "foglie", "magnolia", dall'allitterazione ("magnolia", "marzolini") e dall'insistenza del suono /u/ ("bufera", "dure", "lunghi tuoni"), espedienti fonici che evocano un cupo presentimento.

Nella seconda strofa, chiusa tra parentesi, ci si sposta in un interno, il nido notturno di Clizia (vv. 4-5, l'ebrea Irma Brandeis, tornata da tempo in America) sorpreso dalla bufera. Anche Clizia, partecipe della dimensione tragica (si veda l'eco macabra del suono /u/), vede intaccate le sue capacità salvifiche, ridotte a una resistenza minima (vv. 7-8).

La terza strofa torna agli esterni, introducendo il motivo del lampo (v. 10), che rivela la natura delle cose; stessa capacità rivelatrice caratterizza Clizia (vv. 12-14). Il fulmine, tuttavia, assume anche una valenza negativa, in quanto designa l'irrompere della guerra (v. 13). L'ambivalenza del termine è potenziata nel prosieguo della strofa con una serie di tre sostantivi (i primi due enfatizzati dall'allitterazione: "marmo manna" e "distruzione", vv. 12-13) e l'enjambement fra i vv. 11-12, quasi a esprimere lo stupore del poeta. La rima interna imperfetta "condanna-strana" (vv. 14-15), concomitante all'alliterazione "strana sorella" (v. 15), istituisce fra i termini una relazione fonica, tesa a sottolineare il carattere di rivelazione religiosa di Clizia.

La quarta strofa si riferisce ancora alla guerra: in tanta atrocità la realtà annaspa (v. 19), come in una danza macabra (v. 18). Questa scena funebre coincide (v. 19) con la partenza di Clizia: la donna fugge in America e, con un gesto di saluto, entra nel buio (v. 22). Il suo congedo, isolato nel verso di chiusura, è accentuato nella sua irrevocabilitò dalla netta scansione dei due emistichi. La potenza del finale è acuita dalle rime imperfette interne o a fine di verso ("schianto" : "fandango" : "quando"; "rude": "nuve"; "fuia" : "buio", "sopra" : "sgombra"; "gesto" : "rivolgesti").

La primavera hitleriana (La bufera e altro, Silvae). metro: versi liberi, con frequenti doppi ottonari e endecasillabi.Qui viene usato per la prima volta lo pseudonimo Clizia (Irma Brandeis), che Montale deriva da un sonetto forse dantesco indirizzato al poeta Giovanni Quirini ("Nulla mi parve mai più crudel cosa"). Nel componimento, Dante dichiara il suo amore per una donna altera e si paragona alla ninfa Clizia, figlia di Oceano e innamorata ripudiata dal Sole: si trasforma in girasole per volgersi verso l'amato. Il girasole è, in Montale, simbolo di una tenace dedizione d'amore.

La lirica descrive la visita nel 1938 di Hitler a Firenze, momento decisivo per l'entrata in guerra dell'Italia e per le sanzioni antisemitiche. Hilter, il "messo infernale" (v. 8), stravolge la natura primaverile: una invasione di "falene impazzite" (v. 1), simbolo del sopravanzare del terrore bellico, fa regredire l'estate in un gelo notturno. Il passaggio

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di Hitler è accompagnato dall'acclamazione degli "scherani" (v. 9), cioé i fascisti, e i bottegai (definiti con ossimoro "miti carnefici", v. 16). Nella turpe danza collettiva, l'acqua che scorre implacabile diventa segno della complice indifferenza di tutti; il giudizio morale del poeta è perentorio: "più nessuno è incolpevole" (v. 19).

Solo, il poeta rievoca i segni della salvezza promessa da Clizia. Ripercorre le tappe finali del rapporto con la donna, elencando (vv. 20-8) i fatti che hanno preceduto la sua partenza. Tutto sembra essersi ridotto a un passaggio di distruzione, ma in una parentesi (vv. 24-7) Montale ricorda una stella cadente, che, osservata con la donna, permetterà un contatto tra lei e il poeta e gli altri esseri sopraffatti.

Nell'ultima strofa (vv. 30-43) Montale dichiara la sua fede nella funzione salvifica della donna, equiparata all'Amor divino nel suo sacrificio per l'uomo: una specie di visiting angel, simile alla Beatrice dantesca. Clizia, nel suo senhal solare, è chiamata a guardar in alto (vv. 32-34), nel nome di un Amore da cui forse nascerà una nuova salvezza per i "greti arsi del sud" (v. 43), cioé per l'Europa devastata dalla guerra.

Il cristianesimo è assunto da M. come insieme di valori "laici", come la fiducia nell'uomo, la speranza in un cambiamento, la valorizzazione della dignità umana, della "decenza quotidiana".

Il testo è fortemente allegorico: le farfalle sono segnali della donna (vv. 20-32), la terza strofa allude enigmaticamente a momenti privati. Il linguaggio e lo stile risentono di tali densità concettuali e tensioni metafisiche: numerosi sono i riferimenti biblici e cristiani (la stella, il battesimo, gli angeli di Tobia, i sette), i termini alti e non comuni ("sinibbio", "abbacini", "tregenda") mescolati a parole della cronaca politica ("alalà", "croci a uncino") e termini tecnici ("golfo mistico"). Anche la sintassi vede alternarsi periodi complessi e passi semplici.

L'anguilla (1948, La bufera e altro, Silvae)metro: strofa di 30 versi, con prevalenza di endecasillabi e settenari, qualche ottonario (v. 3, 20, 26), un doppio quinario sdrucciolo (v.2), un martelliano1 (v. 5) e un doppio settenario (v. 7). La lirica, che chiude Silvae, riprende un tema di Ossi di seppia, dove l'anguilla è simbolo della resistenza della vita, unico valore che consenta di reagire con speranza alla morte della civiltà massificata e industrializzata: la poesia sopravvive, se riesce a vivere nel fango.

Il testo si divide in due parti: nella prima (vv. 1-14) Montale descrive il viaggio che l'anguilla compie dall'oceano agli Appennini, risalendo i fiumi; nella seconda (vv. 15-30), la vitalità indomita del pesce è assimilata all'energia di Clizia. Il testo presenta una struttura paratattica, che, in un unico periodo (con prolessi al v. 1 del complemento oggetto e conclusione con il predicativo dell'oggetto "sorella"), grazie a molte apposizioni ("sirena", "torcia", "frusta", "freccia d'Amore", "anima verde", "scintilla", "iride breve", "gemella"), suggerisce una connessione tra l'anguilla e Clizia-Iride (Iride è la messaggera tra gli dei e gli uomini). L'anguilla, messa in rilievo nel primo verso, funziona come oggetto di un verbo presente solo nell'ultimo verso ("puoi crederla"), in conclusione della domanda retorica rivolta a Clizia, perché riconosca la sua somiglianza con l'animale.

1 La differenza tra martelliano e doppio settenario è che il primo è composto da due settenari piani disposti in distici a rima baciata.

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L'ultima parola della poesia, "sorella", è una quasi rima con la prima, in un collegamento tra due realtà ribadito dai vari trisillabi caratterizzati dalla doppia /l/: "anguilla", "capello", "capello", "gorielli", "anguilla", "ruscelli", "scintilla", "gemella", "sorella", "seppellito", "quelle", "brillare". La lingua, che mette insieme lingua aulica ("incarbonirsi", "bronco", "iride", "incastonano") e comune ("piena", "pozze d'acquamorta"), oltre che idiotismi toscani ("gorielli", "botri"), serve a connettere realtà plebee e alte, profane e sacre, attribuendo un valore quasi sacrale ad un umile animale.

Caro piccolo insetto/ Ho sceso, dandoti il braccio... (Satura, Xenion I, 1; II, 5). metri: versi di varia lunghezza, fra le sette e le dodici sillabe, raramente rimati. Della sublimità di Clizia, nell'affettuosa immagine del piccolo insetto, con cui Montale indica Mosca, la moglie morta nel 1963, resta poco. La donna non è più luminoso angelo, ma una mosca con gli occhiali, che luccicano tenuemente. Mosca non è messaggero dell'oltremondo, ma è la guida, appena scintillante, che gli ha permesso di affrontare la vita. Gli oggetti (qui gli occhiali) acquistano senso solo in quanto capaci di materializzare il fantasma di Mosca.

Il motivo della sua forte miopia è riproposto anche in Ho sceso, dandoti il braccio... e offre lo spunto per riaffermare l'inganno delle apparenze. Montale sembra tornare alla crisi gnoseologica degli Ossi di seppia, ma le perplessità di un tempo sono ora certezza: "il vuoto di ogni gradino, gli scorni di chi crede/ che la realtà sia quella che si vede" diventano convincimento di inesistenza: "non sono mai stato certo di essere al mondo" (II 7). Infatti, da quando la donna, con cui tanto ha condiviso, non è più al suo fianco, il poeta confessa il suo sgomento, il vuoto, che la lirica, intesa come un dialogo con lei, vorrebbe colmare. Ma il viaggio (metafora antica per indicare la vita), cui si allude al v. 1 con l'immagine iperbolica delle "scale", deve continuare in questa nuova condizione, anche se gli occhi della donna (indicati come "pupille" per sineddoche), simbolo della capacità di penetrare il vero senso delle cose al di là delle apparenze, non sono più là a fare da guida.

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UMBERTO SABA

A mia moglie (prima in Poesie del 1911, poi in Canzoniere, Casa e campagna)metro: sei strofe di endecasillabi, quinari, settenari, due versi liberi (vv. 26 e 56) per 87 versi, di cui 75 settenari. Frequenti le rime, disposte senza regolarità. Si trova nella stessa sezione de La capra, assieme ad altre tre liriche, composte tra 1909 e 1910, nelle quali domina il tema della famiglia, accostato al motivo universale della sofferenza. In questa poesia Lina, moglie del poeta, è paragonata alle femmine di alcuni animali: essa è superba come una pollastra, triste e pensosa come una giovenca, prova lo stesso esclusivo amore della cagna, è timida e sa donarsi come una coniglia, evoca il ritorno della primavera come una rondine, è operosa come una formica e un'ape.

Il poeta finge d'essere un fanciullo (pascoliano?) che col suo candore guarda per la prima volta alle cose del reale (Saba, in Storia e cronistoria del Canzoniere, sostiene che sia "una poesia infantile"), ma in realtà il suo sguardo è quello conscio e sensuale di un adulto. Lina è incinta e ciò la avvicina alla terra e alla natura, conferendole misteriosamente il potere di elevare al cielo. Il tema della donna-angelo è, tuttavia, colto con una sensualità delicata, anche se esplicita.

Il poeta stesso indica un'altra linea interpretativa, affermando che si tratti di una poesia religiosa, "scritta come una preghiera". In effetti, come il Cantico delle creature di San Francesco, anche questa poesia pone l'accento sulla religiosità immanente al mondo della natura. Ma le analogie più profonde riguardano il livello strutturale: in entrambi i testi domina il parallelismo. La lirica sabiana ripete lo stesso schema: la similitudine è introdotta dall'espressione in anafora "Tu sei come", seguita da un aggettivo messo spesso in rilievo dall'enjambement (strofe 2, 3, 4, 6). Ogni strofa amplifica il tema proposto in sezioni libere, in cui spesso si presentano situazioni interpersonali col poeta che parla e dice "tu" alla moglie, "lei" dell'animale, "io" e "tu" di se stesso (cfr. vv. 45 e 36-37). Fin dalla prima strofe, si annuncia il ritmo binario della composizione, realizzato per analogie semantiche (vv. 1-2, 9, 46) o per opposizioni (vv. 23, 41, 47).

L'attenzione al mondo animale è tipica del mondo sabiano: nel Canzoniere sono citati 203 nomi di animali: 104 uccelli, 83 mammniferi, 16 tra insetti e rettili. Qui si crea un piccolo sistema al centro del quale Lina acquista spessore: diviene lentamente se stessa attraverso successive metamorfosi. La gallina è l'animale sacro del poeta, nel suo essere ambiguamente pura e impura.

All'atmosfera casalinga della lirica corrisponde un registro linguistico dimesso, ricco di termini domestici e rurali ("pollai", "muggire", "in casa o per via", "gabbia", "crusca", "radicchi"), illuminati talora da epiteti eleganti ("angusta gabbia") o inversioni ("se l'incontri e muggire/ l'odi"). Le figure umane che appaiono nel testo, il bimbo e la nonna che lo accompagna, rimandano agli affetti familiari. La sintassi è però articolata e presenta una tendenza alle inversioni: ad es. ai vv. 42-50 l'amore geloso della cagna è rappresentato mediante immagini in cui l'ordine sintattico è inusuale.

Colpisce la ricchezza di reminescenze letterarie: le similitudini animalesche rimandano al biblico Cantico dei Cantici ("Amica, io t'assomiglio alla mia cavalla..."). Sorprendono i riferimenti dannunziani dalla struttura metrica che ricalca quella delle Laudi, fino alla

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citazioni. Non sorprende la presenza di topoi leopardiani: "gallinelle" (v. 19), come nella Vita solitaria.

Trieste (Trieste e una donna)metro: strofe irregolari di endecasillabi, settenari e quinari (tranne il v. 19). Non mancano riprese di rime anche a distanza; una forte assonanza collega gli ultimi tre versi; una quasi omofonia lega i vv. 6-7.La raccolta, per usare le parole di Saba, è un "romanzetto a tre personaggi": la città, la donna e il poeta. Egli in questa lirica trasforma Trieste in un personaggio contraddittorio e ambivalente come se stesso. Del resto, la città, al confine tra due stati e tra terra e mare, è vista dall'alto, in modo da trasformarla nel rifugio che accoglie la vita pensosa del poeta, quasi come una madre. Non a caso la parola "città", tornando per tre volte, acquista progressivamente una determinazione affettiva più marcata: da "la città" dei vv. 1 e 7 si passa alla "mia città" del v. 23, sintagma che fa da pendant con "mia vita" (v. 24); analoga climax per "aria" (vv. 21-22), che da "strana" si fa "tormentosa", quindi "natia": l'immedesimazione sentimetnale passa attraverso una iniziazione al dolore.

La precisione quasi topografica con cui Saba descrive salite e discese, è stemperata dalle scelte lessicali che calcano sugli aspetti connotativi: l'"erta popolosa... deserta" chiusa da un "muricciolo", il "cantuccio", la "scontrosa grazia", un "ragazzaccio aspro e vorace"; alcune espressioni sono anche esempi di come gli aggettivi contribuiscano al costante tradursi delle parole in immagini, come ai vv. 17-18, dominati da un senso di precarietà: "cui sulla sassosa/ cima, una casa, l'ultima s'aggrappa".

L'accuratezza formale è testimoniata anche dalla circolarità delle strofe, che mostrano la ripresa della rima del v. 1 con l'ultimo o il penultimo della stessa strofa (cfr. vv. 1-7, 8-17, 23-25), circolarità sottolineata anche dagli enjambement che ricorrono alla fine di ogni strofa (cfr. vv. 5-6).

Città vecchia (Trieste e una donna)metro: la prima strofa è una quartina di endecasillabi, con rime ABBA, ma in prima e quarta posizione c'è assonanza; nella seconda strofa ci sono endecasillabi, quinari, un settenario e un trisillabo (i versi brevi sottolineano parole chiave come "amore" e "dolore", in rima con "Signore"); la terza strofa è formata da un endecasillabo, un settenario e un endecasillabo.Protagonista è un quartiere triestino: la città vecchia, con il suo intrico di viuzze che celano la miseria, il degrado fisico e morale. La folla ispira al poeta pensieri di religiosa adesione al dolore che lo accomuna agli altri. Dopo che in Trieste ha guardato dall'alto la città, Saba avverte il bisogno di immergervisi, per assaporarne il calore interiore e sentirsi parte di questa brulicante umanità. La rappresentazione della città, dell'osteria, del lupanare, dei marinai e delle prostitute, richiama la metropoli descritta senza reticenza da Baudelaire; anche nel finale si avverte l'eco della tensione di Baudelaire tra Spleen e Idéal.

Nella prima breve strofa si introduce, col contrasto tra l'oscurità delle viuzze e il giallo dei fanali, il motivo dominante della lirica: il contrasto fra miseria morale e afflato religioso; nella seconda, il poeta incontra vari personaggi; la terza strofa contiene la riflessione conclusiva. Tutta la lirica si configura come la narrazione del rientro a casa del poeta attraverso le vie, alternando sequenze descrittive e riflessive.

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Mentre in Quello che resta da fare ai poeti Saba prende le distanze da D'Annunzio, in questa lirica, come nella raccolta, non cede nemmeno per un attimo al gusto della parola elegante, dell'immagine ardita, della sovrabbondanza di effetti retorici e fonici: colpiscono l'assenza di linguaggio figurato (se si esclude l'immagine che accomuna "merci ed uomini" nel loro essere "detrito/ di un gran porto di mare") e la predilezione per un lessico semplice, ora brutale ("lupanare", "prostituta", "il vecchio che bestemmia, la femmina che bega"), ora quotidiano ("mia casa", "giallo... fanale", "osteria", "bottega del friggitore"). In questo contesto non mancano espressioni leopardiane ("l'infinito") che producono un effetto di straniamento.

Parole (Parole, 1934)metro: una strofa, con un trisillabo e sette endecasillabi. Il poeta, dopo aver affrontato la psicoanalisi, si apre ad una lirica meno narrativa e ad un linguaggio più rarefatto. In questa lirica, il dato biografico è ridotto (v. 5). All'eliminazione dell'impianto narrativo corrisponde l'amplificazione della dimensione temporale, ottenuta enfatizzando un motivo ungarettiano, quello della parola primigenia; a Ungaretti si richiamano anche alcune immagini, come "un angolo/ cerco nel mondo" (che ricorda gli ultimi due versi di Girovago: "Cerco un paese/ innocente").

Resta centrale il tema dell'avversione risentita verso la mezogna, un tema su cui il poeta ha imperniato tutta la poetica della poesia onesta e a cui resta fedele; resta il motivo della persistenza del dolore nella memoria ("memorie spaventose").

Sul piano stilistico colpisce una certa tendenza alla lingua analogica, che senza concretarsi in figure precise (nell'ultimo verso preferisce la similitudine "come neve" alla metafora) dà l'impressione che Saba si avvicini a una poetica dell'allusione. Altra novità è la quasi totale assenza di rime: eccezione è quella tra "parole" e "sole", la quale collega il primo verso all'ultimo, esprimendo l'urgenza di parole-sole, chiare, radiose, in grado di asciugare il pianto. Anche gli aspetti fonici assumono rilievo: nel dolente v. 7 prevalgono i suoni /o/ e /u/. Testimoniano la continuità con la produzione precedente la predilezione per le figure sintattiche, in particolare l'inversione, e il ricorso all'enjambement (cfr. "un angolo/ cerco").

Amai (Mediterranee). metro: due quartine e un distico di endecasillabi, ma il v. 3 è un trisillabo.Nel troppo usato verbo "amare", coniugato sempre alla prima persona, due volte al passato, l'ultima al presente, enfatizzato dalla ripetizione anaforica in apertura di strofe (vv. 1, 5, 9), risiede la forza del programma di Saba dettato da un'adesione viscerale a una parola poetica che, usando espressioni logorate, rime banali e antiche, può accedere alla verità dolorosa che giace al fondo dell'animo. E' la teoria della poesia-scandaglio, che va al cuore delle cose.

Le trite parole sono autentiche, come la rima banale, la cui difficoltà siede nella necessità di rinnovarla per renderla strumento di verità. Il passaggio dal passato al presente sottolinea la continuità della poetica di S., mai rinnegata: l' incipit ribadisce l'originalità della sua poetica e la coscienza della temerarietà di una scelta di una poetica classica, in un'epoca di sperimentalismi.

La dimensione esistenziale della lirica è esaltata nella seconda strofa dalla ricostruzione del procedimento psicoanalitico, cui si è sottoposto: la verità giace al fondo, come un sogno dimenticato; solo il dolore la riscopre amica. Nonostante

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l'iniziale paura con cui il cuore si accosta alla verità, essa non lo lascia più. Saba affida qui alla parola il compito terapeutico di far emergere dal fondo la verità.

La lirica ripropone l'antica formula della sua poesia: nel lessico semplice di parole imposte direttamente dalle cose, spiccano rari preziosismi (come "non uno", v. 1, o "obliato", v. 6), mentre la raffinatezza è giocata sulla sintassi. La simmetria delle stofe è enfatizzata dall'anafora del verbo e dal paralleilismo sintattico per cui le tre strofe sono giocate sull'iterazione dello schema principale-relativa, interrotto dall'enjambement. Una simmetria analoga regola il componimento anche sul piano metrico: il primo e l'ultimo verso sono irrelati: i versi centrali delle quartine rimano tra loro (vv. 2-3, 6-7, quest'ultima rima è elegante variazione della precedente); inoltre, le due quartine sono legate dalla rima "mondo" : "fondo" (vv. 4-5), mentre analogamente la rima "abbandona" : "buona" collega la coppia di distici con l'ultima quartina.

Ulisse (Mediterranee)metro: strofa di endecasillabi sciolti. Saba, poeta del quotidiano e delle piccole cose, è, naturalmente, opposto a Ulisse, l'impavido eroe, ma a lui accomunato dalla coscienza del dolore universale, dal quale non esiste rifugio: a renderne conscio il poeta è l'attaccamento disperato alla vita. Non c'è soluzione al dilemma umano sulla compresenza di amore e dolore, purezza e corruzione, speranza e disperazione. Il viaggio del poeta, che da giovane è stato mozzo su una nave mercantile lungo le coste della Dalmazia, si rivela così inconcludente né fornisce spiegazioni che lo aiutino a condurre una vita serena. Il viaggio diventa così metafora di un cammino di conoscenza e di un desiderio sempre inappagato.

Il poeta ricorda come gli isolotti che attraversava rendessero difficile la navigazione e costringessero a tenersi lontani dal porto. Anche lo spirito del poeta e il doloroso amore della vita lo costringono a restare lontano da un'esistenza comune. I lumi del porto, cioé la verità e la certezza della fede, che sa onestamente di non poter condividere, si accendono ad illuminare il ritorno di altri, non il suo. La vita, in questo modo, diviene solitudine e pericolo, per affrontare i quali occorrono coraggio e cautela (il veleggiare sottovento della nave). Saba è costretto a non tornare, ma la sua decisione è dolorosa (come sottolinea la ripetizione in rima di "al largo", vv. 8, 11) e comporta una diversità fisica e mentale.

La poesia presenta una costruzione compatta, con frequenti enjambement ("raro/ uccello", vv. 3-4; "al sole/ belli", vv. 5-6; "l'alta/ marea", vv. 6-7; "il porto/ accende", vv. 10-11; "al largo/ sospinge", vv. 11-12). Anche le note di colore sono diffuse: nella prima parte prevalgono tinte chiare e solari, implicite nel riferimento alla gioventù ("sole", v. 5; "smeraldi", v. 6) e nella seconda le tinte cupe della notte (v. 7) in relazione con la maturità del poeta. L'effetto luminoso torna, nella seconda parte, nelle luci del porto (vv. 10-11), ma solo per essere negato, per sottolineare la separazione del poeta-viaggiatore dalla terra ferma; i lumi si accendono per indicare la direzione, ma non al poeta, che resta avvolto dall'oscurità. E' significativa la mancanza di articolo davanti a "isolotti" e "vele", la quale suggeriscre che si allude a contenuti universali: gli isolotti simboleggiano le difficoltà della vita-viaggio, le vele gli strumenti che il poeta ha per affrontarli. Anche il porto indica "il porto" per eccellenza, la fine della ricerca, la raggiunta pace interiore.

Saba fa uso di un registro alto: l'arcaico "giovanezza" (v. 1), "raro/ un uccello" (vv. 3-4, dove l'aggettivo al posto dell'avverbio assume rilievo grazie alla spezzatura del verso

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e all'inversione). Le inversioni rendono la lingua elegante: importanti quelle finali che sigillano l'accettazione coraggiosa della dignità umana e la necessaria prosecuzione della ricerca.

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SALVATORE QUASIMODO

Ed è subito sera (Ed è subito sera)In questi tre versi, di cui l'ultimo è una ripresa del titolo, la libera versificazione del primo (12 sillabe) si oppone alle misure tradizionali del secondo e del terzo (un novenario e un settenario) per dare voce a una complessa tematica filosofica: la solitudine come condizione universale dell'uomo, la sua partecipazione alla natura viva, la ambiguità delle esperienze umane e la coscienza della loro finitezza.

Centrale è il raggio di sole, un'immagine di felicità mediterraneoa, sulla quale influisce il motivo della celebrazione della Sicilia, mentre l'espressione "trafitto" contiene l'identificazione del raggio col dardo e la carica di violenza ad esso connessa. L'esperienza della felicità è, così, anticipazione del dolore. La punteggiatura è indispensabile: i due punti, che precedono l'ultimo verso, ne sono forse esempio evidente.

Vento a Tindari (Acque e terre)metro: versi liberi. Quasimodo, che vive a Milano, compie una gita a Tindari, una località a picco sul mare. L'atmosfera mitica evocata dai ruderi greci, la selvaggia bellezza del paesaggio, il fruscio del vento favoriscono l'immersione del poeta nella meditazione sullo sradicamento dalla terra natia, sulla sofferenza per l'esilio milanese, sull'ansia per la morte, sull'illusorietà dell'amore.

Nelle prime tre strofe, è rappresentato il paesaggio mediterraneo (vv. 2-3), la cui rivisitazione mitica favorisce l'identificazione della terra col grembo materno (v. 22). Nella quarta strofa, alla terra natia, in cui spera di soddisfare il proprio bisogno d'armonia, Quasimodo oppone con toni da invettiva dantesca l'estranea terra milanese, dove "aspro è l'esilio" (v. 23) e il poeta è costretto "amaro pane a rompere" (v. 30). L'opposizione si era già fatta esplicita nella terza strofa, giocata sulla diversità tra i due territori (vv. 16, 19). L'ansia precoce di morire, l'amore come schermo alla tristezza (vv. 26-28) rendono conto della travagliata condizione psicologica del poeta che affonda (v. 17) in terra straniera: in ciò è l'idea di una perdita di senso, di una rassegnazione che neanche l'abbandono alla poesia (il "nutrire segrete sillabe", v. 18) riesce a lenire.

L'incontro con la mite Tindari si configura come un assalto (v. 4): il luogo, o il ricordo della donna, prende il poeta come in una fascinazione, facendo affiorare paure e ricordi d'infanzia: il senso di colpa per l'abbandono della terra natia turba il poeta, finché un amico (v. 32) non lo sorprende sull'orlo di una rupe. Con circolarità i versi finali si legano all'incipit, riprendendo l'idea di armonia classica insita nel luogo (v. 1 ≈ v. 31) e riproponendo il motivo del vento, simbolo della angoscia del poeta.

Milano agosto 1943 (Giorno dopo giorno)Il componimento presenta la città straziata dai bombardamenti. Il poeta si chiude nel dolore di chi non ha più speranza: insistente ricorre la constatazione che "la città è morta". La guerra sospende la vita e il canto: l'usignolo simbolo della poesia tace nel tramonto della civiltà (vv. 4-6). Ogni attività sembra vana, tanto profondo è lo

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sconforto: non serve costruire pozzi per i vivi; non serve sepellire i morti, già sepolti fra le macerie.

L'urgenza della cronaca spinge verso riferimenti precisi (il titolo), la musicalità e l'analogia sono scomparse, la lingua è prosaica e semplice, anche dura. L'impegno morale si esprime in forme sentenziose ("i vivi non hanno più sete") e in un dialogo continuo, necessario con l'umanità sofferente (vv. 1, 7, 9, 10).

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MARIO LUZI

Toccata (La barca)metro: i vv. 6 e 9 sono endecasillabi, i vv. 2 e 8 novenari, il resto settenari. I versi appaiono rimati ("noia" : "stuoia", "vita" : "ferita") o legati da assonanze ("cieli" : "quiete", "vano" : "passo") e consonanze ("ecco" : "tocco"). Il componimento appartiene a una sezione costituita da due liriche e caratterizzata dal riferimento alla terminologia musicale (Toccata, Serenata). La poesia si apre con un'indicazione temporale (aprile), che ricorda l'incipit di La terra desolata di Eliot ("April is the cruellest month"). Luzi sviluppa il tema ricordando Leopardi (la vita come una ferita), pur creando un'atmosfera diversa. Il sentimento di estraneità del poeta verso la vita, segnalata attraverso figure di assenza e di passaggio, è una costante della sua produzione che lo avvicina a poeti ermetici, come Gatto e Quasimodo.

Il poeta suggerisce la transitorietà della vita attraverso le cose che la accompagnano (la stuoia, v. 3) o con i suoi residui. L'immagine conclusiva sottolinea in termini uditivi, ricollegandosi al titolo, l'evanescenza del transito umano. Nei due endecasillabi sono chiuse significazioni d'assenza..

Croce di sentieri (Un brindisi)metro: quartine di endecasillabi; le rime sono a volte difficili ("pendii" : "devii") o al mezzo ("svanita" : "vita"), o imperfette ("more" : "trascorre", "melo" : "miele"); significativa è la presenza delle inarcature.Il componimento si apre con un'immagine acquatica, legta al tema del transito tra una stagione e l'altra. Durante il primo autunno, una presenza amica accompagna il poeta, recando in sé i segni dell'assenza: di essa restano, infatti, solo i passi. La lirica è pervasa da un senso di vago, che si oppone alla determinatezza delle cose e degli animali (talora attenuata dall'aggettivazione: "vaghe" le vespe, "svanita" la menta).

Mentre l'interlocutrice crede nella vita e si muove, il poeta crede nell'oltrevita e resta seduto a raccogliere sulle vesti la brina della notte prossima. Una domanda nella quarta strofa esprime il dubbio del poeta, tentato di seguirla: egli è a un bivio, una "croce di sentieri". Ma la croce diviene segno di una rinuncia alla vita, di una morte universale che assume quasi i contorni della passione di Cristo, come indica il fumo che si tinge di viola.

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GIORGIO CAPRONI

La gente se l'additava (Il seme del piangere)metro: due strofe rimate variamente con prevalenza di settenari e ottonari, clausola di due versi a rima baciata. La lirica rievoca Anna Picchi, madre del poeta e protagonista della sezione Versi livornesi, rappresentazione giovanile della donna, legata al paesaggio della città. Il poeta la descrive come una fidanzata, il cui contegno è simile a quello del mare, così quieto nel suo tumultuare. La gente di Livorno svolge una funzione corale, commentando il passaggio di Anna. Nel congedo, Caproni invita la canzone ad andare spigliata per il mondo come la madre.

Caproni rifiuta gli sterili intellettualismi ermetici per una poesia semplice e spontanea, costruita su un gioco di rime e assonanze, ottenuta grazie ad un lavoro di semplificazione, nell'idea di giungere al più alto livello possibile di leggerezza. Il poeta si è rifatto alla ballata di Cavalcanti "Perch'i' no spero di tornar giammai", dalla quale riprende il verso breve e l'insistenza della rima baciata.

Per lei (Il seme del piangere)metro: versi liberi, a rima baciata, a parte i vv. 9-12, a rima alternata, con prevalenza di settenari e ottonari.Il poeta delinea la madre in relazione alla propria tecnica metrica e alle proprie intenzioni che presiedono all'uso delle rime. La chiarezza e la semplicità delle rime rispondono al carattere schietto e delicato di Anna. Col pretesto di riflettere sui propri strumenti metrici, Caproni tesse indirettamente un nuovo ritratto della madre. Alcuni dettagli sono riferibili al mare: gli orecchini hanno "suoni fini di mare", le collanine di distinguono per le "tinte coralline".

La poesia, che serve ad eternare i propri contenuti attraverso forme che resistono al tempo, non vuole rime crepuscolari, connotate dal senso della fine. Il crepuscolarismo, infatti, prevedeva sì rime usuali e argomenti quotidiani, ma in un contesto dimesso, poco vitale.

Senza esclamativi (Il muro della terra)Il componimento è dedicato all'amore e al dolore e alle parole poetiche che non danno l'idea del vuoto che avvolge la vita: l'uomo soffre la perdita della propria identità, ma fa esperienza dell'inconsistenza del suo linguaggio. La lirica è costruita su poche rime facili: "dolore" : "amore" : "cuore"; anche "vuoto" rima al mezzo con la ripetizione ai v. 4-5.

Al v. 1 la qualificazione di "alto" per il dolore sembra generica, ma acquista senso se avvicinata alla conclusione: l'altezza del grano, l'immagine con cui si chiude la lirica, fa pensare al fatto che la sofferenza è peggiore in un uomo, che come il grano è diventato maturo. Non c'è sorpresa (gli esclamativi del titolo), ma una disillusa constatazione del vuoto esistenziale in cui la poesia tenta invano di scavare monumenti.