22 15 rassegna stampa fisac dal 25 mag al 29 mag

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Rassegna stampa settimanale n. 22/2015 ____________________________ Dal 25 maggio 2015 Al 29 maggio 2015 A cura del Dipartimento Comunicazione (C.Hoffmann – V.Vitale)

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Rassegna stampa settimanale n. 22/2015 ____________________________

Dal 25 maggio 2015 Al 29 maggio 2015

A cura del Dipartimento Comunicazione (C.Hoffmann – V.Vitale)

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BANCHE

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2 CORRIERECONOMIA LUNEDÌ 25 MAGGIO 2015

IMPRESE & FINANZAUomini, storiee strategie

Credito Da Parigi e Madrid i potenziali interessi dall’estero. In Italia, invece, solo Ubi potrebbe investire

Mps Siena più vicina a Parigi Un asse francese per il creditoAl via oggi il nuovo aumento di capitale di Rocca Salimbeni per 3 miliardi di euroLa banca, alla prima trimestrale in utile dopo tre anni, cerca ancora un proprietarioDI FABRIZIO MASSARO

Nel gergo delle ban-che d’affari si dice«costruire una in-vestor base». In

italiano — specialmente nel-la lingua colorita che si parlaa Siena — diventa più prosai-camente «Ma chi comanderànel Montepaschi?». La rispo-sta la darà l’aumento di capi-tale da 3 miliardi che parteoggi fino al 12 giugno con azioni offerte a 1,17 euro, conun maxi-sconto del 38,9% ein un rapporto di 10 nuovi ti-toli ogni azione vecchia pos-seduta.

I diritti di opzione sarannonegoziati in Borsa fino a lune-dì 8: per questo periodo il ti-tolo a Piazza Affari sarà sul-l’ottovolante — come già suc-cesse l’anno scorso per la ri-capitalizzazione da 5 miliardi—, anche se la Consob ha ri-badito già venerdì 22 il divie-to di vendite allo scoperto«nude» e l’obbligo di comu-nicazione delle posizioni net-te corte sul titolo. Un modoper frenare gli hedge fund,sempre interessati a specula-re sul un titolo volatile comeMps.

Montagne russeSe le montagne russe in

Borsa sono probabili, è mate-matico l’effetto diluitivo perchi non sottoscriverà l’au-mento. La questione riguardainnanzitutto i risparmiatori:quasi il 90% di Mps è in manoa una miriade di piccoli soci— privati e fondi — chiamatiper la seconda volta in un an-no a sostenere la banca, inuna ricapitalizzazione supe-riore all’attuale valore di Bor-sa di 2,5 miliardi di euro, sen-za ottenerne in cambio divi-dendi. Chi non vorrà o potràseguire l’aumento potrà in-cassare vendendo i diritti,mentre chi volesse entrareadesso sarà avvantaggiato dauno sconto persino superiorea quello dello scorso aumen-to che era stato del 35,5%.

L’incasso non è comunque

in discussione, vista la garan-zia fornita — a caro prezzo,circa 130 milioni di commis-sioni — dalle banche del con-sorzio: un nutrito elenco diistituti guidato da Ubs, Citi,Goldman Sachs e Medioban-ca, con accanto Barclays,Commerzbank, DeutscheBank, Merrill Lynch, SocGencome joint bookrunner, Ban-ca Imi, Santander, CreditSuisse e UniCredit come co-bookrunner, e Banca Akros,Banca Profilo, Popolare di Vi-cenza, Bbva, Equita Sim, IngBank, Jefferies e Stifel Nico-laus come co-lead manager.Una compagine prevalente-mente estera che punterà avendere sui mercati interna-zionali l’uscita di Mps dallesecche.

Il nocciolino duroI soci più robusti non subi-

ranno diluizioni, visto che —ufficialmente o ufficiosamen-te — tutti si sono impegnati asottoscrivere. I fondi esterientrati a marzo 2014, cioè ilmessicano Fintech Advisorydel miliardario (con cittadi-

nanza britannica) DavidMartinez Guzman con il 4,5%e, con il 2%, il brasiliano BtgPactual del finanziere AndréSantos Esteves (rappresenta-to in Italia da Roberto Isolani,vicepresidente di Mps) han-no investito finora 505 milio-ni di euro, che diventeranno700 con l’aumento. Una cifraenorme su cui la perdita po-tenziale è colossale. Per que-

sto non possono che investireancora.

Dalla loro c’è che hanno inmano le redini di Rocca Sa-limbeni. Grazie al patto disindacato con la FondazioneMps (attualmente al 2,5%)hanno conquistato nel nuovoboard i 7 posti su 14 riservatialla lista di maggioranza e oraavranno la parola finale nellascelta del nuovo presidente, una volta che AlessandroProfumo, terminato l’aumen-to, si dimetterà.

Ma un ruolo altrettantoimportante ce l’avranno i socicosiddetti di minoranza. Ilpartner storico di Mps nellabancassicurazione, Axa, fortedel 3,17% che gli ha consenti-to di eleggere 3 consiglieri al-l’assemblea dello scorso apri-le, si è già impegnato a sotto-scrivere pro-quota. C’è poil’outsider Alessandro Falciai:con appena l’1,7% l’ex mana-ger Stet e poi imprenditore inproprio con Dmt è riuscito acoagulare il consenso dei fon-di istituzionali conquistando4 consiglieri e una forte in-fluenza dentro il board, nelquale è entrato lui stesso.

Il nuovo corso Se non ci saranno sorprese

nell’azionariato — o se nonarriverà durante l’aumentouna manifestazione di inte-resse per un’acquisizione o

un’integrazione, ipotesi «nonesclusa» nel prospetto infor-mativo — toccherà a questogruppo di azionisti tirare le fila del nuovo corso di Mps.Toccherà invece all’ammini-stratore delegato Fabrizio Vi-ola, forte dell’utile ritrovatonel primo trimestre 2015 di72,6 milioni, spingere sulledirettrici tracciate dalla Bce:ridurre i crediti deteriorati,chiudere altre 350 filiali oltrele 550 già estinte, definire ilvelenoso derivato Alexan-dria, magari con una transa-zione con la banca giappone-se Nomura. E soprattutto, re-alizzare la fusione, anch’essaimposta da Francoforte. Ma ilpartner sarà italiano o este-ro?

Ipotesi UbiI rumors sul partner italia-

no suggeriscono Ubi Banca,quando la popolare lombar-da si sarà trasformata in so-cietà per azioni. Viola ha fattosapere che preferirebbe, dalpunto di vista industriale, lasoluzione nazionale. Ma Mpspotrebbe essere un bocconetroppo grande anche per Ubi,che secondo alcune simula-zioni di banche d’affari in ca-so di integrazione potrebbeavere necessità di nuovo capi-tale.

Molto dipenderà dallo sce-nario macroeconomico. L’in-tervento del governo con labad bank — sebbene di diffi-cile attuazione — e le misureper accelerare il recupero deicrediti potrebbe dare unamano nella gestione delle sof-ferenze. Se poi nei prossimimesi i dati sulla ripresa del-l’economia dovessero essereconfermati, allora il Montepotrebbe tornare ad essereuna via d’ingresso per unostraniero che vuole scommet-tere sull’Italia. Resta la via in-termedia dell’intervento diuna banca nazionale control-lata da un gruppo estero, co-me i francesi Bnl-Bnp Paribase Cariparma-Credit Agricole.

fabriziomassar0© RIPRODUZIONE RISERVATA

L’analisi

L’enigma della «bad bank» all’italiana? Per la soluzione chiedete istruzioni a BruxellesR ecenti previsioni di Banki-

talia ipotizzano che il Roedelle banche passerà dall’1,4%di quest’anno al 3,7% nel 2017.Tralasciando i profitti sui titoli diStato realizzati intermediando il«Qe» e con i tassi di interesse azero, queste stime positive deri-vano dal recupero di valore dei190 miliardi di sofferenze lorde.

Lorde in quanto oltre 100miliardi sono stati già spesati inbilancio dalle banche e scaricatiin parte sui contribuenti. Svalu-tare i crediti vuol dire, infatti, pagare meno tasse e il minorgettito fiscale lo Stato da qual-

che parte lo deve recuperare.D’altro canto la svalutazione de-termina «attività per imposteanticipate» (Dta) che, grazie aduna norma ad hoc, si trasforma-no in crediti fiscali (Dtc) che at-tualmente ricapitalizzano lebanche italiane per più del 10%.

L’ipotesi di lavoro sul tappetoè quella di riassorbire le soffe-renze (che frenano la ripartenzadel credito) attraverso la costi-tuzione di una bad bank nazio-nale soprattutto per quella partedel sistema bancario in difficoltànon in grado di provvedere au-tonomamente come nei casi de-

gli istituti commissariati. L’equi-librio finanziario della bad bankdipende innanzitutto dal prezzodi acquisto dei crediti ceduti dal-le banche e dalla capacità dimassimizzarne il valore di rea-lizzo. Appare comunque difficileda raggiungere nel contestoodierno di tassi di interesse az-zerati che offrono pochi marginiper una gestione di tesoreria ingrado di coprire efficacemente itempi fisiologici di recupero deicrediti deteriorati. Un supporto –non indifferente per l’Erario –potrebbe arrivare proprio dallariforma del «recupero crediti»

ma anche dalla riduzione da 5anni a 1 del periodo di deducibi-lità fiscale delle perdite su crediti(com’è già nel resto d’Europa).

Si faciliterebbe così il loroconferimento alla bad bank avalore di mercato mitigando an-che il rischio che l’Ue intravedadegli aiuti di Stato. Peraltro datala situazione di crisi una similerevisione normativa aumente-rebbe i Dtc rimpinguando il ca-pitale delle banche in perdita. Suquesto tema l’Ue ha intravistoperò la possibilità che dietro allatrasformazione dei Dts in Dtc sinascondano aiuti di Stato e lo

scorso marzo ha chiesto chiari-menti.

Se dovesse finire male lebanche si ritroverebbero con unproblema di capitalizzazione e labad bank con ulteriori difficoltànel raggiungimento del pareg-gio di bilancio (epiù sofferenzeda assorbire). Ed è proprio nel-l’ipotesi di mancato raggiungi-mento dell’equilibrio finanziarioche l’assetto proprietario della bad bank diviene rilevante; in-fatti se vi è una partecipazionepubblica – anche nella forma diuna garanzia statale – il contri-buente italiano pagherà per la

mala gestio che ha determinatole sofferenze. E anche questoper l’Ue rischia di configurare unaiuto di Stato. Diverse dalla badbank all’italiana sono quelle re-alizzate con successo nell’Euro-zona (la Sareb in Spagna e laNama in Irlanda) – previo in-gresso della Troika – che sonostate supportate non dai contri-buenti nazionali ma dal contri-buente europeo attraverso l’as-sistenza finanziaria del fondosalva stati (Esm). In una pro-spettiva più generale, la stessaBce ha le caratteristiche tecni-che per trasformarsi in una bad

bank (vedi l’esempio della ge-stione della crisi immobiliare daparte della Fed negli Usa), tra cuila non trascurabile capacità diripianare le perdite attraverso lacreazione di nuova moneta chemagari arriva pure più facil-mente all’economia reale.

Del resto – nella speranza direalizzare chissà quando l’unio-ne fiscale – la Bce ed i suoi an-nessi rappresentano l’unicostrumento già operativo e a di-sposizione per contrastare latendenza disgregante a confi-nare i rischi di ciascun Paesemembro a casa propria, costrin-gendolo ad ipotesi nazionali dirisoluzione di problemi che ne-cessitano di essere affrontati inchiave europea a meno di nonvoler assistere passivamente al-la progressiva dissoluzione del-l’Eurozona.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

di MARCELLO MINENNA

Maramotti

Fabrizio ViolaAmministratore dele-gato del Monte dei Pa-schi dal 3 maggio ‘12

Alessandro ProfumoPresidente, in uscita, del Montedei Paschi di Siena

L’ANDAMENTO IN BORSA

Dall’arrivo della coppia Profumo-Vida

IL RITORNO ALL’UTILE

Dopo 11 trimestri in rosso.Dati in milioni di euro

QUANTO VALGONO IN BORSA

Le capitalizzazioni dei maggiori gruppiitaliani ed europei, in milioni di euro

2° trim.2012

3° trim.2012

4° trim.2012

2° trim.2013

1° trim.2013

3° trim.2013

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2° trim.2014

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+89

-1.641

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-1.591

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euro

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2 CORRIERECONOMIA LUNEDÌ 25 MAGGIO 2015

IMPRESE & FINANZAUomini, storiee strategie

Credito Da Parigi e Madrid i potenziali interessi dall’estero. In Italia, invece, solo Ubi potrebbe investire

Mps Siena più vicina a Parigi Un asse francese per il creditoAl via oggi il nuovo aumento di capitale di Rocca Salimbeni per 3 miliardi di euroLa banca, alla prima trimestrale in utile dopo tre anni, cerca ancora un proprietarioDI FABRIZIO MASSARO

Nel gergo delle ban-che d’affari si dice«costruire una in-vestor base». In

italiano — specialmente nel-la lingua colorita che si parlaa Siena — diventa più prosai-camente «Ma chi comanderànel Montepaschi?». La rispo-sta la darà l’aumento di capi-tale da 3 miliardi che parteoggi fino al 12 giugno con azioni offerte a 1,17 euro, conun maxi-sconto del 38,9% ein un rapporto di 10 nuovi ti-toli ogni azione vecchia pos-seduta.

I diritti di opzione sarannonegoziati in Borsa fino a lune-dì 8: per questo periodo il ti-tolo a Piazza Affari sarà sul-l’ottovolante — come già suc-cesse l’anno scorso per la ri-capitalizzazione da 5 miliardi—, anche se la Consob ha ri-badito già venerdì 22 il divie-to di vendite allo scoperto«nude» e l’obbligo di comu-nicazione delle posizioni net-te corte sul titolo. Un modoper frenare gli hedge fund,sempre interessati a specula-re sul un titolo volatile comeMps.

Montagne russeSe le montagne russe in

Borsa sono probabili, è mate-matico l’effetto diluitivo perchi non sottoscriverà l’au-mento. La questione riguardainnanzitutto i risparmiatori:quasi il 90% di Mps è in manoa una miriade di piccoli soci— privati e fondi — chiamatiper la seconda volta in un an-no a sostenere la banca, inuna ricapitalizzazione supe-riore all’attuale valore di Bor-sa di 2,5 miliardi di euro, sen-za ottenerne in cambio divi-dendi. Chi non vorrà o potràseguire l’aumento potrà in-cassare vendendo i diritti,mentre chi volesse entrareadesso sarà avvantaggiato dauno sconto persino superiorea quello dello scorso aumen-to che era stato del 35,5%.

L’incasso non è comunque

in discussione, vista la garan-zia fornita — a caro prezzo,circa 130 milioni di commis-sioni — dalle banche del con-sorzio: un nutrito elenco diistituti guidato da Ubs, Citi,Goldman Sachs e Medioban-ca, con accanto Barclays,Commerzbank, DeutscheBank, Merrill Lynch, SocGencome joint bookrunner, Ban-ca Imi, Santander, CreditSuisse e UniCredit come co-bookrunner, e Banca Akros,Banca Profilo, Popolare di Vi-cenza, Bbva, Equita Sim, IngBank, Jefferies e Stifel Nico-laus come co-lead manager.Una compagine prevalente-mente estera che punterà avendere sui mercati interna-zionali l’uscita di Mps dallesecche.

Il nocciolino duroI soci più robusti non subi-

ranno diluizioni, visto che —ufficialmente o ufficiosamen-te — tutti si sono impegnati asottoscrivere. I fondi esterientrati a marzo 2014, cioè ilmessicano Fintech Advisorydel miliardario (con cittadi-

nanza britannica) DavidMartinez Guzman con il 4,5%e, con il 2%, il brasiliano BtgPactual del finanziere AndréSantos Esteves (rappresenta-to in Italia da Roberto Isolani,vicepresidente di Mps) han-no investito finora 505 milio-ni di euro, che diventeranno700 con l’aumento. Una cifraenorme su cui la perdita po-tenziale è colossale. Per que-

sto non possono che investireancora.

Dalla loro c’è che hanno inmano le redini di Rocca Sa-limbeni. Grazie al patto disindacato con la FondazioneMps (attualmente al 2,5%)hanno conquistato nel nuovoboard i 7 posti su 14 riservatialla lista di maggioranza e oraavranno la parola finale nellascelta del nuovo presidente, una volta che AlessandroProfumo, terminato l’aumen-to, si dimetterà.

Ma un ruolo altrettantoimportante ce l’avranno i socicosiddetti di minoranza. Ilpartner storico di Mps nellabancassicurazione, Axa, fortedel 3,17% che gli ha consenti-to di eleggere 3 consiglieri al-l’assemblea dello scorso apri-le, si è già impegnato a sotto-scrivere pro-quota. C’è poil’outsider Alessandro Falciai:con appena l’1,7% l’ex mana-ger Stet e poi imprenditore inproprio con Dmt è riuscito acoagulare il consenso dei fon-di istituzionali conquistando4 consiglieri e una forte in-fluenza dentro il board, nelquale è entrato lui stesso.

Il nuovo corso Se non ci saranno sorprese

nell’azionariato — o se nonarriverà durante l’aumentouna manifestazione di inte-resse per un’acquisizione o

un’integrazione, ipotesi «nonesclusa» nel prospetto infor-mativo — toccherà a questogruppo di azionisti tirare le fila del nuovo corso di Mps.Toccherà invece all’ammini-stratore delegato Fabrizio Vi-ola, forte dell’utile ritrovatonel primo trimestre 2015 di72,6 milioni, spingere sulledirettrici tracciate dalla Bce:ridurre i crediti deteriorati,chiudere altre 350 filiali oltrele 550 già estinte, definire ilvelenoso derivato Alexan-dria, magari con una transa-zione con la banca giappone-se Nomura. E soprattutto, re-alizzare la fusione, anch’essaimposta da Francoforte. Ma ilpartner sarà italiano o este-ro?

Ipotesi UbiI rumors sul partner italia-

no suggeriscono Ubi Banca,quando la popolare lombar-da si sarà trasformata in so-cietà per azioni. Viola ha fattosapere che preferirebbe, dalpunto di vista industriale, lasoluzione nazionale. Ma Mpspotrebbe essere un bocconetroppo grande anche per Ubi,che secondo alcune simula-zioni di banche d’affari in ca-so di integrazione potrebbeavere necessità di nuovo capi-tale.

Molto dipenderà dallo sce-nario macroeconomico. L’in-tervento del governo con labad bank — sebbene di diffi-cile attuazione — e le misureper accelerare il recupero deicrediti potrebbe dare unamano nella gestione delle sof-ferenze. Se poi nei prossimimesi i dati sulla ripresa del-l’economia dovessero essereconfermati, allora il Montepotrebbe tornare ad essereuna via d’ingresso per unostraniero che vuole scommet-tere sull’Italia. Resta la via in-termedia dell’intervento diuna banca nazionale control-lata da un gruppo estero, co-me i francesi Bnl-Bnp Paribase Cariparma-Credit Agricole.

fabriziomassar0© RIPRODUZIONE RISERVATA

L’analisi

L’enigma della «bad bank» all’italiana? Per la soluzione chiedete istruzioni a BruxellesR ecenti previsioni di Banki-

talia ipotizzano che il Roedelle banche passerà dall’1,4%di quest’anno al 3,7% nel 2017.Tralasciando i profitti sui titoli diStato realizzati intermediando il«Qe» e con i tassi di interesse azero, queste stime positive deri-vano dal recupero di valore dei190 miliardi di sofferenze lorde.

Lorde in quanto oltre 100miliardi sono stati già spesati inbilancio dalle banche e scaricatiin parte sui contribuenti. Svalu-tare i crediti vuol dire, infatti, pagare meno tasse e il minorgettito fiscale lo Stato da qual-

che parte lo deve recuperare.D’altro canto la svalutazione de-termina «attività per imposteanticipate» (Dta) che, grazie aduna norma ad hoc, si trasforma-no in crediti fiscali (Dtc) che at-tualmente ricapitalizzano lebanche italiane per più del 10%.

L’ipotesi di lavoro sul tappetoè quella di riassorbire le soffe-renze (che frenano la ripartenzadel credito) attraverso la costi-tuzione di una bad bank nazio-nale soprattutto per quella partedel sistema bancario in difficoltànon in grado di provvedere au-tonomamente come nei casi de-

gli istituti commissariati. L’equi-librio finanziario della bad bankdipende innanzitutto dal prezzodi acquisto dei crediti ceduti dal-le banche e dalla capacità dimassimizzarne il valore di rea-lizzo. Appare comunque difficileda raggiungere nel contestoodierno di tassi di interesse az-zerati che offrono pochi marginiper una gestione di tesoreria ingrado di coprire efficacemente itempi fisiologici di recupero deicrediti deteriorati. Un supporto –non indifferente per l’Erario –potrebbe arrivare proprio dallariforma del «recupero crediti»

ma anche dalla riduzione da 5anni a 1 del periodo di deducibi-lità fiscale delle perdite su crediti(com’è già nel resto d’Europa).

Si faciliterebbe così il loroconferimento alla bad bank avalore di mercato mitigando an-che il rischio che l’Ue intravedadegli aiuti di Stato. Peraltro datala situazione di crisi una similerevisione normativa aumente-rebbe i Dtc rimpinguando il ca-pitale delle banche in perdita. Suquesto tema l’Ue ha intravistoperò la possibilità che dietro allatrasformazione dei Dts in Dtc sinascondano aiuti di Stato e lo

scorso marzo ha chiesto chiari-menti.

Se dovesse finire male lebanche si ritroverebbero con unproblema di capitalizzazione e labad bank con ulteriori difficoltànel raggiungimento del pareg-gio di bilancio (epiù sofferenzeda assorbire). Ed è proprio nel-l’ipotesi di mancato raggiungi-mento dell’equilibrio finanziarioche l’assetto proprietario della bad bank diviene rilevante; in-fatti se vi è una partecipazionepubblica – anche nella forma diuna garanzia statale – il contri-buente italiano pagherà per la

mala gestio che ha determinatole sofferenze. E anche questoper l’Ue rischia di configurare unaiuto di Stato. Diverse dalla badbank all’italiana sono quelle re-alizzate con successo nell’Euro-zona (la Sareb in Spagna e laNama in Irlanda) – previo in-gresso della Troika – che sonostate supportate non dai contri-buenti nazionali ma dal contri-buente europeo attraverso l’as-sistenza finanziaria del fondosalva stati (Esm). In una pro-spettiva più generale, la stessaBce ha le caratteristiche tecni-che per trasformarsi in una bad

bank (vedi l’esempio della ge-stione della crisi immobiliare daparte della Fed negli Usa), tra cuila non trascurabile capacità diripianare le perdite attraverso lacreazione di nuova moneta chemagari arriva pure più facil-mente all’economia reale.

Del resto – nella speranza direalizzare chissà quando l’unio-ne fiscale – la Bce ed i suoi an-nessi rappresentano l’unicostrumento già operativo e a di-sposizione per contrastare latendenza disgregante a confi-nare i rischi di ciascun Paesemembro a casa propria, costrin-gendolo ad ipotesi nazionali dirisoluzione di problemi che ne-cessitano di essere affrontati inchiave europea a meno di nonvoler assistere passivamente al-la progressiva dissoluzione del-l’Eurozona.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

di MARCELLO MINENNA

Maramotti

Fabrizio ViolaAmministratore dele-gato del Monte dei Pa-schi dal 3 maggio ‘12

Alessandro ProfumoPresidente, in uscita, del Montedei Paschi di Siena

L’ANDAMENTO IN BORSA

Dall’arrivo della coppia Profumo-Vida

IL RITORNO ALL’UTILE

Dopo 11 trimestri in rosso.Dati in milioni di euro

QUANTO VALGONO IN BORSA

Le capitalizzazioni dei maggiori gruppiitaliani ed europei, in milioni di euro

2° trim.2012

3° trim.2012

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MF

Numero 101, pag. 2 del 26/05/2015

PRIMO PIANO

La fondazione aderisce all'aumento, ma soltanto per l'1,55%. in calo anche btg

Il patto Montepaschi si sfarinaSolo Fintech dovrebbe mantenere la partecipazione, ma Clarich rassicura: l'alleanza sarà rafforzata Intanto a Piazza Affari tutto va come previsto. Azioni sospese al rialzo mentre i diritti crollano

di Luca Gualtieri

Già nel primo giorno di offerta l'aumento di capitale del Monte dei Paschi ha dato uno scossone agli assetti

proprietari della banca. Mentre in Piazza Affari l'operazione seguiva lo stesso copione dello scorso anno, nel

patto di sindacato si sono registrati movimenti assai significativi. Da un lato la Fondazione Mps, ex azionista

di riferimento della banca senese, ha annunciato che, dopo una vendita di azioni sul mercato, la propria

partecipazione è scesa dal 2,5 all'1,55%, quota per la quale l'ente sottoscriverà l'aumento per un esborso di

22 milioni. L'istituzione guidata da Marcello Clarich ha insomma preso una decisione salomonica, che si pone

a metà strada tra gli estremi prospettati nelle ultime settimane. In

questo modo Palazzo Sansedoni continuerà a mantenere una

presenza diretta nella conferitaria, pur senza impegnare

eccessive risorse finanziarie nell'operazione. Sempre ieri è

emerso che l'altro socio pattista, Btg Pactual, ha ridotto la quota

dal 2 all'1,9% proprio nei giorni che hanno proceduto l'avvio della

ricapitalizzazione. Dallo scorso 16 maggio ognuno dei tre pattisti

può cedere fino all'1% della propria partecipazione, mentre il

prossimo primo luglio per Btg Pactual scadrà il secondo vincolo di lock up e dunque il gruppo brasiliano sarà

libero di disinvestire interamente. Se al momento non è chiaro come si muoverà Btg, l'unica certezza è che il

terzo pattista, Fintech advisory (socio al 4,5%), aderirà alla ricapitalizzazione pro quota. L'investitore

messicano ha sottoscritto un contratto

di sub-underwriting con il global

coordinator Ubs per un ammontare

massimo pari al corrispettivo pro

quota, cioè 135 milioni. Alla luce delle

trasformazioni in corso è chiaro che

l'attuale patto di sindacato sta

rapidamente cambiando volto. Alla

luce di queste trasformazioni non è

ancora chiaro che cosa accadrà dopo l'aumento di capitale, se cioè l'alleanza sarà ridefinita con gli stessi

partner oppure se ci sarà un ricambio. Ieri Clarich si è limitato a dichiarare che dopo l'aumento la Fondazione

«esaminerà i vari scenari anche per rafforzare il patto esistente». Di certo a Palazzo Sansedoni è

indispensabile un'alleanza con gli altri azionisti per incidere sulla governance dell'istituto e non finire

Pagina 1 di 2Il patto Montepaschi si sfarina - MilanoFinanza.it

26/05/2015http://www.milanofinanza.it/giornali/stampa-articolo?id=1989307&access=AB

Page 6: 22 15 rassegna stampa fisac dal 25 mag al 29 mag

definitivamente marginalizzato.

Ieri intanto l'attenzione del mercato è stata polarizzata sul trend borsistico del Monte. Le azioni non hanno

aperto per tutta la seduta, segnando in chiusura un prezzo di 2,14 euro (+11,3%), mentre i diritti hanno perso

il 18,4% a 6,14 euro. Sommando i valori di titolo e diritto si ottiene un prezzo di 8,28 euro, livello inferiore di

circa il 12% rispetto ai 9,45 euro di venerdì. La spiegazione di questi movimenti sta nella struttura stessa

dell'aumento che prevede l'emissione di un notevole numero di nuovi titoli, offerti nel rapporto di 20 ogni titolo

posseduto.

Ciò determina tra l'altro un fortissimo effetto diluitivo: i soci che decidessero di non sottoscrivere l'aumento

potrebbero veder diluita la propria partecipazione fino al 90,9%. Per questo oggi agli investitori conviene

vendere i diritti e acquistare le azioni, visto che l'impegno economico risulta minore e non si aumenta troppo

l'esposizione. Un'altra spiegazione andrebbe poi ricercata nelle ricoperture. Chi aveva una posizione corta

sul titolo, con l'avvio dell'aumento si ritrova ad avere una posizione short anche sui diritti e quindi il livello di

rischio assunto aumenta. Così gli investitori iniziano a ricoprirsi. Questo fenomeno interessa soprattutto chi

ha venduto opzioni call sulle azioni. In questo caso infatti l'investitore dovrà riconsegnare al cliente molti più

titoli rispetto a prima, visto che il moltiplicatore del titolo alla base delle opzioni aumenta vistosamente.

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MF

Numero 101, pag. 3 del 26/05/2015

PRIMO PIANO

CARIGE dopo lo shopping di malacalza le sorprese Potrebbero non essere finite

Manovre sull'ultimo 5% di BpcePer l'azionista francese la partecipazione nella banca non è strategica. Oltre all'imprenditore ligure (cui è andato il 4,6%) altri investitori si sono fatti avanti. Ma i tempi sembrano stretti

di Claudia Cervini

I colpi di scena potrebbero non essere finiti per Banca Carige. Nel corso delle ultime settimane, fa sapere

Bpce, azionista dell'istituto ligure a MF-Milano Finanza, le banche d'affari hanno portato all'attenzione

dell'istituto francese diverse manifestazioni di interesse da parte di investitori intenzionati ad acquisire parte

della partecipazione in Banca Carige (nell'operazione la banca francese è stata assistita da Barclays e

Natixis). Il board ha optato nel corso del fine settimana per la vendita del 4,6% della quota a Malacalza

Investimenti (per 32,6 milioni), del quale ha condiviso l'approccio di business non

speculativo. L'operazione sarà finalizzata entro venerdì quando Bpce arriverà a

detenere il 5,1%. La seconda banca di Francia non ha mai fatto mistero del fatto che

la partecipazione in Carige non fosse strategica. Ora, però, nonostante l'interesse

dimostrato da altri soggetti, potrebbe non esserci più tempo per una eventuale

ulteriore dismissione della quota poiché l'aumento di capitale di massimi 850 milioni di

Banca Carige, potrebbe essere più vicino di quanto si pensi. Il cda presieduto da

Cesare Castelbarco Albani si riunirà nuovamente nel corso di questa settimana e,

secondo rumor, i dettagli della ricapitalizzazione potrebbero già essere approvati in quella sede. Sulle

tempistiche dell'operazione, naturalmente non c'è certezza, ma si auspica che possa partire a inizio giugno.

Soltanto allora il cda di Bpce deciderà come comportarsi in

sede di aumento e se sottoscrivere pro-quota.

La politica della banca presieduta dal chairman del

management board François Pérol, in merito alle

partecipazioni che non sono core o semplicemente ritenute

poco strategiche, è molto chiara. È stato di recente ceduto il

25,4% di Vbro al gruppo Banca Transilvania. E ieri è stata

annunciata la cessione del 10,7% del gruppo Nexity a Crédit Agricole Assurances. Tornando a Carige,

l'istituto francese, parlando con MF-Milano Finanza, ha fatto sapere che la cessione dell'intero pacchetto in

un'unica soluzione avrebbe comportato un prezzo decisamente meno interessante. (riproduzione riservata)

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MF

Numero 101, pag. 15 del 26/05/2015

MERCATI

Per piazza meda la scelta dei consulenti potrebbe avvenire in tempi rapidi

Bpm, doppio advisor per il risikoIl presidente del cdg Anolli: l'identità e la sede milanese elementi importanti. Attesa per i regolamenti Bankitalia Il mercato tifa per il matrimonio con il Banco Popolare

di Luca Gualtieri

Saranno probabilmente due i consulenti finanziari che affiancheranno la Banca Popolare di Milano nel

processo di integrazione previsto per i prossimi mesi. Lo ha dichiarato ieri il presidente del consiglio di

gestione Mario Anolli a margine della presentazione del progetto «Palazzo Marino diventa Palazzo Museo».

«Gli advisor della banca saranno presumibilmente due», ha spiegato Anolli, chiarendo però che la decisione

sarà «condivisa» tra il consiglio di gestione e quello di sorveglianza. Il professore della Cattolica ha inoltre

escluso «screzi» tra i due board sull'iter decisionale, precisando sul tema c'è

attualmente «grandissima collaborazione; è un processo in corso, stiamo lavorando

seriamente e ad ampio raggio».

Non c'è ancora nulla di ufficiale, ma la convinzione dei vertici della banca di Piazza

Meda è che in vista dell'aggregazione «l'identità milanese e la sede milanese sono

elementi importanti». Auspicio ribadito anche dal stesso sindaco di Milano, Giuliano

Pisapia: «Spero che la Banca Popolare di Milano non cambi nome; faremo di tutto per

questo».

Si vedrà se questo auspicio si tradurrà in strategie specifiche. Di certo Bpm è candidata a muoversi come

polo aggregante nel risiko delle popolari, sia incorporando istituti di dimensioni inferiori per aumentare la

propria massa critica sia sposandosi con un partner di pari grado. In questo secondo caso la soluzione

favorita dal mercato resta un matrimonio con il Banco

Popolare, che darebbe vita al terzo polo dell'industria

bancaria italiana e al campione nella categoria delle popolari.

Da fine 2013 l'operazione è uno dei gossip preferiti di Piazza

Affari e i rumor (mai smentiti) hanno ripreso quota con forza

negli ultimi mesi, in concomitanza con il varo della riforma

Renzi-Padoan sulle banche popolari.

Al momento comunque non si vedono novità all'orizzonte. Da un lato, sul fronte normativo manca ancora il

regolamento di Banca d'Italia, passaggio fondamentale per avviare la modifica della governance.

L'emanazione della normativa era attesa per l'inizio di maggio, ma il prolungamento della consultazione ha

determinato qualche settimana di ritardo rispetto alla tabella di marcia. In secondo luogo tra banchieri,

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amministratori e consulenti ci sarebbe ancora un clima di indecisione dovuta alla complessità del processo in

atto. Le soluzioni al vaglio sarebbero infatti più d'una e spesso in conflitto l'una con l'altra. Lo dimostra proprio

il caso del Banco Popolare, dove la componente veronese spingerebbe per un'aggregazione veneta in

contrasto con l'ipotesi di un'integrazione con la Bpm. Il risiko delle popolari è insomma ancora tutto da

giocare. (riproduzione riservata)

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IMPRESA & TERRITORI 26 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

IN BREVE WHIRLPOOL

Fim, Uilm, Ugl:

unico tavolo al Mise

Fim, Uilm, Ugl ed il coordinamento nazionale Whirlpool ed Indesit non

parteciperanno all’incontro in sede sindacale convocato dal gruppo Whirlpool per il 28

maggio prossimo a Firenze. Ad annunciarlo le stesse sigle spiegando che «è attivo un

tavolo permanente presso il ministero dello Sviluppo economico sulla vicenda relativa

al Piano industriale Whirlpool e alle drammatiche ricadute che contiene». «Invitiamo

Whirlpool - spiegano i sindacati - ad evitare forzature che sembrano voler creare

spaccature tra organizzazioni sindacali. Invitiamo i colleghi della Fiom a non

intraprendere discussioni solitarie sui modi di gestione di un Piano Industriale

inaccettabile».

AMMORTIZZATORI

Fondo solidarietà, rinnovato il cda

Al via il nuovo Comitato amministratore del Fondo di solidarietà del settore del

credito. Rinnovato con Decreto ministeriale del 14 aprile 2015, è stato riconfermato

presidente Giancarlo Durante, Direttore Centrale Responsabile dell’area Sindacale e

del Lavoro di Abi e Vice Presidente Stefano Giubboni per la Fabi. Il Comitato resterà

in carica fino a maggio 2019. I membri del Comitato sono Giancarlo Durante, Mario

Giuseppe Napoli, Patrizia Ordasso, Fabrizio Rinella, Michele Zazzi designati da Abi,

Cesare Pietro Bottegal (Fiba-Cisl), Valeria Cavrini (Uilca), Stefano Giubboni (Fabi),

Alessandro Lucio Meneghini (Fisac-Cgil), Raffaello Misasi (Unità Sindacale Falcri-

Silcea), Manuela Gaetani in rappresentanza del Ministero del Lavoro e Marco Ciaffi

per il Ministero dell’Economia.

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COMMENTI E INCHIESTE 26 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

POLITICA MONETARIA FRA REGOLE E DISCREZIONALITÀ

La banca oltre flessibilità e rigore

Pierluigi Ciocca spiega come contrastare l’instabilità tipica dell’economia

capitalistica

Si racconta che il fisiocrata Mercier de la Rivière, chiamato a Mosca per un parere economico da Caterina la Grande, le disse che bisognava lasciare che le cose seguissero il loro corso, e la natura si sarebbe incaricata di tutto. Al che lei lo congedò subito…. Se (indulgendo a un esercizio controfattuale) Caterina avesse invece chiamato Pierluigi Ciocca , è sicuro che il parere sarebbe stato denso di misure e contromisure. E, naturalmente, Ciocca avrebbe avuto ragione nel predicare l'interventismo. In un mondo segnato da quella che Keynes chiamava «irriducibile incertezza», il ‘lasciare che le cose vadano per il loro corso’ non può essere una raccomandazione per tutte le stagioni.Il Nostro ha lasciato ormai da qualche anno il Direttorio della Banca d'Italia e gli siamo grati di questo abbandono. Perché il libretto che ha scritto – La banca che ci manca, un conciso gioiello di alta polemica – non avrebbe potuto scriverlo nell'esercizio delle sue funzioni, tanto è denso di critiche agli attuali assetti delle Banche centrali. Ciocca ricomincia da zero. Cioè a dire, è d'accordo – anche se non lo nomina – con la battuta di Will Rogers, secondo cui nella storia dell'umanità ci sono state tre grandi invenzioni: il fuoco, la ruota e la Banca centrale. Ma la Banca centrale, così com'è, non gli va bene. E il ‘ricominciare da zero’ vuol dire allora partire dalla radice del problema. In questa economia capitalistica in cui ci troviamo, che cosa deve fare una Banca centrale?Dopo aver tracciato l'architettura intellettuale e le direttrici operative di una Banca centrale ideale, confronta questo ‘dover essere’ con quello che è e trova, come era da aspettarsi, che le due immagini non coincidono. Ciocca parte da una caratteristica essenziale del capitalismo: l'instabilità. Precisiamo subito tuttavia, che non c'è nessuna critica radicale al sistema capitalistico, un sistema che, parafrasando Churchill, è il peggiore di tutti fatta eccezione per tutti gli altri. Ciocca ricorda che «questo sistema economico ha moltiplicato per più di 10 volte il reddito medio procapite in termini reali degli abitanti del globo, dopo millenni di tendenziale ristagno». Ma d'altro canto – ecco l'impianto accusatorio - «si è dimostrato iniquo nella distribuzione del reddito e della ricchezza, come pure inquinante, lesivo dell'ambiente... (e) altamente instabile». Una messa in stato d'accusa che già Keynes aveva formulato: «Il capitalismo decadente – internazionale ma individualistico – nelle cui mani ci troviamo dopo la guerra non è un successo. Non è razionale. Non è bello. Non è giusto. E non ci dà quel che dovrebbe darci». Ma è l'instabilità che preoccupa Ciocca: instabilità dell'attività produttiva, dell'occupazione e della disoccupazione, dei prezzi (inflazione e deflazione), euforie e crolli dei mercati di Borsa, perdite e fallimenti di banche e intermediari finanziari... L'instabilità, insomma, è una grossa spina nella rosa del capitalismo; e «la difesa dall'instabilità è quindi questione cruciale nel governo di un'economia di mercato capitalistica, nell'assicurarne la stessa sopravvivenza». L'economia, insomma, ha bisogno di un ‘governo’ (a differenza di quel che pensava Mercier de la Rivière). Sta quindi ai reggitori delle politiche economiche assicurare questo governo, e fra questi è cruciale il ruolo di un peculiare ‘supereroe’, la terza grande invenzione nella storia dell'umanità, la Banca centrale.Qui Ciocca deve camminare sui gusci d'uovo delle polemiche. La Banca centrale non è un organismo democratico. Sì, ma è nominato dal Governo, a sua volta nominato dal Parlamento, a sua volta nominato dal popolo. La Banca centrale, una volta nominata, può fare quello che vuole, pur se nell'ambito dei suoi statuti. Ed è qui – nelle limitazioni posti dagli statuti – che Ciocca dà il meglio della sua vis polemica. Le caratteristiche dell'instabilità capitalistica sono tali per cui il guardiano dell'instabilità deve avere la massima autonomia nel decidere il da farsi. Non è un caso che questo libretto sia stato scritto dopo la Grande recessione, un epocale sommovimento che per la prima volta dal dopoguerra ha arrestato la crescita planetaria. Questo inciampo ha avuto origine nella finanza (anche se a sua volta dietro le pazzie dei mutui subprime c'erano degli scompensi reali) e sono state proprio le Banche centrali – da sempre situate su quella scivolosa cerniera che unisce la finanza all'economia – a trovarsi in prima linea lungo la trincea fiammeggiante di quella crisi.Regole e discrezionalità: sono i due poli, tavolta in conflitto, entro cui deve muoversi il banchiere centrale. Il crinale è sottile, dato che è qui in gioco non solo la legittimità di un'istituzione non eletta, ma anche l'efficacia di un'azione di contrasto all'instabilità che deve rispondere con immediatezza a quelle situazioni impreviste che l'economia capitalistica – da sempre un ‘lavoro in corso' – getta senza preavviso nelle ruote della storia.Di questa azione di contrasto Ciocca elenca tre grandi direttrici. Autonomia e discrezionalità di una Banca centrale «devono potersi volgere:a) In politica monetaria, alla stabilità dei prezzi e al pieno utilizzo delle risorse;b) nella cura del sistema finanziario, a evitarne l'illiquidità e a contrastarne il crollo anche arrivando a sostenere

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l'operatore insolvente:c) nel finanziamento dello Stato, ad assicurare la continuità dei pagamenti pubblici, allorché allo Stato, pur solvibile, viene precluso l'accesso al mercato del danaro».Lo statuto della Bce non permette di svolgere il compito a): il suo mandato si limita alla stabilità dei prezzi (a differenza del ‘mandato duale’ della Fed). E vieta il compito c), con la proibizione assoluta di finanziare i Governi sul mercato primario. Willem Buiter – un altro ex banchiere centrale (con la Bank of England) – ha scritto: «La proibizione a tappeto dei prestiti diretti ai governi è una completa idiozia. Questo è quello che devono fare le Banche centrali. Non si deve rinunciare a questo strumento solo perché può essere mal gestito. Si può annegare nell'acqua, ma questo non vuol dire che non potete averne un bicchiere quando avete sete». Ciocca usa parole meno forti, ma è senz'altro d'accordo con Buiter.E non è questo il solo sassolino che Ciocca si toglie dalla scarpa. Per quanto riguarda il punto b), Ciocca ripercorre la saga Lehman Brothers. Sia Tim Geithner (l'allora Segretario al Tesoro americano) che Ben Bernanke (alla Fed) hanno un bel dire che il quadro giuridico di allora non permetteva alla Fed di salvare quella società. La posizione di Ciocca è netta: bisognava salvare la Lehman infischiandosene delle sottigliezze legali (torna alla mente il famoso «Al diavolo le torpedini!» dell'Ammiraglio David G. Farragut, che nel corso della Guerra civile americana fece avanzare la flotta verso un mare minato, regalando una vittoria decisiva sui sudisti).Il libro di Ciocca non è un pamphlet. La polemica è sottotraccia, e l'argomento si dipana, piano ed efficace, lungo una narrazione pregna di storia e di dottrina e condita di passione civile. La Grande recessione ha costretto gli economisti a rivisitare la cassetta degli attrezzi, sia per quanto riguarda le interazioni fra economia e finanza che per quanto riguarda gli ambiti e i limiti delle politiche economiche. Il contributo di Ciocca dispone i paletti fra flessibilità e rigore in modo diverso rispetto agli assetti esistenti e ci obbliga a ripensare il ruolo cruciale della Banca [email protected]© RIPRODUZIONE RISERVATAFabrizio Galimberti

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FINANZA & MERCATI 26 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

Credito. Le tecnicalità dell’operazione iper-diluitiva fanno volare le azioni (+11,2%) e cadere i diritti

(-18,4%) - Btg scende sotto il 2%

Aumento Mps al via, tensione in Borsa

Profumo: «Presto per un giudizio» - Draghi: servono altri interventi oltre

all’aumento

Copione rispettato. Come accaduto a giugno 2014 (con l’aumento da 5 miliardi), la

nuova ricapitalizzazione da 3 miliardi di Banca Mps parte sotto tensione, con forti

acquisti sui titoli e vendite a raffica sui diritti. La pressione è stata tale che per tutta la

seduta il titolo è rimasto congelato ed è riuscito a fare prezzo solo nel finale,

registrando un’impennata dell’11,28%. In direzione opposta si sono mossi i diritti,

crollati del 18,4%, a 6,14 euro. Se si guarda al valore complessivo di Mps - rettificato

rispetto alla chiusura di venerdì da 9,448 euro - questo è sceso a 8,28 euro, con un calo

complessivo del 12 per cento.

«Il titolo sale - ha commentato ieri il presidente di Mps Alessandro Profumo - ma il

diritto scende, ci sono un po’ di problemi tecnici come abbiamo visto anche

nell’aumento di capitale precedente». Per questo «bisogna vedere l’insieme delle due

cose e come procede il combinato disposto dei due elementi». Comunque, ha concluso

Profumo, «é veramente presto per esprimere qualsiasi giudizio».

Come previsto dagli osservatori, e segnalato dalla stessa Consob (che sta monitorando

l’operazione, soprattutto in tema di vendite allo scoperto), nel primo giorno la

ricapitalizzazione ha seguito sostanzialmente lo stesso andamento dello scorso anno,

quando l’azione schizzò del 20% e i diritti caddero del 7%.

Le ragioni tecniche

Del resto, in entrambi i casi a pesare sull’andamento degli scambi è la natura

fortemente diluitiva dell’operazione. Chi oggi non sottoscrive vede la sua

partecipazione “annacquata” del 90,9%. L’aumento di capitale prevede infatti

l’emissione di 2,55 miliardi di nuove azioni, a fronte dei 255 milioni di titoli oggi

esistenti. Nel dettaglio, agli azionisti sono offerte 10 nuove azioni ordinarie per ogni

azione posseduta, al prezzo di 1,17 euro ciascuna, con uno sconto del 38,9% sul

prezzo ex-diritto (Terp) calcolato alla chiusura di giovedì 21 maggio.

Le azioni esistenti sul mercato oggi sono quindi una parte residuale rispetto a quella

che si troverà a offerta conclusa, ovvero l’8 giugno. La conseguenza è semplice: chi

oggi si trova a dover chiudere le proprie posizioni sul titolo ha difficoltà nel trovare

fisicamente le azioni, che scarseggiano. Chi è in una posizione ribassista (short) sul

titolo, ad esempio, deve correre a rastrellare titoli sul mercato per coprirsi, ma la

scarsità dell’offerta è tale da rendere problematica l’operazione. Ugualmente, chi ha

opzioni call (opzioni a comprare), e intende esercitarle, non riesce a trovare le azioni

sul mercato per chiudere la posizione, oppure ne trova ma a prezzi eccessivi.

In questo scenario, si crea una distanza incolmabile tra domanda e offerta (spread bid-

ask), un divario che tenderà ragionevolmente a chiudersi nei prossimi giorni. Undici

mesi fa, il titolo schizzò del 43% in due sedute per poi sgonfiarsi nelle giornate

successive. Le attese sono per un riallineamento al prezzo implicito espresso dal

diritto, lo strumento che di fatto offre una valutazione più “realistica” del valore

dell’azione stessa, e ad esso gli analisti consigliano di guardare.

Gli azionisti e la Bce

Al di là dell’andamento in sè e della buona riuscita dell’operazione (che è comunque

garantita da un consorzio di 21 banche), l’aumento di capitale di Mps sarà da

osservare anche per le mosse degli azionisti. Ieri è emerso che la Fondazione (si veda

articolo a lato) parteciperà all’aumento per la quota di 1,55% del capitale, livello a cui

è scesa dal precedente 2,5%. Limatura anche per Btg Pactual, scesa all’1,9% dal 2% lo

scorso 18 maggio. Certo è che invece con l’aumento di capitale non tutti i problemi di

Mps saranno risolti. A ribadirlo è la stessa Bce, in una lettera firmata dallo stesso

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Il default della Grecia con l'Fmi non è immediato

Gm, reggera' il titolo alle responsabilita' penali per i difetti?

Bankitalia allontana lo spettro del «contagio»

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Mario Draghi, che accompagna la documentazione relativa all’aumento di capitale.

Francoforte sottolinea che «l’aumento di capitale da solo non basterà a risolvere i

problemi strutturali» di Mps. Secondo Draghi, Mps «deve dare una soluzione

definitiva ai suoi problemi strutturali». Nel mirino ci sono in particolare, oltre alla

«debole situazione del capitale», anche «l’esposizione ai crediti problematici» e la

«bassa performance degli utili». Poichè l’aumento di capitale appare insufficiente, nel

giudizio della banca centrale, «non solo il primo elemento del piano, ma anche gli altri

due componenti devono essere realizzati».

.@lucaaldodavi

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Luca Davi

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FINANZA & MERCATI 26 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

PALAZZO

SANSEDONI «Tutte le

soluzioni rischiose: non aderendo all’aumento avremmo perso l’opportunità di

valorizzare la nostra partecipazione in prospettiva»

La Fondazione. Clarich: «Presenza non irrilevante»

L’Ente scende all’1,55% ma partecipa

all’aumento

«Avremo una presenza limitata, non irrilevante». Marcello Clarich, presidente della

Fondazione Mps, commenta così la decisione che consentirà all’Ente senese di tenere

insieme la “capra” della salvaguardia del patrimonio con i “cavoli” del mantenimento

del legame di Banca Mps con il territorio. I due obiettivi indicati dallo statuto

rischiavano infatti di naufragare sullo scoglio dell’aumento di capitale da 3 miliardi

del gruppo di Rocca Salimbeni, partito ieri, che metteva la Fondazione davanti al

bivio: aderire per il proprio 2,5% alla manovra, investendo 75 milioni, oppure

rimanere fuori accettando di diluirsi fino allo 0,2% nel capitale della banca? La

Fondazione ha deciso d’imboccare una terza strada: nel corso della scorsa settimana

ha ceduto sul mercato 2,4 milioni di azioni Montepaschi, pari allo 0,95% al prezzo

medio di poco superiore ai 10 euro, incassando 24,3 milioni; e ieri ha annunciato

l’intenzione di sottoscrivere l’aumento di capitale per la partecipazione dell’1,55% di

Mps ancora detenuta in portafoglio. L’esborso teorico è di 46,5 milioni, che al netto

dei 24,3 milioni incassati con le vendite degli ultimi giorni si riduce a 22,2 milioni,

appena il 5% della liquidità (circa 400 milioni) disponibile nelle casse della

Fondazione.

«Tutte le soluzioni comportavano dei rischi - spiega Clarich - a cominciare dal fatto

che non aderendo all’aumento avremmo perso l’opportunità di valorizzare la nostra

partecipazione in prospettiva, con il rilancio del gruppo in cui crediamo. Così come

sarebbe stato rischioso aspettare a vendere i diritti in questi giorni, con l’aumento

aperto e la prevedibile volatilità del mercato che stiamo osservando. Con la scelta fatta

e presa all’unanimità dalla deputazione amministratrice - aggiunge il presidente della

Fondazione - pensiamo di poter tutelare tutti gli interessi e le priorità, nel rispetto delle

regole oltrettutto, perché alla fine l’1,55% di Mps rappresenterà solo il 14% del nostro

attivo, ben al di sotto dei limiti della categoria».

L’operazione, decisa dalla deputazione amministratrice di Palazzo Sansedoni il 28

aprile e tenuta riservata fino a ieri, ha avuto l’ok del ministero dell’Economia il 18

maggio ed è si è concretizzata nei giorni successivi perché si è sciolto il patto di lock

up che legava il 2,5% della Fondazione al 4,5% di Fintech e al 2% di Btg Pactual.

Questo fatto ha permesso anche ai brasiliani di Btg Pactual di ridurre la loro quota

all’1,9% del capitale di Mps. <Ringrazio il Ministero per la rapidità con cui, date le

circostanze, ha valutato la nostra pratica>, dice Clarich. Sul futuro è prudente: «Con il

2,5% o con l’1,55% cambia poco - commenta - il presupposto della nostra scelta è che

crediamo nelle prospettive di rilancio del Monte e dunque vogliamo anche poter

continuare a incidere nella governance, nei limiti della nostra partecipazione. Ma di

questo, cioè del consolidamento e rafforzamento del patto di sindacato, parleremo ad

aumento di capitale concluso», dice il presidente della Fondazione Mps.

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Cesare Peruzzi

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FINANZA & MERCATI 26 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

Riassetti. Priorità a capitale e crediti dopo la nomina di Francesco Iorio a ceo della banca

Vicenza, la Vigilanza chiede una nuova agenda

Il capitale, i crediti, la governance. Venerdì il cda della Popolare di Vicenza ha deciso

la nomina di Francesco Iorio, che il primo giugno prenderà ufficialmente servizio

nella sede di Via Battaglione Framarin. Ma la road map del nuovo consigliere delegato

in arrivo da Ubi è già tracciata, in settimana sarà oggetto di nuovi incontri tra Via

Nazionale e Francoforte, e - soprattutto - potrebbe essere destinata a rimescolare

almeno in parte l’agenda che si era data la banca nei mesi scorsi. In questa direzione,

per lo meno, andrebbero le istanze della Vigilanza - Bankitalia ma anche Bce, sempre

più coinvolta sui singoli dossier - che ha espressamente richiesto segnali forti sui punti

ritenuti al momento più deboli della banca. Anche per questo, si apprende da fonti

vicine alle authority, sarebbe stata rifiutata la candidatura di Divo Gronchi: a

Francoforte non piacciono i banchieri 'di ritorno', e così - più che per questioni

anagrafiche - a Gronchi sarebbe stato preferito il profilo di un manager in

discontinuità con il passato, giovane sì ma al tempo stesso reduce da esperienze - per

di più in banche popolari - che l'hanno visto protagonista di veloci turn-around. Iorio,

classe 1968 e originario di Sora (città natale di un altro celebre banchiere, Carlo

Salvatori), nei suoi 13 anni di Ubi è stato particolarmente apprezzato in particolare per

il lavoro condotto sulla Popolare Commercio e Industria, al centro di un rapido ed

efficace risanamento sul fronte dei crediti, tanto da essere diventata uno dei

benchmark dentro alla superpopolare federale con sede a Bergamo. La Vigilanza pare

non aver dimenticato il lavoro condotto nella controllata Ubi, e di fatto avrebbe

chiesto a Iorio di muoversi con le stesse modalità a Vicenza: revisione severa del

portafoglio crediti senza però chiudere gli orecchi alle istanze del territorio,

fondamentali per una banca così radicata nella sua area di riferimento, sia tra le

famiglie che le imprese. In parallelo, il lavoro sulla prima linea del management e sul

capitale: quest'ultimo, come noto, è il primo punto all'attenzione di Francoforte per

tutte le sue 120 banche vigilate dirette, e per quanto riguarda Vicenza in Bce si ricorda

che attualmente il cda ha già ricevuto la delega dall'assemblea per un nuovo aumento

da un miliardo; si vedrà, al termine della revisione sui crediti, se si renderà necessario

esercitarla.

Un dato è certo: la road map affidata a Francesco Iorio, perfettamente condivisa non

solo con la Vigilanza ma naturalmente anche con il presidente Gianni Zonin e l’intero

consiglio, chiederà di agire in tempi rapidi. Perché solo facendo chiarezza su crediti e

capitale si potrà tornare a parlare di spa, aggregazioni e della Borsa: a differenza del

suo predecessore, Iorio ha ricevuto anche la delega alle operazioni straordinarie, ma

l'impressione è che nulla si muoverà finché non si creino le premesse per operazioni in

grado di generare valore. Perché Popolare Vicenza, come si è ribadito non solo nelle

ultime (numerose) riunioni del cda, ma anche a Roma e Francoforte, vuole continuare

a essere artefice del proprio destino. A costo di spostare in avanti di qualche mese la

trasformazione in Spa così come il capitolo M&A, su cui Mediobanca rimane advisor

fidato.

.@marcoferrando 77

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Marco Ferrando

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Pagina 1 di 1Il Sole 24 Ore

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MF

Numero 102, pag. 2 del 27/05/2015

BANCA D'ITALIA 2015

Patuelli: ci vogliono regole uguali

«L'analisi di Visco è stata trasparente e schietta soprattutto per quello che riguarda l'Unione bancaria con le

regole che si stanno realizzando». Lo ha affermato il presidente dell'Abi, Antonio Patuelli, commentando il

discorso del governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, in occasione dell'assemblea annuale. «Le banche

italiane hanno fatto grandi sforzi per favorire i prestiti, hanno fatto grandi accantonamenti. Ho molto

apprezzato quando Visco ha sottolineato che in Italia nel periodo della crisi le banche non

hanno ricevuto aiuti di Stato o pubblici», ha aggiunto. A Patuelli è piaciuto anche il

passaggio sulla bad bank e ha espresso «apprezzamento per lo sforzo del governo. Visco

è stato chiaro nel sottolineare che ci devono essere regole uguali in Europa per quanto

riguarda le perdite sui crediti. Queste devono essere caricate nell'anno di bilancio e ciò

porterà una parità competitiva che ancora non c'è».

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MF

Numero 102, pag. 6 del 27/05/2015

BANCA D'ITALIA 2015

Le sanzioni raggiungono 31,5 milioni e lievitano a 11 mila gli esposti all'arbitro bancario finanziario. Due terzi a favore dei clienti

In calo le ispezioni, ma le multe lievitano

di Anna Messia

Nonostante l'avvio della vigilanza unica europea, cui la Banca d'Italia ha partecipato in prima linea, gli

impegni di Via Nazionale per il controllo degli intermediari finanziari rimasti sotto la sua esclusiva tutela (quelli

«meno significativi») appaiono decisamente significativi. Si tratta di «56 gruppi bancari, 435 banche non

appartenenti a gruppi, 77 succursali di banche estere cui si aggiungono 456 intermediari non bancari affidati

alla nostra vigilanza prudenziale», ha sottolineato ieri il governatore Ignazio Visco. Nel 2014, come emerge

dalla relazione sulla gestione e sulle attività della Banca d'Italia, tra lettere di

richiamo e audizioni degli esponenti aziendali, sono stati 1.300 gli interventi

di vigilanza sulle banche italiane. Una lieve flessione rispetto al 2013

(1.369) «che è dovuta all'assorbimento di risorse determinato dal

comprehensive assessment (la valutazione necessaria all'avvio della

vigilanza unica, ndr)», hanno chiarito da Via Nazionale. Gli interventi hanno

riguardato soprattutto le strategie e i fondi propri, oltre che il rischio di

credito e i sistemi di governo e controllo. «Le banche, in relazione asset

quality review, condotta su quelle maggiori e a seguito di specifiche analisi

svolte su quelle minori, sono state sollecitate le une a valutare il recepimento nel bilancio 2014 delle perdite

stimate sulle esposizioni oggetto di verifica, le altre a rimuovere anomalie emerse nel processo di gestione,

controllo, valutazione e recupero crediti», scrivono da Via Nazionale. Le ispezioni sono state invece 186. Un

po' meno delle 235 dell'anno precedente. A causa, anche in questo caso, dell'impegno richiesto dall'asset

quality review. Ma le multe, invece, sono aumentate: nel 2014 sono stati conclusi 105 procedimenti

sanzionatori per un ammontare complessivo di 31,5 milioni (24,3 milioni nel 2013) affluiti al bilancio dello

Stato. E nel primo trimestre del 2015 ci sono stati altri 10 provvedimenti, con 1,7 milioni di euro di multe.

Lievitati anche gli esposti all'Arbitro bancario finanziario, il sistema di risoluzione stragiudiziale delle

controversie, coordinato da Banca d'Italia. Le segnalazioni sono state 11 mila, salite del 40% sul 2013, con

8.500 pronunce. Per due terzi favorevoli ai clienti. (riproduzione riservata)

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MF

Numero 102, pag. 12 del 27/05/2015

MERCATI

L'alleanza tra fondazione, btg pactual e fintech scende dal 9 al 5,48% del capitale

Il Monte prepara il nuovo pattoL'accordo parasociale potrebbe essere ridefinito dopo l'aumento e ai poteri senesi piace l'ipotesi di un ingresso di Falciai. Intanto Clarich pensa al post-Profumo: ho già un nome per la presidenza

di Luca Gualtieri

Alessandro Falciai? «Sto apprezzando molto il suo contributo alle strategie del Monte e spero che entri a far

parte del patto di sindacato». Così si è confidato ieri con MF-Milano Finanza il sindaco di Siena, Bruno

Valentini, a proposito di uno dei nuovi soci della banca che nei prossimi mesi potrebbe assumere un ruolo

ancor più rilevante nella governance. Il giudizio di Valentini, anche se espresso a titolo personale, arriva in un

momento di trasformazioni negli

assetti proprietari del gruppo. Alla

vigilia dell'aumento di capitale da 3

miliardi, arrivato oggi al terzo giorno di

offerta, i pattisti hanno infatti

alleggerito le proprie partecipazioni. Il

patto, che prima blindava il 9% del

capitale, oggi rappresenta solo il

5,48% come attesta un avviso

pubblicato in questi giorni. La Fondazione ha lasciato vincolato l'1,52% (0,027% fuori patto), Fintech il 2,74%

(1,75%) e Btg Pactual l'1,52% (0,59%). Il quadro però è in continua evoluzione perché, se è certo che

Fondazione e Fintech aderiranno all'aumento, sulle mosse di Btg Pactual nulla al momento è dato sapere.

Tanto più che dal prossimo primo luglio per il gruppo brasiliano verrà meno il secondo vincolo di lock up, che

gli lascerà mani libere per dismettere l'intera quota. Palazzo Sansedoni e gli enti nominanti seguono con

attenzione la vicenda perché è chiaro che, senza l'effetto leva di un patto, l'1,55% della Fondazione sarebbe

irrilevante nei futuri assetti di governo del Monte. Ecco perché già in questi giorni si starebbe ragionando su

un nuovo patto di sindacato che sia o

la ristrutturazione di quello attuale o

un'alleanza costruita ex novo.

Dell'incarico di studiare la situazione e

mettere sul tavolo alcune ipotesi

potrebbe essere investito il Nuovo

Credito Fondiario, l'advisor finanziario

che finora ha seguito la Fondazione

nell'ambito dell'aumento di capitale.

Una volta terminata la

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ricapitalizzazione, l'Ente dovrà capire se gli altri pattisti saranno disponibili per rinnovare l'alleanza oppure se,

in caso contrario, ci saranno altri azionisti alla finestra. Se Axa si è già chiamata fuori dalla partita per

questioni regolamentari, oggi a Siena gli occhi sono puntati su Alessandro Falciai, l'imprenditore ex Dmt che

dallo scorso anno custodisce con la sua Millennium Partecipazioni l'1,7% del Monte. L'exploit nel corso

dell'ultima assemblea di bilancio è stato dei più incoraggianti, visto che la sua lista ha ottenuto quattro posti in

consiglio di amministrazione, uno in più rispetto ai francesi di Axa. Ecco perché oggi i poteri senesi guardano

a Falciai come il possibile alleato di domani.

La ricostituzione del patto servirà anche per gestire una partita che si aprirà subito dopo l'aumento di capitale,

ovvero la nomina del nuovo presidente. Il potere di designazione di Palazzo Sansedoni è venuto meno e,

senza nuovi accordi parasociali, non è chiaro come sarà nominato il successore di Alessandro Profumo.

Anche se le incognite sul tavolo sono ancora molte, ieri il presidente della Fondazione Marcello Clarich ha

parlato da grande elettore: «Ho già in mente un nome per la presidenza, forse qui lo trovo», ha confidato il

professore della Luiss che pure è consapevole della complessità del momento. Per esempio non è ancora

chiaro se il Tesoro (che dal prossimo primo luglio sarà azionista di Mps al 4% per il meccanismo dei Monti

bond) vorrà esprimersi sulla nomina del presidente o se lascerà la palla a Siena su questa e altre questioni

strategiche.

Ieri intanto, nel secondo giorno di offerta, l'aumento è rimasto sulle montagne russe come lunedì. Le azioni

hanno perso il 16,8% a 1,78 euro con scambi pari al 22,3%, mentre i diritti hanno lasciato sul terreno il 9,28%

a 5,57 euro. (riproduzione riservata)

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MF

Numero 102, pag. 13 del 27/05/2015

MERCATI

L'associazione degli amici spera nel fondo interbancario di tutela dei depositi

Etruria, i soci chiamano il FondoGli azionisti sondano la disponibilità di diversi soggetti a partecipare a un aumento di capitale per salvare la banca aretina. Intanto spunta l'ipotesi di uscita per il dg Cabiati

di Claudia Cervini

L'associazione Amici di Banca Etruria, a tre mesi dal commissariamento dell'istituto aretino avvenuto per

gravi perdite patrimoniali, lancia una proposta per traghettare la banca fuori dalle secche. E a questo

proposito chiama in causa direttamente il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, che, secondo

l'associazione, dovrebbe essere adeguatamente ricapitalizzato per poter partecipare al salvataggio. Dal

canto suo l'associazione intende contribuire al finanziamento dell'aumento di capitale

che sarà necessario per rimettere in carreggiata la banca e per sostenere

l'operazione chiama a raccolta anche gli altri soci (oltre 60 mila complessivamente).

«Il nostro impegno sarà ora rivolto a prendere contatto con tutti i soggetti interessati

alle sorti di Banca Etruria e ci auguriamo che, appena possibile, siano individuati uno

o più partner, Fondo Interbancario compreso, disponibili a partecipare alla

ricapitalizzazione della banca, unitamente ai vecchi soci e a nuovi sottoscrittori e

investitori», dice a MF-Milano Finanza il presidente dell'associazione Vincenzo Lacroce. I soci ipotizzano un

modello di salvataggio simile a quello che si sta delineando per la Cassa di risparmio di Ferrara (il cui

commissariamento è stato recentemente prolungato di altri due mesi).

Di certo per una soluzione i soci non vogliono attendere il 2016, cioè quando entrerà in vigore la nuova

direttiva europea sulla tutela dei depositi e sulle nuove misure relative ai salvataggi bancari. A partire da

quella data è infatti previsto anche in Italia il meccanismo del bail-in per tali salvataggi. «In pratica viene

capovolto il meccanismo attuale di risoluzione delle crisi: in caso di default di una banca i primi a pagare

saranno gli azionisti, seguiti dai possessori di titoli di debito e dagli obbligazionisti e infine dai depositanti con

conti bancari superiori a 100 mila euro», sottolinea Lacroce. Un'eventualità che gli azionisti vogliono evitare.

Tra i soci c'è preoccupazione, visto che il titolo in borsa è sospeso e la sorte dell'istituto è ancora incerta.

L'associazione chiama in causa anche la politica. E chiede alle istituzioni di non dimenticare le numerose

banche popolari e casse di risparmio di medie dimensioni in difficoltà. «Se cresce l'interesse europeo per le

banche super-popolari, non vanno nemmeno dimenticate le tante banche locali di medie dimensioni ora in

gestione straordinaria e in difficoltà da ormai troppo tempo, che rappresentano ancora una risorsa per

l'economia dei loro territori di elezione», spiega l'associazione. I soci rappresentati dagli Amici di Banca

Etruria non hanno ancora incontrato i commissari.

Pagina 1 di 2Etruria, i soci chiamano il Fondo - MilanoFinanza.it

27/05/2015http://www.milanofinanza.it/giornali/stampa-articolo?id=1989691&access=AB

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Al di là dei desiderata dell'associazione rappresentante di alcuni azionisti, non va dimenticato che l'istituto

aretino verte in condizioni delicate. Dallo scorso febbraio è affidato alle cure dei commissari straordinari

straordinari Riccardo Sora e Antonio Pironti. Il cda presieduto da Lorenzo Rosi, come avviene in queste

occasioni, è stato sciolto. È rimasto invece in sella il direttore generale Daniele Cabiati, nominato ad agosto

2014. Cabiati (ex Banca Popolare di Cividale) era stato individuato come una sorta di traghettatore per

condurre la banca verso un'aggregazione, come indicato da Banca d'Italia. A matrimonio compiuto sarebbe

stato probabilmente proposto al dg di dirigere per la nuova realtà l'area del centro Italia (quella dell'ex Banca

Etruria). L'aggregazione bancaria però non è andata in porto e i commissari resteranno in carica forse più a

lungo del previsto. Dunque, considerate le circostanze, da più parti si ipotizza un prossimo passo indietro da

parte del dg, che ieri però era presente all'assemblea di Banca d'Italia nella consueta veste di dirigente.

(riproduzione riservata)

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MF

Numero 102, pag. 17 del 27/05/2015

MERCATI

Gli azionisti valutano oggi le nuove offerte delle due cordate rimaste in gara

Incontro decisivo per IcbpiChiesto un aggiornamento delle proposte. Cvc-Permira aveva offerto 2,05 mld di cui l'85% di equity. Bain, Advent e Clessidra offrivano 2,12 miliardi, ma con 1 mld di leva

di Stefania Peveraro

Sarà una giornata importante quella di oggi per il futuro dell'Istituto centrale Banche Popolari (Icbpi). Secondo

quanto risulta a MF-Milano Finanza, infatti, è in programma a Milano la riunione del patto di consultazione dei

soci del gruppo specializzato in servizi e sistemi di pagamento e di clearing, al quale fa capo CartaSì che,

con il supporto degli advisor Mediobanca ed Equita sim, dovrà esaminare le nuove offerte che saranno

recapitate dai potenziali investitori (tutti private equity).

Le banche socie (Creval, guidato dall'ad Miro Fiordi, è il primo azionista) decideranno dunque se cedere

l'istituto a Bain Capital-Advent-Clessidra sgr (affiancati dagli advisor Vitale & Co, Rothschild, Franco Bernabè,

Hsbc e Goldman Sachs) oppure a CVC Capital-Permira (supportati da Banca Imi e Kpmg sul fronte

finanziario; Alix Partners e Roland Berger per gli aspetti industriali), mentre sembra fuori dai giochi

l'accoppiata BC Partners-Cinven (affiancata da Unicredit e Lazard), perché interessata solo a Carta Sì.

Venerdì scorso, solo per un momento, CVC e Permira erano a un passo dalla

vittoria. Secondo quanto risulta a MF-Milano Finanza, i due fondi hanno valutato

Icbpi 2,05 miliardi di euro, che sono pronti a finanziare per ben l'85% con equity e

per il resto con ricorso alla leva finanziaria. Una soluzione, questa, che

inizialmente è piaciuta alle banche, perché ovviamente andrebbe a pesare meno

sulla struttura finanziaria dell'istituto. Le banche, però, hanno successivamente

fatto dietrofront, perché il prezzo offerto dalla cordata Bain-Advent-Permira era

invece di 2,12 miliardi, e quindi un po' più alto, anche se in questo caso

l'operazione sarebbe finanziata solo per la metà con equity e per il resto a debito.

Un indebitamento finanziario, quindi, che post-operazione risulterebbe elevato, a

fronte di un risultato operativo di 167,6 milioni a fine 2014. Ora gli advisor hanno chiesto a CVC-Permira di

aumentare il prezzo e a Bain-Advent-Clessidra di aumentare la quota di equity. (riproduzione riservata)

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Pagina 1 di 1Incontro decisivo per Icbpi - MilanoFinanza.it

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MF

Numero 102, pag. 20 del 27/05/2015

COMMENTI & ANALISI

Se fallisce uno Stato paga la Bce, se va in crisi una banca ci pensano i suoi clienti

di Roberto Sommella

L'Europa di oggi è sempre più un treno che all'incontrario va. Se uno Stato ha difficoltà col suo debito, sarà la

sua banca centrale a provare a salvarlo con le sue garanzie; se invece va in crisi una banca, ci penseranno

gli stessi clienti. Non è uno scherzo, ma è quanto, con il garbo che lo contraddistingue, ha messo nero su

bianco anche il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, nelle sue Considerazioni Finali. Si tratta di

evenienze per fortuna remote ma che dimostrano come le regole post-crisi messe in piedi da Bruxelles e

dall'Unione a guida tedesca, abbiano pensato più alla solidità dei bilanci che alla solidarietà alle persone. Sul

primo punto, ovvero gli effetti del Quantitative easing della Bce, il cui impatto da oltre 1.000 miliardi di euro

cercherà di risollevare lo stato delle casse pubbliche in mezza Europa immettendo liquidità nel sistema, il

governatore in poche righe ha ammesso quanto era risultato evidente già al momento del varo del Qe a

Francoforte. «Sono stati lasciati in capo alle singole banche centrali nazionali i rischi connessi con i titoli di

Stato da esse acquistati. Questa decisione», si legge nelle Considerazioni, «tiene conto della

preoccupazione di alcuni membri del Consiglio (della Bce, ndr) che il programma potesse tradursi in

trasferimenti di risorse tra Paesi. Una piena condivisione dei rischi sarebbe stata più consona all'assetto della

politica monetaria unica e coerente con il Trattato. Ma l'efficacia della misura non è stata inficiata». Non si sa

come non essere d'accordo se è vero che in fondo, a conti fatti, solo l'8% dei rischi connessi agli acquisti di

bond governativi resteranno in capo all'Eurotower. Insomma, l'Europa aiuta chi è in difficoltà ma con

grandissima prudenza e sfiducia nell'Unione stessa. Ci sarebbe da mandarla da uno psicanalista per un

evidente sdoppiamento della personalità.

E un altro passaggio, che non fa altro che ricordare a tutti uno dei principali effetti dell'unione bancaria,

colpisce per quello che rappresenta nel rapporto tra istituzioni e amministrati. È quello in cui Visco ricorda

come dal primo gennaio del 2016, dunque tra un pugno di mesi, i salvataggi degli istituti di credito che

andranno in crisi di liquidità, saranno a carico dei clienti stessi della banca. In termini tecnici basta mettere

dopo la parola «bail», salvataggio, il termine in al posto di out, e le responsabilità sono d'incanto capovolte: al

posto degli Stati, saranno gli stessi azionisti, poi gli obbligazionisti e, in finale, anche i correntisti (sopra un

tetto di 100 mila euro di depositi) a garantire con i loro soldi ogni default bancario. Si dirà: sono tutte cose

note. Certamente, ma non a 300 milioni di europei e 60 milioni di italiani, formichine risparmiose per

tradizione. Queste persone, un'intera comunità, non avendo come prima lettura gli atti di Parlamento e

Commissione, probabilmente farebbero un salto sulla sedia se scoprissero di essere ancora più sole nelle

difficoltà quando invece una vera federazione imporrebbe maggiore condivisione di rischi, debiti e obiettivi di

politica economica. Sono anche questi particolari non secondari che giustificano movimenti anti-Ue in ogni

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angolo d'Europa: se l'Unione è solo sacrifici e addirittura diventa un rischio, che senso ha starci ancora

dentro? Non c'è un Paese oggi che non nutra in movimenti e partiti con più o meno seguito un interrogativo

del genere. A cui va data una risposta. (riproduzione riservata)

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PRIMO PIANO 27 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

Dalle fusioni «benefici cospicui»

Spinta alle aggregazioni tra banche medie - La riforma della Bcc è

«improcrastinabile»

Roma

Il Governatore di Banca d’Italia Ignazio Visco dice «sì» alle fusioni bancarie, e in

particolare nel segmento delle popolari. Ma nello stesso tempo il numero uno della

Vigilanza mette in luce come un’altra attesa riforma, quelle delle Bcc (in verità

un’autoriforma) non possa più essere «procrastinata».

Ignazio Visco lo dice a chiare lettere, davanti alla platea di banchieri che lo ascoltano

in occasione dell’Assemblea di Banca d’Italia a Roma. Le fusioni nel settore servono.

Perchè i «benefici potenziali» sono «cospicui» soprattutto in una fase, come quella

attuale, in cui il mercato chiede più efficienza. Attenzione però a ritenere che qualsiasi

operazione vada bene. Perchè i risultati positivi non sono «scontati». Il Governatore sa

bene che in questo momento «tutti parlano tutti», come amano ripetere da settimane

gli amministratori delegati dei principali istituti italiani. «Non pochi intermediari,

soprattutto di medie dimensioni - dice Visco - stanno valutando operazioni di

concentrazione, anche in risposta alle recenti innovazioni normative». Il pensiero va

ovviamente alla riforma delle banche popolari approvata nei mesi scorsi, che impone

ai 10 maggiori istituti popolari di abbandonare il principio del voto capitario e

approdare al modello di società per azione. In questo senso le attese sono per la

pubblicazione dei regolamenti di Bankitalia a metà di giugno, data dalla quale

scatteranno i 18 mesi per la trasformazione.

La novità che nelle ultime settimane ha spinto i vertici degli istituti ad avviare fitti

dialoghi in vista di possibili aggregazioni. Tuttavia, dopo un’iniziale frenesia, oggi il

clima sembra essersi raffreddato, e la sensazione diffusa tra gli operatori è che l’avvio

del processo sia stato procrastinato all’anno prossimo. In questo quadro, le

aggregazioni servono, e sono urgenti, ma nello stesso tempo vanno fatte bene. Non è

un caso, del resto, che Visco sottolinei come i processi aggregativi richiedano

«interventi decisi sul piano organizzativo» ma anche «nella razionalizzazione dei

sistemi distributivi», o nella «gestione dei rischi», così come nel «ricorso alla

tecnologia».

Accanto al focus sulle popolari, l’altro tema bancario messo in evidenza dal numero

uno di Banca d’Italia è quello delle banche di credito cooperativo. Il settore è

nevralgico per l’economia italiana, vista la presenza capillare in Italia (oltre 4.400

sportelli, il quarto “gruppo” italiano in pratica). Tuttavia il comparto da tempo è alle

prese con il tentativo di un’autoriforma che dovrebbe vedere la luce entro l’estate. «Il

cambiamento - segnala Visco - non può essere più procrastinato». Visco mette nel

mirino «la scarsa diversificazione dei rischi e la difficoltà di irrobustire il patrimonio»

degli istituti cooperativi, che stanno determinando, in «non pochi casi, situazioni di

crisi». Affinchè le banche di credito cooperativo possano «continuare a sostenere

territori e comunità locali» preservando lo «spirito mutualistico», vanno perseguite

«forme di integrazione basate sull’appartenenza a gruppi bancari». In una nota diffusa

nel pomeriggio, Federcasse «apprezza la rilevanza riconosciuta alla formula

mutualistica» dal Governatore di Bankitalia e al fatto che le Considerazioni di Visco

«hanno riservato anche un passaggio puntuale al processo di autoriforma del Credito

Cooperativo, in fase di realizzazione».

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Luca Davi

Pagina 1 di 1Il Sole 24 Ore

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PRIMO PIANO 27 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

L’ANALISI

Dopo le Popolari concentrarsi sui problemi

delle banche cooperative

La re lazione di ieri del Governatore è la prima, dall’inizio della crisi, a segnalare il ritorno alla crescita. È presto per dire che siamo fuori dal tunnel, ma è proprio questo il momento per concentrare gli sforzi e per rimediare agli squilibri del passato. Questo vale anche per le banche italiane e infatti la parte delle Considerazioni finali in materia si snoda lungo tre direttrici principali: quello che è stato fatto; quello che rimane da fare; le nuove strategie per il futuro.Sul primo versante, il dato dominante è l’avvio dell’assetto europeo del quadro regolamentare, finalmente coerente con l’unione monetaria. Ma, molte iniziative del secondo livello sono ancora in fieri. Innanzitutto, la bad bank, necessaria per smaltire in modo efficiente e trasparente l’eredità di ben 200 miliardi di crediti deteriorati. Il progetto deve essere vagliato anche dalle autorità europee cui probabilmente si rivolgeva Visco quando nelle battute finali ha detto che bisogna capire «le ragioni che differenziano politiche volte ad attivare i meccanismi di mercato da aiuti di Stato distorsivi della concorrenza». Non meno importanti sono altre iniziative, fra cui quelle destinate a risolvere i problemi delle banche minori, come quelle di credito cooperativo, caratterizzate da molti focolai di crisi ma anche da molte realtà virtuose, che coniugano l’efficienza con il mantenimento dello spirito cooperativo e il forte radicamento nella realtà locale. La riforma è ormai (dice Visco) improcrastinabile, ma è chiaro che deve essere realizzata in modo da non disperdere – annacquandolo nel calderone dei problemi della categoria – i non pochi punti di merito degli operatori capaci di svolgere il ruolo di community banks che in altri paesi sono considerate un punto di forza del sistema bancario.Il terzo livello riguarda le strategie per il futuro ed è ovviamente quello più impegnativo. Per le banche si pone innanzitutto il problema della redditività: anche il 2014 segna rosso per oltre 9 miliardi. Vi è quindi molto da recuperare, ma in uno scenario di tassi di interesse, che limitano fortemente la redditività di base, si impongono sia interventi radicali sui costi, sia capacità di allargare la gamma dei servizi. In questa prospettiva, nuove aggregazioni possono portare economie di scala, ma anche un salto di qualità nei prodotti offerti a imprese e famiglie. Ma anche qui i vincoli di sistema pesano come macigni. L’Italia, nonostante una diffusione dei terminali Pos fra le più alte d’Europa, si trova penultima per numero di pagamenti che passano attraverso strumenti bancari. Un prezzo pagato, anche dalle banche, all’allegra diffusione dell’evasione fiscale.Guardare oltre la crisi significa anche chiedersi come dovrà essere il modello di finanziamento delle imprese italiane. E qui il Governatore ha lanciato il messaggio più importante. È necessario correggere la natura bancocentrica del sistema bancario italiano e avviare le imprese verso il mercato dei capitali. Perché la capacità di offerta di nuovo credito da parte del sistema bancario tradizionale non potrà raggiungere i livelli del passato. E perché solo i mercati garantiscono strutture finanziarie flessibili: le imprese americane sono state le prime a superare la crisi, anche perché hanno un passivo composto per il 40 per cento da obbligazioni, contro solo il 10 delle europee. Bruxelles ha lanciato un importante programma per l’Unione del mercato dei capitali, ma non possiamo aspettare da lì la soluzione. Vi sono infatti problemi strutturali tipicamente nazionali che devono essere risolti, a cominciare dalla limitata diffusione dei processi innovativi e dalla ridotta dimensione media delle imprese a cui il Governatore ha dedicato la parte iniziale del suo discorso, quasi a sottolinearne la natura prioritaria. La grande sfida che si apre per le nostre banche è quindi di assecondare e guidare i processi di ristrutturazione delle imprese, fornendo loro i servizi finanziari necessari e orientandole al mercato. Solo a quel punto la crisi sarà definitivamente superata.

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PRIMO PIANO 27 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

L’IMPATTO Tezzon, segretario generale dell’organismo di contabilità: «Non abbiamo dati precisi, ma la riforma produrrà aggravi sui bilanci bancari»

Regole. Allarme dell’Oic: i nuovi principi contabili Ifrs in vigore dal 2018 costringeranno gli istituti ad accantonamenti maggiori per i crediti «in bonis» erogati ad aziende che iniziano ad avere problemi finanziari

Sulle banche arriva una nuova «stretta»

I tempi sono lunghi, dato che non cambierà nulla fino al primo gennaio 2018. Ma sulle banche sta per cadere una nuova “tegola” normativa: un cambio nei principi contabili che potrebbe portare - secondo le previsioni dell’Organismo italiano di contabilità (Oic) - a maggiori accantonamenti sui crediti in tutto il mondo. Italia inclusa. Nel luglio del 2014 è stato infatti stabilito a livello internazionale che il principio contabile Ias 39 sarà sostituito, a partire dal 2018, dal nuovo Ifrs 9: questa rivoluzione imporrà alle banche più accantonamenti per i crediti in bonis erogati ad aziende che iniziano ad avere problemi finanziari. «Non abbiamo dati per capire l’impatto sui bilanci delle banche italiane di questo cambio di principi contabili, ma è probabile che ci sarà un aggravio in termini di accantonamenti», spiega il segretario generale dell’Oic Massimo Tezzon. Dunque, ci saranno più perdite in bilancio. Insomma: il tunnel, per le banche e per le imprese che dagli istituti creditizi dipendono, potrebbe essere allungato.Questa ennesima modifica regolamentare è nata dalla lezione impartita della crisi finanziaria del 2007-2008. In quegli anni si è capito che i principi contabili Ias avevano una “falla”: permettevano alle banche di rilevare le perdite sui crediti troppo in ritardo, cioè solo quando si materializzavano. Il principio contabile Ias ha infatti un metodo di calcolo delle perdite sui crediti di tipo «incurred»: le banche sono cioè obbligate a effettuare accantonamenti quando il credito ha già prodotto un problema. Non prima, in un’ottica predittiva. Questo ha contribuito, negli anni più bui della crisi, ad esasperare il tracollo degli istituti di credito, perché i buchi di bilancio sono esplosi per tutti improvvisamente. Per questo motivo in più occasioni il G20 ha chiesto di studiare un modello contabile che permettesse di prevedere con maggiore anticipo le perdite future sui crediti, quando questi sono ancora in bonis. Cioè buoni, performanti.È nato così il nuovo principio Ifrs 9, elaborato nel luglio 2014 dallo Iasb (organismo internazionale di contabilità). In base a questo nuovo meccanismo, le banche non distigueranno più solo tra crediti in bonis (quelli ancora buoni) e quelli non performing (i deteriorati), come fanno oggi. Dal 2018 dovranno inserire nei bilanci anche una terza categoria di crediti: quelli in bonis, ma erogati ad aziende o persone che si trovano in una fase di stress finanziario. Insomma: le banche dovranno evidenziare tutti quei crediti che pur restando performing (dunque perfettamente rimborsati fino ad oggi), hanno subito un deterioramento: per questi crediti, che potremmo definire «buoni a metà», le banche dovranno effettuare opportuni accantonamenti.E qui arriva la seconda grande novità: le perdite su questi crediti «buoni a metà» (come già accade su quelli deteriorati) andranno calcolate facendo stime future, basate su vari parametri tra i quali l’andamento prevedibile del Pil, relative all’intera vita del credito. La rivoluzione sarà dunque sostanziale per i bilanci delle banche. Già oggi gli istituti effettuano piccoli accantonamenti sui crediti in bonis, ma lo fanno in base a calcoli statistici su interi portafogli e stimando solo le possibili perdite nell’arco di 12 mesi. Dunque l’impatto sui bilanci dei crediti in bonis è oggi minimo. In futuro, invece, gli accantonamenti andranno fatti sui singoli crediti «buoni a metà» e stimando le probabilità di perdita sulla loro intera vita.Questo produce due problematiche. «Innanzitutto - osserva Tezzon - non sarà facile stimare le performance future di questi crediti, dato che le previsioni andranno fatte su un arco molto lungo di anni». Inoltre, «è verosimile che gli accantonamenti su questi crediti saranno maggiori». Quindi è ipotizzabile che le banche realizzino nuove perdite nei bilanci. Non resta che attendere stime precise. Oppure un eventuale rinvio della rivoluzione contabile: in un recente convegno organizzato dall’Oic su questo tema, è infatti emerso che questo principio potrebbe slittare se non venisse applicato sin da

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subito anche dalle banche [email protected]© RIPRODUZIONE RISERVATAMorya Longo

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PRIMO PIANO 27 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

I RISCHI PER IL

RISPARMIO Il Governatore: «Va valutata l’opportunità di riservare l’acquisto degli strumenti bancari più rischiosi a investitori professionali»

Regole. Dal 2016 le nuove procedure sul fallimento pilotato degli istituti, ma l’Italia è ancora indietro sul recepimento della direttiva - L’Eba pubblica le linee guida per gestire le crisi

Conto alla rovescia per il «bail-in»

RomaLa rivoluzione si avvicina. E riguarderà tutti: banche, risparmiatori, autorità di Vigilanza. Nelle sue ultime considerazioni finali pre «bail-in», il governatore non ci gira intorno: la nuova procedura di gestione delle crisi bancarie in vigore dal primo gennaio 2016 cambierà rischi, costi e benefici, quindi non deve trovare nessuno impreparato.«Gli investitori devono essere consapevoli dei rischi sottostanti il nuovo sistema di gestione delle crisi – ha messo in guarda il Governatore -. La clientela, specie quella meno in grado di selezionare correttamente i rischi, andrà adeguatamente informata del fatto che, nel caso detenga strumenti diversi da depositi e titoli garantiti, potrebbe dover contribuire alla risoluzione di una banca». Di qui la proposta di Visco: «Nel nuovo contesto va valutata l’opportunità di iniziative volte a riservare l’acquisto degli strumenti più rischiosi a investitori professionali».Sta di fatto che il tempo corre. Non a caso, le prime conseguenze pratiche del nuovo sistema di gestione delle crisi si sono viste nelle trimestrali approvate dalle banche italiane: alcuni istituti (si veda l’illustrazione a lato) si sono portati avanti e hanno messo da parte 197 milioni per i due fondi previsti dalla nuova architettura salva-banche. Ma è solo una piccola fetta di quanto verrà chiesto dal prossimo anno agli istituti italiani, grandi e piccoli, per finanziare i nuovi fondi: un miliardo, da versare ogni anno dal 2016 al 2024, secondo le stime degli addetti ai lavori. Altra conseguenza, le linee guida per la gestione delle risoluzioni pubblicate ieri dall’Eba, che anticipa chi farà che cosa (e quando) ogni qualvolta un istituto si troverà sull’orlo del default.Intanto, il governatore ha rivolto un chiaro invito al Parlamento, visto che sia la direttiva che istituisce lo schema unico di garanzia dei depositi, (la Dgsd) sia quella che istituisce il meccanismo unico di risoluzione delle crisi bancarie (la Brrd) devono ancora essere recepite nell’ordinamento italiano: passate al Senato, si aspetta il voto alla Camera. «È urgente provvedere: non solo per evitare di essere messi in mora dalle istituzioni europee, ma anche perché il recepimento è necessario per garantire la certezza del diritto e consentire alle autorità di esercitare i nuovi compiti con gli strumenti che il legislatore europeo ha loro attribuito».Chiarezza va fatta, auspica il governatore, anche per riuscire a risolvere in tempo utile (cioè entro fine anno) alcuni dei dossier più spinosi del settore, da Carife a Banca Marche, il cui commissariamento scade proprio a fine ottobre: «Auspichiamo una rapida approvazione della delega all’esame delle Camere in modo da consentire al Governo l’emanazione dei decreti delegati necessari per adeguare il quadro normativo italiano a questo ulteriore passaggio dell’Unione bancaria», ha detto ieri Visco. Il Mef, a quanto risulta, ha già fatto il suo e le bozze delle nuove norme sono pronte, ma finché non si esprimerà definitivamente il Parlamento si rimarrà nell’incertezza. E con il pericolo che sia proprio una banca italiana a fare da cavia al nuovo bail-in.© RIPRODUZIONE RISERVATAMa.Fe.

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MF

Numero 103, pag. 12 del 28/05/2015

MERCATI

Dopo l'esame del quadro normativo il tema approder&agrave; sul tavolo del cda

Pop Emilia decide sull'advisorLa scelta dipenderà dalle ipotesi strategiche sul tappeto Avanti con il patto. Intanto restano in stand-by le norme di Banca d'Italia. Grandi soci in manovra anche in Ubi

di Luca Gualtieri

«Di questi tempi anche la nomina di un consulente diventa una notizia rilevante per le banche popolari»,

ironizzava qualche giorno fa un professionista della categoria confidandosi con MF-Milano Finanza. Di certo il

mercato sta prestando grande attenzione al processo di trasformazione delle popolari in spa e ogni segnale

di accelerazione o di rallentamento nell'iter diventa dunque una notizia. La Banca Popolare dell'Emilia

Romagna ha sempre fatto della prudenza la propria cifra distintiva e oggi si sta

muovendo con estrema cautela nell'ambito del processo in corso. Terminata la fase di

analisi del nuovo quadro normativo, nelle prossime settimane l'istituto guidato da

Alessandro Vandelli e presieduto da Ettore Caselli dovrebbe tirare le somme del

lavoro svolto finora e definire le priorità. Nell'ambito di questa disamina il consiglio di

amministrazione stabilirà se nominare subito l'advisor (ed eventualmente anche più

d'uno) per assistere l'istituto nel processo di trasformazione in spa e nell'eventuale

aggregazione. La decisione non è scontata, perché, come per le altre banche popolari

interessate dalla legge Renzi-Padoan, a Modena la situazione è fluida e si evolve di settimana in settimana.

Tutto insomma dipenderà dalle opportunità concrete sul tappeto e dalla tempistica che gli amministratori

decideranno di darsi. Solo qualche settimana fa, per esempio, il presidente Caselli ha annunciato la volontà

di effettuare contemporaneamente la trasformazione in spa e l'aggregazione nel corso 2016, ma la tabella di

marcia potrebbe anche variare in corsa.

Nel frattempo prosegue il lavoro per la costituzione di un patto di sindacato che stabilizzi la governance

dell'istituto. L'intenzione dichiarata da Vandelli è individuare una compagine di azionisti di lungo periodo, che

andrebbe dalle fondazioni ai fondi di investimento, senza

dimenticare l'apporto dei grandi imprenditori da sempre vicini

a Bper. In termini percentuali questo gruppo di soggetti

potrebbe detenere il 20% del capitale, anche se la soglia

dipenderà ovviamente dalla risposta della compagine sociale.

Su questo fronte però le notizie potrebbero non essere

immediate, anche perché il quadro normativo non è ancora

definito. L'emanazione del regolamento attuativo della Banca

d'Italia era attesa per inizio maggio, ma il prolungamento

della consultazione ha determinato qualche settimana di ritardo rispetto alla tabella di marcia. Sembra che il

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punto più spinoso sia rappresentato dai limiti al diritto di recesso per i soci, tema su cui sarebbero in corso gli

approfondimenti della Vigilanza.

Di certo i soci di Bper non sono gli unici in manovra in queste settimane. Tra gli azionisti forti di Ubi Banca,

per esempio, si sta registrando un'intensificazione dei contatti, soprattutto sulla sponda bresciana. Voci di

acquisti pesanti di azioni da parte delle grande famiglie della città lombarda si rincorrono con insistenza,

anche se finora non hanno trovato conferme ufficiali. (riproduzione riservata)

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MF

Numero 103, pag. 13 del 28/05/2015

MERCATI

Organi in scadenza in autunno, a partire dalla presidenza. il nodo autoriforma

Cariverona apre la partita nomineIeri si è riunito il cda della Fondazione. Gli amministratori attendono le disposizioni del Tesoro per avviarel'iter del rinnovo. Tutto fermo sull'ipotesi di un polo veneto costruito attorno al Banco

di Luca Gualtieri

Anche se il mercato la evoca spesso come protagonista dell'imminente risiko bancario, in queste settimane la

Fondazione Cariverona ha altre preoccupazioni. Ieri il board si è riunito per l'incontro mensile e ha fatto il

punto della situazione in un momento in cui il protocollo Acri-Tesoro impone profonde trasformazioni all'ente

presieduto da Paolo Biasi. La partita per la modifica dello statuto si intreccia infatti con quella, assai più

delicata, del rinnovo degli organi amministrativi, previsto per l'autunno. L'iter

dovrebbe essere avviato già nelle prossime settimane, anche se il quadro

normativo resta incerto. Il protocollo Acri prevede infatti due mandati per

presidenti e consiglieri delle fondazioni per favorire un ricambio costante tra gli

amministratori. Questa scelta però costringerebbe oltre la metà del consiglio di

indirizzo e quasi l'intero consiglio di amministrazione di Cariverona (presidente

compreso) a uscire definitivamente di scena. Il confronto in corso con il Tesoro

dovrebbe fare piena luce su questo aspetto e permettere così agli attuali vertici

della fondazione di definire con maggiore chiarezza la tabella di marcia. In

questa situazione non stupisce che gli amministratori abbiano scelto di muoversi

con i piedi di piombo nella definizione delle nuove strategie della fondazione. «Si

chiacchiera molto ma di concreto c'è ancora pochissimo», taglia corto un consigliere, lasciando intendere che

organi in scadenza e non rinnovabili difficilmente si avventureranno in spericolate iniziative finanziarie. Anche

su questo punto, del resto, il quadro normativo va ancora meglio definito. Il protocollo prevede infatti che il

patrimonio di ciascuna fondazione non possa essere concentrato, direttamente o indirettamente, in un

singolo asset per un ammontare complessivamente superiore a un terzo del totale dell'attivo. Resta però da

chiarire se la diversificazione che ha in mente il Tesoro riguarda soltanto le banche conferitarie oppure l'intero

settore del credito. Se passasse questa seconda linea, le fondazioni dovrebbero puntare su altri comparti e

non potranno giocare un ruolo da protagonisti nell'imminente risiko delle popolari. Nella bozza approvata ad

aprile Cariverona si sarebbe volontariamente tenuta nel vago su questo punto, anche se da Roma dovrà

arrivare un chiarimento definitivo.

Di certo molte anime della Fondazione (a partire, si mormora, dal presidente Biasi) vedrebbero di buon

occhio una partecipazione al risiko delle banche popolari. Si sa per esempio che gli attuali vertici vedrebbero

di buon occhio un irrobustimento della partecipazione nel Banco Popolare (oggi ferma allo 0,02% in base al

bilancio 2013) come primo passo verso la creazione di un polo bancario veneto allargato anche alla Popolare

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di Vicenza e forse anche a Veneto Banca. Qualcuno si spinge ad aggiungere Banca Marche a questo già

improbabile elenco, ma di certo l'incertezza normativa ha messo in stand-by ogni iniziativa di questo genere.

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MF

Numero 103, pag. 13 del 28/05/2015

MERCATI

Icbpi, esclusiva a Bain-Advent-Clessidra

di Stefania Peveraro

L'Istituto Centrale Banche Popolari (Icbpi) pare destinato a entrare nel portafoglio dei fondi Bain Capital,

Advent International e Clessidra sgr. Ieri le banche azioniste del gruppo, al quale fa capo CartaSi, con il

supporto degli advisor Mediobanca ed Equita sim, hanno visionato le offerte aggiornate delle due cordate in

corsa (l'altra era formata dai fondi CVC Capital Partners e Permira) e hanno deciso di concedere l'esclusiva a

trattare al consorzio a tre. La notizia rappresenta un'inversione a 180 gradi rispetto a quanto comunicato

venerdì scorso all'accoppiata CVC-Permira, che aveva ricevuto l'assicurazione verbale di aver ottenuto

l'esclusiva. Poco dopo però, c'era stato un dietrofront. Come anticipato ieri da MF-Milano Finanza, infatti, le

banche avevano chiesto a CVC-Permira di elevare la valutazione di Icbpi da 2,05 a 2,12 miliardi di euro, al

pari di quella messa sul piatto dal terzetto Bain-Advent-Clessidra, mentre avevano sollecitato quest'ultima

cordata a ridurre la leva con la quale avrebbe voluto finanziare l'acquisto della banca (in prima battuta

proposta al 50% contro il 15% di CVC-Permira), per non appesantire la struttura finanziaria post-operazione,

visto che la banca ha chiuso il 2014 con un risultato operativo di 167,6 milioni. Secondo quanto risulta a MF-

Milano Finanza, il terzetto si è portato a casa la vittoria avanzando, in alternativa alla proposta di venerdì

(arrotondata al rialzo a 2,15 miliardi), un'offerta da 2 miliardi che prevede equity per 1,7 miliardi più l'acquisto

delle minorities del gruppo Icbpi compreso circa il 6% di Cartasi per 75 milioni. Per contro, CVC-Permira ha

offerto per le minorities 50 milioni e per il gruppo sempre i 2,05 miliardi e leva invariata al 15%.

Advent International e Bain Capital già controllano nel settore la danese Nets, il principale gestore di

pagamenti della Scandinavia, insieme con il fondo pensione danese Atp. L'acquisizione è stata conclusa lo

scorso luglio per un equivalente di 2,4 miliardi di euro, debito compreso e ha comportato per i fondi

l'acquisizione delle quote della società in mano a ben 186 banche nordiche. Sempre Advent e Bain Capital

nel novembre 2013 avevano acquisito anche l'ultimo 20% di Rbs WorldPay da Rbs salendo al totale controllo

dopo essere entrati nel capitale a fine 2010 valutando la società 2,025 miliardi di sterline. (riproduzione

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MF

Numero 103, pag. 14 del 28/05/2015

MERCATI

A settembre via alla riorganizzazione dei processi operativi sul mercato tricolore

L'Agricole va al riassetto in ItaliaLe attività confluiranno in un consorzio al servizio di Cariparma, di Friuladria e di Carispezia, le tre banchecontrollate

di Claudia Cervini

Anche il gruppo Cariparma Crédit Agricole si muove nella direzione dell'efficienza operativa, tema in

evidenza nei piani industriali delle principali banche europee. È ormai pronto l'ampio progetto di

riorganizzazione delle attività italiane (ieri l'ultimo incontro con le parti sociali) del gruppo francese guidato in

Italia dall'amministratore delegato Giampiero Maioli. Il piano prevede la creazione di una società consortile in

cui far confluire le attività riguardanti i processi operativi, i

sistemi informativi, l'area tecnico-logistica, la sicurezza, gli

acquisti, la gestione degli immobili, l'amministrazione del

personale e il comparto della continuità del business. Il

consorzio, che impiegherà circa 700 addetti perlopiù in forza

in Cariparma e Friuladria e che presto verranno ricollocati

all'interno della newco, sarà pienamente operativo a partire

da settembre e servirà per cominciare le banche del gruppo

(Cariparma, Friuladria e Carispezia). In un secondo momento il servizio potrebbe essere esteso anche alle

altre controllate Calit (dedicata al leasing) e Agos (credito al consumo). Va specificato che al consorzio

saranno cedute le attività e i lavoratori da parte di Cariparma e Friuladria, mentre Carispezia e Calit

forniranno soltanto un apporto finanziario.

L'operazione ha visto anche qualche importante elemento di novità. È stata per esempio creata la divisione

Back office mutui, uno strumento in più per intercettare la ripresa della domanda legata alla casa che si sta

registrando in questi mesi.

Come accennato, lo scopo è aumentare l'industrializzazione dei processi operativi. Quello applicato ai

lavoratori che si sposteranno nel consorzio continuerà a essere un contratto Abi e la cessione degli addetti

conferiti sarà senza soluzione di continuità. Non dovrebbe verificarsi alcun procedimento di mobilità.

Il progetto è già stato approvato dai consigli di amministrazione degli istituti di credito e sono già state inviate

le necessarie comunicazioni a Banca d'Italia. Resta da capire quale sarà l'ultima parola dei sindacati, con i

quali è stato discusso l'intero progetto nella giornata di ieri.

La ricerca di una maggiore efficienza operativa è un tema attualmente diffuso tra le banche francesi (e non

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solo). Bnp Paribas ha di recente portato a termine un'operazione simile creando la società consortile

autonoma Business Partner Italia, controllata al 90% da Bnl, in cui sono confluite le attività che presentavano

duplicazioni tra le controllate italiane di Bnp (dall'operation all'immobiliare, dagli acquisti alle risorse umane).

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MF

Numero 103, pag. 14 del 28/05/2015

MERCATI

In tribunale Banca Carige non risponde ai piccoli soci

di Claudia Cervini

Piccoli soci in manovra. Nel processo promosso da Consob davanti al Tribunale di Genova (sezione imprese)

per chiedere la nullità del bilancio di Banca Carige 2013 lo studio Rocca in data 19 maggio si è costituito per

conto di una schiera di piccoli risparmiatori. Banca Carige, fa sapere l'avvocato Riccardo Rocca, si è opposta

in linea di principio riservandosi di argomentare la propria posizione entro l'1 giugno. La decisione

sull'ammissione è stata pertanto rinviata all'udienza dell'8 giugno.

Intanto ieri è stata perfezionata l'operazione tra Malacalza Investimenti e l'azionista francese della banca

ligure Bpce per il trasferimento di 4.846.028 azioni ordinarie dell'istituto al prezzo di 32,6 milioni (pari ad 6,74

euro per azione). A seguito dell'operazione Malacalza Investimenti detiene una partecipazione di14,93%.

Malacalza Investimenti è stata assistita da Unicredit in qualità di financial advisor e dallo Studio Carbone e

D'Angelo in qualità di legal advisor. (riproduzione riservata)

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Pagina 1 di 1In tribunale Banca Carige non risponde ai piccoli soci - MilanoFinanza.it

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MF

Numero 103, pag. 20 del 28/05/2015

COMMENTI & ANALISI

Dall'anno prossimo si avrà a che fare con il cosiddetto bail-in. Svolta storica. Però...

di Angelo De Mattia

Il caso ha voluto che nella giornata in cui il governatore Ignazio Visco leggeva le Considerazioni finali e

sollevava problemi riguardanti anche i rapporti con la Commissione Ue, nonché, più in generale, i processi di

riforma che riguardano il sistema bancario pure a livello europeo, il Parlamento di Strasburgo abbia bocciato,

con un solo voto di scarto, l'introduzione, benché in forma assai blanda e sulla base delle scelte da adottarsi

dalle autorità nazionali, del vincolo di separazione tra banche commerciali e banche di investimento. Non si

trattava, certamente, del Glass-Steagall Act, la cui abrogazione è alla base dell'esplosione, negli Usa, dei

subprime e, dunque, della tempesta finanziaria perfetta scatenatasi nel 2008; né si voleva la previsione di

una disciplina identica a quella della legge bancaria italiana del 1936, poi superata dal Testo unico bancario

del 1993; neppure si trattava della Volcker rule che nemmeno gli americani hanno introdotto, pur compiendo

dei passi avanti - con la riforma bancaria voluta da Obama - in questa direzione.

Ciò nonostante il Parlamento europeo ha votato la bocciatura, probabilmente per spinte contrapposte (tra chi

ritiene la nuova normativa debole e chi, invece, non la vuole), sicché ora bisognerà riprendere il noto trilogo,

tra Commissione, Consiglio e lo stesso Parlamento, per un nuovo testo normativo. Come si vede, quando le

istituzioni europee sono chiamate a valutare e a promuovere vere riforme, allora, anche per l'azione delle

varie lobby, ci si arresta e si va alla ricerca di compromessi, quasi sempre molto al ribasso. In questo caso la

separazione delle predette attività - che presenta anche aspetti sui quali è opportuno riflettere, ma nel

complesso, se fatta in maniera appropriata e senza le ampie discrezionalità nazionali, è positiva- costituisce

uno degli impegni a suo tempo diffusamente condivisi da una pluralità di Paesi come necessari per tener

conto delle cause della crisi globale e per predisporre gli opportuni antidoti. Un impegno completamente

disatteso: passata la festa, gabbato il Santo. Invece la velocità è massima quando si devono adottare

direttive comunitarie o misure similari che incidono sul capitale delle banche o su altri aspetti di importanza

certamente minore rispetto alla separazione anzidetta. Qui sopravviene la constatazione delle oscillazioni nei

comportamenti, in specie, della Commissione Ue e di quella convivenza al suo interno, di cui Visco ha fatto

menzione nelle Considerazioni, adottando una terminologia molto delicata perché più direttamente si sarebbe

dovuto parlare di contrasto, tra strutture tecniche ed embrione di un governo politicamente responsabile.

Su questa base e nell'identificazione che viene bizzarramente compiuta dalla Commissione tra politiche per

attivare meccanismi di mercato e aiuti di Stato, si compiono passi avanti in istituti normativi -quale il

costituendo fondo di garanzia europea dei depositi e il meccanismo unico di risoluzione delle crisi- sui quali

sarebbe stata opportuna una maggiore meditazione. La scelta, infatti, che se ne ricava è quella di preferire

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dedicare lavoro e risorse per progettare come agire a valle (quando la crisi si è verificata) e non a monte,

prima ancora degli stessi parametri riguardanti i bilanci, le norme sulla governance, le strategie, come invece

sarebbe accaduto varando in maniera tempestiva ed efficace la disciplina sulla separazione. È giusto

sollecitare, come Visco ha fatto, il Parlamento a recepire le due direttive sul fondo di garanzia e sulla

risoluzione delle banche comprensiva del cosiddetto bail-in con l'approvazione della legge-delega alla quale

seguirà il decreto legislativo del Governo, che dovrà introdurre il nuovo meccanismo a partire dal 1 gennaio.

E ciò, come ha detto il Governatore, per la certezza del diritto e per evitare di essere messi in mora dalle

istituzioni europee.

M nel recepimento potrebbero essere introdotti elementi che non contrastino frontalmente con la direttiva

sulla risoluzione, ma che tengano conto, a proposito del bail-in, delle tradizioni e delle specificità nazionali.

Fin qui, nessun risparmiatore, dopo il 1936, ha mai perso una lira (o un centesimo di euro) dei propri depositi

bancari. Dal prossimo gennaio, alle crisi bancarie dovranno far fronte, in primo luogo, gli azionisti e i creditori

(e ciò è in linea con quanto di fatto si qui praticato) ma anche i depositanti e gli obbligazionisti per la parte

che non è garantita dalle misure di protezione nazionale. Da questo punto di vista, includendo cioè

espressamente gli investitori e, soprattutto, depositanti e obbligazionisti per la parte non garantita, si può

parlare di una svolta storica, ma non nel senso compiutamente positivo, anche se motivata dall'intento di

sottrarre oneri al bilancio pubblico al quale potrebbero essere addossati per la tutela dei depositanti di

banche in crisi. Di qui l'insistenza di Visco perché sia promossa un'opera capillare di informazione e perché

l'acquisto di strumenti finanziari più rischiosi sia riservato a investitori professionali. Il tema si incrocia con

quello, in generale, dell'informazione e dell'educazione finanziaria, il cui sviluppo appare sempre più

necessario. (riproduzione riservata)

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MF

Numero 104, pag. 12 del 29/05/2015

MERCATI

Cooptati tre consiglieri. passo indietro di due uomini dell'ente e di bonsignore

Per Carige rinnovo pre-aumentoDue dei neoeletti (Anselmi e Provaggi) sono riconducibili all'area Malacalza, Macciò è l'uomo di Cr Savona.Titolo volatile alla vigilia dell'aumento. Nei prossimi giorni Consob valuta il prospetto

di Claudia Cervini

Dopo mesi di incertezze che hanno gettato non poche ombre sul futuro di Banca Carige inizia a prendere

corpo il nuovo assetto di governance dell'istituto. Il consiglio di amministrazione presieduto da Cesare

Castelbarco Albani, dopo aver preso atto delle dimissioni di due consiglieri in quota Fondazione Carige

(Lorenzo Cuoccolo e Giuseppe Zampini) e di Luca Bonsignore (esponente del patto Fondazioni-Coop), ha

cooptato tre nuovi consiglieri. Tutti uomini fidati del nuovo socio forte Vittorio Malacalza? Non proprio. L'uomo

forte di Malacalza è il piacentino Beniamino Anselmi, banchiere di lungo corso con un

passato in Cariplo, Intesa Sanpaolo, Cariparma e Banca di Roma. Gli altri consiglieri

nominati sono il commercialista Giampaolo Provaggi, già consulente della Fondazione

Carige (ma comunque assai gradito a Malacalza e, dice qualcuno, riconducibile alla

sua area) e Marco Macciò, manager savonese, presidente del cda di Infineum Italia

(gigante attivo nel settore petrolifero). Un rimpasto non dettato dalla scadenza

naturale del consiglio (che sarebbe potuto restare in carica fino ad aprile) bensì

accelerato dai nuovi rapporti di forza che caratterizzano l'istituto ligure. Non è un caso

che il rimpasto sia avvenuto alla vigilia di un importantissimo aumento di capitale da 850 milioni di euro e

all'indomani della chiusura del deal tra Malacalza e i francesi di Bpce, passaggio di quote che ha fatto salire

Malacalza Investimenti al 14,9%.

A sostegno di questa tesi gioca il fatto che a fare un passo indietro siano stati proprio i due uomini della

Fondazione Carige, ormai scesa sotto al 2%. Il primo azionista, da statuto, ha la facoltà di nominare il

presidente e il vice della banca. Malacalza si è più volte espresso per la continuità

difendendo l'operato sia del presidente Cesare Castelbarco Albani, sia

dell'amministratore delegato Piero Montani e, su questo fronte, non ci si attende

nessuna sorpresa. È impossibile dire oggi quanti consiglieri potrà esprimere

esattamente Malacalza nel board, ma si può affermare con una buona dose di

certezza che saranno circa un terzo dei 15 totali (la Fondazione Carige nominava

sette quindicesimi del consiglio, ma va ricordato che in passato era arrivata a

detenere fino al 40%). Il resto del board sarà probabilmente rinnovato il prossimo

aprile, contestualmente con l'assemblea dei soci e l'approvazione del bilancio.

Pagina 1 di 2Per Carige rinnovo pre-aumento - MilanoFinanza.it

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Alla vigilia dell'aumento ormai i giochi sembrano fatti. Il titolo ieri ha chiuso a 6,555 euro in rialzo del 3,23%.

«C'è volatilità in vista dell'aumento di capitale da 850 milioni di euro che dovrebbe partire l'8 giugno», spiega

un esperto contattato da MF-Dowjones, aggiungendo che il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, a

margine dell'assemblea annuale di Confindustria, ha detto che nei prossimi giorni ci potrebbe essere la

valutazione al prospetto informativo sull'aumento.

Il consorzio di banche garanti della ricapitalizzazione capitanato da Mediobanca dovrebbe discuterne nel

corso della prossima settimana dello sconto sul prezzo teorico dell'aumento di capitale dopo lo stacco del

diritto di opzione (Terp). Sebbene qualche ipotesi sia stata abbozzata (secondo indiscrezioni di stampa, lo

sconto potrebbe attestarsi tra il 30-35%, mentre per il rapporto di concambio l'orientamento di Mediobanca

sarebbe meno drastico del rapporto di 10 a 1 approvato per Mps), nessuna decisione è stata ancora presa. Il

cda della banca ligure è in pre-allerta per giovedì 4 per deliberare sul prezzo delle nuove azioni. A oggi i

francesi di Bpce detengono il 5,1%, Gabriele Volpi, attraverso il veicolo The summer trust, detiene il 2% (e

sembra voglia salire fino al 5%), mentre il gruppo Ubs detiene una quota del 4,3%. (riproduzione riservata)

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MF

Numero 104, pag. 13 del 29/05/2015

MERCATI

Confermati i contatti tra ambienti vicini all'istituto di credito e gruppi europei

Occhi stranieri su Veneto Banca

Sul dossier ci sarebbero una banca tedesca, una svizzera e un fondo di investimenti. Ma la politica locale (Zaia in testa) spinge per il matrimonio con Vicenza. Intanto Popolare Emilia resta alla finestra

di Luca Gualtieri

La voce è spuntata subito dopo l'assemblea di bilancio di aprile e da allora ha preso quota tra molteplici

conferme. Veneto Banca sarebbe nel mirino di gruppi stranieri che potrebbero farsi avanti per rilevarla. Al

momento non si ha ancora notizia di una trattativa ufficiale ma solo di contatti informali tenuti da ambienti

vicini alla popolare di Montebelluna. Sul dossier ci sarebbero almeno due banche nordeuropee ancora non

presenti in Italia, una tedesca e una svizzera, e fonti accreditate parlano anche di

un fondo di investimento. Chi conosce l'identità degli interlocutori assicura che il

loro standing è in linea con i desiderata della Bce, anche se al momento i nomi

sono avvolti da una fitta coltre di riservatezza. Forse perché prima si cercherà di

capire l'esito dei colloqui con gli interlocutori italiani, a partire dalla Popolare di

Vicenza, ritenuta fino ad oggi il candidato numero uno. Sotto la guida del nuovo

direttore generale Francesco Iorio l'istituto berico potrebbe riprendere i contatti

con Montebelluna e completare così il lavoro diplomatico avviato nei mesi scorsi.

Questa business combination avrebbe una logica industriale perché

permetterebbe ai due gruppi di realizzare sinergie di costo e ridare slancio alla

redditività. Senza dimenticare che l'idea piace molto alla politica locale, come

dimostrano alcune recenti dichiarazioni. «Come presidente della Regione Veneto auspico, ma lo faccio da

tempo, che si crei un solido polo bancario tutto veneto», ha commentato ad esempio il governatore Luca

Zaia. La fusione ovviamente avrebbe un appeal ancora maggiore se vi prendesse parte anche un terzo

soggetto quotato, come il Banco Popolare. Una soluzione di questo genere non dispiacerebbe a molte anime

del gruppo veronese e anche ad alcuni grandi soci, come la Fondazione Cariverona. Si sa del resto che il

presidente uscente Paolo Biasi (che lascerà l'incarico in autunno per essere forse sostituito dal vice Silvano

Spiller) è uno degli sponsor del grande polo veneto. Molti, però, a Montebelluna restano perplessi; da qui

l'idea di sondare anche altre soluzioni.

Le piste percorribili sono molte, perché, se è vero che Veneto Banca ha alle spalle un periodo critico, va

anche detto che la vigorosa azione di pulizia condotta nell'ultimo esercizio ha rimesso in sesto i conti. Non

solo. La svalutazione delle azioni (da 39,5 a 30,5 euro) decisa dal cda e approvata dall'ultima assemblea ha

in parte colmato la distanza che esisteva tra il rapporto price-book value dell'istituto e quello delle banche

quotate a Piazza Affari. Ecco perché oggi non si può escludere l'aggregazione con una banca del Ftse Mib, a

partire dalla Popolare dell'Emilia Romagna. Il matrimonio tra i due istituti è una vecchia idea del presidente

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modenese Ettore Caselli, che già lo scorso anno avrebbe sondato la praticabilità del progetto. Continua poi a

circolare l'ipotesi di un interesse da parte di un gruppo tedesco non ancora attivo sul mercato italiano, ma

interessato a crescere attraverso operazioni mirate.

Di certo Veneto Banca intende percorrere speditamente la strada dell'aggregazione e della trasformazione in

spa. L'obiettivo del presidente Francesco Favotto è far partire l'iter per la modifica dello statuto subito dopo

l'arrivo delle disposizioni attuative della Banca d'Italia. A quel punto l'assemblea straordinaria potrebbe

essere convocata tra giugno e luglio oppure, in caso ritardi, immediatamente dopo la pausa estiva.

(riproduzione riservata)

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FINANZA & MERCATI 29 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

PPP

Le banche popolari al riassetto su Icbpi

Ora che alla cordata Advent-Bain-Clessidra è stata assegnata l’esclusiva per l’acquisto

di Icbpi, sul mercato ci si interroga su quale possa essere la struttura azionaria una

volta che sul deal arriverà il sigillo della firma definitiva (l’attesa è per il 19 giugno,

anche se a ruota l’operazione dovrà passare al vaglio di Bankit e Bce). L’accordo

prevede che lepopolari possano rientrare fino al 15% del capitale, reinvestendo così

parte delle plusvalenze derivanti dalla cessione dell’istituto, valorizzato 2,15 miliardi.

Se è presto per dire come le diverse banche si spartiranno la quota, una cosa è più

sicura: gli istituti si sono dati la possibilità di decidere autonomamente, senza che

debba essere replicato lo schema di possesso adottato fino ad oggi (con Creval al

20,4%, B. Popolare 15,4%, Bper 10,6%, PopVi 9,99%, Veneto Banca 9,99%, Bpm

5%, Ubi 5,1%). Insomma, mani libere. Difficile che qualche istituto non sia tentato

dall’idea di non rientrare per massimizzare il beneficio. D’altra parte, difficile credere

che la Vigilanza non apprezzi una presenza composita delle banche italiane in uno

snodo nevralgico per il sistema come è Icbpi. (L.D.)

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Pagina 1 di 1Il Sole 24 Ore

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FINANZA & MERCATI 29 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

Banche/1. Cooptati Anselmi, Macciò, Provaggi

Carige, rimpasto in cda Due posti a Malacalza

Inizia l’era Malacalza in Carige. Ieri il cda della banca genovese, presieduto da Cesare

Castelbarco Albani, ha cooptato i consiglieri che fanno capo al nuovo azionista

dell’istituto e alla Fondazione Carige. La quale ha stretto con Malacalza Investimenti

un patto sulla governance della banca, suggellato dal passaggio alla società del 10,5%

delle azioni Carige detenute dall’ente. Malacalza ha poi acquisito un altro 4,6%

dell’istituto di credito dai francesi di Bpce, portando così, dopo aggiustamenti tecnici,

la sua quota di controllo al 14,93%.

Ieri i consiglieri di Carige Lorenzo Cuocolo e Giuseppe Zampini (quest’ultimo

presidente di Confindustria Genova, nonché ad di Ansaldo Energia), nominati nel

settembre 2013 dalla fondazione, hanno dato le dimissioni, insieme a Luca

Bonsignore, che era stato indicato dall’allora vigente patto degli azionisti privati. A

Cuocolo resta l’incarico di vicepresidente di Carige Italia.

Al posto dei dimissionari sono entrati, per cooptazione, il banchiere piacentino

Beniamino Anselmi, vicino a Vittorio Malacalza, il commercialista Giampaolo

Provaggi, in quota Fondazione Carige, e Marco Macciò, già membro del cda del

Banco di San Giorgio Ubi (fino alla fusione nella Banca regionale europea). Macciò

rappresenta gli ex pattisti privati, che oggi detengono un complessivo 6% di Carige e

di cui fanno parte, tra gli altri, Coop Liguria e le fondazioni Cr Carrara, Cr Lucca e De

Mari (Savona).

Il cda , spiega una nota, «ha verificato in capo ai neonominati consiglieri di

amministrazione, la sussistenza dei requisiti prescritti per la carica e in particolare del

requisito di indipendenza». Carige si prepara ad avviare un aumento di capitale da 850

milioni nella prima decade di giugno.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Raoul de Forcade

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Il 10 e 11 giugno torna il Luxury Summit del Sole 24 Ore: focus sul “vero lusso” e le eccellenze del made in Italy

Pagina 1 di 1Il Sole 24 Ore

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ASSICURAZIONI

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32 CORRIERECONOMIA LUNEDÌ 25 MAGGIO 2015

Il convegno L’appuntamento organizzato da Corriere e zeb consulting

Compagnie italiane al bivioAnia: «La svolta digitalenon è più un optional»La via per recuperare redditività passa dalla distribuzioneDI STEFANO RIGHI

Sulle compagnie italiane diassicurazione sta abbatten-dosi l’effetto della tempestadigitale. Nulla sarà come pri-

ma. Vecchi equilibri andranno rivi-sti. Il modo stesso di condurre il bu-siness subirà profonde trasforma-zioni. Lo ha detto Dario Focarelli, di-r e t t o r e g e n e r a l e d e l l ’A n i a(l’Associazione fra le imprese assi-curatrici) al convegno Le nuove as-sicurazioni, tra distribuzione eredditività, organizzato da CorriereEconomia con zeb consulting –gruppo internazionale di consulen-za che, solo in Germania, fattura 180milioni di euro – e ospitato nei localidel Corriere della Sera a Milano.

Supporti elettroniciTra i driver del cambiamento del

prossimo futuro, Focarelli ha evi-denziato la tecnologia digitale. «So-prattutto – ha detto il direttore ge-nerale dell’Ania – saranno impor-tanti i cosiddetti Iot, ovvero glismart Internet-connected devicese la telematica». Sono «Iot» le«scatole nere» nelle auto, i fitnessdevice, l’uso delle telecamere: stru-menti che inducono comportamen-ti più virtuosi e un calo dell’inciden-za delle frodi, portando a una dimi-nuzione del rischio in capo allacompagnia e a una riduzione delpremio in carico all’assicurato. Cer-to, il tutto – ha ben evidenziato Fo-carelli – presenta oggettivi proble-

mi di protezione della privacy, ma ivantaggi per le compagnie potreb-bero essere concreti e significativi.Rimane però una marcata resisten-za all’utilizzo, da parte delle compa-gnie, di quella massa di dati che ilmondo digitale rende oggi disponi-bile nella cosiddetta realtà Smac,ovvero social, mobile, analyticsand cloud.

RadicamentiLe cause che portano a questa re-

sistenza sono ben radicate nel mon-do delle polizze. Le compagnie diassicurazione sono particolarmenteconservative nei loro comporta-menti (vedi tabella a fianco, nda) acausa principalmente di un arretra-mento tecnologico – lo sostiene l’80

per cento degli intervistati -, ma an-che a una marcata lentezza nell’ac-cettare il cambiamento (64%) e aforti resistenze nell’ambito della di-stribuzione dei prodotti (40%).

«Considerato il ritardo nell’usodella tecnologia – ha sottolineatoFocarelli – c’è il rischio di una im-patto importante dovuto dall’in-gresso sul mercato di nuovi opera-tori, un rischio di distruption. Ope-ratori in grado di usare meglio i datisocial e mobile avranno un vantag-gio distributivo, basta pensare allepotenzialità di Google. Mentre nuo-ve aziende del settore FinTech, chenon hanno vincoli di legacy con ilpassato degli incumbent, possonosperimentare a costi contenuti nuo-vi business model, magari speri-

mentandola su agili brand, un po’come è accaduto con il canale diret-to», più di vent’anni fa.

Vari canaliSugli aspetti distributivi si sono

concentrati anche i contenuti delledue ricerche esclusive presentate dazeb consulting. Il managing di-rector Paolo Ciccarese ha evidenzia-to come, nel settore Danni, «l’82 percento dei premi maturi ancora oggiin Italia attraverso il canale agenzia-le. Una percentuale che scende al 61in Germania, al 35 in Spagna, al 34in Francia e addirittura al 5 per cen-to in Gran Bretagna». Mentre la di-stribuzione dei prodotti Vita avvie-ne sostanzialmente attraverso i l ca-nale bancario (vedi tabelle, nda).«In questo caso – ha evidenziatoMassimo Mucchetti, presidente del-la commissione Industria del Sena-to, ospite del convegno – assume

però rilevanza non tanto l’aspettoquantitativo delle masse assicurate,ma quello reddituale. Perché è veroche la prima compagnia Vita in Ita-lia è oggi di una banca, ma quei de-nari raccolti rendono assai poco».

Sugli aspetti reddituali ha postol’accento Giorgio Introvigne, vicepresidente e amministratore dele-gato di zeb consulting, che ha foca-lizzato il proprio intervento sul set-tore Danni: «Nonostante il ramo Rcauto abbia avuto nell’ultimo perio-do un trend eccezionalmente positi-vo, il saldo tecnico non potrà chepeggiorare nei prossimi anni. Solo

ricorrendo a una serie di provvedi-menti, tra cui il risarcimento in for-ma specifica, si potrà contempora-neamente contenere il costo dei si-nistri migliorando il livello di servi-zio per il cliente finale. Addirittura,si può ipotizzare di arrivare a un ri-sparmio medio per sinistro di circail 30 per cento. Proprio il risarci-mento in forma specifica può gioca-re un ruolo chiave nel recupero diredditività del ramo Rc auto: tantoche per ogni 10 mila sinistri canaliz-zati è ipotizzabile un risparmio finoa 6 milioni di euro». La chiave, se-condo zeb, è nel Tom, ovvero il Tar-get operating model da adottare,che è diverso se si tratta di gruppileader di mercato, quindi con il con-trollo di almeno il 10 per cento delvalore totale, oppure di compagniedi minor dimensione.

@Righist© RIPRODUZIONE RISERVATA

Fonte: Ania, Insurance Europe, zeb consulting

La scheda

Perché gli assicuratori sono conservativi

Eredità tecnologica

Lentezza nel cambiamento

Resistenza della distribuzione

Mancanza di casi di successo

80% 64% 40% 33%

Restrizioni regolatorie

Problemi di sicurezza dei dati

Insufficiente domanda dei clienti

32% 24%19%

Il rapporto Premi/PilIl confronto con l’Europa

2003

4,7% 4,9%5,5%

4%

1% 1% 1%1,5%

2,1% 2,1%

1,1% 1,2%

2013 2003 2013 2003 2013Vita Auto Non auto

ItaliaEuropa

Germania FranciaBelgio Spagna Italia

RegnoUnito

2,7%2,4%

2,4%

2%2%

1%

Il rapporto Premi non auto/Pil in Europa

100%

75%

50%

25%

0%16% 13% 7%

50%

23%

Agenti Broker Banca Diretto Altro

Italia Germania Spagna Francia RegnoUnito

I canali del ramo VitaLa distribuzione

100%

75%

50%

25%

0%

Agenti Broker Banca Diretto Altro

Italia Germania Spagna Francia RegnoUnito

82%

61%

35% 34%

5%

I canali del ramo Danni

AniaDario Focarelli,direttoregenerale dell’Ania (l’Associazione na-zionale fra le im-prese assicuratrici) nel corso del suo interventoal Convegno orga-nizzato da Corriere Economia sul tema «Le nuove assicu-razioni,tra distribuzionee redditività»,in collaborazionecon zeb consulting

I protagonisti Le strategie di Generali, Allianz, UnipolSai, Cattolica, Groupama, Helvetia e Uniqa per il mercato italiano del settore Danni

La sfida Assicuratori sospesi tra agenti e webLa convivenza difficile e le normative di Solvency 2, in grado di modificare i profili di rischio del settore

Al convegno Le nuove assicurazioni,tra distribuzione e redditività, orga-nizzato da Corriere Economia con zeb

consulting, hanno partecipato i rappresen-tanti delle più importanti compagnie di assi-curazione operanti in Italia: Generali, Al-lianz, UnipolSai, Cattolica, Groupama, Uniqaed Helvetia, oltre al dg dell’Ania, Dario Foca-relli e al presidente della commissione Indu-stria del Senato, Massimo Mucchetti.

Sul tavolo, il futuro del settore, tra l’inva-sività dei processi digitali e le necessarieoperazioni di aggregazione che sono ancorain corso. « Per noi – ha detto Franco Ellena,direttore generale UnipolSai –, la diversità è

vissuta come punto di forza: è da qui che sia-mo partiti per affrontare l’integrazione dellereti Unipol e Fonsai, dopo la nascita di Uni-polSai. Ogni agenzia, infatti, ha differentimodi di relazionarsi ai clienti e possiede por-tafogli prodotto diversi: ma se si riesce a tra-sformare queste diversità in specializzazioni,saremo in grado di dare a ogni agente quellodi cui ha bisogno per sviluppare la propriaprofessionalità. Un’altra considerazione im-portante è l’approccio alla tecnologia: per noiè abilitante, per le nuove generazioni è costi-tutiva. Ecco quindi che deve cambiare ancheil modo di lavorare dell’agenzia: il suo ruoloresta centrale, ma deve offrire la possibilitàal cliente di avere un multiaccesso al prodot-to assicurativo, garantendogli una relazione

diretta con la compagnia tramite la rete».Sulla necessaria coesistenza della rete

agenziale con il web si è soffermato a lungoanche Stefano Gentili, chief marketing & di-stribution officer di Generali Italia, che ha sottolineato come «oggi non ci possono esse-re dubbi sul fatto che una fetta crescente del-la popolazione che si avvicina all’acquisto deiservizi assicurativi parta da un’esplorazioneche avviene via web. Il commercio elettroni-co, tra cui anche l’acquisto di prodotti finan-ziari, si sta diffondendo sempre più, soprat-tutto per prodotti standardizzati, che posso-no essere acquistati in orari in cui un’agenziadi assicurazioni non potrà mai essere aperta.

Ma il ruolo dell’agente è e rimane fondamen-tale. Il rapporto fiduciario, la conoscenza del-le problematiche e delle esigenze del clientetrovano in lui un ruolo insostituibile».

Simone Salerni, direttore commerciale diAllianz, ha evidenziato il ruolo e le compe-tenze della propria rete: «Il fattore umano èfondamentale nel rapporto con la nostraclientela. E ne siamo convinti proprio noi cheabbiamo un comparto diretto che cresce indouble digit. Le vendite via web copronouna richiesta standard, che talvolta maturaall’ultimo momento, mentre l’agente c’è sem-pre e rivela il proprio valore proprio nelle di-namiche complesse».

Secondo Flavio Piva, manager con espe-rienze di rilievo in vari settori economici, dalle banche alle organizzazioni fieristiche eoggi direttore generale della veronese Catto-lica, «il settore delle assicurazioni ha accu-mulato, negli anni una serie di ritardi che og-gi, quasi contemporaneamente arrivano for-zatamente a soluzione. In Cattolica peraltroabbiamo un modello di business fortementecentrato sulla attività dei nostri agenti, pro-fessionisti ai quali non intendiamo rinuncia-re e che rappresentano la struttura portantedi una compagnia come la nostra. Allargan-do invece l’attenzione al settore, uno degliaspetti che rilevano maggiormente è il costo

del personale, sensibilmente più elevato diquanto non si rilevi in altri settori in qualchemaniera confrontabili, come il banking».

Yuri Narozniak, vice direttore generaledella francese Groupama, si è soffermatonell’analisi della ricerca proposta da zeb con-sulting: «le soluzioni legate al risarcimentoin forma specifica rappresentano una op-portunità interessante da studiare attenta-mente per continuare a dare, al settore, laredditività che lo ha contraddistinto negli ul-timi anni».

Per Francesco La Gioia, ceo del gruppoHelvetia in Italia, «gli agenti rappresentano,almeno per un compagnia come la nostra,che in Italia si affida a plurimandatari, unaenorme disomogeneità. Soprattutto nel con-fronto con altre realtà europee emerge sia laparticolarità italiana, che l’arretratezza deicomportamenti digitali, una opportunitàche molti continuano a ignorare».

Ancor più risoluto nel marcare la diffe-

renze tra la rete agenziale italiana e quella dialtri paesi è stato Michele Meneghetti, presi-dente del Consiglio di gestione del gruppoUniqa in Italia: «in Austria – ha detto – doveha sede la nostra casa madre, gli agenti sonodipendenti della compagnia e stipendiatidalla stessa. Pensate al confronto con una re-te agenziale fatta di plurimandatari come ac-cade invece in Italia: la distanza da coprire èabissale». Meneghetti ha anche posto l’ac-cento sulle problematiche legate ai requisitidi Solvency 2: «norme in grado di modifica-re i profili di rischio e di divenire un fattorecompetitivo importante per l’intero settore»,ha detto.

S. RIG.© RIPRODUZIONE RISERVATA

ProtagonistiGli ospiti del con-vegno sulle assicu-razioni organizzato a Milano daCorriere Economia: a sinistra, in senso orario, il senatore Massimo Mucchet-ti (presidente com-missione Indu-stria), FrancoEllena (UnipolSai), Simone Salerni (Al-lianz) e Stefano Gentili (Generali). A destra, Flavio Piva (Cattolica), Yuri Narozniak (Grou-pama), Michele Meneghetti (Uni-qa), FrancescoLa Gioia (Helvetia)

Oggi l’82 per cento dei premi «Danni» matura in Italianel canale agenziale

Osservatorio Assicurazioni

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MF

Numero 103, pag. 8 del 28/05/2015

MERCATI

GENERALI il nuovo piano di trieste al 2018 prevede 1,25 mld di dividendi medi annui

Greco promette 5 mld di cedoleLa compagnia si focalizza sull'Europa e vuole la leadership nel mercato retail con una trasformazione radicale del business grazie alla tecnologia. Rassicurazioni sul Solvency II: simulazioni al 186%

di Anna Messia

Mario Greco ha puntato alto sull'obiettivo che più di tutti fa gola al mercato. Il group ceo di Generali

Assicurazioni, presentando ieri a Londra i nuovi target strategici del gruppo, ha promesso dividendi aggregati,

da qui al 2018, che supereranno i 5 miliardi di euro. Il monte cedole sarà quindi, in media, di oltre 1,25

miliardi l'anno, con una netta accelerazione rispetto ai risultati già ottenuti da Greco nel suo triennio alla guida

della compagnia, raggiunti tra l'altro con un anno di anticipo. L'attuale livello di dividendi, relativo al 2014, è

stato di 930 milioni e nel 2013 si era fermato a 700 milioni. Greco ha insomma tutta

l'intenzione di proseguire sul percorso iniziato dal suo insediamento, che punta a dare

soddisfazione agli azionisti. «Il maggiore focus dei prossimi anni sarà incentrato sulla

generazione di cassa, con oltre 7 miliardi di net free cash flow totale previsto a fine

periodo», ha aggiunto Greco, ricordando che attualmente le Generali generano cassa

per 1,2 miliardi (di cui 900 milioni arrivano dall'Italia e 300 dalla Germania), mentre la

redditività sul capitale (il return on equity operativo) resterà superiore al 13%.

Messaggi che sono piaciuti alla borsa, con il titolo che ha chiuso ieri in crescita del 2,78%; e gli operatori

hanno gradito anche le rassicurazioni fornite da Greco sulla solidità finanziaria del gruppo. A fine 2014, il pro

forma economic solvency ratio (una sorta di simulazione dei parametri che

verranno utilizzati con Solvency II che partirà a gennaio 2016) era pari al 186%. Un

parametro ben diverso dal 157% indicato al mercato da Greco a inizio anno. Ma

quel calcolo e quel modello sono ormai superati e il 186% comunicato ieri (ovvero

1,86 volte il livello minimo di capitale richiesto dal regolatore), «rappresenta il

nostro rapporto di capitale calcolato in base ai principi di Solvency II. Aggiorneremo

ogni trimestre il mercato sull'evoluzione», ha dichiarato il group ceo. «È la nostra

migliore conoscenza dei principi di Solvency II che possiamo avere in questo

momento e include le richieste dei regolatori europei di cui siamo a conoscenza»,

ha aggiunto il top manager, che ha anche definito l'attuale situazione patrimoniale

della compagnia, «solida, competitiva e tranquillizzante».

Per migliorare i flussi di cassa la compagnia lavorerà tra le altre cose sull'offerta assicurativa, spostando per

esempio il focus da prodotti tradizionali basati su rendimenti garantiti a un'offerta basata su commissioni, che

consiste in prodotti di protezione, unit linked e prodotti ibridi «che forniscono più elevati margini e maggior

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valore per i clienti». Il nuovo piano

prevede ancora riduzione dei costi,

con tagli annui per 250 milioni, per un

totale di 1,5 miliardi se si considerano

anche i risparmi realizzati dal 2012. E

una parte di questi andrà a finanziare

i nuovi investimenti che Generali

conta di fare nei prossimi anni, 1,25

miliardi, per l'innovazione tecnologica

e strumenti di analisi dei dati. Perché

l'altro segnale forte arrivato ieri da Greco è un cambio di strategia profonda di Generali, che punta a creare

un nuovo modello di business per migliorare il servizio al cliente. In questa direzione va per esempio la

nomina di Elena Rasa come chief data officer di gruppo, e l'acquisto della piccola società inglese, la MyDrive

Solutions, all'avanguardia nell'analisi dei dati. «Questo è il momento di innovare», ha detto Greco. «Chi non

lo fa rischia di perdere il treno». Il focus, resterà l'Europa, su cui Generali vuole avere la leadership e da dove

già oggi proviene già il 90% del fatturato del gruppo. «La compagnia è fortemente impegnata a far crescere il

business in mercati come Cina e Indonesia, oppure l'America Latina», ha spiegato il numero uno del Leone,

ma la missione principale del gruppo sarà avere la leadership in Europa nel segmento retail, lavorando sulla

capillare rete di distribuzione di cui dispone la compagnia. «Le Generali sono da 180 anni gigante europeo.

Leader in Italia, secondi in Germania e tra i primi cinque in Francia. Sono nate al centro dell'Europa che, dal

punto di vista assicurativo, rimane ancora la zona più ricca del mondo», ha concluso Greco. (riproduzione

riservata)

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FINANZA & MERCATI 28 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

Assicurazioni. Ieri l’Investor day a Londra: investimenti per 1,25 miliardi in tecnologie

Generali svela i nuovi target 5 miliardi di

cedole al 2018

Il ceo Greco: saremo «leader del retail in Europa»

LONDRA

Si fa presto a dire “leader”. L’obiettivo, in realtà, è molto più alato di quanto potranno

dire i semplici numeri. L’ad di Generali Mario Greco ha dispiegato, all’Investor day di

Londra, la strategia dei prossimi anni annunciando l’ambizione di portare il gruppo ad

«essere leader del retail in Europa». E non solo nei volumi. «Dal quel punto di vista lo

siamo già, non so quanti possano vantare 60 milioni di clienti in Europa», ha precisato

per poi aggiungere che il bersaglio è la “leadership dell’innovazione”. Una corona che

va oltre le cifre, garantita, com’è, solo dalla reputazione, dalla capacità, cioè, di

«cambiare le regole per il cliente», diventandone il naturale riferimento. Se questo è il

target sbandierato senza tentennamenti delle Generali prossime venture, il punto di

partenza si basa sulla consistenza di numeri solidi. Nei prossimi quattro anni il gruppo

punta a un net free cash flow di oltre 7 miliardi di euro, dividendi cumulati oltre i 5

miliardi (nel 2014 si sono fermati a 903 milioni), un’altra sforbiciata di mezzo

miliardo ai costi oltre al miliardo già programmato entro il 2016. La cedola più

pesante era una delle richieste più sollecitate dal mercato ed è arrivata insieme ad

un'altra attesa valutazione: il rafforzamento del capitale. L'economic solvency ratio

utilizzato per valutare la patrimonializzazione delle compagnie di assicurazione

calcolato pro forma a fine 2014 tocca quota 186%. «Un livello adeguato e del tutto

rassicurante» che mette Generali al riparo «anche in caso di choc» ha spiegato Mario

Greco, aggiungendo che dal mese di giugno sarà ricalcolato con scadenza trimestrale.

Un piano visto con soddisfazione dal primo azionista, Mediobanca, il cui ceo Alberto

Nagel ha già sottolineato che «i risultati di Generali sono positivi, ma quello che è più

positivo non sono i risultati trimestrali o annuali, ma la visione strategica di lungo

termine di Generali».

Un quadro globale salutato ieri dal mercato con un balzo del titolo del 2,8% a

conferma apparente che le risposte del management hanno centrato le aspettative. Sia

sotto l'aspetto della solidità di Generali, sia della direzione da intraprendere. Mario

Greco è stato esplicito nel riaffermare la fine delle logiche del passato annunciando di

puntare tutto su una nuova strategia che non prevede acquisizioni. «Non ne abbiamo

bisogno – ha detto – diverrebbero un intoppo...abbiamo passato anni a vendere. Ora

dobbiamo concentrarci sul nostro business». E la volontà dei manager sarà sostenuta

dal portafogli con investimenti programmati di 1,25 miliardi di euro.

Europa e retail senza distrazioni? In realtà qualche divagazione geografica Generali

continua, ovviamente, a concedersela. «Asia e America Latina ci interessano, lo

confermo. In Cina – ha detto Greco - facciamo utili e vogliamo continuare a crescere,

guardiamo con grande attenzione all’Indonesia. Siamo i primi in Argentina, stiamo

ristrutturando il Brasile e la Colombia promette bene, ma nel nostro Dna c’è e resta

l’Europa». La nuova strategia del gruppo si concentrerà su servizi al consumatore,

fidelizzazione, ma soprattutto «su data analytics con un intenso uso della tecnologia»,

ha aggiunto il ceo. Ed è proprio in quell’area che si concentreranno gli investimenti

programmati dal management.

Per Greco nelle Generali del futuro non ci sarà più spazio per partecipazioni

strategiche. «Lo dico dal 2013 – ha aggiunto – e ribadisco che disporremo delle

partecipazioni in maniera opportuna. Facciamo quello che ci conviene fare e usiamo il

capitale degli azionisti per sviluppare il business assicurativo… Abbiamo una strategia

industriale molto forte che non dipende da un azionista o da un altro né dall’azionista

che abbiamo oggi o avremo domani». E in vista del domani la difesa resta sempre

l’attacco. «Scalate? Il modo migliore per proteggersi è dare valore alla società. Le

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Voci di un accordo sulla Grecia, record del Nasdaq

Pagina 1 di 2Il Sole 24 Ore

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imprese che non ne creano sono le più attaccabili. Abbiamo generato molto valore in

questi anni e crediamo di riuscire a crearne in quelli a venire».

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Leonardo Maisano

Pagina 2 di 2Il Sole 24 Ore

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BANCA D ’ITALIA

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MF

Numero 101, pag. 17 del 26/05/2015

MERCATI

La cedola Bankitalia sarà ai livelli dello scorso anno

Le banche non si aspettano sorprese sul dividendo per le loro partecipazioni nel capitale di Bankitalia. Lo ha

fatto capire ieri il presidente dell'Abi, Antonio Patuelli, alla vigilia dell'assemblea generale dei partecipanti che

si aprirà questa mattina a Palazzo Koch. A chi gli chiedeva se la cedola sarà generosa, Patuelli ha risposto

che «la parola generosa non risponde all'investimento. È un titolo originale e atipico e sono convinto che ci

sarà più che altro una continuità con lo scorso anno; non mi aspetto sorprese». Il presidente dell'Abi si è poi

lamentato delle troppe regole che stanno bloccando l'accesso al credito. «Abbiamo da

un lato la Bce che dà liquidità per aumentare i prestiti poi ci sono altre autorità che

invece bloccano l'accesso al credito». Gli istituti, invece, hanno bisogno «di

programmare il futuro senza avere angoscia dei mercati, Grecia permettendo». Sui

venti di crisi che partono da Atene, Patuelli ha aggiunto che le banche italiane hanno

una esposizione sui titoli greci «ben poco significativa: il problema è più complesso e

riguarda l'Europa e possibili conseguenze di rimbalzo».

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PRIMO PIANO 26 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

IL DISCORSO DI

VISCO Ampio spazio sarà dato al futuro del credito nell’anno dell’Unione bancaria.

Atteso più di un riferimento ai crediti deteriorati

Oggi le Considerazioni finali di via Nazionale. Già a Washington il Governatore ha escluso il rischio di un’estensione all’Italia della tensione sui mercati

Bankitalia allontana lo spettro del «contagio»Roma Quel che pensa dei sobbalzi di mercato legati alle asperità del negoziato greco, Ignazio Visco lo aveva chiarito a Washington poco più di un mese fa e non è da escludere che colga l’occasione per ribadirlo nelle Considerazioni finali che leggerà oggi alle dieci e trenta nel Salone dei partecipanti di Palazzo Koch. «È sbagliato parlare di contagio» aveva sottolineato il governatore in quell’occasione, rispondendo a chi chiedeva notizie sul nostro paese, dopo che i mercati si erano innervositi perché il ministro delle Finanze greco, Ianis Varoufakis, aveva fatto balenare per la prima volta la minaccia di non ripagare il debito. «Nel 2011 - aveva ricordato Visco - il differenziale di tasso era salito a 550 punti base e ciò era dovuto a due cose: il fatto che in Italia il debito pubblico continuasse a salire e la percezione continua di un rischio grave sull’euro. Fu la combinazione delle due cose- spiegò al termine degli incontri di primavera del Fmi il responsabile di via Nazionale- a rendere molto difficile in quel momento l’emissione di titoli di stato. In questa fase parlare di contagio è sbagliato». Qualche tensione sul mercato finanziario ci può anche essere, aveva aggiunto, perché c’è uno stato, la Grecia, che ha difficoltà nella definizione del programma necessario per avere i finanziamenti concordato e necessario affinchè le banche di quel paese possano ottenere il rifinanziamento , per svolgere la loro attività di intermediazione. «Ma le autorità monetarie - era stata la conclusione- fanno molta attenzione all’andamento dei mercati e sono impegnate a garantire un flusso di liquidità ampio, volto al garantire l’acquisto di titoli di stato: si tratta , com’è noto di un programma molto ingente. Dunque, ci sono tutti gli strumenti necessari». Sono giudizi che valgono anche per una giornata come quella di ieri, nella quale il fattore Grecia ha continuato ad a essere il principale market mover, dopo che domenica pomeriggio il ministro degli interni ellenico, Nikos Voutis, aveva ribadito che in mancanza di un accordo con i creditori internazionali Atene non sarà in grado di onorare i pagamenti dovuti al Fmi il mese prossimo, con la prima scadenza dovuta che cade il 5 di giugno. Per l’Italia restano sempre validi i due commenti espressi dal responsabile di Bankitalia: il primo è che il firewall tecnico rispetto alle tensioni esiste ed è la politica monetaria ultra-accomodante decisa a Francoforte. Il secondo commento, che però da un punto di vista logico per Visco viene prima, è che «l’euro è irreversibile». Ma, al netto della questione greca, l’intervento odierno del governatore sarà concentrato, con ogni probabilità, sul tema della crescita in Italia: anche il nostro paese, finalmente, sta uscendo con fatica dai sette lunghi anni di crisi e l’analisi Banca d’Italia assegna buone probabilità a un recupero ciclico più robusto di quanto non si pensasse qualche mese fa. Dunque, quello 0,7% d’ incremento del Pil che il governo si è dato come obiettivo, quest’anno può essere raggiunto. Visco tuttavia non ha mai nascosto che il ritorno a una crescita che possa creare un forte recupero dell’occupazione passa, soprattutto, per un aumento degli investimenti. Un ampio spazio poi, nella relazione di oggi avranno le riflessioni sul futuro del mondo del credito e sulle sue regole, nell’anno in cui si è materializzato il passaggio all’Unione bancaria. Infine, è assai probabile che nelle Considerazioni finali il governatore faccia il punto sulle vie per risolvere rapidamente il problema dei crediti deteriorati.La posizione di Via Nazionale su questo aspetto è in linea con il governo, mentre sono ancora in corso i confronti tecnici con le direzioni generali Ue, Concorrenza e Mercato finanziario, nonchè con la vicepresidenza della Commissione europea. Visco aveva spiegato in Parlamento qualche settimana fa che è importante rispondere con una strategia articolata e con un intervento accentrato, una Asset management company, nella quale lo Stato potrebbe giocare un ruolo, o come

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azionista con una piccola quota o assicurando delle garanzie, ovviamente rispettando le norme europee. © RIPRODUZIONE RISERVATA Rossella Bocciarelli

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MF

Numero 102, pag. 2 del 27/05/2015

BANCA D'ITALIA 2015

Le Considerazioni finali del governatore: nella commissione ue c'&egrave; un'anima tecnica e una politica

Visco: basta veti sulla bad bank

Il numero uno di Via Nazionale: la discussione con l'Ue sia rapida, occorre saper distinguere le distorsioni della concorrenza dalle politiche per superare i fallimenti del mercato. No a regole miopi. Anche nella vigilanza bancaria

di Francesco Ninfole

Su bad bank e regole bancarie l'Europa deve abbandonare politiche miopi, che si limitano al puntiglioso

rispetto di regole formali, e non considerano invece gli effetti sostanziali per l'economia e il sistema

finanziario. È questo uno dei messaggi principali lanciati ieri dal governatore Ignazio Visco, nel giorno della

relazione annuale di Banca d'Italia. Il banchiere centrale ha fatto dichiarazioni di principio, con toni paludati,

ma i riferimenti sono concreti. In

primis c'è il tema dell'intervento

pubblico per lo smobilizzo delle

sofferenze bancarie (la cosiddetta

«bad bank»). Sullo sfondo c'è inoltre

la questione delle regole di vigilanza

per gli istituti.

La materia che oggi ha la priorità è il

credito deteriorato, perché il problema

dell'eccesso di sofferenze nei bilanci

delle banche è quello che incide di più sul credito. I prestiti continuano a scendere, anche se a tassi più bassi

di quelli registrati in passato. Una soluzione per favorire i prestiti è stata da tempo individuata da Tesoro e

Bankitalia: un veicolo potrebbe rilevare una parte delle sofferenze (circa 100 miliardi di prestiti a imprese,

secondo recenti ipotesi di Via Nazionale), creando un mercato più efficiente delle sofferenze e liberando

spazio per nuovi finanziamenti, soprattutto alle pmi. «Lo sviluppo di un mercato secondario dei crediti

deteriorati, oggi pressoché inesistente, contribuirebbe a riattivare appieno il finanziamento di famiglie e

imprese», ha sottolineato Visco. «È in corso sul tema una discussione con le autorità europee, che

auspichiamo sia rapida e costruttiva».

Il confronto con gli organi Ue va avanti da mesi, ma senza risultati tangibili. Bruxelles teme l'esistenza di aiuti

di Stato a vantaggio degli istituti.

L'Italia ritiene invece la misura

necessaria non per salvare le banche,

ma per sostenere il credito e la

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crescita del Paese. Peraltro la necessità di interventi sulle sofferenze è stata evidenziata dalla stessa

Commissione nelle recenti raccomandazioni al Paese. «Se non si affronta in maniera chiara il problema

dell'efficacia e dell'efficienza del sistema bancario l'economia ne soffrirà», ha ripetuto ieri Marco Buti, dg della

direzione Affari economici della Commissione Ue. Ieri Visco ha sottolineato che «nella Commissione

convivono un'anima tecnica, custode delle regole comuni, e l'embrione di un governo politicamente

responsabile», di conseguenza «va trovata una sintesi nell'interesse del corretto funzionamento del mercato

interno e dell'economia europea». Nei giorni scorsi anche il ministro Pier Carlo Padoan aveva sottolineato

che «a fronte di un atteggiamento politico molto positivo, l'atteggiamento tecnico della Commissione è

assolutamente negativo».

Un'eccessiva attenzione agli aspetti tecnici rischia per il governatore di essere controproducente: l'Europa

dovrebbe invece saper distinguere meglio «comportamenti scorretti e azioni predatorie» da «fallimenti del

mercato». Quest'ultima espressione è stata usata più volte dai vertici di Bankitalia per indicare l'attuale

situazione del mercato delle sofferenze: per i non performing loan è difficile definire prezzi a cui le banche

sono disposte a vendere, e i fondi sono disposti a comprare: è la conseguenza anche dei lenti tempi di

recupero dei crediti deteriorati. Novità su questo fronte, così come in materia di deducibilità fiscale delle

perdite su credito, non sono un aiuto alle banche, ma al contrario la rimozione di «svantaggi competitivi»,

secondo il governatore.

In definitiva, l'intervento del settore pubblico per Visco non va escluso a priori: piuttosto «vanno approfondite

le ragioni che differenziano politiche per attivare i meccanismi di mercato» da «aiuti di Stato distorsivi della

concorrenza». L'Italia è finita sotto la lente dell'antitrust Ue anche per le imposte differite attive (Dta) generate

a causa della deducibilità delle perdite in cinque anni. Sulla bad bank il sistema italiano si è mosso in ritardo

rispetto ad altri Paesi che si sono trovati in una situazione peggiore durante la crisi: Spagna, Irlanda, Regno

Unito e Germania hanno varato ingenti salvataggi pubblici per le banche (per 250 miliardi solo in Germania).

Dopo le ampie concessioni del passato, ora l'Ue chiede un'applicazione rigorosa delle nuove norme sugli

aiuti di Stato, nel frattempo divenute molto più rigide. Il paradosso è che le regole più vincolanti sono ora

applicate al Paese che meno di ogni altro ha usufruito del sostegno pubblico. Peraltro non è affatto scontato

che gli aiuti di una «bad bank» (che sarebbe diversa da quelle viste in passato in Europa) si traducano in una

perdita per lo Stato, che anzi potrebbe guadagnare, come già accaduto con i Monti e Tremonti bond per Mps.

«Nel dibattito tra Paesi, talvolta difficile e teso, si fa meglio ascoltare chi dimostra di far bene a casa propria»,

ha ricordato il governatore, con implicito riferimento all'apprezzamento di Bruxelles per il cammino intrapreso

dall'Italia sulle riforme. Proprio Visco aveva auspicato misure di sistema sulle sofferenze nel Forex di due

anni fa. Ieri il messaggio è stato molto più forte, anche a causa del tempo che nel frattempo si è perso. Il

governatore ha riservato le due pagine conclusive della relazione al tema del ruolo pubblico sui fallimenti di

mercato.

Un altro ambito di confronto con l'Europa riguarda la vigilanza bancaria. In questi giorni si stanno definendo i

criteri con cui saranno fissati gli obiettivi di capitale delle banche. «L'esigenza primaria di garantire la solidità

delle singole istituzioni andrà soddisfatta senza attenuare, in questa fase di ancora incerta ripresa, la

capacità di erogare credito all'economia», ha assicurato Visco ai banchieri, che temono l'incertezza nei

prossimi anni legata alle procedure Bce sui requisiti specifici per le banche (il cosiddetto Srep, che

quest'anno si è limitato a considerare i risultati di stress test e Aqr). Inoltre in Bce si sta lavorando

sull'omogeneità dei modelli interni degli istituti, validi ai fini patrimoniali. Dall'estero è forte la pressione dei

regolatori a guardare con particolare attenzione i rischi di credito e dei titoli di Stato, chiudendo un occhio

sugli eccessi della finanza speculativa e su derivati e titoli illiquidi (sulla materia si veda anche il numero

settimanale di Milano Finanza in edicola). Il governatore ha ribadito ieri la necessità di «un bilanciamento tra

regole e discrezionalità: non arbitrio, ma neanche applicazione acritica e miope delle regole». Nella vigilanza,

in particolare, occorre «la ricerca di un equilibrio, che non vuol dire lassismo, tra interventi microprudenziali

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sui singoli soggetti vigilati e compatibilità macroprudenziali, riferite alla stabilità complessiva del sistema

finanziario».

Senza un'adeguata calibratura delle norme sarà inevitabile l'impatto sull'economia, come ha sottolineato ieri

Gian Maria Gros-Pietro, presidente del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo: «Non può sfuggire, alle

istituzioni politiche e tecniche europee, che tutto ha un prezzo: chiedere continui aumenti di patrimonio per

rafforzare la solidità delle banche può ottenere alla lunga l'effetto paradossale di contrastare la crescita

economica e la stessa stabilità finanziaria, dirottando risorse verso canali finanziari non regolati o meno

trasparenti». Visco è consapevole del problema: per effetto delle nuove regole «l'erogazione di prestiti diverrà

più selettiva», ha osservato. Nel futuro il ruolo delle banche dovrà essere compensato dall'Unione dei mercati

dei capitali, anche se il problema resta nella fase di transizione verso il nuovo modello finanziario. Le banche

dovranno fare la loro parte, riducendo costi, anche attraverso le possibili fusioni innescate dalla riforma delle

popolari: «I benefici potenziali sono cospicui ma non scontati», ha osservato Visco, che ha invitato le bcc a

«non procrastinare il cambiamento».

Infine sulla politica monetaria della Bce, Visco ha respinto la posizione di chi in Europa vuole chiudere il Qe il

prima possibile per gli eccessivi pericoli del programma: «Saremmo andati incontro a rischi molto maggiori se

non avessimo avviato gli acquisti di titoli», ha rilevato. (riproduzione riservata)

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MF

Numero 102, pag. 4 del 27/05/2015

BANCA D'ITALIA 2015

L'analisi del governatore: verità pesanti ma dette senzastrillare

di Angelo De Mattia

La forma è piana; non vi sono impennate retoriche, né appelli e, tanto meno, moniti o lanci di allarme. Le

Considerazioni Finali, lette ieri a Palazzo Koch da Ignazio Visco, sono una ragionata indicazione, preceduta

da una rigorosa analisi, dei passi che in Italia, «come nel comune cammino in Europa», si devono compiere.

Per legge non si produce ricchezza, né si creano posti di lavoro, ma il mercato ha i suoi limiti che la crisi

globale ha drammaticamente riproposto. Di qui il ruolo cruciale del governo dell'economia e della finanza, che

non deve imbrigliare la forza del mercato, ma accompagnarne l'evoluzione. Sulla base di questo

presupposto, la politica economica deve difendere i risultati importanti conseguiti nell'anno, nel nostro Paese,

ma che restano fragili; deve fronteggiare i rischi di un più accentuato indebolimento dell'attività produttiva nei

paesi emergenti e di un aggravamento delle tensioni internazionali, avendo presente che la politica monetaria

da sola non può garantire una crescita duratura; deve promuovere e realizzare interventi e riforme che in

definitiva aumentino la produttività e il potenziale di crescita; è altresì chiamata a sospingere l'innovazione

attraverso maggiori investimenti pubblici e privati in quei settori che hanno tradizioni importanti, ma anche

carenze di rilievo. Maggiore capacità di innovazione nel campo privato, dunque, rinnovamento della pubblica

amministrazione anche come condizione per avviare processi di revisione della spesa pubblica, e difesa e

sviluppo dei risultati sinora conseguiti con l'azione di risanamento e di rilancio, con un apporto rilevante della

politica monetaria: questa, una delle possibili sintesi delle «C.F.». In questo quadro, si colloca il ruolo delle

banche. L'indirizzo riformatore deve proseguire con un programma organico e coerente. Se la politica

economica, pur con i limiti della fragilità delle acquisizioni, svolge il proprio compito e quella monetaria ha

dato il suo contributo fondamentale per la crescita del prodotto e per il suo rafforzamento nel prossimo anno,

se il pubblico e il privato devono fare la propria parte innanzitutto nel campo dell'innovazione, è il sistema

bancario e gli organi di controllo che ora devono corrispondere all'esigenza di riforme e al sostegno

dell'economia reale. Il sistema è provato dalla lunga recessione. Visco apprezza le riforme varate per le

Popolari, anche se non aggiunge nulla per le caratteristiche della fase di attuazione né fuga alcuni timori

presenti nella categoria e, in generale, nel territorio di competenza; per le Fondazioni, apprezzando le

previsioni del noto Protocollo in specie in materia di investimenti e governance, e per le banche di credito

cooperativo, sollecitando il cambiamento, in particolare attraverso forme di integrazione basate

sull'appartenenza a gruppi bancari: la cosiddetta autoriforma, che però dovrà essere vagliata dagli organi di

controllo e poi avrà bisogno di un supporto legislativo. Affronta, poi, il tema delle sofferenze, dopo avere

elencato le misure necessarie per riformare le procedure per il recupero dei crediti, a cominciare dal

superamento dalla farraginosità della giustizia civile. Il Governatore auspica che il confronto con le Autorità

europee sia rapido e costruttivo e consenta di dare vita allo sviluppo di un mercato secondario dei crediti

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deteriorati: leggasi «bad bank» od organismo similare. Sennonché finora le predette Autorità contestano le

soluzioni fin qui proposte, evocando il divieto degli aiuti di Stato che, però, Visco, in un altro passaggio,

afferma doversi distinguere nettamente dalle politiche volte ad attivare i meccanismi di mercato. Occorre, poi,

progressivamente spostare una parte del processo di intermediazione dalle banche ai mercati, mentre si

assiste, per ora, solo ad alcuni segnali di miglioramento del mercato del credito che presenta, altresì,

condizioni che restano eterogenee. La valutazione, in alcune aree del sistema, di ipotesi di aggregazione è

importante, ma i benefici delle concentrazioni non sono scontati, dice il Governatore. Poi le «C.F.» si

soffermano sulla Vigilanza unica e sull'Unione bancaria e, qui, viene ribadito il rilievo mosso alla eccessiva

imposizione alle banche di dotazioni di capitale, affermandosi, con termini soft propri di un Governatore, che

la solidità degli intermediari deve essere soddisfatta senza attenuare la capacità complessiva di erogare il

credito all'economia. Il richiamo alla necessità dell'armonizzazione delle legislazioni in materia societaria,

fiscale e fallimentare è parte integrante del paragrafo e tocca un punto in cui l'Europa appare in grave ritardo.

Progressi chiari sulla strada dell'Unione bancaria, andando oltre il meccanismo unico di risoluzione delle crisi

bancarie, sono chiaramente rallentati dalla diversità normativa e delle disposizioni secondarie, a seconda

delle differenti giurisdizioni. In questo versante occorrerebbe maggiore determinazione per l'affermazione di

una vera par condicio. Quanto al bail-in, il Governatore chiede che vi sia un grande sforzo di informazione

della clientela sui rischi che essa potrà correre, nel caso di crisi bancarie, se detenga di strumenti diversi dai

depositi e dai titoli garantiti. L'informazione finanziaria è comunque in via generale, nella visione di Visco, un

caposaldo che egli affianca alla formazione. Avere, come paese, le credenziali a posto, dice in conclusione il

Governatore, è il modo migliore per farsi ascoltare in Europa. Ed è una sintesi accettabile, a condizione che

anche l'Europa non assuma le vesti soltanto di un occhiuto e formalistico controllore. Spetta ora alla politica

non strumentalizzare gli aspetti convenienti per le proprie posizioni e svalutare quelli contrari. La lettura deve

essere integrale. (riproduzione riservata)

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MF

Numero 102, pag. 20 del 27/05/2015

COMMENTI & ANALISI

Contrarian

Quote di Bankitalia al nodo cruciale della redistribuzione

Nelle Considerazioni finali lette ieri il governatore Ignazio Visco ha informato che la Banca d'Italia sta

lavorando alla dematerializzazione delle quote del proprio capitale con l'intento di realizzare, a regime, un

apposito segmento di mercato nel quale possano avvenire gli scambi per via telematica in modo da conferire

liquidità all'investimento. La dematerializzazione è appositamente prevista dalla legge che ha riformato il

capitale dell'istituto e la governance. Le quote in questione, come noto, possono essere

possedute solo da banche, imprese di assicurazioni, fondazioni di origine bancaria, enti

di previdenza e fondi pensione. Ciascun partecipante non può possedere più del 3%

del capitale. Gli intermediari che ora detengono una percentuale superiore, in

particolare Intesa Sanpaolo e Unicredit, debbono rientrare nel limite anzidetto entro 36

mesi, cioè entro il 2017. Durante tale periodo di adeguamento agli istituti non spetta,

nell'assemblea dei partecipanti, il diritto di voto sulle quote eccedenti, ma hanno diritto

al riconoscimento dei relativi rendimenti, che invece non avranno più una volta

trascorso questo periodo senza che si sia provveduto a ottemperare alla legge. In

quest'ultimo caso i dividendi, secondo la legge, saranno imputati alle riserve statutarie dell'istituto. Ieri Visco,

anche con lo scopo di fornire un elemento che potrà facilitare la redistribuzione delle quote, ha confermato

l'orientamento del consiglio superiore per il riconoscimento di futuri dividendi secondo l'intervallo degli importi

definito nello scorso anno e in quest'anno, nel quale son state deliberate assegnazioni per 340 milioni. La

legge prevede, altresì, che per favorire il rispetto dei limiti di partecipazione l'istituto possa acquistare

temporaneamente le proprie quote e stipulare contratti che le abbiano a oggetto. In tal caso il diritto di voto è

sospeso e i dividendi sono imputati alle predette riserve. La legge non chiarisce il significato dell'avverbio

«temporaneamente» che, dunque, è da ritenere rimesso a una ragionevole interpretazione da parte del

consiglio superiore. Se, però, le quote che dovessero essere acquistate dalla stessa banca fossero per

importi rilevanti, allora ne scaturirebbe un problema di governance. In misura minore, certo, rispetto a quello

che nascerebbe se l'istituto acquisisse tutte le proprie quote, che renderebbe (o, riferendosi a quando l'idea

fu avanzata, avrebbe reso) la banca autocefala, ma pur sempre un problema. Resta, poi, l'interrogativo sulle

probabilità che l'operazione di redistribuzione giunga in porto entro il periodo anzidetto. Il presidente della

commissione Industria del Senato, Massimo Mucchetti, ha affrontato con perizia questa problematica in un

articolo sul Corsera, sollevando una serie di interrogativi che meriterebbero una riflessione. Ovviamente tutto

verrebbe meno se si avesse la certezza (per quel che umanamente si può conseguire) della riuscita della

redistribuzione. Ma siamo proprio in questa situazione? Se no, è bene pensare sin d'ora alle misure da

adottare, magari in chiave massimamente precauzionale e prudenziale, come del resto è nella

ultracentenaria tradizione di Via Nazionale.

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PRIMA PAGINA 27 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

CREDITO E CONTROLLI

Lezioni italiane di vigilanza bancaria

Le Considerazioni Finali della Banca d’Italia sono una ottima occasione per un messaggio a Francoforte: la nuova vigilanza europea può imparare molto dall’esperienza italiana. Almeno due le lezioni: la vigilanza non deve scimmiottare la politica monetaria; i vigilanti non devono essere discrezionali, ma applicare regole uguali per tutti. Il Governatore della Banca d’Italia Visco ha aperto e chiuso le annuali Considerazioni Finali mettendo sul proscenio il ruolo che la banca centrale nazionale può e deve giocare nel disegno delle politiche comuni europee. In apertura, il riferimento è stato esplicito. Rimarcando il fatto che oramai il 40% dell’attività della Banca d’Italia è legato alle funzioni di politica monetaria e di vigilanza dell’Unione, il Governatore ha ricordato il disegno a geometria variabile che lega le varie banche centrali nazionali nel sistema europeo, con apice a Francoforte, nella Banca centrale europea (Bce). È una geometria variabile il cui successo dipenderà in modo cruciale dalla capacità di tutti gli attori di individuare le politiche a somma positiva, in cui cioè – magari in orizzonti temporali diversi – l’interesse comune europeo si sposi con quello nazionale. L’individuazione delle migliori politiche comuni è particolarmente vitale e al contempo delicata nel perimetro della vigilanza bancaria e finanziaria. Il Governatore ha sottolineato come la vigilanza europea sia un “sistema di autorità”, costituito nel contempo dall’organo sovranazionale che è la Bce e dagli organismi nazionali di controllo, in cui decisioni e prassi vanno prese in modo condiviso. Questo significa che l’assetto di governo della vigilanza europeo è complesso per almeno tre ragioni: da un lato gli attori sono eterogenei e numerosi; dall’altro la politica di vigilanza ha delle specificità che non vanno dimenticate, legate al suo modus operandi. Un assetto di governo complesso può prendere buone decisioni solo se ha la lungimiranza di seguire le migliori pratiche. Continua pagina 22 Donato Masciandaro Continua da pagina 1 Per la vigilanza, la Banca d’Italia può e deve essere un esempio almeno da due fondamentali punti di vista.In primo luogo, la politica di vigilanza non è la politica monetaria. La politica monetaria è gestione di prezzi monetari, cioè di tassi di interesse, su orizzonti più o meno lunghi e/o diversificati. In altri termini l’azione monetaria di una banca centrale è per sua natura una politica ciclica. In Europa la BCE e congiuntamente la Banca d’Italia hanno finora svolto in modo efficace l’azione macroeconomica, assolvendo il mandato della stabilità monetaria. Ma la vigilanza bancaria non è gestione di prezzi, ma monitoraggio sulle regole di condotta, volte ad aumentare la stabilità finanziaria. Ed il primo requisito per avere regole efficaci e che esse siano a loro volta certe e stabili. La ricerca di certezza e stabilità è stata una tradizionale bussola dell’azione di vigilanza della Banca d’Italia. Altrimenti la vigilanza crea rischi di incertezza e ciclicità. Questa è la prima lezione che Roma può offrire alla vigilanza europea, che da questo punto di vista è già partita con almeno due passi falsi. Prima, la infelice politica dei coefficienti di capitale definita dall’autorità bancaria europea (EBA) a cavallo tra il 2011 ed il 2012. Poi l’altrettanto infelice avvio della vigilanza europea del novembre 2014, con una moltiplicazione di presunte pagelle bancarie grazie a presunti stress test, nonché di conferenze stampa a Londra, Francoforte e Roma, parallele nei tempi, ma discordanti nei contenuti. Un triste balletto, che ci si augura venga risparmiato nel 2015. Inoltre la vigilanza bancaria deve avere regole uguali per tutti. Il Governatore ha illustrato come procederà l’azione di vigilanza sul campo, con “gruppi congiunti” formati da supervisori di diversa nazionalità. La definizione del modus operandi della vigilanza sarà un importante banco di prova per il neonato sistema europeo. Anche in questo caso il procedere di una vigilanza condivisa è ricca di opportunità, ma anche di incognite. La ricchezza dei “gruppi misti” può essere la loro diversità, ma anche la

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loro endemica debolezza. In più, esiste sempre il rischio di cattura del gruppo, se per qualche ragione, economica o politica, il gruppo non è governato dalla prevalenza delle migliori pratiche. Le migliori pratiche sono quelle che caratterizzano la vigilanza con le migliori performance. Nessuno può negare che la stabilità del sistema bancario italiano è stata tra le migliori, qualunque sia l’indicatore considerato, a partire dal costo per i contribuenti dell’instabilità. Quindi sarà opportuno, per l’Europa innanzitutto, che il ruolo della vigilanza italiana sia attivo e rilevante. Anche in questo senso si possono leggere le parole finali delle Considerazioni: “Le autorità nazionali, politiche e tecniche, sono essenziali nel processo di decisione europeo. (…). Nel dibattito tra paesi, talvolta difficile e teso, si fa meglio ascoltare chi dimostra di far bene a casa propria”.© RIPRODUZIONE RISERVATADonato Masciandaro

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PRIMO PIANO 27 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

LE PROCEDURE PIÙ

GRAVOSE Gli adempimenti per ottenere un’autorizzazione e l’elevata instabilità delle norme sono problemi molto rilevanti per il 55,4 e 45,2% delle aziende

«Imprese frenate da burocrazia e corruzione»

Dal Governatore la denuncia degli ostacoli che pesano sugli investimenti, anche

esteri

romaTroppi adempimenti burocratici, procedure complesse e poco efficienti, giustizia lenta, sistema formativo carente. Una situazione «aggravata» dai fenomeni di corruzione e in più aree anche di criminalità organizzata. Sono ostacoli che pesano sulle imprese italiane, penalizzandone la crescita. Ma non solo: scoraggiano anche gli investimenti esteri in Italia, che restano modesti nel confronto internazionale.Lo ha ammesso e sottolineato il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nel paragrafo delle Considerazioni finali dedicato all’economia italiana e a come consolidare la ripresa. «Ostacoli all’attività delle imprese e alla loro crescita vengono in Italia, oltre che da limiti di natura finanziaria, soprattutto dal contesto in cui è condotta l’attività economica», sono state le parole di Visco, pronunciate subito dopo aver sollecitato il mondo imprenditoriale a investire di più in innovazione e a crescere. Da una parte lo stimolo a fare di più, dall’altra la consapevolezza degli handicap che gravano sulle imprese e che bisogna rimuovere se vogliamo essere competitivi. «La pubblica amministrazione è arretrata nel confronto internazionale e sulle imprese pesa un sovraccarico di burocrazia» unito all’«instabilità delle norme». Una consapevolezza che ha spinto la Banca d’Italia a dedicare nella Relazione annuale un approfondimento sulla Pa.Nel discorso di ieri Visco ha sintetizzato alcune valutazioni su ciò che rende difficile il contesto competitivo: «La complessità del quadro normativo, la scarsa efficienza delle procedure e delle azioni delle amministrazioni pubbliche, i ritardi della giustizia, le carenze del sistema dell’istruzione e della formazione frenano lo spostamento di risorse produttive verso le aziende più efficienti, uno dei principali meccanismi alla base della crescita della produttività».È stata avviata un’azione di riforma, «riconosciuta a livello internazionale». Ma «per non deludere le aspettative di cambiamento occorre allargarne lo spettro e accelerarne l’attuazione». In alcuni casi, ha aggiunto il Governatore, i benefici non sono immediati, ma questo «è un motivo in più per agire». Tanto più che il rinnovamento dell’amministrazione secondo Visco è anche la condizione per quella revisione della spesa pubblica che salvaguardi e potenzi la qualità dei servizi.Nell’indagine condotta da Bankitalia sulle imprese industriali e dei servizi emerge che quelli di maggiore ostacolo sono gli adempimenti connessi con il rilascio di autorizzazioni e l’elevata instabilità delle norme, percepiti come molto rilevanti dal 55,4 e dal 45,2% delle imprese. Queste percezioni trovano conferma nelle classifiche internazionali: l’Italia figura alla 25° e 22° posizione tra i 28 paesi Ue nella graduatoria degli indicatori “concessione di licenze” ed “efficacia del governo” della Banca mondiale, con il Sud in ritardo del 33% rispetto al Centro Nord. Le stime mostrano che alcune misure adottate in passato per ridurre gli oneri burocratici e semplificare la regolamentazione per l’avvio dell’attività hanno avuto effetti positivi sulla natalità d’impresa.A pesare è anche la sovrapposizione di competenze tra centro e periferia, che genera incertezza. Il decentramento amministrativo non si è accompagnato a una revisione degli enti territoriali e il disegno di legge di riforma costituzionale in esame al Parlamento, è scritto nella Relazione, non affronta il riparto di competenze sull’affidamento e l’esecuzione dei contratti pubblici e sulla disciplina dei servizi pubblici locali, «ambiti rilevanti per l’economia e che hanno generato incertezza del diritto». Ma sono molti i campi in cui l’Italia è in ritardo: nello sviluppo delle tecnologie web della burocrazia, secondo la classifica della Commissione europea che misura gli sviluppi dell’Agenda digitale Ue, nel 2014 l’Italia occupava la 25° posizione tra i 28 paesi membri.

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Quanto alla giustizia la durata dei processi resta molto elevata (anche se dal picco di fine 2009, con oltre 5.700.000 casi, al 30 giugno 2014 ci sia stato un calo del 18% dei procedimenti pendenti): la quota dei procedimenti che giacciono da più di tre anni nei tribunali è pari in media al 28%, con punte positive del 4% e negative del 64 per cento. Secondo il Corruption Perception Index l’Italia è il paese Ue con più elevati livelli di corruzione insieme a Bulgaria, Grecia e Romania.© RIPRODUZIONE RISERVATANicoletta Picchio

«piano» sofferenze

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PRIMO PIANO 27 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

LE MISURE

NECESSARIE Visco cita la riforma fallimentare per facilitare il recupero e la norma sulla deducibilità fiscale, ma non menziona la «Bad bank»

Visco in pressing sul «piano» sofferenze

Il Governatore esorta a varare le norme necessarie per smaltire i 350 miliardi di

crediti deteriorati

Roma

Fare, fare bene, fare in fretta. Mai prima d’ora il richiamo della Banca d’Italia a un

intervento articolato sui crediti in sofferenza era stato così chiaro e reiterato. Non una

delle tante moral suasion ai vigilati, quella indirizzata ieri dal governatore Ignazio

Visco nelle sue considerazioni finali, ma un appello vero e proprio ai decisori italiani e

soprattutto a quelli europei, cui spetta il via libera ultimo e definitivo su azioni che

rischiano di essere bollate come aiuti di Stato e quindi dissuadere le banche a farne

uso.

Ora o mai più, sembra dire Visco. Perché la situazione, ha fatto intendere ieri, è unica

e irripetibile. Da un lato c’è la marea di liquidità iniettata dalla Bce attraverso Qe e

soprattutto T-Ltro (di cui un terzo finita alle banche italiane) e i tassi «scesi di oltre un

punto dall’inizio dello scorso anno», con «il differenziale rispetto a quelli francesi e

tedeschi che si è più che dimezzato rispetto ai massimi di due anni fa». Dall’altro lato,

c’è una ripresa finalmente concreta ma che va consolidata. In mezzo, le imprese con la

loro domanda di credito non sempre soddisfatta e soprattutto le banche, ancora caute

negli impieghi più rischiosi per via degli impatti sul capitale (dove Bce non fa sconti,

anzi) e delle rettifiche sui crediti deteriorati, in calo ma pur sempre su livelli

elevatissimi: solo alle 12 banche quotate, nel primo trimestre sono costati 2,7 miliardi.

Di qui l’input del Governatore: saldare i conti del passato per immaginare un futuro

diverso. Come? Abbattendo la montagna dei 350 miliardi di crediti dubbi che si trova

tuttora in pancia alle banche italiane: 200 miliardi di sofferenze, ricorda Visco, cui si

aggiungono i 150 miliardi degli altri prestiti deteriorati; in totale, fa il 17,7% degli

impieghi in essere. «Lo sviluppo di un mercato secondario dei crediti deteriorati

contribuirebbe a riattivare appieno il finanziamento di famiglie e imprese», dice

Visco. Ricordando che «proponiamo da tempo iniziative in questa direzione, anche

con il concorso del settore pubblico: stiamo collaborando con il Governo a disegnarle,

nel rispetto della disciplina europea degli aiuti di Stato».

Come ormai noto, il piano studiato dal Mef prevede tre misure: Visco cita

espressamente la riforma delle norme fallimentari che regolano il recupero dei crediti

e l’allineamento al resto d’Europa su un anno per la deducibilità fiscale delle perdite

sui crediti ma non menziona la bad bank, che è il terzo punto. Non perché sia ritenuta

non necessaria, ma perché è il fronte più arduo da spendere politicamente e quello su

cui la Commissione europea per ora resta più intransigente; e poi perché l’auspicio in

Via Nazionale è che con le prime due misure ben implementate forse della terza si

possa anche fare a meno.

«Sul tema è in corso una discussione con le autorità europee, che auspichiamo sia

rapida e costruttiva», dichiara Visco, facendo capire che non si tratta solo a Bruxelles,

negli uffici della Commissione, ma anche a Francoforte, in Bce. La sensazione è che

qualche spiraglio, finalmente, ci sia: «All’inizio abbiamo trovato un muro, adesso si

sta ragionando», diceva ieri un alto funzionario di Bankitalia molto attivo sui vari

fronti comunitari.

I banchieri, dal canto loro, si preparano a cogliere l’attimo. Su 350 miliardi di Npl,

negli ultimi mesi sul mercato ne sono finiti appena 3,5 in una manciata di deal che ha

visto protagonisti Mps, Bper, UniCredit: una goccia nel mare. I principali specialisti

delle sofferenze bancarie si sono posizionati, lo spazio di manovra potenzialmente è

immenso. Se il mercato degli Npl «oggi è inesistente», come ha brutalmente ricordato

sempre Visco, è per una questione di prezzo, cioè i 29 punti percentuali che

mediamente – secondo un recente report di Goldman Sachs – separano il prezzo a cui

le anche sono disposte a vendere i propri Npl dal prezzo che gli operatori sono

disponibili a pagare per comprarli. Sempre Goldman, però, ha calcolato che oltre la

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metà di questo gap potrebbe essere colmato con la revisione delle norme sul recupero

crediti. La montagna, dunque, può essere scalfita.

.@marcoferrando77

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Marco Ferrando

Pagina 2 di 2Il Sole 24 Ore

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MF

Numero 103, pag. 13 del 28/05/2015

MERCATI

Bankitalia sempre più revisore di sistema

di Giuliano Segre*

Una relazione, quella del Governatore di martedì scorso, molto macro, tutta giocata sui grandi temi

dell'economia dei sistemi piuttosto che degli operatori: davvero interessante. La politica monetaria e

finanziaria amministra capitali e di questi tende a gestire e regolare i prezzi: nel nostro Paese i fenomeni

sono connotati da tempo. I capitali sono pochi e si muovono con un certo disagio di fluidità; i prezzi pertanto

sono consistenti e - connessi all'inflazione - sono alti. Oggi, però, dell'inflazione abbiamo perso le tracce, i

prezzi (gli interessi) sono bassi, anzi nell'ultimo periodo sono addirittura sottozero, non remunerano il capitale

e perciò questo è sempre meno attivo nell'economia reale. Visco osserva che questo è un fenomeno europeo

e in effetti negli Usa e in Giappone il fenomeno è evitato o superato, mentre in sette Paesi europei i tassi

sono negativi nell'orizzonte dei tre anni e in Germania erano negativi a nove anni fino a poco tempo fa.

Dunque in questo territorio inesplorato la Bce si è cimentata in un esercizio finora mai tentato,

quell'alleggerimento quantitativo che sta ottenendo le prime inversioni di prospettiva economica.

Ma soprattutto il tema è italiano: qui il diradamento del capitale bancario è evidente, soprattutto per la

distribuzione, di quel poco che si presenta nei mercati, in un numero ancora consistente di banche, alcune

delle quali refrattarie fino a ieri a considerare il capitale come un normale fattore della produzione,

considerandolo invece un biglietto da visita qualitativo da mostrare in pubblico, offrendone la titolarità

all'interessamento della opinione pubblica, generale e politica. Questa non è certamente un buon gestore, dal

momento che ha comunque altri obiettivi.

Sul tema allora il Governatore esprime tre - sinteticissimi - pareri, confortati dai fatti: la forma cooperativa del

capitale delle banche popolari ha ostacolato la capacità di rivolgersi al mercato dei capitali per superare gli

shock esterni; gli organi di governo delle Fondazioni (di origine bancaria), non troppo indipendenti, hanno

mantenuto sovente una eccessiva concentrazione dell'attivo in un singolo emittente; le bcc hanno dimensioni

troppo esigue per preservare il loro spirito mutualistico e dovranno integrarsi fra loro per poi svolgere la

propria funzione all'interno di gruppi bancari maggiori. L'intervento necessario e urgente per aggiustare

queste tre malformazioni di gruppo è in atto: per le prime ci ha pensato il Parlamento, per le seconde vi è una

autoriforma collettiva concordata con il ministero del Tesoro, per le terze la associazione di categoria deve

impegnarsi per soluzioni concrete.

Insomma la Banca d'Italia di Ignazio Visco si pone come un vero e proprio revisore di sistema per altri

soggetti, politici o associativi, che provvedano a migliorare il contesto dei soci di capitale del sistema bancario

italiano: è un tema assai interessante che comporta una presenza ben più argomentata di quella della sola

funzione di vigilanza e che dovrebbe finalmente riaprire anche le capacità di orientamento degli esperti

Pagina 1 di 2Bankitalia sempre più revisore di sistema - MilanoFinanza.it

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accademici o dei consulenti operativi che nei tempi recenti hanno spesso latitato a favore di scelte societarie

miopi perché troppo vicine o addirittura incastrate nel governo delle banche.

*presidente Fondazione Venezia

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COMMENTI E INCHIESTE 28 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

Vie per una crescita durevole

Il percorso indicato dalla Banca d’Italia serve a consolidare i segnali di ripresa

Nelle Considerazioni Finali il Governatore ha delineato il percorso per il

consolidamento della ripresa con un'ampia e puntale disamina dell'economia italiana

all'interno del contesto internazionale, confermando la necessaria visione

sovranazionale riferita all'area euro (per la politica monetaria e per il meccanismo di

vigilanza unica) , all'unione europea (per la regolazione e azione pubblica in materia

economica e finanziaria) e al resto del mondo (per l'economia reale trainata

dall'export). Dei numerosi spunti meritevoli di approfondimento, tre paiono di

particolare momento guardando avanti.

Il primo: l'Unione Bancaria. Il Governatore ne ha ricordato l'avvio rapido ed efficace e

la capacità dimostrata dalle banche italiane, tranne due, di farsi trovare preparate al

test europeo. La convergenza, e con essa la possibilità di competere su un piano di

gioco davvero livellato, è però solo incominciata e rimangono aperte diverse partite

molto delicate per le banche italiane. Con il programma di supervisione 2015,

concordato per la prima volta a livello comune, è stata avviata l'analisi dei modelli

interni applicati dalle banche e validati in passato dalle autorità di vigilanza nazionali.

Le banche degli altri paesi dell'eurozona presentano rapporti tra gli attivi ponderati per

il rischio (calcolati appunto con i modelli interni) e il totale attivo molto più bassi

rispetto al 58% delle banche italiane (del 37% per le banche tedesche e francesi e 47%

per le spagnole) quindi presentano coefficienti patrimoniali più alti . Una maggiore

uniformità tra i modelli interni potrebbe portare ad un incremento dei fabbisogni

patrimoniali per le grandi banche degli altri paesi e questo potrebbe in qualche modo

favorire le banche italiane. Per livellare il terreno di gioco occorrerà però anche

progressivamente correggere l'anomalia della parziale indeducibilità delle rettifiche su

crediti e della conseguente iscrizione di attività per imposte anticipate trasformate in

crediti di imposta che vengono attualmente conteggiati nel capitale di base (stimati in

circa il 10% dello stesso). Sebbene le modalità con cui si sono formate facciano

escludere che si tratti di aiuti di stato (si tratta di importi pagati all'erario), e ne

giustifichino l'inclusione nel patrimonio, non si può non considerare che si tratta di un

unicum a livello europeo e che vi sia quindi la richiesta che vengano riassorbite per

consentire una maggiore comparabilità dei bilanci. L'altro aspetto ancora da risolvere

riguarda i crediti in sofferenza e gli altri prestiti deteriorati presenti nei bilanci delle

banche italiane per ben 350 miliardi, considerati dal Governatore un ostacolo

all'erogazione di nuovi prestiti.

Il secondo: Quantitative easing ed economia reale. L'allentamento quantitativo già ha

prodotto due effetti espansivi – l'indebolimento dell'euro e tassi di interesse molto

contenuti – si tratta però di effetti temporanei che richiedono l'adozione di misure che

conducano a risultati durevoli. L'indebolimento dell'euro ha migliorato la

competitività delle imprese italiane. Sin dalla conferenza stampa di presentazione del

Qe a marzo, il Presidente Draghi ha fatto appello agli altri attori di politica economica

perché contribuiscano a favorire la ripresa e sfruttino il margine disponibile per

adottare politiche più favorevoli alla crescita, ricordando anche il ruolo nella ripresa

degli investimenti effettuati dalle imprese. Sono nuovi investimenti, nelle parole del

Governatore già avviati o programmati nei prossimi mesi, che serviranno per innalzare

durevolmente la competitività, per migliorare la produttività, per innovare, per entrare

in nuovi mercati, per creare nuovi posti di lavoro.

Sarebbe opportuno che quei nuovi investimenti diventino l'occasione per aumentare il

capitale proprio. Il riequilibrio nelle fonti di finanziamento delle aziende italiane,

necessario per riportarle ad una leva finanziaria in linea con la media europea, è stato

quantificato dal Governatore Visco nelle Considerazioni finali dell'anno scorso in un

aumento di circa 200 miliardi del capitale proprio e di una corrispondente riduzione

dei prestiti. Per una sana e prudente gestione occorre coerenza tra la durata degli

impieghi e la durata delle fonti, serve quindi il finanziamento degli investimenti con

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fonti durevolmente legate alle sorti delle imprese, ossia capitale proprio. Un altro dato

sintetizza il fabbisogno di capitale proprio delle imprese: le circa 2000 grandi aziende

che compongono il campione Mediobanca presentano un margine di struttura negativo

di circa 230 miliardi di euro. In altri termini, 230 miliardi di immobilizzazioni fisse

nette che anziché essere finanziate da capitale proprio, sono finanziate da capitale di

debito e in parte anche da debiti bancari a breve. L'azienda entra in crisi se alla

scadenza dei debiti a medio termine, o alla richiesta di rimborso di quelli a breve, non

è in grado di trovare altre fonti sostitutive. Anche i prestiti a medio termine a tasso

fisso, negoziabili in questo momento a condizioni particolarmente favorevoli,

andranno ad un certo punto rimborsati.

L’attuale contesto di tassi di interessi bassi, ampia liquidità e quotazioni di borsa in

rialzo è particolarmente favorevole per le ammissioni alle quotazioni e non solo, per

l’allungamento delle scadenze delle fonti di finanziamento a titolo di credito che sta

già avvenendo. Non andrebbe quindi persa l'occasione per nuovi apporti di capitale di

rischio – derivanti dall'autofinanziamento, immessi dall'imprenditore, raccolti sul

mercato e/o provenienti dall'estero – atti a finanziare fisiologicamente quei nuovi

investimenti delle imprese che possono innalzarne la produttivi tà e migliorarne

stabilmente la competitività anche quando l'effetto cambio non sarà più così

favorevole e i tassi si saranno normalizzati a livelli più elevati.

Anche il progetto di Capital markets union, richiamato dal Governatore, sarà tanto più

efficace a sostegno di una crescita durevole quanto più riuscirà a diffondere la cultura

dell'equity e a favorire la raccolta di capitale di rischio. Peraltro un maggiore ricorso al

mercato da parte delle imprese migliorerà anche la qualità del credito delle banche.

Il terzo aspetto e forse più importante: all’inizio delle Considerazioni il Governatore

ha riscontrato un'accelerazione nelle riforme in Italia nel 2014, concludendo però

ricordando che è meglio ascoltato nel dibattito tra paesi a livello europeo chi dimostra

di onorare gli impegni e fare le riforme in casa propria. La ripresa è incominciata, ora

occorre continuare negli sforzi affinché possa consolidarsi e radicarsi anche dopo il

Qe.

Marina Brogi è docente alla facoltà

di Economia – Università di Roma La Sapienza

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Marina Brogi

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CASSA DEPOSITI E PRESTITI

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MF

Numero 103, pag. 17 del 28/05/2015

MERCATI

Cdp stacca un dividendo da 853 milioni

di Mauro Romano

Cassa Depositi e Prestiti ha staccato una cedola da 853 milioni di euro. La decisione è stata presa

dall'assemblea che ieri ha approvato il bilancio 2014 chiuso con un utile di 2,2 miliardi. Il Tesoro, che detiene

l'80,1% di Cdp, incasserà un assegno di 683 milioni. Mentre alle Fondazioni, con il 18,4%, andranno circa

157 milioni. Sempre ieri il cda di Cassa ha deliberato finanziamenti per 850 milioni che andranno alla regione

Sardegna e ad Autovie Venete spa per il terzo lotto Alvisopoli- Gonars e per la variante alla statale 352.

Progetto, quest'ultimo, cui andranno 150 milioni e che sarà tra i primi candidati alla garanzia del piano

Juncker. (riproduzione riservata)

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FINANZA & MERCATI 28 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

Risultati. Disco verde dell’assemblea dei soci al bilancio 2014

Cdp: cedola da 853 milioni per il Mef e le

fondazioni

ROMA

Cassa depositi e prestiti stacca il dividendo per i suoi azionisti, il ministero

dell’Economia e le 60 fondazioni bancarie che controllano il capitale della spa di Via

Goito. Ieri l’assemblea dei soci del gruppo guidato da Giovanni Gorno Tempini - che

ha approvato il bilancio 2014, chiuso con un utile di 2,2 miliardi di euro per Cassa spa

- ha deciso di distribuire una cedola di 853 milioni, invariata rispetto allo scorso anno.

Al ministero dell’Economia, che detiene l’80,1% di Cdp, andranno quindi 683 milioni,

mentre le fondazioni (a cui fa capo il 18,4% del capitale) incasseranno circa 157

milioni.

Nel corso dell’assemblea è stato poi presentato anche il bilancio consolidato 2014, che

va in archivio con un utile di 2,7 miliardi di euro, inclusivo della quota di pertinenza

di terzi. Nel 2014, si ricorderà, le risorse mobilitate e gestite dal gruppo Cdp sono state

pari a 29 miliardi di euro, in aumento del 4% rispetto all’esercizio precedente, e il

contributo della sola capogruppo è stato di oltre 19 miliardi di euro, in crescita del

18% rispetto al 2013. Tali risorse sono state destinate per il 53% alle imprese, per il

39% in favore degli enti pubblici e per l’8% alla realizzazione di infrastrutture. Il

totale dell’attivo si è attestato invece a 402 miliardi di euro, in aumento di oltre il 9%

rispetto al 2013, con le disponibilità liquide che hanno raggiunto quota 184 miliardi di

euro, in crescita del 21% se confrontate con l’esercizio precedente.

Sempre ieri, poi, il cda della Cassa, presieduto da Franco Bassanini, ha deliberato la

concessione di 850 milioni di euro di finanziamenti. La fetta più significativa (700

milioni) andrà alla regione Sardegna e sarà destinata alla realizzazione di opere di

competenza e interesse regionale. Nel comunicato diffuso ieri a valle del board, si

precisa che le somme saranno riservate, tra l’altro, «a interventi sulle infrastrutture del

servizio idrico e di mitigazione del rischio idrogeologico, interventi di edilizia

scolastica, universitaria e residenziale, e interventi nel settore della viabilità».

I restanti 150 milioni di euro saranno invece assegnati ad Autovie venete spa - che è la

società concessionaria delle autostrade A4 Venezia-Trieste, A23 Palmanova-Udine

Sud,A28 Portogruaro-Pordenone-Conegliano, A57 tangenziale di Mestre e della A34

Villesse Gorizia - per la copertura degli investimenti relativi alla realizzazione del

terzo lotto Alvisopoli-Gonars e della variante alla Ss 352 di Grado. il progetto è tra i

primi che saranno candidati dall’Italia tra quelli destinati a beneficiare della garanzia

del “piano Juncker” (European Plan for Strategic Investments). L’asse autostradale di

cui fa parte la rete gestita da Autovie venete, chiarisce ancora la nota di ieri, «riveste

un ruolo rilevante, in quanto inserito nella rete europea dei trasporti (Ten-T) e parte

del cosiddetto “Corridoio V”, che dovrebbe collegare Lisbona e Kiev.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Ce. Do.

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UNIONE EUROPEA

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4 CORRIERECONOMIA LUNEDÌ 25 MAGGIO 2015

Il rebus della crisiIndicatori & politica

Primo Piano

PIER CARLO PADOAN

s.F.

2,0

1,5

0,5

1,0

Andamento dell’indicatore chemisura la distanza tra la salutedell’Italia e quella dei Paesidell’Unione europea

Italia vs Ue

TREND

SUPERINDICE

11

1997 98 99 00 01 02 03 04 05 06 07 08 09 10 11 12 13 14 15 16

Fonte: Ameco Database. Dati riferiti al 5/2/2015 MATTEO RENZI

2,0

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s.F.

SUPERINDICE

TREND

97 98 99 00 01 02 03 04 05 06 07 08 09 10 11 12 13 14 15 16

Fonte: Ameco Database. Dati riferiti al 5/2/2015

T

97 98

1

Andamento dell’indicatore chemisura la distanza tra la salutedell’Italia e quella dei Paesidell’Unione monetaria

Italia vs Eurozona

Termometri Il severo verdetto del Superindice dell’ Istituto Bruno Leoni in grado di confrontare la nostra salute economica con quella dei Paesi Ue

Analisi Deficit & debito? L’Europa è sempre più lontanaLe distanze quasi annullate nel 2002. Adesso Bruxelles e Francoforte sfuggono di nuovo, nonostante le riformeDI DARIO DI VICO

Il ciclo delle riforme av-viate dal governo Renzi cista avvicinando all’Euro-pa oppure no? La politica

sta riuscendo nel compito diutilizzare al massimo le condi-zioni macro-economiche favo-revoli di oggi per risanarel’economia e le malattie d’untempo?

Per rispondere a queste duedomande, abbastanza crucialinell’anno di grazia 2015, l’Isti-tuto Bruno Leoni ha deciso dicreare un Superindice econo-mico che possa servire via viaa monitorare la distanza tral’Italia e la media dei Paesi Uee, ancora, tra l’Italia e la mediadei membri dell’Eurozona.

Spiega l’economista NicolaRossi che ha messo a punto,con la collaborazione di PaoloBelardinelli, il meccanismo:«Il nostro intento è di renderea Cesare quel che gli spetta ov-vero distinguere i meriti e leresponsabilità del governo. Ela maniera più diretta e com-prensibile per farlo è quella dimisurare la distanza tra noi e ipartner europei. In teoria senoi avessimo fatto tutte le ri-forme necessarie questa di-stanza avrebbe dovuto esserecolmata da tempo. Non è cosìe i risultati dei nostro calcoli cidicono che non ci sono i segnievidenti di un’inversione ditendenza».

Ma facciamo un passo in-dietro e vediamo come si è ar-

rivati a confezionare il Supe-rindice. «Fa riferimento esclu-sivo alla dimensione macro-economica e in particolare adaspetti essenziali che sonopresumibilmente influenzatidalle riforme strutturali»spiega Rossi.

ComposizioneA comporre il Superindice

concorrono quindi il tasso dicrescita del Pil in termini reali,il tasso di disoccupazione e didue indicatori dello stato dellefinanze pubbliche cui fannoesplicito riferimento le regole fiscali europee ovvero il rap-porto tra deficit e Pil e il rap-porto tra debito e Pil. Chiude ilcerchio il rapporto tra bilanciadei conti correnti e Pil. «In de-

finitiva abbiamo seguito unaprocedura statistica che portaa condensare le diverse di-mensioni in un solo numero,come misura sintetica e di fa-cile computo, costruita a parti-re da dati ufficiali». Se l’Italiafosse la fotocopia della mediadella Ue o dell’Eurozona il Su-perindice avrebbe valore zero.Il numero che misura la di-stanza Italia-media Eurozonaè nel 2015 pari a 0,699 e quelloche traccia la distanza Italia-Ue è 1,018. Più dei valori asso-luti merito attenzione l’anda-mento del Superindice.

ConfrontiNei due grafici riportati in

alto nella pagina si può vederel’oscillazione di questo indica-tore: nel 2003 la differenza Ita-lia-Eurozona era scesa a 0,396e nel 2008 a 0,441, la distanzaItalia-Ue nel 2002 era arrivataal minimo di 0,347 per poi ri-salire. In sostanza a fronte dianni virtuosi in cui le policy adottate a Roma ci avevanoavvicinato a Bruxelles e Fran-coforte abbiamo, invece, peri-odi più lunghi in cui ci siamofatti trascinare in direzioneopposta. «Il che vuol dire -commenta Rossi - che al ritmosperimentato nell ’ultimoquindicennio ci vorrebberodecine d’anni per vedere l’Ita-

lia attestarsi sui livello medidell’Eurozona. E non è dettoche l’Eurozona possa aspetta-re».

Se dall’analisi di medio pe-riodo passiamo a quella dibreve i motivi di preoccupa-zione aumentano. Prendendoinfatti la linea di tendenza peril 2015 e 2016 disegnata sullabase dei dati ufficiali Ue non sinotano significative inversionidi tendenza (anzi il Superindi-ce ci segnala un netto peggio-ramento del 2015 sull’annoprima) e ciò nonostante il ci-clo di riforme approvate e/oimplementate dal governoRenzi. «Perché la distanza au-menta? La prima risposta èche l’impatto delle riformepuò essere differito nel tempoe quindi oltre il 2016. La secon-da, più negativa, ci porta a direche non si sono fatte le riformegiuste o le più urgenti. Adesempio si potrebbe sostenereche la priorità numero uno an-dava assegnata alla riformadella pubblica amministrazio-ne e all’interno di essa alla re-visione dei meccanismi di spe-sa».

Su questo terreno il gover-no ha fatto poco e niente e ha

Il primo trimestre positivo?Non basta

In un anno la mediadell’Unione è cresciuta dell’1%, noi per nulla

GLI INGREDIENTI DEL SUPERINDICE

-0,5%1,3%0,8%

0,6%1,7%1,3%

1,3%2,1%1,9%

ITALIAUEEUROZONA

12,8%10,2%11,6%

12,8%9,8%

11,1%

12,6%9,3%

10,6%

ITALIAUEEUROZONA

-3,0%-3,0%-2,6%

-2,6%-2,6%-2,2%

-2,0%-2,2%-1,9%

ITALIAUEEUROZONA

132%88%94%

133%88%94%

132%88%93%

ITALIAUEEUROZONA

1,77%1,64%2,78%

2,61%1,92%3,19%

2,56%1,88%3,05%

ITALIAUEEUROZONA

2014 2015 2016

TASSO DI CRESCITADEL PIL

TASSO DIDISOCCUPAZIONE

DEFICIT / PIL

DEBITOPUBBLICO / PIL

BILANCIA DEI CONTICORRENTI / PIL

Font

e: C

omm

issi

one

Euro

pea.

Dat

i rif

erit

i al 5

/2/2

015

s.F.

NOI E GLI ALTRIL’indice della salute economica dei vicini di Eurozona

SUPERINDICE TREND

Fonte: Ameco Database. Dati riferiti al 5/2/2015

FRANCIA

2,02,53,0

1,5

0,51,0

1997 01 05 09 13 2016

2,02,53,0

1,5

0,51,0

1997 01 05 09 13 2016

SPAGNA 2,0

1,5

0,5

1,0

1997 01 05 09 13 2016

GRECIA

FRANÇOIS HOLLANDE

ALEXIS TSIPRAS

MARIANO RAJOYs.F.

privilegiato quelle che chiama«piccole e inutili operazioni disostegno della domanda inter-na» come gli 80 euro. Il ri-schio a questo punto è cheun’azione incoerente della po-litica vanifichi le condizionimacro-economiche di conte-sto largamente favorevoli(azioni Bce, prezzo petrolio esvalutazione dell’euro). Sottoquesto profilo, il Documentodi Economia e Finanza, secon-do l’Istituto Leoni, sembra rin-viare al 2017 molti impegni enon utilizzare il contesto favo-revole per realizzare l’aggiu-stamento. «Ho letto che il con-

sigliere economico di palazzoChigi, Tommaso Nannicini,sostiene che il +0,3 del primotrimestre 2015 del Pil è ugualeper Italia e per la Ue e quindiabbiamo ripreso l’Europa. Inrealtà i due numeri non si pos-sono comparare – sottolineaRossi - bisogna invece allunga-re lo spettro di analisi e pren-dere in esame i tassi di crescitatendenziali sull’anno. Così sivede che la nostra crescita èstata in questo arco di tempopari allo zero e l’Europa inveceha fatto segnare +1». E il Supe-rindice lo sottolinea.

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EconomistaNicola Rossi: ha co-struito il Superindice

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CORRIERECONOMIA LUNEDÌ 25 MAGGIO 2015 5

Il grande appuntamentoL’analisi del sistema

Finanza

Banca d’Italia E intanto le sofferenze hanno raggiunto i 350 miliardi di euro. E pesano sull’economia. L’asse con Padoan

I nodi del GovernatoreAbbiamo poco capitaleper giocare in EuropaDomani le Considerazioni finali in via NazionaleDI STEFANIA TAMBURELLO

Ignazio Visco, governato-re della Banca d’Italia ri-tiene che il passaggiochiave dello sviluppo

economico sia l’innovazione. Attorno all’evoluzione tecno-logica, cioè, si misurerà la so-lidità della crescita e si muo-verà il rilancio dell’occupazio-ne e del reddito, e si misure-ranno i maggiori bisogni diistruzione e conoscenza e ditrasparenza e legalità. «I tem-pi stanno cambiando» è il ti-tolo del suo più recente saggioe assieme il leith motiv delsuo pensiero economico. C’èda scommettere che il ritmodel cambiamento scandiràanche le Considerazioni finaliche Visco illustrerà all’annua-le assemblea della Bancad’Italia che in via del tuttostraordinaria si svolgerà mar-tedì 26 maggio, in netto anti-cipo rispetto alla tradizionedel 31 maggio.

Sistema più ampioSe l’analisi economica del

Governatore, nell’ottica di as-secondare l’innovazione, pun-terà ad individuare le stradeper rafforzare la crescita e svi-luppare gli investimenti, an-

che alla luce dei significativicontributi dati dalle misureespansive della Bce, la sua di-sanima dei problemi del mon-do del credito si concentreràsui nodi della transizione ver-so un sistema pienamente eu-ropeo. Sui nodi, ma forse èmeglio dire sul nodo princi-pale, cioè quello delle soffe-renze accumulate dalle ban-che negli anni della recessio-ne. L’ammontare dei creditinon rimborsati soprattuttodalle imprese, è rimbalzatonelle ultime settimane dairapporti della stessa Bancad’Italia a quelli del Fondo mo-netario e della Bce: 350 mi-liardi di partite deteriorate dicui 197 di sofferenze, cioè diprestiti diventati inesigibili.

SollecitazioniAssieme alle cifre è arriva-

ta anche la sollecitazione a ri-solvere il problema, facilitan-do la vendita sul mercato ditali crediti difficili, medianteanche la loro cartolarizzazio-ne, così da liberare risorse peril credito all’economia. Lostesso Visco ha ripetuto in piùoccasioni la necessità di atti-vare - perlomeno per gli isti-tuti di media e piccola dimen-sione - un’iniziativa di sistemae di studiare regole e incentivi

per rimettere in moto il mer-cato, fermo, delle cartolarizza-zioni.

RigiditàLa ricerca di una soluzione

- guidata dal ministro del-l’Economia, Pier Carlo Pado-an che si avvale del supportotecnico dello stesso Visco edei suoi collaboratori, si sta però dimostrando più diffici-le di ogni previsione perché ilgoverno italiano non riesce ascalfire le rigidità degli ufficitecnici della commissione eu-ropea in merito al divieto de-

gli aiuti di Stato. Non esistonoi 10 comandamenti, regolecerte scritte sulla pietra perdefinire cosa è e cosa non èaiuto di Stato, ha spiegato inParlamento Padoan che perònon è riuscito ad ottenere finora il via libera non solo aduna bad bank pubblico-priva-ta ma neanche ad una garan-zia pubblica, pure a pagamen-to, per i titoli. Per ora ci saran-no altri interventi come peresempio la riduzione dei tem-pi delle procedure concorsua-li, per ottenere cioè la liquida-zione delle garanzie legate ai

prestiti non rimborsati. Inter-venti utili ma non risolutivi, adetta delle stesse autorità chehanno sollecitato una soluzio-ne. E non è un caso che il Fon-do monetario nel suo docu-mento elaborato al teminedella missione in Italia in vi-

sta del rapporto «ArticoloIV» abbia suggerito - in primoluogo alla Banca d’Italia - diprevedere un limite di tempoper le sofferenze oltre il qualeprevedere accantonamentipiù consistenti degli attuali.Tali indicazioni sembrano as-

secondare la linea di maggio-re severità verso le banche ita-liane adottata dal nuovo mec-canismo di vigilanza della Bceche punta a rafforzare i para-metri di capitali richiesti. Unapolitica questa che Visco vor-rebbe fosse più graduale perevitare di frenare l’azione del-le banche verso l’economia, inuna fase di riavvio della ripre-sa. Da qui la difficoltà del-l’azione della Banca d’Italia agestire la transizione e a gui-dare il sistema italiano versoun adeguato livello di capita-lizzazione e di redditività.

Quella delle Considerazio-ni finali sarà quindi per Viscoun’ulteriore occasione per in-dicare il tragitto ma anche persottolineare l’importanza diun sistema di credito solido eredditizio per sostenere lacrescita. Così come è essen-ziale il ruolo delle impreseche investono in un quadroche vede il governo accelerareil suo piano di riforme pernon vanificare le opportunitàofferte dall’azione della politi-ca monetaria.

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L’analisi

Tre sfide(possibili)per Via NazionaleDI NICOLA SALDUTTI

F orse la Banca d’Italiaè l’istituzione che più

di ogni altra ha dovutoadattarsi e anticipare al-cuni cambiamenti. Nonsolo perché la vigilanzasulle principali bancheitaliane da novembre del2014 è passata alla Ban-ca Centrale Europea, masoprattutto perché il si-stema finanziario italiano( e non solo) in questi an-ni di crisi ha dovuto attra-versare molti passaggi. Emolti ne ha ancora da-vanti. Prendiamo il casodelle Banche Popolari,Bankitalia ha spinto intutti i modi perché diven-tassero società per azioni,adesso c’è una legge chelo ha stabilito ma sarànecessario seguirne (e inqualche modo indirizzar-ne) l’attuazione.

La montagna dei cre-diti difficili, le cosiddettesofferenze, pari a oltre190 miliardi, mette a du-ra prova l’equilibro tra lefunzioni publiche e quelledi mercato. Chi potràavere la maggioranza?Che ruolo dovrà avere ilministero del Tesoro?Forse è il banco di provapiù difficile dai tempi del-le privatizzazioni degliistituti di credito.

Poi c’è la questionedelle questioni. In questianni i requisiti patrimo-niali per le banche sonovia via cresciuti per poterfar fronte ai rischi legati almercato. Un percorso chenell’ultima fase vede pro-tagonista la Banca Cen-trale Europea. Forse nonè un caso che l’aumentodi capitale del Monte deiPaschi di Siena partaquasi in contemporaneacon la Relazione del Go-vernatore. Il primo esem-pio di vigilanza che ormaiè sotto la regia di Franco-forte. Seppure con un co-ordinamento continuocon via Nazionale. Saràmolto importante veder-ne l’esito per capire anchequali saranno gli scenarifuturi delle aggregazione.

C’è poi la questionedelle regole, sempre piùstringenti. Per gli istitutimade in Italy appare de-cisiva la modalità con laquale si consentirà dicontabilizzare, a livellopatrimoniale, la propriaposizione fiscale. In qual-che modo la sensazione èche negli ultimi anni lebanche italiane abbiamodovuto fare sforzi mag-giori rispetto a quelle dipaesi come la Germania ela Francia dove il sistemapubblico è intervenutomolto di più nei salvatag-g i . G r a z i e p r o p r i o aBankitalia, alla sua vigi-lanza, i requisiti patrimo-niale sono stati, negli an-ni della bufera, una buo-na difesa del sistema. Ilrischio è che ora nellacompetizione europea siimpongano criteri tropposfavorevoli all’italia ri-spetto ad altre aree. Laquestione è lì.

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Banca d’ItaliaIl direttore generale, Salvatore Rossi

Al vertice Il Governatore di Bankitalia Ignazio Visco

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la Repubblica2 LUNEDÌ 25 MAGGIO 2015ECONOMIA

La crisi

Atene sul baratro:“Abbiamo finito i soldi”Il governo ellenico: “Non stiamo bleffandola liquidità in cassa è terminata e senza accordonon paghiamo 1,6 miliardi al Fondo monetario”Schaeuble:“Tsipras rispetti gli impegni al 100%”

Cronaca di una bancarotta annunciataE il silenzio delle cancellerie nascondela sfiducia nella Commissione Juncker

ETTORE LIVINI

MILANO.Rien ne va plus. I soldi sono finiti. E laGrecia, per la seconda volta in pochi giorni, ri-badisce che a giugno non sarà in grado di rim-borsare il Fondo Monetario Internazionale.

«Non vogliamo il default e non stiamo bluf-fando — ha detto il ministro agli Interni,Nikos Voutsis — . Il problema è che di liquiditàin cassa non ce n’è più. E senza un intesa con icreditori che ci dia un po’ d’ossigeno, non po-tremo pagare gli 1,6 miliardi che dobbiamorestituire al Fondo monetario il prossimo me-

se». La prima rata da 305 milioni è in scaden-za il 5 giugno. Se Atene non onorerà i suoi de-biti, scatterà una procedura che entro un me-se potrebbe portare alla dichiarazione di in-solvenza, precipitando il Paese (e forse tuttal’area euro) nel caos. Grande preoccupazioneper l’apertura dei mercati, stamattina.

I nodi, insomma, sono arrivati al pettine ecome prevedibile — con il tempo ormai aglisgoccioli — tutti tendono a drammatizzare lasituazione. Alexis Tsipras, reduce dal sum-mit con Angela Merkel e Francois Hollanderesta ottimista: «Un compromesso onorevole

è vicino», ha ribadito. I negoziati tecnici hanno avvicinato le po-

sizioni su privatizzazioni, Iva e riforma dellapubblica amministrazione. Le parti però re-stano lontanissime sui temi più spinosi (lavo-ro e pensioni). E nessuno pare disposto a fareun passo indietro.

«Noi abbiamo colmato i tre quarti della di-stanza che ci separavano dai creditori, oratocca a loro venirci incontro», ha ribadito il mi-nistro alle finanze ellenico, Yanis Varoufakis.Peccato che, allo stato, Bce, Ue e Fmi non ab-biano nessuna intenzione di farlo. «La Greciadeve onorare al cento per cento gli impegniche ha preso lo scorso 20 febbraio e proprioper questo ha davanti ancora tanto lavoro dafare», ha dichiarato, inflessibile, il ministrodelle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble.

Cosa succederà ora? I negoziati, in teoria,ripartono domani in sede tecnica per provarea limare le differenze. E’ chiaro però che a que-sto punto serve una svolta in tempi rapidi,coinvolgendo la politica ai massimi livelli. Enon a caso Tsipras, Merkel e Juncker tengonoaperto in queste ore un canale di collega-mento diretto per evitare pericolosissimi cor-

to circuiti. Le speranze di arrivare nelle pros-sime settimane a un’intesa a 360 gradi checomprenda pure l’impegno a ridiscutere il de-bito ellenico (come chiede Atene) sono ridot-te al lumicino.

La partita, dicono in molti, si avvicina piut-tosto al momento cruciale del “prendere o la-sciare”. L’allarme liquidità di Voutsis e le ulti-me uscite di Tsipras («non toccheremo le pen-sioni e non accetteremo umiliazioni») sonogià un passo in questa direzione. Atene è con-vinta che l’Europa non possa permettersi di

BRUXELLES.Non una riga, nean-che una parola. Un ministrogreco annuncia pubblicamen-te in televisione che il suo Paesefarà default a giugno senza es-sere smentito dal governo. E daBruxelles non arriva alcun com-mento. Un silenzio assordante,reso ancora più esplicito dal fat-to che nessuna delle altre di-ciotto capitali della zona euroha sentito il bisogno di reagiread una notizia che, se fosse ve-ra, cambierebbe il destino del-l’Ue. Ormai l’Europa non pren-de più sul serio Atene neppurequando annuncia la propriabancarotta. Anche perchè que-st’ultima sparata greca non è

certo arrivata come una sorpre-sa.

Dietro il silenzio ufficiale,però, la diplomazia monetaria èfebbrilmente al lavoro su moltifronti per cercare di chiudereun accordo e di evitare così il de-fault della Grecia. Un eventoche, annunciato o meno, saràcomunque inevitabile senza losblocco dell’ultima tranche delprestito europeo. Da una partecontinuano i negoziati in corsotra i funzionari di Atene e quel-li di Commissione, Fmi e Bancacentrale europea. Dopo che Tsi-pras ha cambiato la composi-zione della delegazione greca,le trattative sul piano tecnicohanno fatto registrare notevoliprogressi. Ora finalmente è ab-bastanza chiaro quali sono ipassi da compiere e la decisionese andare avanti o meno è tor-

nata in mano ai politici. Ma c’è anche un’altra partita

che si gioca questa volta sotto iltavolo del negoziato. E riguardail ruolo della Commissione e delsuo presidente Jean ClaudeJuncker. All’ultimo vertice di

Riga, Tsipras ha avuto un in-contro con Merkel e Hollande alquale Juncker non è stato invi-tato. L’incontro è andato malis-simo e il premier greco si è vistodi fatto consegnare un ultima-tum che gli impone di accettaretutte le condizioni dei creditori

entro la fine di maggio. L’as-senza di Juncker al colloquio èstata interpretata dai più comeun gesto di sfiducia di Berlino eParigi nei confronti della Com-missione, considerata troppomorbida e conciliante nei con-fronti di Atene. Altri, invece, vihanno ravvisato una tattica ne-goziale concordata, con Merkele Hollande che indossano i pan-ni del poliziotto cattivo per la-sciare a Juncker, nei panni delpoliziotto buono, un sia pur ri-dotto margine per lavorare adun compromesso dell’ultimaora.

Come che sia, la doccia fred-da di Riga ha prodotto un risul-tato ampiamente atteso: l’irri-gidimento della Grecia e il ri-corso all’«arma atomica» dellaminaccia esplicita di default.Prima Tsipras e poi Varoufakis

L’ANALISI

ANDREA BONANNI

A Riga il presidente dellaCommissione non è statoinvitato al verticeMerkel-Hollande-Tsipras

Cosa succede alla Grecia in caso di default

Uscita di Atene dall’euro per impossibilità a ripagare il debito

Conversionedall’euro alla dracma

di tutti i contanti,depositi, crediti

e debiti, stipendie pensioni

Impossibilitàdella Greciadi accedere

a prestitiinternazionali

(se non a tassi altissimi)

Il Tesorocostretto a

nuove tasseo a tagli di spesa

pubblicafortissimi

Finedell’accessodelle banche

alla Bce

Crisi bancariacon

svalutazionepesante attivi

Probabilenazionalizzazione

delle banche

Svalutazionepesante

della dracma(dal 40 al 70%)

Superinlazione(circa 20%)

Impulso all’exportcontrobilanciato

da un pesanteaumento dei

costi dell’import

Svalutazionerisparmidei greci

Corsa agli sportelli eprobabile blocco

conti correntie movimenti

capitali

Crollo potered’acquisto delle famiglie

Recessione,disoccupazione

GLI UCCELLI DI VAROUFAKIS

Su Twitter, a illustrare il profilo, il ministro grecodelle Finanze Varoufakis usa una foto di uccellisimili ad avvoltoi. Forse allude alle istituzionieuropee che, per Atene, affossano il Paese

TWITTER

IL PREMIER

Alexis Tsiprasguida il governogreco da gennaioscorso

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la Repubblica 3LUNEDÌ 25 MAGGIO 2015

PER SAPERNE DI PIÙec.europa.euwww.ecb.europa.eu

L’Europa trema per lo spettro del defaultlasciar uscire il Partenone dalla moneta unicaper i timori di un effetto contagio — «sarebbeun disastro per tutti», ha ribadito Varoufakis— e per le possibili implicazioni geopolitiche

di un suo slittamento verso la sfera d’influen-za russa.

Gli accordi raggiunti fino ad oggi, dicono ifautori di questa teoria, sono più che suffi-cienti per sborsare almeno una prima partedell’ultima tranche di aiuti da 7,2 miliardi. EMerkel, sono certi, si farà carico di convince-re i falchi, rinviando all’autunno il braccio diferro sugli argomenti più delicati delle trat-tative.

Succederà davvero? Possibile, ma non mol-to probabile. Il fronte del rigore in Europa è

convinto che l’uscita dalla Grecia dall’euro siaoggi più gestibile del 2012. E fare concessionia Tsipras significherebbe dare ossigeno alcrescente fronte anti-austerity nel vecchiocontinente. Più facile a questo punto che Ue,Bce e Fmi — per sbloccare l’impasse — pren-dano il toro per le corna mettendo a loro voltaAtene di fronte all’aut-aut: accettare un pia-no di riforme pre-confezionato da sottoscri-vere a scatola chiusa accompagnato da nuoviaiuti o la rottura delle trattative. Tsipras di-rebbe quasi sicuramente di no. Sia i suoi part-

ner di governo di Anel che l’ala massimalistadi Syriza sono sul piede di guerra contro pos-sibili compromessi al ribasso e ben difficil-mente accetterebbero ultimatum di questotipo. «Non è detto che l’uscita dall’euro sia poiun disastro», ha detto Panagiotis Lafazanis,leader dell’opposizione interna del partito

del premier. Bruxelles l’ha messo in conto, ma spera che

a quel punto Atene sottoponga il progetto areferendum dove i greci (il 71% di loro vuolerimanere nell’euro) potrebbero dire di sì. Unpercorso comunque ad ostacoli che sarebbequasi sicuramente accompagnato da misuredrastiche come i controlli sui movimenti di ca-pitali.

hanno fatto sapere che Atene ri-tiene di aver concesso tuttoquello che era possibile e chetocca ormai ai creditori farequalche passo avanti. Una mos-sa che potrebbe avere come ef-fetto quello di rimettere in gio-co Juncker nel ruolo di media-tore in extremis, ruolo che gli siaddice e che il presidente dellaCommissione ha già svolto mol-te volte in passato con grandeabilità.

Nella lunga storia dei defaultsovrani un default annunciato,come quello che sta mettendoin scena Atene, non si era anco-ra visto. Il motivo è semplice.Normalmente i governi nonpubblicizzano la loro impossibi-lità di pagare i debiti per nonspaventare ulteriormente imercati che li finanziano a tassisempre più alti. Ma, nel caso del-

la Grecia, questo rischio non esi-ste perchè praticamente tuttoil debito greco è nelle mani de-gli europei e del Fondo moneta-rio che da tempo hanno blocca-to i finanziamenti in attesa cheTsipras mantenga gli impegni

di riforme assunti dai suoi pre-decessori (e da lui confermatiin febbraio). La partita si giocadunque a carte scoperte.

In questo senso, l’annunciodel ministro degli interni NikosVoutsis, secondo cui le quattroscadenze di rimborso al Fmi

previste per giugno non ver-ranno rispettate, non è arrivatocome una sorpresa per nessu-no. Si sa da tempo che le cassegreche sono vuote e già qualcu-no si era stupito che a maggioAtene fosse riuscita a rimbor-sare 750 milioni al Fmi. Ora i po-chi soldi rimasti in cassa posso-no appena bastare per coprire ilpagamento di stipendi e pen-sioni a fine mese. E forse una pri-ma tranche di 300 milioni daversare il 5 giugno. Poi, se nonarriveranno i sette miliardi del-l’ultima tranche del prestito eu-ropeo congelata a fine dell’an-no scorso per l’inadempienzagreca, la bancarotta sarà inevi-tabile. Annunciarla pubblica-mente, come ha fatto ieri il go-verno, non l’avvicina. Ma di cer-to non l’allontana neppure.

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300

5 giugno

I prossimi debiti

in scadenza della Grecia(milioni di euro)

Creditore Fmi prestito 2010

563

16 giugno

Creditore Fmi prestito 2010

450

13 luglio

Creditore Fmi prestito 2010

2000

10 luglio

Bond in scadenza

1000

17 luglio

Bond in scadenza

2000

20 luglio

Bce (bond greci detenuti nel 2012)

1360Bce (bond detenuti da banchecentrali di Eurolandia)

25Bei (bond detenuti)

338

12 giugno

Creditore Fmi prestito 2010

2000Bond in scadenza

338

19 giugno

Creditore Fmi prestito 2010

1600Bond in scadenza

La partita si avvicinasempre di più al momentocruciale del“prendere o lasciare”

Il ministro delle Finanze,Varoufakis: “Noi abbiamofatto il nostro, ora tocca agli altrivenirci incontro”

Ma c’è chi sostieneche al politicolussemburghese toccheràla mediazione finale

“Situazione inquietantetemo un Fmi inflessibilee la Merkel che si defila”

L’INTERVISTA/L’ECONOMISTA DANIEL GROS

EUGENIO OCCORSIO

ROMA.«È vero che ci sono dei precedenti di scadenze saltate nei pa-gamenti all’Fmi come l’Argentina. Ma il caso greco è unico, per lesomme coinvolte che non hanno precedenti e per l’intersecarsi diragioni politiche, finanziarie e culturali che comporta. Perciò è in-quietante il preannuncio di Atene». Daniel Gros, direttore del Cen-ter for economic policy studies di Bruxelles, ha lavorato a lungo al-l’Fmi. Conoscendo il tipo di reazioni che Washington potrebbe ave-re, valuta con timore la risposta. «E non solo quella del Fondo», pun-tualizza. «Ho paura che a Berlino e Bruxelles, se ci sarà una reazio-ne negativa, prevarrà il sentimento: visto che non siamo noi i catti-vi? Che si scarichino la coscienza se tutto si rompe con l’Fmi,insomma. La Merkel non dovrà più andare in Parlamento a spiega-re che lei vuole a tutti i costi che la Grecia resti nell’euro».

Eppure la Germania è la più decisa nel cercare un’intesa.«Se è per questo non da oggi ma dal 2010. Resta un equivoco di

fondo. La Grecia vuole un accordo politico a priori su cui impernia-re la ricetta economica, la Germania, come Bruxelles e lo stesso Fmi,

vuole prima vedere i fatti. E l’unico fatto che si èvisto finora è la mancanza di capacità ammini-strativa nell’implementare misure efficaci. L’F-mi ha sempre lo stesso approccio: vi diamo i sol-di dietro condizioni precise. Ora vedremo comereagirà Washington ma per ora la palla ce l’han-no ancora i greci con la loro volontà o meno di fa-re sul serio con le misure anti-crisi. La cosa mi-gliore sarebbe se adottassero alcuni dei prov-vedimenti che gli vengono chiesti, e la parte cheesula dalle promesse elettorali la sottoponesse-ro a referendum. Ma sembra un’ipotesi che Tsi-pras non vuole, forse ha paura del risultato».

Era nell’aria uno stop ai pagamenti visto ilprotrarsi oltre ogni aspettativa delle trat-tative?«Intendiamoci: l’annuncio non equivale a

una conclusione infausta della vicenda. Direi che ce l’aspettavamoanche se l’Fmi non è il maggior creditore di Atene, e semmai ci si at-tendeva che fosse lui a gettare la spugna dichiarando irresolubileper la sua parte il caso. Gli economisti del Fondo sono tra l’altro in-nervositi perché anziché con il cospicuo surplus di bilancio pro-grammato, Atene chiuderà il 2015 con un pur contenuto deficitprimario. L’annuncio di ieri ribalta la situazione: è il primo credito-re a non ricevere i suoi soldi. Sono in gioco 21 miliardi di euro che laGrecia deve ancora all’Fmi, di cui 9,2 fra quest’anno e il 2016. Oravediamo cosa succederà con la Bce, alla quale di miliardi ne deve 27di cui 8,7 fra qui e il 2019. Se la Grecia non onorerà la prima rata pre-vedo il peggio. È il banco di prova decisivo anche per le contromisu-re che la Bce potrebbe prendere in termini di restrizione dell’atti-vità bancaria e di finanziamenti al Paese».

L’Fmi è il primo accusato per la micidiale austerity che ha mes-so in ginocchio il Paese.«È vero che l’austerity ha causato la recessione, ma senza reces-

sione il deficit esterno sarebbe rimasto a livelli inaccettabili con-ducendo alla bancarotta il Paese. La cura del Fmi ha funzionato indecine di economie, solo in Grecia si è tradotta in un simile disastro.Non è solo incapacità di governo: c’è anche per esempio la carenzadi export, che non supera il 12% del Pil ed è circoscritto a settori po-co profittevoli come i lavorati petroliferi o i noli marittimi».

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L’economistaDaniel Gros

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MF

Numero 101, pag. 4 del 26/05/2015

PRIMO PIANO

L'accordo in extremis serve a tutti, la Grexit sarebbe un disastro

Le cronache di queste ultime giornate riguardanti la vicenda greca potrebbero ben essere etichettate come

cronache di un esito ampiamente annunciato, soprattutto per la dimostrazione d'incapacità dell'Europa di

arrivare a una soluzione. Si sbaglierebbe, infatti, a ritenere che sia soltanto un espediente tattico o una

forzatura, la dichiarazione del ministro dell'Interno, Nikos Voutsis, secondo la quale la Grecia non pagherà le

quattro rate del rimborso del prestito al Fondo monetario internazionale scadenti a giugno per un importo

complessivo di 1,6 miliardi perché non ha il denaro necessario. È anche possibile che sia stata aggiunta una

componente di drammatizzazione, ma il riferimento alla mancanza delle risorse occorrenti è netto, sicché

difficilmente si potrebbe in tal modo barare nelle trattative inserendovi un elemento che non è poi così

favorevole alla Grecia. Il seguito che alle dichiarazioni di Voutsis ha poi dato Yanis Varoufakis, evocando il

rischio che l'uscita della Grecia dalla moneta unica attesti la non irreversibilità della stessa, dimostra come il

governo ellenico, dopo la conclusione non all'altezza delle aspettative dell'incontro di Alexis Tsipras con

Angela Merkel e François Hollande a Riga, abbia deciso di giocare tutte le carte in suo possesso e di mettere

in chiaro la propria situazione finanziaria, che sarà aggravata dal pagamento a fine mese di stipendi e

pensioni (subito dopo, il 5 giugno scade la prima delle quattro rate per 305 milioni). Dal 20 febbraio in avanti,

quando sono iniziate le trattative in questione, non si è fatto altro che temporeggiare. Non si vogliono di certo

escludere le responsabilità del governo greco; ma quelle dell'ex Troika e dei rispettivi danti causa appaiono

chiaramente maggiori. E non avere voluto imboccare la strada dell'accordo politico ai massimi livelli è stato

un gravissimo errore. Quando si è constatato che il negoziato, al livello del Gruppo di Bruxelles, non

progrediva come avrebbe dovuto, allora denegare l'intervento diretto del Capi di Stato e di Governo per una

eccezionale soluzione politica, che tenesse conto della straordinarietà della situazione e dei pericoli

incombenti per la stessa moneta unica è stata una manifestazione di forte miopia, soprattutto europea e

tedesca. La Grecia afferma che i progressi fatti da parte sua nelle trattative sono stati rilevanti; hanno

riguardato i tre quarti delle materie trattate e, dunque, l'ultimo quarto del percorso spetta ora ai creditori

compierlo. Non si può prendere, naturalmente, per oro colato ciò che gli esponenti ellenici affermano, ma che

un movimento rispetto alle posizioni iniziali vi sia stato è incontestabile. Nella situazione attuale, prossima alla

catastrofe, si dovrebbe ritornare sull'ipotesi della soluzione politico-tecnica. In ogni caso, nell'urgenza,

sarebbe un atto meritorio, concedere uno slittamento del rimborso delle rate anzidette di alcune settimane

per conseguire, nel frattempo, un'intesa, tanto più necessaria perché è abbastanza diffusa l'opinione che la

Grecia dovrà chiedere un terzo programma di assistenza di un importo che potrebbe aggirarsi sui 30/40

miliardi. Al punto in cui si è giunti, sussiste una ragione in più per rivisitare aspetti dei Trattati Ue e degli

Accordi che, alla prova dei fatti, si sono dimostrati del tutto inadeguati. Il momento è di grande difficoltà, non

solo per la Grecia. Bisognerebbe ricordarsi pure delle deroghe accordate a suo tempo, sia pure per ragioni

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completamente diverse, riguardanti il rispetto del Patto di stabilità, a Germania e Francia. Ed è irresponsabile

qualche voce che esce dagli ambiti governativi secondo la quale l'abbandono dell'euro da parte della Grecia

creerebbe qualche problema solo per due-tre settimane, poi tutto tornerebbe a posto, come prima. E della

stessa irresponsabilità è parlare, in Germania, di moneta parallela che la Grecia potrebbe istituire ovvero lo è

l'incentivare l'indizione di un referendum da parte dell'Esecutivo ellenico. La vittoria di Podemos e dei

populisti di destra in Polonia sono tocchi di campana assordanti per l'Unione. Non capirlo rasenta la stupidità

o il dolo. I mercati ne subiscono i riflessi, come ieri si è incominciato a vedere. (riproduzione riservata)

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PRIMA PAGINA 26 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

TRA GREXIT E SPEXIT

Se gli europei votano no all’austerità tedesca«Non si possono fare tante concessioni alla Grecia perché sarebbero un implicito invito a delinquere per gli altri partiti anti-sistema e anti-austerità come Syriza, e inoltre un aiuto a nemici giurati dei governi che hanno imposto sacrifici impopolari per rilanciare la crescita e salvare l’euro». Era questo il leitmotiv imperante a Bruxelles e dintorni all’indomani della vittoria di Alexis Tsipras ad Atene.Era fine gennaio, ancora si sperava, nonostante l’arrivo al potere dell’estrema sinistra, di riuscire a risolvere il problema ellenico in relativa scioltezza e nessuno si azzardava a parlare seriamente di Grexit. Comunque non ad alta voce. Quattro mesi dopo non solo il default di Atene con le casse vuote potrebbe essere questione di giorni, non solo non è chiaro se l’Fmi resterà della partita, non solo Grexit non è più un tabù ma è vistosamente fallito l’obiettivo di arrestare il contagio grazie a una politica severa verso le richieste di Tsipras. La strategia si è rivelata inefficace e sbagliata. La prova è arrivata domenica con la virata a sinistra estrema anche della Spagna. Alle elezioni regionali e locali ha stravinto Podemos di Pablo Iglesias conquistando Barcellona e forse anche Madrid, Valencia e Saragozza. Ha vinto il nuovo partito di centro Ciudadanos. Hanno perso i socialisti e soprattutto i popolari del premier Mariano Rajoy che, con il 27% dei consensi, restano il primo partito del Paese ma con 11 punti e 2,6 milioni di elettori in meno rispetto al 2011. «È la fine del bipartitismo» ha commentato Iglesias che spera di vincere anche le legislative di novembre. Di sicuro è la fine della supremazia dei due partiti tradizionali spagnoli che ormai insieme, e per la prima volta, rappresentano soltanto la metà dell’elettorato del Paese. Ma, soprattutto, è la fine della grande illusione imperante tra molti europei: quella secondo cui l’uscita della Grecia dall’euro sarebbe possibile senza grandi danni collaterali, soprattutto senza intaccare l’ ”anima” della moneta unica racchiusa nel dogma della sua irreversibilità.Continua pagina 4 Adriana Cerretelli Continua da pagina 1 Se quel dogma sarà violato, non solo sarà polverizzata la credibilità della politica Bce del “whatever it takes” che dall’estate del 2012 tiene a freno la speculazione sui mercati ma Grexit diventerà la finestra aperta su altri nuovi possibil divorzi. A cominciare da “Spexit”. In autunno però ci saranno elezioni anche in Portogallo, altro Paese tartassato da riforme e austerità. Dopo il voto spagnolo di domenica il rischio non è più soltanto un’ipotesi tra le altre ma una virtuale certezza in un’Europa dove stanno franando tutti i punti fermi, i modelli politici e di società tradizionali, quelli che fino all’altro ieri si credevano intramontabili o quasi. Come l’Unione europea.In questo lungo weekend di sussulti politici, infatti, la cattolicissima Irlanda si è clamorosamente smentita diventando il primo Paese ad approvare per referendum, e a larga maggioranza, il matrimonio omosessuale da blindare nella Costituzione. Sintomo di un ribellismo che potrebbe presto far sentire il suo peso anche nel rapporto con l’euro.La stra-europeista Polonia, beneficiaria a man bassa degli aiuti strutturali Ue, il Paese con il più alto tasso di crescita economica dell’Unione, ha a sua volta eletto il nuovo presidente della Repubblica scegliendo non il candidato del partito di governo ma quello di Legge e Giustizia, la formazione della destra nazionalista ed euroscettica che tra l’altro rivendica il rimpatrio di molti poteri ceduti a Bruxelles, proprio come i conservatori di David Cameron a Londra, e che potrebbe ritornare al governo con le elezioni di ottobre. «Vogliamo essere la Germania dell’Europa mediterranea» confidava mesi fa un diplomatico spagnolo, fiero delle riforme e dei sacrifici fatti dal suo Paese, del ritorno allo sviluppo dopo 7 anni di crisi e di buio. Evidentemente il suo Paese la pensa

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Pagina 1 di 2Il Sole 24 Ore

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diversamente: guarda più al 23% di disoccupati (55% giovani), ai salari tagliati, ai licenziamenti, alla spesa pubblica ridotta e, come la Grecia, comincia a gridare no all’austerità. Se si considera che Spagna e l’Irlanda erano fin qui additati a Paesi- modello dell’euro per l’abnegazione con cui hanno intrapreso le rispettive politiche di rigore, che la Polonia del governo in carica è una spalla sicura della Germania in Europa (Legge e Giustizia vuole invece rivedere i rapporti con Berlino), è legittimo chiedersi quale governance si prepari per l’eurozona e per l’Unione e su quali alleati certi potrà contare Berlino che con la Franciadi Hollande si intende fin troppo a fatica. Se la stabilità economica nella moneta unica è tutta di là da venire per le divergenze strutturali che la crisi si è allevata in seno, quella politica sta entrando in una fase di contestazioni e incertezze che non promettono bene per la sua tenuta. Per questo almeno niente Grexit, per favore. Se invece si è convinti che il progetto europeo è ormai diventato ingestibile, i governi trovino il coraggio di prenderne atto con una decisione concertata a freddo. Senza delegare i mercati a farlo al loro posto in un autunno che si annuncia di fuoco. Sperando che la Grecia non accenda prima l'incendio.© RIPRODUZIONE RISERVATAAdriana Cerretelli

Pagina 2 di 2Il Sole 24 Ore

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PRIMO PIANO 26 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

A?WASHINGTON

Blanchard (Fmi): esistono scenari di crisi che vanno dal controllo dei capitali all’uscita dall’euro. L’obiettivo del Fondo è evitarli tutti

Atene fa una parziale retromarcia

Governo più cauto dopo l’uscita di domenica: «Pagheremo i nostri impegni come

potremo»

Atene fa una parziale retromarcia sul tema bollente del rimborso del debito al Fondo monetario internazionale per ridurre la tensione e cercare la via di un accordo con i creditori internazionali. Tecnica negoziale? Forse, ma intanto il governo greco non pensa di rimborsare il prestito dell’Fmi a giugno in un’unica tranche, anche se l’esecutivo ellenico ha la responsabilità di rimborsare tutti i suoi impegni interni ed esterni e lo farà il prossimo mese come meglio potrà. Lo ha precisato il portavoce del governo greco, Gabriel Sakellaridis. «Sulla base dei nostri problemi di liquidità - ha precisato - abbiamo una necessità imperativa di raggiungere l’accordo il prima possibile. Pagheremo i nostri impegni come meglio potremo. È responsabilità del governo pagare tutti i nostri obblighi».La cauta apertura del portavoce è arrivata ieri dopo che domenica il ministro dell’Interno greco, Nikos Voutsis, aveva detto che Atene non avrebbe rimborsato nessuna delle quattro rate in scadenza a giugno al Fmi. «Le quattro rate, la prima il 5 giugno, per l’Fmi valgono un miliardo e 600 milioni, questo denaro non sarà versato e non ce n’è da versare», aveva dichiarato Voutsis in un’intervista alla tv Mega.Ieri il portavoce di Atene ha spiegato invece che il suo governo «non ha chiesto un’estensione del piano di salvataggio, né ci è stata proposta», mentre è «ancora alla ricerca di un compromesso complessivo, in grado di indirizzare il peso del debito». Secondo il portavoce è possibile raggiungere un accordo «in breve tempo», anche se i problemi suo tavolo restano «l’Iva, le pensioni e il mercato del lavoro». Inoltre il portavoce ha escluso la possibilità di imporre un controllo dei capitali o un “haircut” della Bce sui collaterali per i prestiti alle banche e fa sapere che il governo è in grado di pagare stipendi pubblici e pensioni «a maggio». Il viceministro greco agli Affari europei Nikos Hountis, parlando ieri all’emittente Tv privata Mega Channel, ha affermato che il suo governo sta cercando di raggiungere al più presto con i creditori un’intesa su tutte le questioni ancora aperte e non ha escluso che il tanto atteso accordo possa essere attuato a tappe. Syriza, il partito al Governo in Grecia, ha respinto la richiesta dell’ala estrema del partito di non rimborsare i prestiti all’Fmi. Il Comitato centrale ha bocciato la proposta con 95 voti contro 75 e una scheda bianca. Respinte anche le richieste di nazionalizzare le banche e di indire un referendum che darebbe agli elettori il potere di respingere ogni accordo con i creditori internazionali.Atene è ormai alle battute finali per una intesa ma il premier Tsipras deve trovare un difficile equilibrio tra le esigenze dei creditori e le richieste della sinistra di Syriza così da far passare l’accordo in parlamento.Ma l’Fmi resta scettico. Le misure proposte dalla Grecia ai suoi creditori sono al momento ancora insufficienti. Questo il giudizio che il capo-economista dell’Fmi, il francese Olivier Blanchard ha affidato a “Les Echos” in un’intervista. Interpellato sulla posizione del Fondo verso la Grecia con cui sono in corso difficili negoziati, Blanchard ha risposto che è «flessibile su quello che Atene deve fare dopo che sarà stato presentato un programma coerente». Tenendo conto delle ultime stime «da cui emerge un significativo deficit di bilancio al momento, servono dunque misure credibili per trasformarlo in surplus e mantenere questo surplus in futuro», ha precisato il capo-economista, aggiungendo che «a giudicare da quello che è stato proposto finora, siamo ancora alquanto lontani».Per Blanchard, che lascerà l’incarico all’Fmi a settembre, «il sistema pensionistico in Grecia è ancora tropo generoso e ci sono ancora troppo dipendenti pubblici». Secondo l’economista «bisogna guardare quali misure strutturali sono essenziali per garantire una crescita sostenuta nel medio termine». Blanchard ha anche indicato che esistono «molti scenari di crisi che vanno dal controllo dei capitali all’uscita dall’euro»

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aggiungendo che l’auspicio è di «evitarli tutti». Anche il ministro delle Finanze ellenico, Yanis Varoufakis, in un articolo che pubblichiamo è intervenuto affermando che la ragione per la quale le trattative tra la Grecia e i suoi creditori rimangono bloccate non è la riluttanza del governo Tsipras a varare le riforme chieste dall’ex troika (oggi “Brussels Group”) ma la richiesta di un ulteriore inasprimento dell’austerità, che impedirebbe al paese una ripresa economica.© RIPRODUZIONE RISERVATAVittorio Da Rold

Se gli europei votano no all’austerità tedesca

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PRIMO PIANO 26 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

TEMPI TECNICI Dopo il mancato rimborso, il direttore del Fondo ha un mese di tempo per notificarlo al Consiglio dell’istituzione e far scattare la procedura

Le scadenze a breve. La Grecia potrebbe raggruppare alcuni pagamenti e onorarli a fine giugno senza essere dichiarata insolvente

Il default con l’Fmi non è immediato

francoforteNelle ultime ore, il Governo greco ha insistito con la tattica che ha scelto fin dalle elezioni di gennaio: dichiarare pubblicamente tutto e il contrario di tutto nel giro di poche ore. Stavolta è toccato al ministro dell’Interno dire che Atene non ha intenzione di pagare il Fondo monetario (al quale deve rimborsare poco meno di 350 milioni di euro il 5 giugno e 1,5 miliardi nell’intero mese), perché i soldi non ci sono. E poco dopo al portavoce del Governo affermare che è responsabilità dell’esecutivo pagare le proprie obbligazioni. Entrambi sembrano per lo meno concordare che un accordo con i creditori è necessario il più presto possibile.Data la struttura dei rimborsi nelle prossime settimane, l’Fmi è diventato il problema più urgente per la Grecia, anche se i successivi pagamenti alla Bce, quasi 7 miliardi di euro nei mesi di luglio e agosto, sono di maggiori dimensioni e ogni incrinatura del rapporto con l’istituto di Francoforte potrebbe portare a conseguenze ben più devastanti, in quanto il sistema bancario greco è tenuto a galla dalla liquidità di emergenza autorizzata settimanalmente dalla Bce.Intanto, però, Atene deve affrontare i rimborsi al Fondo. L’ultimo, di 750 miliardi di euro, il 12 maggio scorso, è stato finanziato quasi interamente con riserve di cui la Grecia dispone presso l’Fmi stesso: una partita di giro, si potrebbe dire, se non fosse che queste riserve vanno prima o poi reintegrate e comunque per tutto il tempo del “prelievo” Atene dovrà pagarci gli interessi.Ieri, il “Wall Street Journal” ha ventilato che la Grecia possa, con un altro espediente, rinviare il pagamento del 5 giugno. Le regole del Fondo consentono infatti di raggruppare alcuni pagamenti, senza che il debitore venga dichiarato in arretrato. Atene potrebbe quindi mettere assieme i quattro pagamenti di giugno (di importo simile) e corrisponderli a fine mese. L’ipotesi è stata smentita dal portavoce del Governo greco.Ma nei rapporti con l’Fmi c’è un’altra scappatoia temporanea. Anche quando un Paese ritarda un pagamento, il direttore del Fondo ha un mese di tempo per notificarlo al consiglio dell’istituzione di Washington. Solo la notifica, e non il mancato rimborso in sé, fa scattare una procedura all’Efsf, il precursore del fondo salva-Stati Esm, che è stato coinvolto nei primi prestiti alla Grecia e che potrebbe a sua volta dichiararne l’insolvenza. Al Fondo, poi, il consiglio ha altri 3 mesi prima di dover prendere una posizione formale. Quindi, il debitore inadempiente ha comunque un po’ di spazio. È improbabile peraltro che alla Bce, i cui rimborsi verrebbero nel frattempo a scadenza, prenderebbero alla leggera un ritardo nei pagamenti all’Fmi.Il rapporto con il Fondo monetario non è di scarso rilievo anche perché metà circa dei 7,2 miliardi di euro di finanziamenti, bloccati a seguito dall’incapacità della Grecia di soddisfare le condizioni del programma legato al secondo pacchetto di aiuti, viene da Washington, che complessivamente ha ancora da sborsare circa 18 miliardi di euro del prestito legato a quel programma, il cui termine è il marzo 2016.Il capo economista dell’Fmi, Olivier Blanchard, ha dichiarato, in un’intervista a “Les Echos”, che non è realistico pensare che la Grecia possa raggiungere gli obiettivi di bilancio fissati per il 2015 e che le misure finora proposte da Atene sono insufficienti a generare un surplus di bilancio. Il che porterebbe a maggiori necessità di finanziamento. Queste tuttavia non possono essere soddisfatte senza un accordo con i partner europei, che per ora resta incertissimo.© RIPRODUZIONE RISERVATAAlessandro Merli

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PRIMO PIANO 26 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

L’ANALISI

I punti deboli della difesa del governo Tsipras

«Non è solo falso. È evidentemente assurdo». Ha ragione Yanis Varoufakis quando respinge le accuse di scarso rigore per il suo paese? Il ministro delle Finanze di Atene, parlando a un pubblico di esperti - sia pure nella forma dell’articolo di giornale - si affida a due numeri: la riduzione del deficit strutturale cumulato dal 2009 al 2014, e l’andamento del pil nominale (pil reale e deflazione). I due numeri sono un argomento forte, soprattutto quando le politiche e le performance della Grecia sono paragonate - secondo i dati di Varoufakis - a quelle di altre economie. La decrescita del pil nominale (la misura su cui si valuta la sostenibilità dei debiti) è stata vicina al 25%, mentre la riduzione del deficit strutturale ha raggiunto i 18 punti percentuali. Nessun altro paese ha subito una decrescita del pil superiore all’8%: solo Cipro e Spagna, anzi, hanno visto calare questo aggregato, che è rimasto sostanzialmente stabile in Portogallo. Nessun altro paese ha poi ridotto il deficit strutturale di oltre sette punti. L’Italia ha compresso il suo disavanzo di 2,5 punti circa, mentre il suo pil nominale è salito del 2,5% circa.Varoufakis si è fermato qui. Se si volesse sposare la sua tesi si potrebbero aggiungere altri dati e fatti: la competitività della Grecia in base al costo del lavoro - dati Bce - è migliorata dal 2008 del 21%, contro ilo 0,7% della Germania: i salari privati greci sono calati del 16%. Il cambio reale si è deprezzato del 12% quasi. Anche il Fondo monetario, nel rapporto pubblicato a maggio 2014 - riconosceva che Atene aveva fatto più del necessario, che il paese sarebbe tornato alla crescita nel 2014 ma anche che le esportazioni, escludendo il turismo, erano ancora deboli malgrado l’aumento della competitività.Sono dati interessanti che rendono però molto debole un altro argomento di Varoufakis, il paragone tra il suo paese a la Gran Bretagna, che nel 2010 aveva un deficit simile a quello greco. È vero, come è vero che la Bank of England ha seguito una politica monetaria molto più efficace di quella della Bce. La Grecia, però, non è la Gran Bretagna. Era ed è rimasta un paese debole, poco competitivo , piuttosto chiuso al commercio internazionale - esporta soprattutto materie prime e prodotti agricoli - che non poteva né crescere usando il risparmio futuro ,come ha fatto indebitandosi, né sostenere politiche così dure. Il punto è che c’è ancora troppo moralismo, sulla Grecia. Quando nell’analisi della situazione, come è giusto, si rinuncia a cercare ragioni e torti, meriti e colpe - l’errore è stato di creditori e debitori, perché sapevano - e ci si concentra su costi e benefici, diventano chiari non solo e non tanto gli errori delle politiche economiche di Atene e dei programmi di risanamento, quanto i punti su cui ntervenire: per esempio sulle 555 restrizioni alla concorrenza individuate dall’Ocse, sui numerosi ostacoli alla nascita di nuove imprese e quindi di nuovi posti, in poche parole in quella qualità degli interventi che le cifre, purtroppo, non riescono del tutto a catturare. Tutte misure sulle quali si è insistito troppo poco, rispetto all’enfasi data al risanamento fiscale, e che richiedono tempo, quel tempo che ora alla Grecia non si vuol più dare.© RIPRODUZIONE RISERVATARiccardoSorrentino

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PRIMO PIANO 26 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

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Il vero pericolo? Madrid

È difficile dire come i mercati abbiano preso l’annunciata, probabile insolvenza della Grecia e l’affermazione di Podemos nelle elezioni amministrative spagnole. Dai numeri visti sulle Borse di Milano, Madrid e Lisbona, si direbbe che l’abbiano presa piuttosto male.Continua pagina 3 Walter Riolfi

Continua da pagina 1 Dai numeri di Parigi, neanche così male. Di più non si può dire perché, con Wall Street, Londra e Francoforte (oltre a qualche altra piazza minore) chiuse per festività, nemmeno si può parlare di mercato, dal momento che i grandi investitori internazionali erano assenti e le banche italiane (o quelle spagnole) si sono ben guardate dal prendere posizione. La cosa è ancor più vera sul mercato dei titoli di Stato dove qualche sparuto scambio, su un circuito frequentato da piccoli operatori, s’è visto in mattinata solo sui Btp. A Parigi, Madrid e Lisbona (formalmente aperte), non s’è visto passare un titolo: cosa assai comprensibile, poiché il mercato, che attraverso i derivati guida gli scambi obbligazionari in Europa, è proprio quello tedesco, ieri silente. La reazione dei mercati la si vedrà quest’oggi e non sarà, verosimilmente, positiva, poiché è la situazione politica spagnola a preoccupare assai più della disastrata, ma ormai nota, condizione delle finanze e dell’economia ellenica.Interpellati alcuni grandi investitori, hanno tutti posto l’accento sulla novità emersa dalle elezioni spagnole dove Podemos, il partito che s’ispira al greco Syriza, è diventato la terza forza del Paese con una percentuale di voti vicina a quella dei due maggiori partiti. È una novità relativa, a dire il vero, perché da mesi ci si aspettava un successo dei movimenti contrari alla politica di rigore d’Eurozona, se non addirittura delle forze più estreme e antieuropee. Se si prendono certi sondaggi che giravano nei mesi scorsi, e che accreditavano a Podemos percentuali di voti superiori a quelle del partito socialista, si può dire che i risultati di domenica non siano affatto sorprendenti. Di certo, se si proiettasse l'esito delle amministrative alle elezioni politiche del prossimo novembre, la Spagna risulterebbe ingovernabile, così come lo fu la Grecia fino a gennaio. E, in ogni caso, la politica di rigore di Bruxelles troverebbe un sostegno sempre più labile, con la conseguenza di allargare la distanza tra Germania (e le nazioni più virtuose) dagli Stati cosiddetti periferici.Ma, tra i pochi operatori che ieri sbirciavano gli schermi Reuters e Bloomberg, si fa strada un’interpretazione diversa e per certi versi paradossale: che la più complicata situazione politica spagnola possa, se non proprio addolcire le istituzioni europee (e il Fmi) verso la Grecia, quanto meno ammorbidire le posizioni. Perché è ormai chiaro che, senza una radicale ristrutturazione del debito, lo Stato greco è insolvente. Se in virtù di qualche accordo non lo sarà fra qualche giorno con il Fondo monetario, lo sarà a luglio verso la Bce. Dilazionare la questione finisce per esacerbare gli animi: tra i Paesi periferici che a torto o a ragione si sentono “oppressi” dai dictat di Bruxelles e tra i cittadini tedeschi che cominciano a percepire l’Unione (e la Bce) come un sistema sempre meno confacente.© RIPRODUZIONE RISERVATAWalterRiolfi

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PRIMO PIANO 26 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

LA?DATA? La consultazione si terrà entro il 2017 ma Cameron potrebbe accelerare i tempi come auspica il governatore della Banca di Inghilterra

Londra. Il governo ha definito i criteri per la partecipazione al referendum - Hanno diritto a votare i

cittadini del Commonwealth residenti mentre sono esclusi quelli comunitari

Regno Unito, in 45 milioni al voto sull’UnioneLONDRA

Un cittadino del Lesotho, ma non un italiano. Un suddito del sultano del Brunei, ma

non un francese. Un keniano, ma non un tedesco. La schizofrenica relazione di Londra

con l’Unione europea trova la plastica rappresentazione di sè nella lista dei passaporti

che saranno ammessi al referendum sull’adesione britannica all’Ue, da svolgersi,

secondo la volontà del governo conservatore di David Cameron, entro il 2017. Il

format è un modello che guarda al passato, anche remoto, più che al futuro. Gronda

nostalgia d’Impero la decisione di consentire ai cittadini del Regno Unito, ai cittadini

del Commonwealth e a quelli dell’Irlanda residenti in Gran Bretagna di partecipare a

una consultazione sbarrata a quelli dell’Unione europea. Eccezion fatta per Dublino,

Gibilterra, Malta e Cipro, ma solo in ossequio alla membership all’antico club

imperiale e non al sodalizio comunitario. Downing street precisa: abbiamo adottato il

modello delle elezioni politiche, non quello delle elezioni europee. Con qualche

variazione. Non è consentita, ad esempio, la partecipazione al referendum ai britannici

residenti all’estero da più di quindici anni.

Il corpo elettorale raggiunge i 45 milioni ed è frutto di un attento taglia e cuci che

svela il senso profondo di appartenenza del Paese, guidato da politici attenti a

soddisfare le esigenze dei più scettici. Nigel Farage, il leader dell’Ukip, è sempre stato

determinatissimo a negare la partecipazione al referendum agli “europei”.

Si voterà entro il 2017, ma in questi giorni potrebbe anche maturare la decisione di

accelerare i tempi come richiesto dal governatore della Bank of England Mark Carney

preoccupato per le tensioni sui mercati. Dopo il Queens speech, quando Elisabetta II

incardinerà la nuova legislatura elencando le leggi che il nuovo governo Tory intende

varare, David Cameron partirà per un’intensa tre giorni di incontri con i colleghi nord

europei. Si recherà in Danimarca prima, Francia e Olanda poi, per concludere con

Polonia e Germania. L’imprevisto consenso raccolto alle politiche del 7 maggio gli

permetterà di alzare moderatamente la voce anche perché i laburisti hanno lasciato

cadere l’ultimo velo, dicendosi favorevoli al referendum. Parlerà, dunque, a nome di

un Paese unito sull’opportunità di andare alla consultazione popolare. Se troverà un

fronte, relativamente, disponibile e si convincerà di aver davanti a sé tempi rapidi per

spuntare le eccezioni richieste, Cameron, potrebbe andare al voto già l’anno prossimo.

Il calendario è stato uno dei temi discussi nel the a Chequers, residenza di campagna

del premier britannico, dove ieri s’è recato il presidente della Commissione, Jean

Claude Juncker, di cui David Cameron fu uno dei più fieri oppositori. Londra sperava

in un candidato giovane e meno “compromesso” con il mondo di Bruxelles, ma perse

lo scontro. Ora lo vuole alleato nel passaggio finale della saga anglo-europea. Che il

passaggio sia storico è sempre più evidente, così come è chiara anche la posizione del

premier: è favorevole a restare nell’Ue se spunterà condizioni soddisfacenti. I punti

chiave sono tre: limiti all’accesso al welfare per gli immigrati intracomunitari;

distacco britannico dall’obbiettivo comune di partecipare a una “Unione sempre più

stretta”; tutele per i servizi finanziari - ovvero per la maggiore industriale nazionale –

dalle conseguenza che provocherà l’integrazione sempre più stretta fra i Paesi

dell’Eurozona, da Londra ritenuta inevitabile. Il Regno Unito ambisce a collocarsi nel

girone esterno di un’Europa che avrà al suo centro i Paesi dell’euro, mantenendo,

però, tutti i vantaggi del mercato interno. E qualche – difficile – esenzione come

quelle che immagina sulla circolazione dei cittadini. Downing street non pretende

variazioni dei Trattati, considerate un rischio dai partners Ue. L'approccio è

pragmatico: se un artificio giuridico consentirà di ottenere lo stesso risultato di

autoesclusione con meno traumi, ben venga. Si tratta di trovarlo dando soddisfazione a

Londra, ma senza irritare le altre capitali. La caccia è cominciata.

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Leoanrdo Maisano«L’austerity? In Grecia l’abbiamo già fatta»

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PRIMO PIANO 26 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

ANTIEUROPEISMO?

E?CRESCITA

L’avanzata dei partiti di protesta accresce l’instabilità politica. E questo danneggia le prospettive di crescita dell’Europa e dell’Italia

EFFETTO?GRECIA Un default disordinato o peggio l’uscita dall’euro accrescerebbe nei mercati il timore di un’incertezza che coinvolgerebbe anche noi

I TIMORI DI UN CONTAGIO

Italia vulnerabile su debito e Pil

L’Italia cresce poco e male, comunque sotto la media europea da troppo tempo, e ha il secondo debito/Pil nell’Eurozona, dopo quello della Grecia. Per colpa di questi due enormi buchi neri, l’Italia è un Paese vulnerabile anche quando “fa i compiti in casa”, il suo governo si impegna seriamente sul fronte delle riforme strutturali, il Tesoro tiene sotto controllo i conti pubblici e la recessione è alle spalle. Come ora.Continua pagina 5 Isabella Bufacchi

Continua da pagina 1 L’avanzata dei partiti di protesta in Europa, da ultimo l’ascesa in Spagna di Podemos, e i consensi raccolti a macchia di leopardo dall’anti-europeismo, possono minare le prospettive di crescita del Pil europeo con un aumento dell’instabilità politica. E questo danneggia le prospettive di crescita dell’Italia. La pessima gestione della crisi greca, incentrata sul debito pubblico e il pagamento puntuale e integrale dei creditori, ha inevitabilmente una ricaduta negativa sull’Italia indebitata. Quel contagio tra Paesi periferici che la Bce sta tentando di neutralizzare in tutti i modi, dal “Whatever it takes” di Mario Draghi (le OMTs) al quantitative easing da 1.140 miliardi, resta, si vede meno rispetto al 2011-2012 ma c’è, in forma strisciante: se il Pil europeo rallenta per colpa dell’instabilità politica nei Paesi chiave, l’Italia ne paga le conseguenze perchè il suo Pil, già malconcio, peggiora. E se non si trova una soluzione sostenibile e credibile ai problemi di liquidità e/o solvibilità di un Paese con altissimo debito pubblico come la Grecia, al punto da far riaffiorare continuamente dagli abissi il mostro della “exit”, la preoccupazione dei mercati non può che debordare sull’Italia, a tutt’oggi alle prese con un debito/Pil eccessivo.L’incertezza è la bestia nera dei mercati: gli investitori istituzionali e privati, i trader, gli arbitraggisti, gli speculatori puri tollerano la recessione, purchè sia tracciato in maniera credibile il percorso per uscirne e per tornare alla crescita. E chi acquista bond è consapevole di esporsi al rischio di default del debitore, purchè le regole del gioco siano chiare e trasparenti nel caso di bancarotta: quale la perdita potenziale da mettere in conto, come si può recuperare il capitale. L’esito delle elezioni in Spagna, con la vittoria dei partiti di protesta ai quali i mercati abbinano ampi margini di imprevedibilità, e il calvario infinito della Grecia aumentano l’incertezza sul futuro dell’Europa (quale Europa, con quali regole?) e dell’euro. E l’Italia rischia di pagarne le conseguenze perchè vulnerabile.I mercati tuttavia sono più disposti ora, rispetto agli anni bui 2011 e 2012, a dare all’euro e all’Italia il beneficio del dubbio, favorevole allo scenario migliore. Gli Stati Uniti d’Europa non esistono ancora e l’Italia deve riuscire a rafforzare la sua crescita potenziale per abbattere il debito pubblico. Ma i progressi fatti negli ultimi anni sono tangibili, non sono cancellati da Spagna e Grecia. L’Europa si è dotata dei fondi salva-Stati, con una potenza di fuoco congiunta da 700 miliardi, ha avviato l’Unione bancaria e la creazione del Mercato dei capitali unico e ha attivato nuovi strumenti per finanziare la crescita con il Piano Juncker. La Bce lavora a pieno ritmo: le OMTs sono pronte all’uso nel cassetto del Presidente di Eurotowers e intanto le banche centrali dell’Eurosistema acquistano i titoli dei 19 stati che collocano debito in euro, comprando tempo per gli Stati che sono indietro nell’implementazione delle riforme strutturali. Le regole europee di rigore sui conti pubblici hanno introdotto infine criteri di flessibilità e margini di manovra per tener conto delle crisi e dei rallentamenti dell’economia. E sull’Italia inizia a manifestarsi sui mercati un timido ottimismo, dato da un periodo relativamente lungo e preannunciato di stabilità politica e un programma di riforme strutturali vasto che marcia di pari passo con la tenuta dei conti pubblici. È una fase delicata, per l’Eurozona e per l’Italia perchè le fragilità strutturali restano. I mercati stanno a guardare: sono tesi ma per ora senza panico. Si aspettano che Europa

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e Italia traccino un percorso chiaro per il futuro: i partiti di protesta devono dare voce al malcontento della popolazione in un sistema democratico ma i mercati non sono tranquilli se a ogni elezione tutto, dalle fondamenta, rischia di essere rimesso in discussione. E lo stesso vale per il debito pubblico: se la crisi della Grecia dovesse risolversi con un default disordinato, se non addirittura con l’uscita di Atene dall’euro, per i mercati questa sarebbe la prova provata che l’Eurozona è un luogo imprevedibile e inaffidabile: l’Italia ne verrebbe travolta. .@[email protected]© RIPRODUZIONE RISERVATAIsabella Bufacchi

povera e impreparata, vinse la guerra – Quiz: quanto ne sai della Grande Guerra?

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MF

Numero 102, pag. 8 del 27/05/2015

PRIMO PIANO

Varoufakis sicuro: l'intesa si far&agrave;. e pensa a una tassa sui prelievi bancari

Grecia, negoziati ancora in stalloRenzi: anche se non si trova l'accordo i contribuenti e i correntisti italiani non corrono alcun rischio. Ma secondo Guida (Intesa Sanpaolo) in caso di default il Ftse Mib perderebbe il 20%

di Marcello Bussi

La Grecia pagherà la rata del Fmi il 5 giugno perché entro quella data si raggiungerà l'accordo con i creditori.

Lo ha detto ieri il ministro delle Finanza greco, Yanis Varoufakis, facendo girare le borse al rialzo. Borse che

nella seduta precedente erano andate in negativo a causa delle dichiarazioni del ministro dell'Interno greco,

Nikos Voutsis, secondo il quale Atene non rimborserà gli 1,6 miliardi di euro al Fondo Monetario

Internazionale tra il 5 e il 19 giugno, a meno che non venga trovato un accordo con i creditori internazionali.

La reazione dei mercati è stata opposta, ma a ben vedere Varoufakis e Voutsis

hanno detto la stessa cosa: la Grecia rimborserà il Fmi il prossimo 5 giugno solo se

nel frattempo avrà trovato un accordo con i creditori. Ieri Varoufakis ha detto che la

Grecia sta considerando la possibilità di applicare una leggera tassa sui ritiri di

contanti, ma non dai bancomat bancari, per incoraggiare l'uso delle carte di credito.

La misure verrebbe introdotta nell'ambito di un pacchetto di provvedimenti per

combattere l'evasione fiscale. Varoufakis ha invece escluso una tassa sui depositi

bancari. I negoziati restano fermo sul fisco, i contributi sociali, le tutele sul lavoro e

l'entità del surplus di bilancio. «È arrivato il momento», ha detto Varoufakis, «che si

siedano a un tavolo per incontrarci, non a metà strada, ma a un quarto della strada,

perché per tre quarti noi gli siamo già venuti incontro». Secondo Paolo Guida, responsabile ufficio studi

Intesa Sanpaolo e vicepresidente Aiaf, «il Ftse Mib subirebbe una correzione di circa il 20% nel caso in cui le

trattative per il salvataggio di Atene si traducessero in un default» del Paese e poi in una sua «uscita dall'area

euro». Lo scenario principale, però, «è che si troverà un accordo, magari anche all'ultimo minuto, che

rassicurerà sulla solidità dell'area euro». Anche per Todd Mattina, capo economista e strategist di Mackenzie

Investments, lo scenario più probabile è quello di un'intesa in extremis. Intanto il Tesoro Usa ha lanciato un

monito: «Tutte le parti devono arrivare a un accordo» perché «un fallimento danneggerebbe i greci e

potrebbe avere conseguenze non prevedibili per l'Unione europea e l'economia globale». E oggi si riunirà a

Dresda, in Germania, il G7 dei ministri delle Finanze. Fonti del governo tedesco hanno fatto sapere che si

parlerà di Grecia solo se gli altri Paesi vorranno farlo. Mentre il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha

assicurato che «anche se non ci fosse l'accordo non ci sarebbe alcun rischio per il contribuente o il

correntista italiano». (riproduzione riservata)

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PRIMA PAGINA 27 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

stato e mercato

Cara Europa, per la crescita gli schematismi

non servono

Vuoi perché è evidente il cambio di passo nello stile e nel metodo, vuoi perché la

Banca d’Italia acquisterà, nel quadro della nuova politica monetaria decisa dalla Bce,

130 miliardi di titoli di Stato italiani, conviene non lasciare cadere le “considerazioni

finali” del Governatore Ignazio Visco nella rete dei moniti accigliati e delle prediche

utili per un giorno.

In una relazione asciutta nei toni e nel testo giudizi e messaggi - piacciano o no,

compresi quelli che per differenza mancano al tradizionale appello - possono emergere

più chiari. Questo è il caso: vale per quelli sul governo Renzi, sulla politica in

generale, sulle imprese, sulle banche. E vale per l’Europa in debito d’ossigeno solidale

e per le sue istituzioni dove l’ “anima tecnica” si confronta con quella politica in un

duello paralizzante.

Al Governo la Banca d’Italia chiede di insistere e accelerare sulle riforme in modo da

consolidare la ripresa. In Europa, “si fa meglio ascoltare chi dimostra di far bene a

casa propria, di onorare appieno i propri impegni”, ha detto Visco. A livello

internazionale, istituzioni e mercati hanno riconosciuto l’impegno a rimuovere gli

ostacoli che frenano lo sviluppo. La riforma del mercato del lavoro è positiva, e il

Governo deve andare avanti “per non deludere le aspettative di cambiamento”. I

benefici non sono immediati? Ecco un motivo in più per agire, osserva il Governatore,

“perseguendo un disegno organico e coerente”.

Nessun accenno alle privatizzazioni e al livello della pressione fiscale. Un passaggio

rapido sulla revisione della spesa pubblica nel quadro della riforma della Pa. Un

sostegno inequivoco alla riforma Fornero sulle pensioni (garantisce la sostenibilità di

lungo periodo della finanza pubblica “più che in altri Paesi europei”). Un richiamo

forte all’istruzione e all’investimento in conoscenza (l’Italia è in ritardo e Bankitalia fa

riferimento all’indispensabile metodo dei test-valutazione dei servizi offerti e delle

conoscenze acquisite). Una notazione sulla lievitazione del debito pubblico in rapporto

al Pil dovuta “soprattutto alla mancata crescita economica”.

Continua pagina 3 Guido Gentili

Continua da pagina 1 Un’analisi del genere non può che far tirare un sospiro di

sollievo al Governo. Ma questo non significa che possa riposarsi su allori che non stati

peraltro ancora conquistati. La crescita italiana risulta più debole di quella media

dell’Europa e la politica monetaria non può garantire una crescita duratura ed elevata.

Gli investimenti esteri diretti sono modesti. Le imprese continuano a segnalare «con

chiarezza – ha spiegato Visco- le difficoltà dovute al sovraccarico degli adempimenti

burocratici e all’instabilità delle norme».

Difficoltà che sono anche alla base della mancata crescita di molte aziende, tasto sul

quale la Banca d’Italia insiste da tempo richiamandole ad una maggiore spinta

innovativa. Ma è la stessa Banca centrale a sottolineare che gli ostacoli all’attività

d’impresa, alla loro crescita e al recupero di produttività vengono, oltre che dai limiti

di natura finanziaria, «soprattutto dal contesto in cui è condotta l’attività economica:

complessità del quadro normativo, scarsa efficienza delle procedure, ritardi della

giustizia, carenze nell’istruzione e nella formazione, corruzione e presenza della

criminalità organizzata».

Il tema della giustizia civile in affanno ritorna anche sul mercato del credito e

sull’onda dei prestiti deteriorati (150 miliardi, mentre sono a quota 200 miliardi le

sofferenze bancarie) su cui incidono tempi lunghi e variabili delle procedure di

insolvenza e di recupero dei crediti. «Diffuse inefficienze», le definisce Visco, al

quale si aggiunge uno sfavorevole trattamento fiscale delle rettifiche su crediti. In un

quadro dove le banche italiane sono sottoposte a nuove e pressanti regole sul capitale,

leva e liquidità: il sistema sarà più stabile, ha spiegato il Governatore, ma le banche si

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assumeranno meno rischi e diminuirà il rendimento dei capitali e in esse investiti.

Risultato: l’erogazione dei prestiti sarà più selettiva e bisognerà trovare il modo di

favorire lo sviluppo di forme alternative di finanziamento. Il che, per un sistema

bancocentrico come quello italiano, si prospetta come un’operazione di eccezionale

portata.

Senza riattivare in pieno il credito per famiglie e imprese non può esserci d’altra parte

ripresa vera. Che si fa, in attesa della svolta epocale per un mercato dei finanziamenti

più aperto e articolato? Visco ha insistito per lo sviluppo di un mercato secondario dei

crediti deteriorati, in pratica la famosa “bad bank” con il «concorso del settore

pubblico» di cui si discute da tempo. Il confronto con l’Europa è duro. Trovare il

punto di equilibrio tra mercato e concorrenza da un lato e governo dell’economia e

della finanza dall’altro non è facile in generale e in particolare è ancora più difficile di

fronte ai fallimenti del mercati. Il rispetto sostanziale delle regole a tutela del mercato

e della parità concorrenziale «resta imprescindibile» ha osservato Visco. Però nel

valutare il ruolo pubblico nella risoluzione delle crisi bisogna distinguere tra politiche

«volte ad attivare i meccanismi di mercato da aiuti distorsivi della concorrenza».

Come dire: cara Europa apriti al confronto e non restare prigioniera di un schematismo

che s’avvita su se stesso, alla fine proprio contro il mercato.

.@guidogentili1

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Guido

Gentili

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PRIMO PIANO 27 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

L’ANALISI

Il Qe è una opportunità ma da solo non bastaInazio Visco, al pari di Mario Draghi, mette in guardia dai rischi rappresentati, in un contesto di ripresa fragile, da una conduzione della politica economica europea demandata esclusivamente all’azione della Bce. La politica monetaria da sola - osserva il governatore della Banca d’Italia - non può garantire una crescita duratura ed elevata. È esattamente quanto ha sostenuto Draghi al Forum Bce di Sintra («senza riforme l’Unione monetaria è a rischio»), nella constatazione, espressa a più riprese, che il Quantitative easing è carburante prezioso immesso nel motore della crescita, ma l’effetto è contingente, non strutturale. Il rischio è in quei paesi che nel frattempo non avranno messo in atto le opportune riforme strutturali ritornino alla fine del programma di acquisti della Bce alla casella di partenza. Vale per l’eurozona, vale per l’Italia che sul fronte decisivo delle riforme si gioca il beneficio della clausola di flessibilità prevista dalla nuova governance economica inaugurata dalla Commissione Ue con la comunicazione dello scorso 14 gennaio. Per noi la clausola equivale a uno spazio di manovra non indifferente, da spendere nel 2016: 6,4 miliardi, in virtù della possibilità accordata al nostro paese di ridurre il deficit strutturale dello 0,1%, contro lo 0,5% previsto dalla disciplina di bilancio europea. Occorre consolidare la ripresa - avverte Visco - che promuove «l’azione di riforma» avviata dal governo peraltro «riconosciuta a livello internazionale da istituzioni e mercati». L’aspettativa di un pieno completamento del percorso di riforma, in primis attraverso il fondamentale riordino dall’amministrazione pubblica, non va delusa. I benefici possono anche in alcuni casi non essere immediati, «ma questo è un motivo in più per agire».Crescita trainata dalla riforme strutturali, dunque, per sfruttare a pieno l’importante e per certi versi irripetibile finestra di opportunità macroeconomica, costituita dal QE, dal basso livello dei tassi d’interesse, ma anche dal deprezzamento dell’euro e dal calo del prezzo del petrolio. Riforme mirate - auspica il Governatore - perchè il rischio è che alla ripresa non si accompagni una pari capacità di generare occupazione, soprattutto nel Mezzogiorno. Riforma della Pa, ma anche del fisco, altro importante banco di prova per il governo, così da onorare l’impegno a chiudere il capitolo dei decreti attuativi della delega entro settembre, come previsto dal nuovo timing fissato dal governo. © RIPRODUZIONE RISERVATADinoPesole

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PRIMO PIANO 27 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

I RISULTATI GIÀ

VISIBILI Da novembre, pur con il rialzo delle ultime settimane, i rendimenti sui titoli di Stato tedeschi e italiani sono scesi di 20 e 60 punti

Politica monetaria. «Ma sarebbe stata preferibile una vera condivisione dei rischi»

La difesa del Qe: elevati i costi di un’attuazione

incompleta

RomaNon basta per ottenere in Eurolandia una crescita duratura ed elevata, non è un’alternativa alle riforme ma certamente permette di accelerarle e di assorbire in modo più agevole i costi di breve periodo. È la politica monetaria ultra-accomodante decisa a Francoforte, per battere quello che era, e rimane (nonostante i progressi ottenuti sul fronte dei prezzi) il nemico maggiore per l’economia continentale: la deflazione o meglio un’inflazione che resti troppo bassa per un periodo troppo lungo, come dicono i banchieri centrali. Ignazio Visco ha tracciato ieri una ricostruzione delle scelte monetarie degli ultimi mesi e una difesa appassionata della funzione essenziale del Quantitative easing.Dopo aver ricordato che il programma complessivo prevede acquisti mensili di titoli per 60 miliardi fino a settembre 2016 «e comunque fino a quando non si modificherà un aggiustamento durevole dell’inflazione» il governatore ha spiegato che, per quel che riguarda l’Italia gli acquisti di buoni del Tesoro e altri titoli saranno dell’ordine di 150 miliardi, oltre 130 miliardi dei quali verranno acquistati dalla Banca d’Italia. Poi, ha “messo agli atti” il suo dissenso, già espresso come esponente italiano del governing council Bce, rispetto alla non piena condivisione dei rischi a livello di Eurosistema: la decisione di «condividere solo parzialmente i rischi» del Qe, ha spiegato «riflette i ritardi e i limiti del processo di unificazione europea». La scelta di lasciare in capo alle singole banche centrali nazionali i rischi connessi con i titoli di Stato da essi acquistati, ha affermato, è il frutto della «preoccupazione di alcuni membri del Consiglio che il programma potesse tradursi in trasferimenti di risorse tra paesi». Invece «una piena condivisione dei rischi sarebbe stata più consona all’assetto della politica monetaria unica e coerente con il Trattato».In ogni caso, i risultati già ottenuti da questa politica monetaria sono visibili. «Dall’inizio di novembre, pur con un rialzo nelle ultime settimane che ha riflesso soprattutto un miglioramento delle attese su crescita e inflazione, i rendimenti sui titoli di stato decennali tedeschi e italiani sono diminuiti, rispettivamente, di circa 20 e 60 punti base. L’euro si è deprezzato di oltre il 10% nel confronti del dollaro e del 6 in termini effettivi nominali». Anche i timori di deflazione si sono ridotti, ha detto il governatore. Allora bisognerebbe decidere, come ha fatto balenare qualche autorevole esponente del Governing council di sospendere prima del tempo il programma? La risposta di Visco è netta: no. Anzi, è dalla credibilità dell’impegno a portare a termine il programma che dipendono i risultati: «Il costo di un’incompleta attuazione sarebbe molto elevato». Poi, Visco ha preso in considerazione le osservazioni di chi (i nostri partner tedeschi, ma non solo) sostiene che con questa politica siamo entrati in un territorio inesplorato, dove i tassi d’interesse sono estremamente bassi anche sulle scadenze a medio e lungo termine(per esempio, quelli tedeschi prima del recente rialzo erano divenuti negativi fino a nove anni). «Sono stati manifestati timori - ha elencato Visco - che il programma possa incentivare l’assunzione di rischi eccessivi alla ricerca di rendimenti più elevati, generare tensioni di liquidità in alcuni segmenti, danneggiare alcune categorie di operatori finanziari, come assicurazioni e fondi pensione». E la risposta di Bankitalia a tali osservazioni è: «Questi rischi vanno attentamente considerati, ma non sopravvalutati». Da un lato, ha detto Visco, finora non ci sono segni di bolle o nuovi squilibri emergenti e se dovessero sorgere tensioni a livello settoriale, con misure ad hoc si potrebbero contenere. Dall’altro,le simulazioni realizzate in Bankitalia dimostrano che i costi per l’economia sarebbero decisamente rilevanti se il pericolo del manifestarsi di una spirale deflazionistica non fosse adeguatamente contrastato. E le ultime stime degli analisti riguardo alle prospettive dei prezzi nell’Eurozona, come

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riporta la Relazione, dicono che l’inflazione si attesterebbe poco sotto il 2%, in linea con la definizione di stabilità dei prezzi, solo a partire dal 2020. © RIPRODUZIONE RISERVATARossella Bocciarelli

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PRIMO PIANO 27 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

IL PRESSING DEI

CREDITORI Il presidente del Fondo di salvataggio europeo (Esm) Klaus Regling chiede una stretta sull negoziato: tempo quasi scaduto

Accelerano i negoziati sulla Grecia

Il presidente Ue Juncker: il default si può evitare ma l’Fmi va coinvolto nella

trattativa

«La mia impressione, dopo aver parlato con alcuni colleghi, è che stia crescendo la

sensazione che il default della Grecia si possa evitare»: lo ha detto il presidente della

Commissione Ue Jean-Claude Juncker. «D'altra parte - ha aggiunto - tutti quelli con

cui ho parlato insistono sulla necessità di coinvolgere l’Fmi. Non ci sarà accordo

senza l’Fmi».

Mentre si assiste dietro le quinte a qualche progresso nei difficili negoziati che durano

ormai da quattro mesi, Klaus Regling, presidente del Fondo di salvataggio europeo

(Esm), ha lanciato l’ennesimo allarme sul caso Grecia: in un’intervista al quotidiano

popolare tedesco,”Bild”, Regling ha detto che «il tempo si sta esaurendo» e che, senza

un accordo, la Grecia rischia un default che comporterebbe grandi rischi. Per questo,

«si lavora notte e giorno» su un possibile accordo.

Anche il mancato rimborso di una sola rata all’Fmi sarebbe uno sviluppo pericoloso,

per Regling: «Questo avrebbe conseguenze anche per altri creditori, come noi», ha

detto Regling, spiegando che, comunque, l’Esm concederebbe nuovi prestiti ad Atene

solo con un accordo sulle riforme.

Regling non ha escluso che si possano aprire trattative per un terzo pacchetto di aiuti,

ricordando che la Grecia ha già ricevuto dall’Esm 130,9 miliardi e che la prossima

tappa è, comunque, l’accordo sul programma in corso. Solo in un secondo tempo, si

potrà valutare se saranno necessarie nuove risorse. L’Esm, ha sottolineato Regling,

«ha risorse finanziarie sufficienti per tutte le eventualità». Regling ha espresso forti

riserve su una possibile uscita dell'Fmi dalla ex-troika: «Il Fondo monetaria dispone di

un know-how prezioso in merito al risanamento di Paesi in crisi in tutto il mondo, con

prestiti di emergenza e riforme». La Germania, e altri Paesi dell’eurozona, auspicano,

quindi, che l’Fmi resti in Grecia.

Intanto il ministro delle Finanza greco, Yanis Varoufakis ha rassicurato i creditori: «Il

prossimo 5 giugno la Grecia pagherà la rata del prestito Fmi perché per allora sarà

stato raggiunto un accordo con i creditori internazionali». Uno dei meccanismi

individuati è una sorta di “scudo fiscale”: un prelievo del 15% sui depositi bancari di

cittadini greci non dichiarati all’estero, e il doppio per legalizzare quelli in Grecia.

Varoufakis ha detto di aver preso anche in considerazione la possibilità di tassare i

ritiri di contante via bancomat e sportello bancario per incoraggiare le transazioni

elettroniche tracciabili e combattere l’evasione fiscale ma la proposta non sembra aver

il sufficiente appoggio all’interno del governo Syriza.

Dopo mesi mesi di incertezze ed errori da entrambe le parti il negoziato resta fermo

sul fisco, le pensioni, le tutele sul lavoro e l’entità del surplus di bilancio. La scadenza

del 5 giugno si sta avvicinando e Atene dopo aver minacciato con il ministro degli

Interni di non pagare i 300 milioni di euro della prima tranche dei rimborsi al Fmi ha

detto di volerlo fare. Il commissario Ue, Pierre Moscovici ha concordato sul fatto che

occorre accelerare il negoziato.

La decisione greca sui pagamenti del debito estero ha creato «una situazione che

potrebbe portare a una certa destabilizzazione». Lo ha rilevato il segretario di Stato

della Santa Sede, cardinale Pietro Parolin, che ha formulato un augurio preciso: «al

più presto si possa chiudere l’accordo e si possa giungere a una soluzione», ha detto

incontrando i giornalisti in occasione di una cerimonia a Palazzo della Cancelleria.

«La Grecia - ha commentato una fonte del ministero delle Finanze tedesco - ha

finalmente capito che senza Fmi non c’è accordo.Questo è incoraggiante perché

significa che la Grecia ha capito che senza l’Fmi non si va da nessuna parte».

Il giornale greco Ta Nea sostiene che il segretario al Tesoro Usa, Jack Lew avrebbe

assicurato al premier greco, Alexis Tsipras che Washington eserciterà la sua influenza

per sbloccare la situazione. Un portavoce di Tsipras ha confermato la telefonata con

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Pittella: Schaeuble

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Washington ma non ha voluto aggiungere altro.

«Tutte le parti devono arrivare a un accordo sulla Grecia». Loha sosteniuto una fonte

ufficiale del Tesoro Usa, secondo la quale «un fallimento danneggerebbe i greci e

potrebbe avere conseguenze non prevedibili per l’Unione europea e l'economia

globale».

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Vittorio Da Rold

incurante del possibile effetto domino

Il rally del dollaro pesa sugli indici, timori su Grecia

Pagina 2 di 2Il Sole 24 Ore

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MF

Numero 103, pag. 2 del 28/05/2015

PRIMO PIANO

Se Tsipras batte la Merkel, forse qualche autocriticas'impone

di Guido Salerno Aletta

Stavolta è la Germania ad essere isolata sul piano internazionale. Nel corso del vertice del G7 a Dresda, a

casa propria, è sembrata sotto assedio sull'ipotesi dell'accordo che si sta profilando sugli aiuti alla Grecia, e

non solo dagli Usa. Il ministro delle Finanze tedesco Schaeuble ha dovuto difendersi dall'accusa di volerlo

sabotare: «Non si può accusare il governo tedesco di tutto. Il nuovo governo sta dicendo: vogliamo

mantenere l'euro ma non vogliamo più il programma. Le due cose non si incastrano». Nessuno però vuole

correre il rischio di un default della Grecia, ed è per questo che la strategia negoziale di Tsipras sta

prevalendo. D'altra parte, c'è un gioco di rimborsi e di prestiti che si rincorrono: la nuova tranche di aiuti da

parte dell'Esm serve solo a fare roll-on sulle scadenze dei prestiti del Fmi. Ma ad ogni scadenza, di rimborsi e

corrispondenti rinnovi, sono legate nuove e più stringenti condizioni: e Atene ha detto no.

C'è aria di revisionismo. Già nel settembre del 2012, la Bce ha dovuto disarmare i mercati, obbligandoli a

deporre la clava dello spread sui titoli pubblici, minacciando di procedere ad acquisti senza limite di importo.

Ha poi atteso fino al marzo scorso per attivare il Qe, deciso quando la strategia della deflazione competitiva,

il risanamento che si realizza aumentando la disoccupazione e abbattendo i salari, stava provocando una

debt-deflation. Dietro la deflazione dei prezzi al consumo si profilava una nuova recessione, irrecuperabile

perché travolge gli attivi bancari. Ne sanno qualcosa i nostri istituti, alle prese con 200 miliardi di euro di

crediti ammalorati: perdite potenziali pari al 15% del pil, che nessuno è in grado di assorbire.

Sulle trattative tra la Grecia di Tsipras e la Troika, si è sostenuto che la sfida sarebbe stata persa da chi si

sarebbe arreso per primo, abbandonando le proprie posizioni per timore delle conseguenze che ne

sarebbero derivate. Il costo della austerità contro il rischio del default. Si è sottovalutato che lo scontro era

innanzitutto antropologico, culturale: Grecia e Germania sono civiltà diversissime. La prima ha radici

precristiane, in cui prevale il senso della colpa: ciascuno è giudice di fronte a se stesso. La legge è dell'uomo:

non c'è il Mosè con la Tavola delle Leggi ed anche gli dei sono soggetti al fato. Non per caso, Solone rimane

nella storia per aver condonato i debiti accumulati dai cittadini ateniesi più poveri, per via dei lunghi anni di

carestia. Il mancato pagamento del dovuto ai proprietari terrieri li avrebbe ridotti in schiavitù, facendo perdere

loro lo status di uomini liberi: una punizione ingiusta. Conoscendo la storia greca, nessuno avrebbe potuto

dubitare della fermezza greca nel sostenere la necessità di dare tregua sui debiti. D'altra parte, la civiltà

tedesca non è meno determinata: considera il debito come frutto del peccato. Non c'è remissione, né

perdono possibile: gli uomini non possono cambiare una legge che li sovrasta.

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Viene da riflettere sulla situazione italiana, sulle vicende degli ultimi anni e sulle prospettive. È dilagato il

senso del peccato, espiabile: il debito pubblico, divenuto eccessivo a causa di eventi monetari e crisi

internazionali non controllabili, nel 1980, nel 1992 ed ancora nel 2012, è stato rappresentato agli italiani come

il sintomo della loro dissennatezza, del voler vivere al di sopra delle possibilità.

Ci siamo fustigati, correndo in soccorso del prossimo, partecipando a qualsiasi salvataggio, versando fondi a

destra e a manca, senza mai tutelarci. La famosa lettera del 5 agosto 2012, a firma Trichet e Draghi, è stata

accettata passivamente, senza contrattare la piena tutela del nostro debito pubblico sul mercato.

L'anticipazione del pareggio strutturale al 2013 è stata subìta senza chiedere in contropartita i necessari

sostegni agli investimenti. È stata approvata la direttiva sul bail-in nelle crisi bancarie senza aver messo

prima in sicurezza le nostre banche. Tsipras non è Samaras. Aveva ben ragione Fedro: «Chi pecora si fa, il

lupo se lo mangia». (riproduzione riservata)

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MF

Numero 103, pag. 7 del 28/05/2015

PRIMO PIANO

Accordo Svizzera-Ue sul segreto fiscale

di Ugo Brizzo

Unione Europea e Svizzera hanno firmato un accordo sulla trasparenza fiscale che prevede lo scambio

automatico di informazioni a partire dal 2018. Lo ha annunciato la Commissione Europea, che ha definito

«storica» l'intesa che consentirà di migliorare in maniera netta la lotta all'evasione fiscale. Secondo l'Ue di

fatto il protocollo mette fine al segreto bancario in Svizzera per quanto riguarda i contribuenti Ue e impedirà

agli evasori di nascondere loro fondi nella Confederazione. «Inizia una nuova era di trasparenza e

cooperazione», ha commentato il commissario agli Affari Economici e Monetari Pierre Moscovici. «La Ue è

all'avanguardia sullo scambio automatico di informazioni e speriamo che gli altri partner si adeguino».

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Pagina 1 di 1Accordo Svizzera-Ue sul segreto fiscale - MilanoFinanza.it

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PRIMA PAGINA 28 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

IL CASO GRECIA

L’«accordo sporco» e il rischio incertezza

Il governo greco ha cercato ieri di interrompere la spirale di pessimismo facendo credere di essere vicino all’accordo con i creditori. Questi ultimi danno però segnali di tutt’altro genere: «I conti non tornano, siamo in grande ritardo, ma si sta cercando lo stesso di creare un sistema di aiuti condizionati». Si sa che nessuno vuole una rottura. Si sa anche che si tratterà di un accordo di quattro mesi che dovrà condurre in autunno al terzo programma di assistenza. Ma non si sa come evitare che il salvataggio di Atene si traduca in un prestito a fondo perduto che metta l’economia greca su un sentiero fiscale non sostenibile e che renda così ancor più oneroso il terzo programma di aiuti con costi stimati in 35 miliardi a carico dei contribuenti dell’euro-area. Una proposta dei negoziatori più intransigenti risponde alla logica di un rapporto ormai povero di fiducia reciproca e considera di non chiudere l’accordo, ma di tenerlo aperto per altre settimane, forse mesi, prestando ad Atene gli 11 miliardi già disponibili non tutti in un colpo, ma goccia a goccia, in modo da tenere sulla corda il governo greco e verificarne il rispetto del piano di riforme. Di fatto rischia di essere l’ennesima danza macabra che prolungherebbe pericolosamente l’incertezza sulle sorti greche. Nonostante un clima tanto deteriorato, la parte più ideologica dello scontro - ma forse anche quella più stimolante - è stata accantonata. Finora Atene aveva impostato il negoziato con i creditori attorno a una delle questioni di teoria economica più dibattute degli ultimi venti anni: tagliare la spesa pubblica può davvero avere effetti di stimolo sulla crescita, quegli effetti che si definiscono “non-keynesiani”? Il ministro delle Finanze Varoufakis lo contestava e quindi rifiutava il disegno di medio periodo di stabilizzazione dell’economia greca. Nelle trattative, così come le descrivono i partecipanti, si prefigurava un debito greco in salita quest’anno sopra il 180% del Pil e poi in discesa sotto il 140% nel 2020. Questa discesa sarebbe avvenuta per tre quinti attraverso surplus primari di bilancio e per due quinti attraverso la crescita del Pil. Il governo greco, ben memore del disastro tra il 2010 e il 2013, contestava che la crescita potesse esserci se la politica di bilancio fosse stata così restrittiva.Continua pagina 2 Carlo Bastasin Continua da pagina 1 I creditori ribattevano che la spesa pubblica greca era in gran parte improduttiva e che Atene intendeva usarla solo per comperare consenso politico. D’altronde anche in Grecia, come in altri Paesi, tagliando la spesa gli ultimi governi avevano forse riportato in crescita l’economia, ma avevano certamente perso le elezioni.La disputa è stata temporaneamente accantonata perché gli obiettivi di surplus primario per i primi anni sono stati dimezzati su iniziativa delle istituzioni europee. In cambio i greci dovevano finalmente entrare nel dettaglio delle riforme del mercato del lavoro e del sistema pensionistico. Rimane forte la resistenza del Fondo monetario il cui mandato è vincolato alla sostenibilità del debito e quindi al profilo degli avanzi di bilancio del Paese assistito. Il Fondo «non entrerà in un accordo che non abbia senso» dice uno dei negoziatori. Così la trattativa si sta sviluppando in parallelo tra la Troika e l’Eurogruppo (i ministri finanziari) e si è concentrata sull’obiettivo di rendere le riforme così convincenti da aumentarne l’effetto sul Pil, compensando il minor rigore fiscale ai fini della riduzione del debito. Si è capito presto che si trattava di un obiettivo velleitario. Le riforme sono diventate presto proposte di aggravi fiscali con un effetto sulla crescita che è contrario a quello desiderato. In privato i negoziatori europei sono molto delusi. I progressi sono lenti, i dettagli vaghi e l’impianto precario. Sarà un successo se si farà finta che il documento paghi tributo sia all’impianto ideologico europeo sia alla logica dell’impegno costruttivo da parte del Paese che chiede aiuto. Si tratta infatti prima di tutto di superare l’incertezza che sta uccidendo l’economia greca, in un clima in cui prima di ogni week-end circolano voci di introduzione dei controlli sui movimenti di capitale. In particolare dopo che l’annuncio di Varoufakis di una tassa sui movimenti bancari ha fatto triplicare i

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prelievi. Alexis Tsipras è però fiducioso e ha deciso di farsi carico di persona della trattativa, precedendo il G-7 di Dresda con una nuova lista di 20 pagine di misure e riforme.Solo con il via libera dei capi di governo, l’Eurogruppo potrà approvare la messa a disposizione di Atene di 11 miliardi già stanziati per il fondo greco di stabilità finanziaria e immediatamente attivabili. È l'ipotesi dell’”accordo sporco”, utile a superare un braccio di ferro autodistruttivo, ma naturalmente non a risolvere la crisi greca. Inutile dire che è un accordo che non piace a Berlino. Il partito della cancelliera (Cdu) è in movimento anche perché l’utilizzo dei fondi richiederà l'approvazione del Bundestag. I manovratori del partito sono abbastanza certi che Merkel - pur in una fase di insolita debolezza - riuscirà a ottenere ancora il voto della maggioranza, ma non è un caso che proprio negli ambienti della Cdu-Csu sia stata avanzata la proposta di trasferire gli aiuti ad Atene goccia a goccia, in modo da tenere sulla corda Tsipras e verificarne le decisioni in Parlamento anche in futuro.© RIPRODUZIONE RISERVATACarloBastasin

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PRIMO PIANO 28 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

AGLI?SGOCCIOLI I partner europei premono sul governo ellenico perché metta nero su bianco gli impegni. Sapin: «Il tempo sta per scadere»

La Grecia: siamo a un passo dall’accordo

Ma i creditori europei smentiscono Atene - Dombrovskis: ancora molto lavoro da

fare

«Abbiamo fatto molti passi. Siamo in dirittura d’arrivo, vicini all’accordo finale», con

i creditori ha detto il premier greco Alexis Tsipras ai giornalisti dopo aver preso parte

a una riunione al ministero delle Finanze ad Atene.

Il leader di Syriza ha anche assicurato che le pensioni verranno regolarmente pagate e

che i depositi nelle banche non sono a rischio.

«I rappresentanti della Grecia - hanno fatto trapelare fonti dell’esecutivo greco - hanno

trovato un accordo a livello tecnico con quelli di Ue e Fmi, che dovrebbe consentire di

sbloccare il versamento di nuovi aiuti al Paese per 7,3 miliardi di euro, e stanno

iniziando a metterla nero su bianco».

Al momento manca, però, la conferma da parte dei creditori. «Lavoriamo molto

intensamente per assicurare un accordo tecnico, ma ancora non ci siamo»: così il

vicepresidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis ha risposto a chi gli

chiedeva se fosse vero che il Brussels Group stesse finalizzando il testo di un accordo,

come riportato da fonti greche.

Il negoziato tra la Grecia e i suoi creditori «non è andato molto avanti», ha detto il

ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble intervistato alla tv pubblica Ard.

«Non ci sono ancora progressi sostanziali per un’intesa sulla Grecia», ha rivelato una

fonte legata alla delegazione tedesca al G-7 finanziario di Dresda.

Le trattative con la Grecia «non hanno portato a nessun impegno scritto», ha

sottolineato cauto il ministro delle Finanze francese, Michel Sapin, che ha aggiunto

che «i negoziatori greci devono iniziare a mettere nero su bianco» i loro impegni

perché «il tempo per arrivare ad un accordo sta scadendo».

Intanto sale la tensione ad Atene tra i risparmiatori. Soltanto nella giornata di martedì,

come hanno reso noto ieri i funzionari degli istituti di credito ellenici, i prelievi dai

depositi bancari sono ammontati a circa 300 milioni di euro, ovvero il triplo di quanto

uscito quotidianamente dalle banche nei giorni immediatamente precedenti.

Un’emorragia che, secondo le stesse fonti, sarà di breve durata in quanto - a loro

parere - la situazione è sotto controllo. La popolazione «rimane calma - hanno detto -

grazie ai messaggi positivi» diffusi dal governo.

Dai dati della Banca centrale greca a fine marzo sui conti correnti delle banche greche

erano depositati 149 miliardi di euro. Dall’inizio dell’anno 24 miliardi di euro hanno

preso il volo magari solo per evitare dei possibili blocchi del ritiro del contante. La

fuga dei capitali è stata costante dall’autunno ad oggi. A ottobre sui conti correnti

delle banche greche erano depositati 179 miliardi di euro.

Altro indicatore da tenere sotto controllo è il cosiddetto Target2, che misura le

passività dei paesi euro sul sistema dei pagamenti europeo. Sempre secondo i dati

forniti dalla banca centrale greca, a fine aprile le passività Target2 di Atene

ammontano a 98,7 miliardi di euro a fronte di un valore pari a zero alla voce attivi. A

gennaio le passività erano pari a 75 miliardi e solo 41 miliardi a marzo. In appena sei

mesi le passività accumulate dalla Grecia sul sistema dei pagamenti europeo sono più

che raddoppiate.

Al tempo stesso peggiora anche la qualità dei collaterali che la Grecia può dare a

garanzia per operazioni nell’Eurosistema. A fine aprile il valore di questi asset è

crollato a 40 miliardi di euro rispetto ai 100 miliardi di novembre ed i 78 miliardi di

febbraio. Solo grazie alla Bce il sistema bancario greco è ancora in grado di finanziare

il paese. Mediante l’Ela, il canale della liquidità di emergenza, le banche della Grecia

possono disporre di una liquidità per 80,2 miliardi di euro ma a un tasso maggiore del

canale normale.

La situazione economica della maggior parte dei greci continua ad aggravarsi. Ieri, da

uno studio condotto dal Gsee, il maggiore sindacato ellenico e dall’Associazione

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Consumatori (Eeke), è emerso che, a causa della riduzione dei redditi provocata dalla

crisi in atto da ormai sei anni, la metà delle persone con un lavoro dipendente deve

attingere ai risparmi per sopravvivere.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Vittorio Da Rold

le rate Fmi di giugno. Varoufakis: «Abbiamo dato»

Voci di un accordo sulla Grecia, record del Nasdaq

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PRIMO PIANO 28 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

TRATTATO DI

LISBONA Basterebbe

attivare la clausola del Trattato di Lisbona sulla cooperazione rafforzata

INTERVENTO

Europa, quegli scossoni che facilitano il

rilancio di una nuova governance

All’interno dell’Unione tutte le crisi portano sempre allo stesso punto: per salvare l’Europa bisogna cambiarla radicalmente. E mai un momento si è rivelato più adatto di questo per riuscirci. L’Europa ha bisogno di più consenso, di più politica, cioè, in definitiva, di un modo di funzionare diverso da quello attuale. L’Europa ha bisogno di una nuova governance, e quando abbiamo cominciato a lavorare sulle nostre proposte in materia, alla fine di dicembre 2014, non immaginavamo certo che le avremmo rese pubbliche in un momento così critico, ma anche così pieno di opportunità. La combinazione della crisi greca, della (giusta) reazione agli eccessi dell’austerity in Spagna, delle spinte nazionalistiche che si riaffacciano in Polonia, della volontà britannica di ridiscutere il trattato con l’Unione, facilita la discussione intorno a una nuova governance, piuttosto che complicarla. La realtà non ammette temporeggiamenti. Dobbiamo cambiare l’Europa, dobbiamo mostrare ambizione politica, coraggio, visione del futuro. Il primo cambiamento che proponiamo comincia da un governo dell’euro più democratico, da politiche comunitarie più efficienti e più solidali. Attualmente infatti, l’Europa è zoppa. Ha una moneta unica ma senza unione economica. La gestione della moneta riflette molto più gli egoismi nazionali che l’interesse continentale. La zona euro deve fissare obiettivi di crescita e investimenti comuni, cioè una vera fiscal stance, sostenuta da un bilancio specifico, gestito in modo più efficiente, meno frammentato, sotto controllo democratico. Non si può chiedere a tutti i paesi di fare la stessa cosa, indipendentemente dalle situazioni reali. Se è vero che l’Italia deve proseguire nelle riforme e nella revisione della spesa, è altrettanto vero che la Germania dovrebbe fare più investimenti e la Grecia modificare il suo sistema fiscale e la sua amministrazione. Ognuno dovrebbe contribuire per la sua parte al raggiungimento degli obiettivi economici e sociali della zona euro. Invece, finora l’Europa è stata solo, e troppo, concentrata sulla stabilità finanziaria. Dobbiamo correggere questo strabismo con nuove politiche sociali, a cominciare, per esempio, da un’assicurazione europea contro la disoccupazione. Ci serve anche un presidente della zona euro a tempo pieno, così come una rappresentanza unificata e coerente dell’euro sulla scena internazionale.È evidente che per avere un bilancio unico dell’euro e una politica sociale europea le istituzioni europee devono cambiare pelle. Il concetto che se ognuno tiene in ordine la propria casa la città funzionerà è sbagliato alla radice, perché se nessuno si cura di illuminazione, decoro, manutenzione delle strade e raccolta dei rifiuti la città cadrà a pezzi comunque. Modificare le istituzioni europee non è un passaggio così arduo come potrebbe sembrare. Basterebbe attivare la clausola del Trattato di Lisbona che riguarda la cooperazione rafforzata. Si tratta della possibilità per alcuni paesi di avanzare nell’integrazione europea senza che altri possano mettere veti. Cooperazione rafforzata, per il governo italiano, vuol dire anche aumento esponenziale del livello democratico delle istituzioni europee e del controllo parlamentare su di esse. Finora abbiamo subito il paradosso di presidenti del consiglio europeo che anziché usare le istituzioni esistenti dell’Unione, hanno privilegiato il lavoro dietro le quinte e i metodi diplomatici ereditati dalle riunioni del G20. In pratica, i presidenti del consiglio europeo hanno dimostrato per primi sfiducia nelle istituzioni europee. Le decisioni rilevanti per tutti i paesi e i popoli europei non possono essere decise in segreto. Sia la discussione che le soluzioni che vengono adottate devono tornare all’interno delle istituzioni europee e del metodo comunitario che in passato ci ha permesso di raggiungere grandi risultati.Il Regno Unito sta chiedendo di rinegoziare il suo rapporto con l’Ue e, implicitamente, anche di riformare l’Unione. Bene, è un’altra opportunità. Già oggi i vari paesi stanno in modo diverso dentro l’Ue. C’è chi aderisce a Schengen, ma non all’euro, chi

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aderisce a entrambi o chi aderisce all’Unione ma non a Schengen. Una nuova governance potrebbe tenere conto di queste diversità, costruendo attorno all’euro un nucleo più forte tra chi vuole aumentare il livello di integrazione politica, economica e sociale, e un rapporto meno stretto con chi, come il Regno Unito, è interessato a completare il mercato unico, il mercato dell’energia, il mercato digitale e quello finanziario. Una nuova governance deve essere semplicemente rispettosa della volontà dei popoli, delle diversità e delle opportunità. Stando bene attenti a gestire le diversità senza creare nuove barriere o divisioni. L’Unione è nata per abbatterle, non per crearne di nuove. E potrà prosperare, meglio di adesso, se saprà fare della democratica gestione della complessità la sua più profonda ragione d’essere.Sandro Gozi è sottosegretario alla Presidenza del consiglio con delega agli Affari europei© RIPRODUZIONE RISERVATASandro Gozi

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NORME E TRIBUTI 28 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

Fisco internazionale. La Commissione europea rilancia anche la base imponibile unica per le imprese

Scambio dati fra Svizzera e Ue

Chiuso l’accordo che cancella il segreto bancario a partire dal 2017

BRUXELLESContinua la battaglia della Commissione europeacontro l’evasione fiscale. L’esecutivo comunitario ha firmato ieri l’atteso accordo con la Svizzera in vista dello scambio automatico di informazioni che sarà operativo a partire dal 2018, mettendo fine nei fatti per i residenti europei al segreto bancario svizzero. La firma è giunta mentre Bruxelles sta studiando il modo di rilanciare una vecchia proposta legislativa ed imporre nell’Unione una base imponibile unica per la tassazione delle imprese. «Si tratta di un nuovo colpo contro coloro che frodano il fisco e un passo supplementare verso una fiscalità più giusta», ha detto il commissario agli affari monetari Pierre Moscovici, riferendosi all’accordo con la Svizzera, che entrerà in vigore nel 2017 con la raccolta dei dati per poi essere operativo dal 2018 con la loro trasmissione. L’intesa imporrà lo scambio di informazioni sui conti detenuti nei diversi paesi dai propri residenti. Secondo Bruxelles, l’accordo avrà un effetto dissuasivo nei confronti di coloro che vogliono nascondere attività all’estero. Ogni anno i Ventotto riceveranno dalla Svizzera nomi, indirizzo, codice fiscale e data di nascita di propri residenti con un conto bancario nella Confederazione. Lo scambio automatico di informazioni è considerato il modo migliore per lottare contro l’evasione e la frode fiscali, anche perché limita le scelte arbitrarie delle amministrazioni fiscali. L’Unione europea sta negoziando accordi simili con Andorra, Liechtenstein, Monaco e San Marino. Le trattative dovrebbero terminare entro fine anno. L’intesa tra Berna e Bruxelles ha consentito di sbloccare nel 2014 il negoziato con il Lussemburgo e l’Austria che per anni avevano ostacolato un ampliamento dello scambio di informazioni bancarie tra i Ventotto per paura di dare un vantaggio competitivo alla Svizzera. È da ricordare che in marzo Bruxelles ha poi presentato una proposta legislativa di scambio automatico di informazioni anche sugli accordi fiscali (tax rulings, in inglese) concessi dai paesi membri alle multinazionali. Intanto, la stessa Commissione sta anche lavorando al modo in cui rilanciare la sua proposta del 2011 di adottare una base imponibile unica per la tassazione delle imprese (si veda Il Sole 24 Ore del 14 marzo). Il nuovo piano potrebbe giungere a metà giugno. In una conferenza stampa, il vice presidente della Commissione Valdis Dombrovskis ha spiegato ieri che l’esecutivo comunitario sta lavorando su un meccanismo “obbligatorio”, una proposta che sia “ambiziosa e realistica”. In materia fiscale, le decisioni nell’iter di codecisione vanno prese all’unanimità dei paesi membri. «Sappiamo che dobbiamo ottenere il benestare di tutti gli stati», ha detto Dombrovskis. Negli ultimi quattro anni, il progetto comunitario è rimasto bloccato sul tavolo dei governi. Uno dei nodi agli occhi dei paesi è la riforma della raccolta fiscale nei singoli stati una volta adottata una base imponibile unica. Bisogna poi chiarire quali saranno le società soggette alla nuova base imponibile. © RIPRODUZIONE RISERVATABeda Romano

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MF

Numero 104, pag. 2 del 29/05/2015

PRIMO PIANO

I dati sull'Eurozona inclusi ieri nel rapporto di stabilit&agrave; finanziaria della Bce

Crediti dubbi, macigno da 900 mldLa percentuale di esposizioni deteriorate in Italia è tra le più elevate in Europa, a causa della recessione e del mancato smobilizzo. E il costo del capitale degli istituti è all'11%, contro un rendimento pari a zero

di Francesco Ninfole

Sulle banche dell'Eurozona pesano crediti deteriorati per 879 miliardi di euro, un valore pari al 9% del pil

dell'area. Ma come spesso accade in Europa c'è una forte eterogeneità dei dati a seconda dei Paesi. In

termini percentuali le esposizioni dubbie delle banche italiane superano il 20% del totale (si veda grafico in

pagina). Valori più alti si osservano soltanto per gli istituti ciprioti, greci, irlandesi, sloveni e portoghesi. Anche

i gruppi spagnoli hanno crediti deteriorati inferiori, attorno al 15%, mentre quelli tedeschi e francesi sono

attorno al 5%. Dai dati pubblicati ieri dalla Bce sulle non-performing exposures (secondo la definizione

armonizzata Eba utilizzata nell'Aqr su dati a fine 2013), emerge per l'Italia un fardello che ostacola la ripresa

più che negli altri Paesi (alcuni non hanno vissuto una recessione come quella italiana; altri hanno già varato

misure di smobilizzo come bad bank).

La Bce, senza fare riferimento a singoli Paesi, ha rilevato che «un'elevata percentuale di esposizioni

deteriorate costituisce un serio problema macroprudenziale e può avere importanti conseguenze

macroeconomiche». Innanzitutto, per Francoforte, questa situazione implica che famiglie e imprese sono

ancora in difficoltà, con conseguenze per consumi e investimenti, e quindi per la crescita del pil. Inoltre, se la

qualità del credito è bassa, le banche devono impiegare liquidità e capitale a fronte delle esposizioni

deteriorate, con minori spazi per nuovi prestiti. Perciò, in un capitolo dedicato alla materia all'interno del

Rapporto sulla stabilità finanziaria, la Bce ha indicato una serie di possibili interventi per liberare le banche

dalla zavorra delle sofferenze (tra cui la creazione di bad bank), pur ricordando lo scoglio dei vincoli delle

regole Ue sugli aiuti di Stato.

L'elevato livello di crediti deteriorati è uno dei fattori che incide di più sulla percezione della salute delle

banche italiane da parte degli investitori. Sempre nel rapporto di ieri la Bce ha indicato che il costo del

capitale, ovvero il rendimento che il mercato chiede ai gruppi del Paese, è attorno all'11%, circa il 3% in più

rispetto agli istituti spagnoli e francesi. A inizio 2014 i valori erano vicini al 9% in tutti e tre i Paesi. Il problema

maggiore è che il rendimento del capitale è molto più basso di quanto richiesto dagli investitori: nel 2014 il

Roe degli istituti italiani, al netto delle svalutazioni degli avviamenti, è rimasto negativo (-0,2%), seppur con

un lieve miglioramento rispetto all'anno precedente (-0,9%). I rendimenti negativi sono dovuti soprattutto alle

rettifiche di valore su crediti, che hanno assorbito quasi interamente il risultato di gestione. L'ampio divario tra

costo (11%) e rendimento (-0,2%) del capitale implica che per le banche italiane è più difficile raccogliere

risorse sui mercati: ci sono troppi rischi nella percezione degli investitori, a fronte di rendimenti vicini allo zero.

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La bassa attrattività di capitali si traduce anche in una limitata capacità di fare credito. I dati Abi rilevano

segnali di miglioramento, che riflettono anche la ripresa economica (quest'ultimo resta un fattore decisivo,

assieme alla crescita della domanda delle aziende): nel quadrimestre gennaio-aprile i nuovi finanziamenti alle

imprese hanno registrato un incremento dell'11,2% rispetto al 2014. Tuttavia i prestiti complessivi alle

imprese secondo Bankitalia sono scesi del 2,2% anche a marzo (-3% a febbraio). Perciò il governo continua

a negoziare con Bruxelles misure per ridurre le sofferenze e rilanciare il credito. (riproduzione riservata)

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Numero 104, pag. 2 del 29/05/2015

PRIMO PIANO

Ue: l'Italia recepisca le regole sulle crisi bancarie

La Commissione europea ha chiesto all'Italia assieme ad altri 10 Paesi membri di dare piena attuazione alla

direttiva che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi. Si tratta di un elemento

centrale del nuovo quadro normativo comunitario, ha ricordato Bruxelles, istituito a seguito della crisi

finanziaria e volto ad assicurare un settore bancario vitale e stabile. Oltre all'Italia il richiamo riguarda anche

Bulgaria, Francia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Repubblica ceca, Romania e Svezia.

Se entro due mesi gli 11 Paesi coinvolti non si adegueranno, la Commissione potrà decidere di deferirli alla

Corte di giustizia dell'Ue. La direttiva delinea le norme e le procedure che gli Stati membri devono adottare

per mitigare e gestire lo stress o il fallimento di una banca o di un'impresa d'investimento. Essa fornisce gli

strumenti e i poteri necessari per assicurare che le banche ai limiti dell'insolvenza possano essere

ristrutturate onde evitare che siano i contribuenti a dover farsi carico del fallimento delle banche e per

salvaguardare la stabilità finanziaria. La scadenza per l'attuazione della direttiva nella normativa nazionale

era il 31 dicembre 2014. La richiesta della Commissione si configura in un parere motivato, che costituisce la

seconda fase delle procedure d'infrazione.

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Numero 104, pag. 2 del 29/05/2015

PRIMO PIANO

Ma secondo la direttrice del Fmi probabilmente non rappresenterebbe la fine della moneta unica. L'accordo &egrave; ancora lontano

Lagarde: l'uscita della Grecia dall'euro è possibile

di Marcello Bussi

L'uscita della Grecia dall'euro «è una possibilità». Lo ha detto ieri la direttrice generale del Fondo Monetario

Internazionale, Christine Lagarde, al quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, aggiungendo che «è

molto improbabile» arrivare a un accordo finale nei prossimi giorni. Per la Lagarde però l'uscita di Atene

dall'Eurozona «probabilmente non segnerebbe la fine dell'euro». Se due giorni

fa le voci diffuse da esponenti del governo greco su un accordo ormai in

dirittura d'arrivo erano state prese per buone dai mercati nonostante le smentite

dei creditori, ieri è tornato lo scetticismo. Fonti vicine alle trattative hanno fatto

sapere che il Fmi ha indicato ad Atene e all'Ue che, in assenza di una

ristrutturazione del debito, la Grecia dovrebbe avere surplus primari «più

ambiziosi», intervenendo con maggiore decisione sulle pensioni. Anche la Bce

ha lanciato un monito sottolineando che «in assenza di un accordo rapido» si

potrebbero materializzare i rischi «di un aggiustamento al rialzo dei premi sul

rischio dei Paesi dell'Eurozona più vulnerabili». Mentre Pierre Moscovici, commissario Ue agli Affari

Economici, ha dichiarato che Atene e i suoi creditori hanno compiuto «tre quarti del cammino» verso l'intesa,

anche se resta ancora «molto lavoro» da fare. Insomma l'accordo, dato per imminente due giorni fa, non c'è

ancora. L'uscita del governo greco è stata giudicata dagli osservatori come una mossa disperata nel tentativo

di trasmettere ottimismo e impedire la temuta corsa agli sportelli da parte dei risparmiatori greci. Non a caso il

governo guidato da Alexis Tsipras ieri ha affermato che un'intesa deve essere trovata entro domenica. Atene

deve restituire 305 milioni al Fmi il 5 giugno e quindi ci sarebbe ancora la prossima settimana per arrivare a

un accordo. Ma Atene ormai teme che lunedì, in caso di mancato accordo, i risparmiatori si mettano in coda

per svuotare i loro conti correnti. Intanto il ministro delle Finanze Yanis Varoukakis è tornato a battere il tasto

della «ristrutturazione del debito», da lui definito l'obiettivo «fondamentale» del governo greco. Il ministro ha

anche sottolineato che la pressione dei creditori sulla revisione dell'Iva è «asfissiante». Ieri è anche emerso

che la Grecia ha un debito con le aziende farmaceutiche europee di 1,1 miliardi di euro e non paga i fornitori

di farmaci dallo scorso dicembre. Lo ha affermato l'Efpia, la Federazione europea dei produttori di farmaci,

secondo cui il debito è nei confronti sia di singoli ospedali che dell'assicurazione sanitaria pubblica greca. Già

nel triennio 2010-2012 la Grecia aveva accumulato forti debiti nei confronti delle aziende del farmaco, poi in

parte ripianati con bond pubblici. (riproduzione riservata)

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MF

Numero 104, pag. 3 del 29/05/2015

PRIMO PIANO

Resta il doppio livello di governance. alla Bei spetter&agrave; l'ultima parola sui progetti

Piano Juncker, accordo sull'EfsiRidotto il contributo al Fondo di garanzia che sarà prelevato dai programmi per la ricerca e le infrastrutture. Fuori dal patto di Stabilità i sostegni alle piattaforme settoriali e nazionali

di Andrea Pira

Che l'accordo sul regolamento del Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (Efsi) raggiunto ieri sia stato

tutt'altro che facile sono gli stessi protagonisti a dirlo. È servita «una lunga notte di discussioni», affinché

Commissione Europea, Europarlamento e Consiglio Ue arrivassero a una mediazione. Alla fine è stata

raggiunta l'intesa sulla governace, che non si discosta da quella che il

vicepresidente della Banca Europea per gli Investimenti (Bei), Dario Scannapieco,

aveva definito «un po' ridondante». La nottata ha portato anche l'ok all'esclusione

dal Patto di Stabilità dei contributi al piano Juncker versati dagli Stati e dalle loro

banche pubbliche di sviluppo, anche nel caso questi vadano non al fondo di

garanzia ma alle piattaforme d'investimento settoriali e nazionali. Tale revisione che

non vale però per Cdp, attraverso cui l'Italia partecipa al Piano Juncker con 8

miliardi, in quanto già fuori dal perimetro della pubblica amministrazione. Ma

soprattutto c'è stato un punto d'incontro sul finanziamento del fondo da 21 miliardi,

di cui 5 a carico della Bei e 16 della Ue. Il grosso della dote di 8 miliardi che

Bruxelles intende mettere da subito, ossia 5 miliardi, arriverà dai programmi Horizon 2020 per la ricerca e

sviluppo e Connecting Europe Facility (Cef) per le infrastrutture, che peseranno rispettivamente per 2,2 e 2,8

miliardi. Per i restanti 3 miliardi si farà ricorso al margine, ossia alla parte inutilizzata del bilancio europeo.

Proprio su quest'ultima copertura si è giocata la mediazione nel trilogo. La proposta iniziale della

Commissione prevedeva infatti che il margine contasse per 2 miliardi, sottraendo quindi 500 milioni a testa ai

due programmi. Raggiunto l'accordo, il piano con cui la Ue punta a mobilitare 315 miliardi di investimenti

dovrebbe partire entro la fine dell'estate. Il regolamento finale si avrà soltanto dopo il via libera del

Parlamento Europeo, che dovrebbe arrivare il prossimo 24 giugno. Per allora ci sarà certezza anche sulla

governance del fondo, che avrà uno steering board, in cui siederanno rappresentati della Commissione e

della Bei, e un comitato per gli investimenti composto da otto esperti e un direttore generale. Il primo

deciderà gli orientamenti generali e le politiche strategiche. Il comitato valuterà quali investimenti potranno

ricevere la garanzia in base alle linee guida del regolamento. Spetterà infine alla Bei dare la valutazione

finale dei progetti. (riproduzione riservata)

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PRIMA PAGINA 29 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

LA SFIDA DELL’EUROPA

Se non basta la supplenza della Bce

Tra integrazione barcollante ed egoismi crescenti, l’Europa da troppo tempo vive una fase di disorientamento profondo nella quale rischia di perdersi. Riuscendo ormai a disorientare perfino i suoi sostenitori più convinti. «L’Europa non ha alternative ma ha bisogno di un colpo d’ala, la politica deve ritrovare il ruolo» ha avvertito ieri Giorgio Squinzi, europeista noto e incrollabile. Da fattore esogeno della politica nazionale, l’Europa da anni è diventata una variabile endogena sempre più intrusiva e determinante nella vita democratica, politica, socio-economica, industrial- finanziaria e culturale dei suoi Paesi membri, in breve del loro modello di società e di sviluppo.Per questo, all’assemblea annuale di Confindustria, il suo presidente non avrebbe potuto trascurarne peso e importanza cruciale anche nella ripresa dell’Italia. Che ha imboccato, è vero, la via delle riforme e del risanamento dei conti pubblici ma ha ancora molto da fare per modernizzarsi davvero, recuperare competitività e crescita duratura mettendosi al passo con i maggiori concorrenti globali, non solo europei.Oggi però l’Unione appare più un freno che un propellente, una realtà inquisitiva e anche punitiva più che davvero propositiva per i suoi cittadini e le sue imprese. E Squinzi non risparmia le critiche. «La sola istituzione che agisce davvero per l’integrità e il rilancio dell’economia è la Bce di Mario Draghi. Ma è superfluo precisare che la Bce non può sostituirsi all’Unione degli Stati». Se vuole ritrovare appeal e un futuro certo, l’Ue non può vivere di «simboli freddi e burocratici alimentando solo derive populiste».Continua pagina 6 Adriana Cerretelli Continua da pagina 1 Che poi ovviamente le remano contro, come i nazionalismi dilaganti e le spinte centrifughe che la scuotono da Nord a Sud. Per sconfiggere tendenze alla lunga suicide, l’Europa deve «ritrovare un progetto politico e una visione comune»: solo così potrà tornare ad essere «un interprete autorevole sulla scena geopolitica mondiale e rispondere ai bisogni complessi di cittadini e imprese». Invece, denuncia il presidente di Confindustria, anche se abbiamo il mercato più grande del mondo, siamo diventati il continente della crescita bassa dimenticando i valori reali su cui costruire il futuro e competere in un’economia sempre più globalizzata. «Ci siamo aggrappati con scarsa lungimiranza a un rigorismo eccessivo. Il negoziato con la Grecia è diventato il paradigma dei nostri limiti. E solo ora si comincia a capire che la sfida è un'altra: è tutta politica e civile».La dottrina europea di Squinzi auspica un ritorno ai Padri Fondatori: a quei principi dell’unità nella diversità, dell’unione che fa la forza, della solidarietà che crea coesione e non divisioni, sotto l’ombrello di una ritrovata fiducia reciproca. Tutti concetti e valori triturati dal settennato nero delle crisi multiple europee, gestite in stato di perenne confusione mentale oltre che di interessi nazionali regolarmente in contesa. È ora di invertire la rotta, di carburare la ripresa economica con il rilancio della politica europea. E l’Italia, sottolinea il nostro, ha le carte in regola per fare la sua parte. L’accordo proprio ieri a Bruxelles sul piano Juncker, che sarà operativo da settembre con investimenti per 315 miliardi in tre anni, rappresenta un concreto segnale positivo. Ma ci vorrà ben altro per riportare sulla retta strada integrativa il mastodonte europeo. C’è l’equazione greca da risolvere evitando un default che nuocerebbe all’eurozona e al risveglio della crescita. C’è la questione britannica da superare insieme all’antica tentazione inglese di destrutturare l’Europa. Che invece medita di riaggregarsi intorno al nucleo duro dell’eurozona, sempre ammesso che le idee franco-tedesche riescano a fare proseliti e che qualche gioco non sfugga di mano. Un’ Europa forte e condivisa resta lo spartiacque tra rilancio e declino collettivo.

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L’industria l’ha capito da tempo. La politica arranca ancora, disordinatamente.© RIPRODUZIONE RISERVATAAdrianaCerretelli

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PRIMO PIANO 29 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

TEMPI

SUPPLEMENTARI Il vicepresidente della Bce Constancio ha osservato che il mancato pagamento di una rata non significa insolvenza automatica

Lagarde: Grexit non è da escludere

Monito della Bce: presto un accordo, altrimenti sale il rischio di contagio sui

mercati

DRESDAIl Fondo monetario internazionale e la Banca centrale europea hanno accentuato ieri la pressione sulla Grecia per la rapida conclusione di un accordo con i suoi creditori internazionali. Il direttore dell’Fmi, Christine Lagarde, ha dichiarato in un’intervista a un giornale tedesco, a una domanda sulla possibilità di uscita di Atene dall’euro, che «ogni incertezza, ogni vulnerabilità potenziale o volatilità è una fonte di preoccupazione. Non siamo ingenui e non pensiamo che questo sarebbe una passeggiata. È una questione complicata che speriamo gli europei non debbano affrontare, perché speriamo che si trovi una strada per accordarsi sul futuro della Grecia nell’eurozona. Ma è una possibilità».Per tentare di superare l’impasse nel negoziato, il cancelliere tedesco Angela Merkel ha parlato per un’ora ieri in teleconferenza con il primo ministro greco Alexis Tsipras e il presidente francese François Hollande.Il vicepresidente della Bce, Vitor Constancio, ha invece minimizzato l’eventualità che Atene possa uscire dall’euro, ma il rapporto semestrale dell’istituto di Francoforte sulla stabilità finanziaria, pubblicato ieri, ha sottolineato la possibilità di contagio per gli altri Paesi dell’euro area “vulnerabili” in mancanza di una rapida intesa sulle riforme che la Grecia deve attuare, anche se finora le reazioni dei mercati sono state limitate. Il rapporto osserva che «le aspettative di un rischio di default sono nettamente cresciute in Grecia a causa dell’aumento dell’incertezza politica».La signora Lagarde, come altri partecipanti al G-7 di Dresda, fra cui il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble e il commissario europeo Pierre Moscovici, ha respinto l’interpretazione di parte greca sullo stato dei negoziati, secondo cui questi si starebbero avviando a conclusione. Il direttore dell’Fmi ha sottolineato che c’è bisogno di un accordo complessivo per sbloccare i 7,2 miliardi di euro previsti dal secondo pacchetto di aiuti e non sborsati per le inadempienze del Governo greco sugli impegni presi. Impossibile che la conclusione arrivi entro domenica, come avevano indicato fonti greche. La responsabilità per tenere la Grecia nell’unione monetaria spetta comunque agli europei, che, secondo la signora Lagarde, possono dare un po’ di respiro ad Atene se le condizioni sono soddisfatte. Il segretario dell’Ocse, Angel Gurria, veterano del negoziato sul debito messicano negli anni 80 e 90, ha affermato che «quando c’è da parte di tutti la volontà politica, l’intesa arriva».Entro giugno, la Grecia deve rimborsare circa 1,6 miliardi di euro all’Fmi, di cui oltre 300 milioni il 5 giugno: Atene ha l’opzione di raggruppare i quattro pagamenti previsti questo mese alla fine di giugno, ma, secondo un portavoce del Fondo, non l’ha ancora esercitata.Constancio ha osservato comunque che il mancato pagamento di una rata da parte di Atene non significa la sua uscita dall’euro, né l’automatica insolvenza delle banche greche, anche se ovviamente la Bce dovrebbe tenerne conto nella sua valutazione degli istituti di credito ellenici, che si reggono sulla liquidità di emergenza fornita dalla Banca di Grecia e autorizzata settimanalmente da Francoforte.Un mancato accordo in tempi rapidi, dice il rapporto della Bce, potrebbe far salire il premio al rischio sul debito degli altri Paesi vulnerabili. Più in generale, nota lo studio, le incertezze sulla sostenibilità del debito pubblico continueranno nel medio periodo dato che il rapporto debito/Pil resterà alto in diversi Paesi. Constancio ha dichiarato che la situazione della stabilità finanziaria in Europa è migliorata anche per effetto delle politiche della Bce. Secondo il banchiere centrale portoghese, non ci sono elementi per dire che c’è una sopravvalutazione generalizzata delle attività finanziarie, ma - ha rilevato anche - il rischio principale è la possibilità di un’inversione di tendenza nelle quotazioni, «che potrebbe produrre perdite di capitale e disturbare la

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ripresa».© RIPRODUZIONE RISERVATAAlessandro Merli

lavoro anche nel 2016. Visco: in Italia migliora clima per investimenti

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MONDO 29 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

I PUNTI

DELL’ACCORDO Sarà sottratto un miliardo in meno ad altri programmi di sostegno all’economia e l’Efsi perderà la sua impronta federale

Investimenti. Intesa a Bruxelles sul capitale iniziale

Accelera il piano Juncker, fondo operativo a

fine estate

BRUXELLESDopo negoziati relativamente brevi per le abitudini brussellesi, la Commissione, il Consiglio e il Parlamento hanno trovato all’alba di ieri mattina un accordo sul futuro Fondo europeo per gli investimenti strategici (EFSI), lo strumento che l’Europa ha ideato per rilanciare la crescita economica e contrastare i rischi di deflazione. Nel corso delle trattative, il fondo, che dovrebbe essere operativo entro settembre, ha perso la sua impronta federale.Il nodo da risolvere nelle trattative riguardava il capitale iniziale del nuovo fondo. Il progetto della Commissione prevedeva una base di 21 miliardi di euro, di cui cinque provenienti dalla Banca europea degli investimenti e 16 dal bilancio comunitario. Di quest’ultima tranche, un pacchetto di otto miliardi deve essere reso disponibile da subito. Secondo il piano di Bruxelles, sei miliardi dovevano essere trovati in due programmi europei e altri due dalle rimanenze del bilancio comunitario annuale.Il Parlamento ha dato battaglia per evitare che l’operazione pesasse troppo sui due programmi di sostegno all’economia (Horizon 2020 a favore della ricerca e Connecting Europe a favore delle infrastrutture). È stato quindi deciso di ridurre la loro partecipazione all’EFSI di un miliardo di euro, in modo da salvaguardare il loro ruolo nell’aiutare la congiuntura. L’ammontare verrà recuperato dalle rimanenze di bilancio (i cosiddetti margini, secondo il vocabolario comunitario).L’EFSI deve favorire su un periodo di tre anni investimenti per 315 miliardi di euro attraverso una leva finanziaria. Ieri in una conferenza stampa qui a Bruxelles il vice presidente della Commissione Jyrki Katainen si è congratulato per l’intesa: «Ciò significa che il fondo potrà essere operativo alla fine dell’estate». Sei Paesi – Polonia, Spagna, Germania, Francia, Italia e Lussemburgo - hanno deciso di parteciparvi attraverso contributi che andranno a finanziare progetti nazionali.In origine, il fondo doveva avere una impronta federale. Lo strumento doveva essere gestito dalla Commissione e dalla Bei ed essere indipendente dai governi nazionali. Il negoziato tra le tre istituzioni europee – Commissione, Parlamento e Consiglio – ha corretto il tiro. Il governo del fondo rimarrà tendenzialmente in mani comunitarie, ma i Paesi si sono rifiutati nei fatti di investire nell’EFSI, come sperato da Bruxelles. I loro contributi andranno a finanziare progetti nazionali.Commenta Sylvie Goulard, eurodeputata liberale francese: «Da un punto di vista politico, c’è una svolta. L’Europa non pensa solo al risanamento dei conti pubblici, ma anche al rilancio dell’economia. La leva finanziaria poi non mi sembra irrealistica. L’aspetto su cui è legittimo avere dei dubbi è quello della fiducia. C’è la fiducia degli investitori privati a partecipare a questo schema?». Nei mesi scorsi, grandi fondi d’investimento hanno rumoreggiato, tra le altre cose per il rischio di influenza dei governi.In conferenza stampa, Katainen ha confermato ieri che, nel caso, i contributi nazionali andranno registrati nei conti pubblici, ma non verranno presi in considerazione nelle valutazioni dei bilanci che la Commissione fa sulla base del Patto di Stabilità. Il benestare definitivo del Consiglio e del Parlamento dovrebbe giungere entro fine giugno. Gli investimenti dell’EFSI dovrebbero riguardare in particolare i piani infrastrutturali così come i progetti nella ricerca e nello sviluppo.© RIPRODUZIONE RISERVATABeda Romano

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PRIMA PAGINA 29 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

REGOLE. ?PROCEDURA D’INFRAZIONE CONTRO L’ITALIA E ALTRI 10 PAESI PER IL

MANCANTO RECEPIMENTO DELLA BRRD

Bruxelles batte il tempo sul «bail-in»

BRUXELLES

C’era un tempo quando l’urgenza di trovare un accordo sul futuro salvataggio delle

banche in crisi occupava la mente della classe politica europea. Le riunioni (anche

notturne) dell’Eurogruppo non sono mancate, sulla scia della crisi finanziaria

scoppiata nel 2008 dopo il fallimento di Lehman Brothers. Oggi, in molti paesi, il

tema non sembra più così urgente, tanto che la Commissione europea ha aperto una

procedura contro 11 paesi a cui rimprovera di non avere ancora completamente

adottato la direttiva comunitaria in materia.

La Bulgaria, la Repubblica Ceca, la Francia, l’Italia, la Lituania, il Lussemburgo,

l’Olanda, Malta, la Polonia, la Romania e la Svezia non hanno ancora recepito la

direttiva approvata l’anno scorso dopo un lungo iter negoziale. Il testo, noto con

l’acronimo inglese BRRD (Bank Recovery and Resolution Directive), è un pilastro

della nuova regolamentazione europea in campo finanziario. Le nuove norme, che

prevedono regole e procedure da utilizzare nel caso di un fallimento creditizio, sono

associate alla nascita di un fondo di risoluzione delle crisi bancarie.

«L’attuale situazione non è (…) soddisfacente. Provoca incertezze legali e crea rischi

politici e giuridici nel caso banche siano in difficoltà», ha sottolineato la portavoce

della Commissione europea Vanessa Mock. A questo punto, dopo l’iniziativa

comunitaria di ieri, i paesi hanno due mesi per rispondere alla Commissione europea.

Quest’ultima potrà, nel caso di perdurante inadempienza, trascinare il paese o i paesi

dinanzi alla Corte di Giustizia dell'Unione.

All’inizio di gennaio, l’esecutivo comunitario aveva mandato ai governi ritardatari una

prima lettera in cui li esortava ad adottare la direttiva. Molti paesi hanno giustificato la

lentezza nell’adozione, riferendosi alla complessità della legislazione. Sui 28 paesi

dell'Unione, solo Austria e Germania sono riusciti ad adottare il pacchetto entro la

scadenza del 31 dicembre 2014. In Italia, spiegava ieri il Mef, l’iter per l’approvazione

di un decreto legislativo è stato avviato.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Beda Romano

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NORME E TRIBUTI 29 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

SENZA LIMITE Le comunicazioni riguarderanno tutti i conti a prescindere dagli importi In caso di richiesta «prevale» l’intesa con l’Italia

L’accordo Unione europea-Svizzera. Gli obblighi e le informazioni da trasmettere

Anche le assicurazioni nello scambio datiLo scambio automatico di informazioni tra Svizzera e Ue coinvolgerà non solo le

banche ma anche le società di gestione e le imprese di assicurazione. Lo prevede il

protocollo di modifica dell’accordo tra la Svizzera e l’Unione europea, firmato due

giorni fa a Bruxelles (si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri).

L’accordo in vigore viene completamente modificato e trasformato in un nuovo

accordo sullo scambio automatico di informazioni. Il protocollo attua lo standard

globale di scambio delle informazioni tra Svizzera e Ue e adegua la clausola sullo

scambio automatico di informazioni su richiesta all’attuale standard globale dell’Ocse

(articolo 26 del modello di convenzione dell’Ocse) per favorire il contrasto

all’evasione fiscale.

Anche a tal fine l’accordo non prevede di limitare lo scambio a conti di importo

superiore a una certa soglia, proprio perché così si sarebbe potuto facilmente eludere i

controlli ripartendo le attività tra diverse istituzioni finanziarie. Le istituzioni

finanziarie tenute alla comunicazione non sono soltanto le banche e gli istituti di

custodia ma anche altre istituzioni finanziarie, come, ad esempio, le società di gestione

e le imprese di assicurazione. Sono escluse dal novero dei soggetti obbligati alla

trasmissione le entità che difficilmente possono essere utilizzate a fini di evasione

fiscale (ad esempio alcuni organismi di investimento collettivo).

Le informazioni che devono essere scambiate possono essere suddivise in tre gruppi:

l’identificazione del titolare del conto, sia esso una persona fisica o un’entità; oggetto

di scambio sono le informazioni su nome, indirizzo, codice fiscale, eccetera;

l’individuazione del conto; essa riguarda anche l’istituzione finanziaria in cui il conto

è detenuto. I conti oggetto di comunicazione sono quelli di persone fisiche ed entità

(compresi trust e fondazioni), sebbene lo standard comune di comunicazione di

informazioni contenga anche l’obbligo di verifica di entità passive e l’eventuale

comunicazione delle persone fisiche che esercitano il controllo su queste entità. In

questo modo viene impedito che lo scambio automatico di informazioni venga

raggirato grazie all’interposizione di una persona giuridica o di un organismo analogo.

I conti sono i conti di custodia, i conti di deposito, le quote nel capitale di rischio e nel

capitale di debito di un’istituzione finanziaria, i contratti assicurativi (ma non tutti,

solo quelli per i quali i valori maturati possono essere quantificati). Nonsono oggetto

di comunicazione i conti di alcuni soggetti, tra i quali ad esempio, le entità statali, le

organizzazioni internazionali, le banche centrali;

la quantificazione degli importi detenuti in Svizzera; in questo caso le informazioni da

comunicare dipendono dal tipo di conto (conto di custodia, di deposito, altri conti). In

ogni caso saranno trasmessi i dati riferiti ai saldi di conto e agli interessi, dividendi,

redditi da determinati prodotti assicurativi, incassi derivanti dalla cessione di attività

finanziarie e altri redditi provenienti dai patrimoni detenuti sul conto.

Le prime informazioni, da trasmettere entro settembre 2018, riguarderanno il 2017.

Sotto un profilo procedurale, le informazioni vengono trasmesse alle autorità fiscali

della giurisdizione di residenza dell’istituzione finanziaria che a loro volta le

trasmettono alle autorità fiscali della giurisdizione di residenza del titolare del conto.

L’accordo prevede anche uno scambio di informazioni su richiesta. La novità non

riguarda però quei Paesi, come l’Italia, che hanno già raggiunto un accordo per

integrare i propri trattati con la Svizzera con le previsioni contenute nell’articolo 26

del modello Ocse.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Valerio Vallefuoco

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VARIE

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PRIMA PAGINA 25 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore lunedì

CONTI & GENERAZIONI

Un nuovo patto tra lavoro e pensioniL’idea della pensione flessibile, ritiro anticipato con un assegno decurtato, tra gli altri avrebbe il merito di cominciare a ridurre quel particolare spread di equità tra le generazioni diventato ormai eclatante fino a destare scandalo.Complice la rigidità (durata molto a lungo) del mercato del lavoro, la scarsa efficienza del sistema di formazione nel preparare i giovani a un futuro professionale, ma soprattutto l’anomalo quadro demografico di un’Italia senza figli diventata giardino della quarta età, chi ha potuto beneficiare del sistema retributivo risulta oggi mediamente in “debito” con le diverse gestioni previdenziali.Sono state tarate per vite medie più corte e su un’idea di mercato del lavoro tanto fluida quanto irreale. Condizioni che hanno portato, ad esempio, a 46 miliardi di sbilancio tra trattamenti in essere e montanti contributivi accantonati.L’Italia della quarta età si ritrova dunque con uscite previdenziali pari al 14% del Pil, nonostante abbia realizzato la riforme previdenziale più incisiva d’Europa. È una quota di spesa pubblica comunque alta, se si considera che oggi fa scandalo la Grecia dove la percentuale non è tanto più alta ed è l’oggetto più delicato della controversa trattativa tra Atene e la Troika.L’assegno flessibile dovrebbe servire anche a superare uno dei paradossi più crudeli indotti dalla recessione: il conflitto tra la necessità di allungare l’età pensionabile per motivi di finanza pubblica e la necessità di ricorrere a pensionamenti anticipati per far fronte alle cospicue eccedenze di personale indotte dalla crisi e non solo. L’antinomia tra l’esigenza di restare più a lungo in azienda ma doverla, al contempo, lasciare in anticipo è stata (ed è ancora) una delle contraddizioni del nostro sistema di welfare.Fluidità diventa la nuova parola chiave per le regole che ruotano attorno al tema lavoro: la svolta impressa dal Jobs act nel riequilibrare flessibilità in entrata e in uscita nel mercato del lavoro ha bisogno di un pendant simile nelle regole previdenziali contaminate come per una sorta di effetto-alone dalla novità giuslavoristiche.Continua pagina 10 Alberto Orioli Continua da pagina 1 Purtroppo la discussone - ancora embrionale - che ruota intorno all’assegno di pensione flessibile è mossa da un intento soltanto assistenziale e la “disegna” come ultima appendice degli ammortizzatori sociali nell’accompagnamento all’uscita dal lavoro. L’idea della flessibilità dell’assegno di quiescenza, invece, potrebbe essere l’occasione per ragionare su misure per le politiche attive del lavoro e su forme di ottimizzazione tra lavoro senior e lavoro junior. E magari per recuperare, modernizzandolo, il concetto del “part time-part pension” su cui già ragionava Gino Giugni negli anni 90. E la cui declinazione successiva, lasciando costi altissimi all’impresa, non ebbe seguito.O ancora per abbinare l’assegno parziale di pensione a forme più sofisticate di previdenza complementare, come del resto viene oggi proposto da Maurizio Sacconi. O per ripensare la forma di prestito pensionistico così come congegnata dall’ex ministro Enrico Giovannini e riproposta, senza troppa convinzione, dall’attuale ministro Giuliano Poletti. Sempre per contaminazione, d’altro canto, il nuovo corso imposto dal Jobs act investirà anche le regole interne alla gestione delle risorse umane portando alla ribalta - come merita - il tema dell’equilibrio generazionale. È dalla fine degli anni 90 che in sede europea si ragiona a procedure per l’invecchiamento attivo in azienda e per la migliore complementarietà tra nuovi entrati e senior, ma l’argomento non ha ancora assunto la caratura della vera priorità. Ma se le nuove regole prenderanno corpo avrà molto senso immaginare nuove forme di “screening formativo” periodico per il personale avendo bene a mente quale è il profilo anagrafico contingente e quello atteso. Quando se ne sono occupati, i manuali di management hanno inventato il mentoring, l’outplacement, il redeployment; vale a dire l’uso del personale più anziano con funzioni di tutor per i più giovani; la possibilità di gestire l’uscita dei lavoratori senior sfruttando opportunità di lavoro esterno (spesso in proprio) con un

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Olacrazia, ecco l'azienda senza capi e cariche. Ma 1 dipendente su 10 lascia

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legame iniziale con l’azienda di provenienza; la creazione di una nuova attività-opportunità all’interno della stessa azienda calibrata sul potenziale e sull’esperienza del personale senior. È chiaro che una funzione determinante è svolta dalla formazione professionale per promuovere l’uso delle tecnologie e migliorare l’adattamento alla “mentalità digitale”. Il mix tra l’energia e la velocità dei nativi digitali e l’esperienza di chi è depositario del patrimonio culturale profondo di un’azienda può diventare una vera leva competitiva. Adesso che all’orizzonte non ci sono più solo le nubi nere della recessione si può ricominciare a ragionare di futuro e di programmi di lungo periodo. Magari cominciando proprio da qui. © RIPRODUZIONE RISERVATA Alberto Orioli

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NORME E TRIBUTI 25 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore lunedì

Contenzioso. La linea dettata dalla Cassazione sui licenziamenti disciplinari

Giusta causa da valutare senza i vincoli del

Ccnl

Il giudice qualifica in autonomia l’inadempimento del lavoratore

Per i lavoratori assunti con il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, in caso di licenziamento per motivi disciplinari ritenuto illegittimo dal giudice, si apre un doppio binario di sanzioni a carico del datore:Se il giudice riconosce che il fatto contestato non sussiste, scatta la reintegra; se invece il licenziamento è ritenuto illegittimo per altri motivi, c’è solo il risarcimento del danno, parametrato alla retribuzione e all’anzianità del lavoratore. È limitato dunque, per i giudici, il potere di valutazione dei fatti e per le aziende diventa molto rilevante la scrittura della lettera di contestazione dei fatti (si veda l’altro articolo in pagina). Sarà necessario attendere le prime sentenze sui lavoratori assunti con le nuove regole, per capire come la giurisprudenza interpreterà il nuovo regime. Nel frattempo, però, per sapere quando i giudici hanno riconosciuto la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo del licenziamento, si può monitorare l’orientamento che si è formato sui licenziamenti disciplinari intimati prima del 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del Dlgs 23/2015.La nozione generale

Il licenziamento per motivi disciplinari si fonda su un grave inadempimento (articolo 3 della legge 604/1966) o su una giusta causa (articolo 2119 del Codice civile). La Cassazione ha dunque affermato che la giusta causa di licenziamento è nozione legale e il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo. Infatti, il magistrato può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, se questo grave inadempimento o grave comportamento ha fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.Per altro verso, il magistrato può escludere che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato. L’accertamento va condotto caso per caso (Cassazione, sentenza 1036/2015), valutando la gravità in base alle circostanze di fatto e prescindendo dalla tipologia determinata dai contratti collettivi.In effetti l’articolo 2119 del Codice civile, che prevede la giusta causa di licenziamento, è una di quelle norme che vengono definite «clausole generali», cioè una sorta di grande contenitore la cui genericità deve essere specificata di volta in volta dal giudice del caso concreto: è perciò la giurisprudenza che riempie e delimita il contenuto di questa clausola generale.Così, nella vasta casistica affrontata dalla Cassazione, un lavoratore che reagisce con parole offensive e volgari al proprio superiore, senza contestarne i poteri direttivi e senza rifiutare la prestazione lavorativa, potrà essere considerato responsabile di insubordinazione lieve e non già di insubordinazione grave, illecito che conduce, invece, al licenziamento. Per la Cassazione (sentenza 2692/2015), il comportamento del lavoratore che offende il datore di lavoro in uno stato di turbamento psichico transitorio dovuto a maliziose delazioni, è una insubordinazione lieve, tale da escludere la più grave delle sanzioni disciplinari.La componente soggettiva

Nella sentenza 854/2015, la Corte ha invece stabilito che la sottrazione di beni aziendali di tenue valore, funzionale al loro consumo immediato, per provvedere a un bisogno grave e urgente, unitamente al manifestarsi del comportamento illecito e del suo concentrarsi in un arco temporale limitato, costituiscono circostanze che possono

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legittimamente indurre a ritenere le condotte del dipendente frutto di una condizione anomala rispetto alla personalità ordinariamente manifestata.In sostanza, l’atteggiamento del dipendente indotto da particolari situazioni familiari può valere come esimente o circostanza attenuante, idonea a escludere il pregiudizio nell’affidamento del datore di lavoro sull’esatto adempimento delle prestazioni future in cui si concreta il vincolo fiduciario.La valutazione della componente soggettiva (questa volta a danno del lavoratore) si ritrova anche in Cassazione 144/2015: la Corte conferma il licenziamento e afferma che chi pratica sport peggiorando le proprie condizioni fisiche, già compromesse, può creare un danno al datore di lavoro dal punto di vista dell’efficienza produttiva e organizzativa. Infatti, l’obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato ha un contenuto più ampio di quello risultante dall’articolo 2105 del Codice civile, dovendo integrarsi con gli articoli 1175 e 1375, che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, necessariamente tali da non danneggiare il datore di lavoro. Il lavoratore, dunque, deve astenersi dal mettere in atto non solo i comportamenti vietati dall’articolo 2105, ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri legati al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa.© RIPRODUZIONE RISERVATApagina a cura diStefano Rossi

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CORRIERECONOMIA LUNEDÌ 25 MAGGIO 2015 3

IMPRESE & FINANZAI protagonisti

Uomini, storiee strategie

La stanza dei bottoni a cura di Carlo Cinelli e Federico De Rosa

Milano battezza la fondazione Don RigoldiFolonari story nella sede dei banchieri. Mittel sul grattacielo e Puddu va in Prelios

La Sala della Clemenzadi Palazzo Altieri è statagià tirata a lucido. Sotto

lo splendido affresco di CarloMaratti, il presidente del-l’Abi Antonio Patuelli acco-glierà oggi pomeriggio uncentinaio di ospiti per parlaredi una dinastia la cui storia ètutto un intreccio tra vigne edenari. E’ quella de «I Folona-ri, un’antica storia di vini ebanche», raccontata nel librodi Emanuela Zanotti. L’au-trice presenterà la sua opera aRoma nella sede dell’Abi do-ve, complice l’assemblea di

Banca d’Italia in programmadomani, ci sarà il gotha del si-stema bancario italiano. Sulpalco con l’autrice ci sarannoil presidente di Intesa Sanpa-olo, Giovanni Bazoli, bre-sciano come i Folonari e comeil senatore Massimo Muc-chetti, l’altro ospite insieme aCristina Finocchi Mahnedella tavola rotonda che faràda cornice alla presentazionedel volume.

***Ha passato la vita a occu-

parsi di giovani, all’Istitutopenale Cesaria Beccaria e

fuori. Giovani difficili, cheDon Gino Rigoldi ha rimes-so sulla strada giusta. Ora ungruppo di amici e collabora-tori, professionisti che divido-no il loro tempo tra studi le-gali, banche d’affari e consiglid’amministrazione, ha decisodi dare continuità all’operacreando la Fondazione DonGino Rigoldi. L’iniziativa diEdoardo Andreoli, RobertoBacci, Gianfranco De Mar-tini, Mariella Enoc, MarcoMorelli, Cesare Ponti, Pier-filippo Pozzi e Walter Saet-tone sarà presentata oggi a

Milano nelle sede della Fon-dazione Cariplo, dove il presi-dente Giuseppe Guzzetti e lavicepresidente Enoc accoglie-ranno il ministro delle Infra-strutture, Graziano Delrio, ilsindaco di Milano, GiulianoPisapia, i «fondatori» Morel-li, numero uno di BofA-Mer-rill Lynch in Italia, e Andreoli,partner dello studio Chio-menti, per raccontare la nuo-va iniziativa per i ragazzi eparlare di «Diritto al futuro».

***Ha un’esperienza di comu-

nicazione piuttosto variegatache va da Digital Magics adAccenture, passando perDeutsche Bank, UniCredit,Gabetti, The Boston Consul-ting Group e American Ex-press, di cui è stato consulen-te. Mancava solo l'immobilia-re. E il momento per Fabrizio

Puddu è arrivato. La scorsasettimana il manager è statonominato nuovo head of me-dia relations di Prelios.

***Nuovi soci, nuova gover-

nance e nuova sede per Mit-tel. La piattaforma «di inve-stimenti e di servizi finanzia-ri, quotata» per dirla con il di-r e t to r e ge n e r a l e d e l l afinanziaria, Gaetano Caser-tano, ha preso casa nel grat-tacielo di piazza Diaz a Mila-no. Vista mozzafiato sul Duo-mo e a 360 gradi sulla skylinedella nuova Milano, raccontachi l’ha vista. Mercoledì Ca-sertano con Franco Della Se-ga accoglierà industriali e uo-mini di finanza hanno confer-mato tra gli altri Rosario Bi-fulco e Salvatore Mancuso,per l’inaugurazione.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Volti Don Gino Rigoldi. A sini-stra: Giovanni Bazoli e (sotto) Mariella Enoc

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GLI AZIONISTI

Chi comanda primadell’aumento

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L’intervista Parla il docente della Luiss, uno dei maggiori esperti del sistema bancario e attuale presidente delle Fs

Messori «È finita l’epoca dei noccioli duri»Verso un consolidamento in due tappe: «prima all’interno dei nostri confini, poi con istituti esteri»DI STEFANO RIGHI

1 Dietro lo sportello

Che «sofferenze» nella partita delle popolariS e oggi l’attenzione è tutta per l’esordio dell’aumento di

capitale da 3 miliardi del Monte dei Paschi di Siena, iproblemi legati al mondo creditizio nazionale sono altri emolto diffusi. Solamente Unicredit, Intesa Sanpaolo, Ubi ePopMilano possono chiamarsi fuori dalle difficoltà che ac-comunano il settore. Gli altri istituti di credito devono fare iconti con il passato, frase che in banca si traduce con unaparola: sofferenze. Il monte complessivo si avvicina ai 200miliardi di euro, che diventano 350 miliardi considerandotutti i crediti problematici. Una montagna di soldi prestatiche non torna nelle casse delle banche. Lo scoglio delle sofferenze ferma l’onda della crescita e chi vi va a sbattererischia di sfondare lo scafo e di affondare. La Popolare diVicenza ha appena sostituito il capo azienda, chiamando ilnumero 2 di Ubi, Francesco Iorio, che arriverà il 1° giugno.Ma ancora non è chiaro che cosa ha portato al divorzio daSamuele Sorato. Si parla insistentemente degli esiti di unaispezione della Bce, che avrebbe rivelato una situazione

ancora critica sul fronte delle sofferenze per il gruppo, cheha chiuso il 2014 con una perdita di 758 milioni di euro. Equal è la situazione a Veneto Banca, la promessa sposadella Vicenza alle cui porte, lo scorso 17 febbraio, si sonopresentati un centinaio di uomini della Guardia di Finanza?Che esiti ha avuto quella gigantesca operazione? Non è pe-rò un problema esclusivamente veneto. La Carife, ex Cassadi risparmio di Ferrara, boccheggia. La Popolare dell’Etruriae del Lazio è commissariata da febbraio. Su tutte si erge Banca Marche: l’istituto ha chiuso il 2012 con 518 milioni diperdita, nel settembre 2013 la Procura di Ancona ha apertoun’inchiesta, nell’ottobre di quell’anno è stata commissa-riata, provvedimento rinnovato l’anno dopo. Ora Fonspa siè fatta avanti con un piano di salvataggio al quale mancanoi soldi e un partner industriale. Recitava l’articolo quinto: chiha i soldi, ha vinto. In questi casi, stanno perdendo tutti.

S. RIG.© RIPRODUZIONE RISERVATA

Marcello Messori è unodei massimi studiosiitaliani dei sistemibancari. Docente alla

Luiss, è il direttore della Sep, la School of European Political Eco-nomy dell’università romana. Pre-sidente di Ferrovie dello Stato Ita-liane, ha guidato Assogestioni.

Professor Messori, il Montedei Paschi di Siena, la banca piùantica al mondo, terzo gruppocreditizio italiano, rischia di di-ventare un possedimento stra-niero. Un’operazione inevitabile?

«Mi sembra che i soli gruppibancari italiani con dimensione in-ternazionale o nazionale adeguataper effettuare un’operazione di que-sta portata siano Unicredit e IntesaSanpaolo. Non sorprendentemen-te, non paiono però interessate…».

Perché?«La ragione principale sta nel-

l’evoluzione del modello europeo dibanca. Almeno dalla metà degli an-ni ’90, il settore bancario italiano haavuto un quasi-monopolio nell’in-termediazione della ricchezza fi-nanziaria delle famiglie e nel finan-ziamento delle imprese. Questomodello, che è stato rafforzato dalconsolidamento delle maggioribanche fra il 1997 e il 2002 e fra il2006 e il 2007, ha cessato di essereprofittevole con la crisi ‘reale’ inter-nazionale e – soprattutto – con lasuccessiva crisi europea. Dal 2011 èpoco redditizio finanziare le impre-se. I dati mostrano che, al netto del-le rettifiche di valore, le nostre ban-che ottengono un rendimento uni-tario netto più alto acquistando ti-toli che non effettuando prestiti.Per i due maggiori gruppi bancarigià presenti in Italia e altrove conuna forte specializzazione tradizio-nale, che senso avrebbe fare acqui-sizioni per rafforzare la loro pre-senza territoriale?».

Se questa è la premessa, devecambiare il modello, ma versoquale direzione?

«L’Italia ha avuto una forma pe-culiare di banco-centrismo, diversada quella della Spagna e – soprat-tutto – della Germania, che nonpuò riprodursi nel dopo-crisi senzarilevanti innovazioni. L’abnormepeso delle sofferenze e degli altriprestiti problematici è la spia che,fino al 2009, il settore bancario ita-liano ha erogato troppi finanzia-menti a imprese troppo poco capi-talizzate, coprendosi con l’emissio-ne di obbligazioni bancarie a bassaremunerazione. Una parte eccessi-

va della ricchezza delle famiglie èstata investita in tali obbligazioni. Le recenti crisi hanno palesato le fragilità di questo modello. Ora, sitratta di sviluppare altri segmentidei mercati finanziari italiani. Inol-tre, la regolamentazione unica eu-ropea spinge verso una più radicaleunificazione del mercato bancario

continentale».Quindi porte aperte alle ban-

che estere?«Un processo europeo di conso-

lidamento bancario mi pare inevi-tabile. Peraltro, tale processo po-trebbe avere una prima fase soprat-tutto nazionale. Per rimanere al ca-so italiano, è probabile che si parta

da aggregazioni fra le nostre mag-giori banche popolari; ed è possibi-le che ciò coinvolga anche Mps».

La fa facile, professore…«No, non credo che sarà facile

attuare questa prima fase di conso-lidamento domestico a causa dellastoria locale dei singoli attori. Ilpunto più importante da sottolinea-

re è, però, un altro: in ogni caso, laprima fase non basterà a costruirerealtà capaci di competere in unmercato europeo unificato. Sarànecessaria una seconda fase di ag-gregazioni transnazionali».

Quali rischi si corrono?«Il più grave è che la fase nazio-

nale sia utilizzata per blindare lastruttura proprietaria dei nuovigruppi, nati da aggregazioni frabanche popolari, al fine di ostacola-re i successivi consolidamenti euro-pei. L’interesse, che alcune fonda-zioni di origine bancaria mostranoal riguardo, è un segnale preoccu-pante. Le fondazioni hanno recen-temente sottoscritto un accordo vo-lontario che le impegna a non con-centrare i loro patrimoni nelle ban-c h e c o n fe r i t a r i e . S a r e b b egattopardesco se la diversificazionesfociasse nella concentrazione delloro patrimonio fra più banche. Lacrisi finanziaria internazionale ha mostrato che i rischi bancari sono fortemente correlati».

Ma se non ci sono le fondazio-ni chi formerà i noccioli duri?

«Il punto è proprio che, se si in-tende il consolidamento domesticocome una tappa di un processo eu-ropeo, è inefficiente costruire noc-cioli duri nazionali. Si consideri,inoltre, che il processo non riguar-da tutte le banche a proprietà coo-perativa».

Sta per cambiare tutto?«Perdono di rilevanza i presidi

territoriali, le reti degli sportelli. Peresempio: alla fine degli anni Novan-ta, l’acquisizione della Popolare diMilano da parte di Unicredit avreb-be avuto una logica. Ora il gioco ècambiato e la partita ha regole di-verse, che hanno respiro europeo».

E chi la vincerà? «Quegli attori che percepiranno

il cambiamento e saranno pronti ainnovare. Non si deve temere l’arri-vo di banche europee in Italia an-che perché nel mercato europeounico vi sono tante occasioni ancheper i nostri gruppi più solidi».

Chi arriverà in Italia?«Il modello bancario italiano è

così tradizionale e poco redditizioda non essere riproducibile nel do-po crisi. Per attirare investimentidalle altre parti dell’Europa, l’Italiadeve essere in grado di disegnaremodelli alternativi che siano prati-cabili e profittevoli. Poi le banche,che meglio conoscono la nostra re-altà finanziaria (come quelle fran-cesi e spagnole), faranno le loro va-lutazioni».

@Righist© RIPRODUZIONE RISERVATA

Dalla Luiss Marcello Messori, tra i maggiori studiosi italiani dei sistemi bancari europei

Sarebbe gattopardescose le fondazioni investisseronelle popolari

Un processo europeodi aggregazionemi pare a questopunto inevitabile

Il modellodi businessdeve rinnovarsi.Quello pre-crisinon è riproponibile

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MF

Numero 101, pag. 15 del 26/05/2015

MERCATI

First, ecco la sigla unitaria dei servizi

di Andrea Pira

Nell'ambito della riforma delle popolari occorre «valorizzare il coinvolgimento dei lavoratori e sperimentare

nuovi modelli di governance». Parole di Giulio Romani, segretario generale di First Cisl, il sindacato unitario

del settore dei servizi nato dalla fusione di Fiba e Dircredito, in occasione della prima uscita ufficiale delle

nuova sigla. Al centro dei lavori ci sono stati il coinvolgimento dei lavoratori e la rappresentanza. «Se

vogliamo condividere la logica della responsabilità», ha spiegato nella sua relazione introduttiva, «dobbiamo,

tutti insieme, progettare modelli di governance che abbiano pesi e contrappesi» (riproduzione riservata)

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PRIMO PIANO 26 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

LAVORO STABILE

Anche ad aprile cresce

il peso dei rapporti a tempo indeterminato. Erano il 15,7% nel 2014 sono diventati il 22,7% delle nuove attivazioni

Lavoro, ad aprile +210mila contratti

Torna a pesare il «tempo determinato»: +111mila - Impieghi fissi a +48mila,

36mila trasformazioni

ROMAAprile viene archiviato con un saldo occupazionale positivo di 210mila contratti - poco superiore ai 203mila di un anno fa - che si compone di 111mila contratti a tempo determinato, di 48mila nuovi contratti a tempo indeterminato, 36mila stabilizzazioni, circa 5mila apprendistato, 2mila collaborazioni e 8mila altre tipologie. L’effetto Expo e l’effetto stagionale sembra avere ripercussioni sul dato di aprile dei contratti a tempo determinato, rilevato tra le comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro. Le comunicazioni si riferiscono alle attivazioni e alle cessazioni comunicate al ministero dalle imprese, sono dati di flusso relativi ai contratti nel privato con esclusione della pubblica amministrazione, del lavoro domestico e del lavoro autonomo. Entro questo perimetro ad aprile sono 756.926 i nuovi contratti di lavoro (contro i 717.955 del 2014), tra questi continua a crescere l’incidenza del contratto a tempo indeterminato: con 171.515 attivazioni, nel giro di un anno passa dal 15,7% al 22,7% per effetto degli incentivi della legge di stabilità e delle nuove norme del Jobs act entrate in vigore a marzo. Il più utilizzato resta il contratto a tempo determinato, con 475.273 attivazioni, anche se rispetto ad aprile 2014 il suo peso si è ridotto (dal 66,3% al 62,8%), mentre sono in caduta apprendistato con appena 18.443 contratti (sceso dal 3,4% al 2,4%) e le collaborazioni (38.632, in calo dal 6,7% al 5,1%). Nell’ambito del lavoro subordinato alle 756.926 attivazioni vanno aggiunte le 35.883 trasformazioni di rapporti di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato (erano state 19.144 nell’aprile 2014). Sempre ad aprile insieme alle attivazioni, è aumentato anche il numero delle cessazioni di rapporti di lavoro (da 514.646 a 546.382): per il tempo indeterminato le cessazioni sono state 122mila (erano 118mila), meno delle 171.515 attivazioni che producono un saldo occupazionale positivo per 48.536 contratti. Da notare che ad aprile 2014 il saldo tra assunzioni e cessazioni a tempo indeterminato era negativo per 36.192 contratti, mentre quest’anno, complici le consistenti detrazioni contributive della legge di stabilità, questo saldo è sempre stato positivo (a marzo 2015 per 31.370 contratti, a febbraio per 45.703 e a gennaio per 18.584). Quanto ai contratti a tempo determinato, ad aprile le cessazioni sono state 328.148, a fronte delle 475.273 attivazioni e delle 35.883 trasformazioni: in questo caso il saldo è positivo per 111.242 contratti (ad aprile 2014 il saldo era di 156.288 contratti). «Sostanzialmente si conferma che aumentano i contratti stabili e si riducono i contratti precari - sottolinea il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti -. È una buona notizia perché l’obiettivo che il governo si è dato è fare in modo che il contratto a tempo indeterminato torni ad essere il modo normale di assunzione».Con il risultato di aprile, il primo quadrimestre si è chiuso con 761.481 attivazioni di nuovi contratti di lavoro, a fronte delle 644.628 attivazioni dello stesso periodo del 2014; il confronto fa registrare un incremento di 116.853 attivazioni. «Nell’area della subordinazione si assiste ad una ricomposizione tra le tipologie a favore del lavoro a tempo indeterminato - commenta l’economista del lavoro, Carlo Dell’Aringa - per effetto del travaso da altre tipologie. Considerando che questi dati non comprendono il lavoro pubblico, dove per effetto del blocco del turn over è prevedibile una riduzione occupazionale, o le partite Iva o il lavoro domestico, a fine anno non c’è da meravigliarsi se, nel complesso, le assunzioni saranno aumentate di qualche decina di migliaia di unità, come previsto dallo studio di Unioncamere». Dell’Aringa invita alla «prudenza» nella lettura di questi numeri e rimanda all’uscita dei dati del campione Istat del 3 giugno per poter ragionare su dati rappresentativi dell’intero mercato del lavoro. Peraltro, proprio per evitare di generare confusione, per effetto della sovrapposizione di dati diversi che riguardano il mercato del lavoro, oggi il ministro

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Poletti incontrerà i vertici di Istat, Inps e Inail per cercare un maggior coordinamento sulla gestione dei numeri.Luci e ombre, sono evidenziate da Cesare Damiano (Pd): «Il lavoro a tempo indeterminato rappresenta nelle nuove assunzioni di aprile il 22,7%, con una crescita del 7% sull’anno precedente - sottolinea -. Cala l’incidenza dell’occupazione femminile che passa dal 43,4% del 2014 al 41%, un segnale negativo per le donne. Mentre per gli uomini aumentano i contratti a tempo indeterminato e quelli a tempo determinato, per le donne questi ultimi diminuiscono. Si segnala anche il calo del contratto di apprendistato, per il quale andrebbe trovato un correttivo di sostegno».Tra i sindacati, soddisfazione da parte della Cisl: «Stanno aumentando i contratti a tempo indeterminato, recuperando anche molti passaggi dalle tipologie contrattuali più precarie ed instabili per i lavoratori - afferma il segretario confederale, Gigi Petteni -. È una crescita che sta avvenendo sia per i provvedimenti presi, sia per l’azione contrattuale stimolante che stiamo portando nelle aziende. Vogliamo continuare con questa azione e nei prossimi mesi tireremo le somme anche delle responsabilità che come Cisl abbiamo voluto assumerci in queste riforme del lavoro. Non è più tempo di denunciare solo le cose che non vanno, ora occorre mettere in campo azioni per correggere e cambiare». Tre nodi critici vengono messi in luce dalla Uil: «Bisogna trovare il modo di fornire in maniera coordinata i dati tra Inps, Istat e ministero - afferma il segretario confederale Guglielmo Loy -. Questi dati indicherebbero una crescita, oggi, del Pil che non sembra esserci, almeno per ora. Oltre ad una buona quota di stabilizzazioni sembra esserci una concentrazione delle assunzioni programmate nell’anno, forse per timore dell’esaurimento dei fondi».I sindacati domani si incontreranno con il ministro Poletti, sui decreti attuativi del Jobs act attesi in consiglio dei ministri la prossima settimana: oltre ai due Dlgs da varare (riordino tipologie contrattuali e conciliazione tempi vita-lavoro), devono avere il primo via libera il dlgs sulla Cig, quello sull’Agenzia ispettiva unica, sull’Agenzia nazionale per l’occupazione, e sulla semplificazione e revisione della disciplina dei controlli a distanza. La leader della Cgil, Susanna Camusso, si mostra scettica sul tavolo: «Temo che avremo grandi delusioni».© RIPRODUZIONE RISERVATAGiorgio Pogliotti

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PRIMO PIANO 26 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

RIFORMA SOTTO?

ESAME Poletti pronto

all’avvio di comunicazioni più coordinate dei dati sul lavoro con Inps, Istat e

Inail

L’ANALISI

Nuovo segnale di consolidamento nei primi due

mesi del Jobs act

C’è un altro segnale positivo che arriva dal mercato del lavoro e che è doveroso registrare, sia pur con le cautele di sempre. Il saldo tra attivazioni e cessazioni nel mese di aprile, il secondo mese di vita del contratto a tutele crescenti e il quarto degli incentivi governativi, s’è fermato oltre le 210mila unità, confermando così il trend crescente in corso da inizio anno (334mila in gennaio, 123mila in febbraio, oltre 92mila in marzo). Cresce il peso dei contratti a tempo indeterminato (che ad aprile sono arrivati al 22,7% del totale delle attivazioni del mese contro il 15,7% dell’aprile 2014) e si consolida il flusso di trasformazione dei contratti a tempo determinato in contratti standard (35.883 nel mese in esame, l’87,4% in più rispetto alle 19.144 trasformazioni di un anno prima).Le dinamiche estratte dal Sistema informativo delle comunicazioni obbligatorie del ministero fotografano una direzione di marcia del nostro mercato del lavoro che sembra senza dubbio quella del consolidamento dopo la lunga crisi. Ma come si diceva qualche riga fa bisogna essere cauti. I dati amministrativi sono soggetti a effetti stagionali molto forti ed è sempre preferibile la conferma statistica prima di trarne conclusioni “politiche” sulla forza (o debolezza) del nuovo sistema di regole e sgravi. Si può provvisoriamente dedurre da questi numeri del ministero che, al netto degli effetti distorsivi, il contratto a tempo determinato (che in aprile è cresciuto molto, oltre le 112mila unità in termini di saldo attivazioni/cessazioni) sta diventando il vero canale forte d’ingresso al tempo indeterminato, quasi come se fosse concepito dalle imprese alla stregua di un periodo di prova da utilizzare prima del consolidamento del rapporto di lavoro. Se questa è la lettura essa si completa con la lenta cannibalizzazione delle altre forme contrattuali, a partire dall’apprendistato, che scende al 2,4% di incidenza sul totale delle attivazioni, più che doppiato dalle collaborazioni (5% anch’esse in fase di regressione) e dalle altre forme flessibili d’ingresso come i contratti di inserimento, quelli di agenzia, gli intermittenti (che sono in aprile al 7% del totale, quasi un punto in meno di un anno fa).In questa prospettiva di stabilizzazioni progressive, che si sta determinando in parallelo con il netto calo delle ore di cassa integrazione prenotate ed effettuate mese dopo mese, bene sarebbe arrivare ora a un set di dati coordinati sul mercato del lavoro capaci di farci uscire dall’attuale dispersione. Il 3 giugno arriveranno le statistiche Istat su aprile, il 10 giugno i numeri amministrativi Inps su marzo (fotografano, questi ultimi, i pagamenti dei contributi con il sistema Uniemens, e si differenziano dai dati, pure amministrativi, delle comunicazioni obbligatorie che fotografano invece il momento dell’attivazione o cessazione di un contratto). E il quadro statistico sul primo semestre lo leggeremo solo a fine agosto.Oggi pomeriggio il ministro Giuliano Poletti incontrerà i tre presidenti di Inps (Tito Boeri) Inail (Massimo De Felice) e Istat (Giorgio Alleva) proprio per tirare le somme del lavoro fatto fin qui per far partire questo coordinamento stretto sui numeri del mercato del lavoro. È un passaggio necessario per una lettura di qualità di quello che sta accadendo e per misurare con lenti oggettive l’impatto delle riforma in piena fase di implementazione..@columbus63© RIPRODUZIONE RISERVATADavide Colombo

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IMPRESA & TERRITORI 27 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

Jobs act. Il Governo pensa allo stralcio dal Dlgs per permettere ai sindacati e imprese un’intesa sui contratti

Salario minimo, decisione alle parti

Per le piccole aziende si ipotizza un aggravio dello 0,45% per la nuova Cig

ROMAStralciare il salario minimo dal pacchetto di quattro Dlgs che saranno approvati dal governo la prossima settimana, in attuazione delle deleghe del Jobs act, per dare tempo alle parti sociali di trovare un’intesa su questo “spinoso” capitolo e su tre tematiche più ampie: la riforma del modello contrattuale - con il baricentro sulla contrattazione decentrata - l’attuazione delle nuove regole sulla rappresentanza e la partecipazione. L’opzione è allo studio del governo, secondo quanto ha annunciato Tommaso Nannicini, responsabile del nucleo tecnico per il coordinamento della politica economica di Palazzo Chigi, ieri ad un seminario della Fim-Cisl: «Intendiamo consegnare il salario minimo ad un confronto serrato tra le parti sociali - ha detto - che deve affrontare i quattro temi, perchè tutto si tiene. Gli stimoli che arriveranno dalle parti sciali serviranno al governo per intervenire». Sì al dialogo, dunque, ma «l’orizzonte temporale non può essere infinito»; secondo lo schema tracciato da Nannicini il confronto dovrebbe concludersi a settembre, «in tempo utile per dare le risposte adeguate nella legge di stabilità sul fisco e gli incentivi alla contrattazione decentrata». La delega prevede l’introduzione «eventuale in via sperimentale del compenso orario minimo», per lavoro subordinato e collaborazioni coordinate e continuative in settori non regolati da contratti collettivi firmati dalle parti sociali più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione. Tra i Dlgs che avranno il primo via libera del consiglio dei ministri c’è quello sul riordino della cassa integrazione, ispirato al principio del bonus malus, secondo cui le imprese pagano in base all’utilizzo. Le piccole imprese con oltre 5 dipendenti che finora non pagavano nulla per la cassa in deroga (finanziata dalla fiscalità generale), avranno a carico un’aliquota che si ipotizza sarà dello 0,45%; sullo stesso livello si potrebbe fissare l’aliquota del fondo residuale Inps (oggi dello 0,50%). Le imprese che pagano l’1,90% e quelle con più di 50 dipendenti che versano il 2,20% avranno uno “sconto” del 10%, pagheranno rispettivamente 1,70% e 2%. È prevista una maggiorazione del 15% sulle addizionali a carico delle imprese che ricorrono all’ammortizzatore. Novità anche per il Dlgs sulle politiche attive: la creazione dell’Agenzia nazionale per l’occupazione avverrà in due fasi. «Inizialmente avrà un compito di coordinamento e indirizzo per avere politiche attive omogenee - ha aggiunto Nannicini -, non si possono avere venti modelli diversi sul territorio. Poi, a riforma del Titolo V completata, l’Agenzia avrà un compito anche gestionale, con il coinvolgimento di soggetti pubblici e privati, compresa la bilateralità e il no profit».Quanto alla Cisl, per Gigi Petteni, «le parti sociali devono accettare la sfida e cercare un accordo sui quattro capitoli presentandosi al governo con una proposta per trattare, altrimenti sarà l’Esecutivo ad agire». Marco Bentivogli (Fim-Cisl) ha espresso «forti timori» sulla revisione degli ammortizzatori che «hanno garantito la tenuta sociale nel picco della crisi», e lanciato l’allarme: «vi sono importanti accordi sindacali di ristrutturazione e di crisi che si fondano sugli attuali strumenti e che finirebbero per saltare di fronte a interventi che non ne tengano conto. Serve gradualità per evitare un nuovo pasticcio come quello delle pensioni del governo Monti, che produsse il problema degli esodati». © RIPRODUZIONE RISERVATAGiorgio Pogliotti

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MF

Numero 103, pag. 4 del 28/05/2015

PRIMO PIANO

Anche ad aprile raccolta boom per il risparmio gestito: +15,8 miliardi di euro

I fondi mirano al record del '98I flussi netti dei primi quattro mesi salgono così a 71 miliardi e con questi ritmi potrebbero superare lo storicorisultato di 17 anni fa. In frenata i fondi azionari, complice il rallentamento delle borse

di Paola Valentini

Ancora una raccolta a doppia cifra per l'industria del risparmio gestito italiana. Il mese di aprile, in base ai dati

Assogestioni, si è chiuso con flussi netti pari a 15,8 miliardi, un dato che porta il totale da inizio anno a 71,2

miliardi, oltre la metà di quanto raccolto in tutto il 2014 (133,7 miliardi). Protagonisti indiscussi restano i fondi

aperti, con flussi per 11,6 miliardi di

euro in aprile e per 50 miliardi nei

primi quattro mesi, a fronte dei 91,4

miliardi dell'intero 2014, che è stato il

secondo miglior anno nella storia dei

fondi aperti dopo il 1998, archiviato

con 167 miliardi di investimenti netti.

Nel 2015 il risparmio gestito sembra

quindi essere sulla strada giusta per

raggiungere il traguardo del 1998, sempre che nei prossimi mesi la raccolta continui a crescere agli stessi

ritmi evidenziati finora. E le premesse ci sono, dal momento le banche continuano a puntare molto forte sul

business dell'asset management, che nella fase attuale è in grado di compensare le minori commissioni

legate alle attività tradizionali di prestito, visto che le erogazioni di finanziamenti da parte delle banche sono

ancora al palo. D'altra parte anche sul lato della domanda dei risparmiatori i fondi comuni, come ha

evidenziato anche la Relazione 2014 della Banca d'Italia, sono sempre più visti come un'alternativa di

investimento ai titoli di Stato i cui rendimenti si sono ormai ridotti al lumicino.

Tornando ai dati diffusi ieri da Assogestioni, la mappa mensile dell'associazione presieduta da Giordano

Lombardo rileva che ben il 47,5% delle masse è investito in gestioni collettive, di cui 776 miliardi relativi ai

fondi aperti e 48,3 miliardi ai fondi chiusi. Nei mandati di gestione patrimoniale sia retail che istituzionali sono

investite masse per 911 miliardi, pari quindi al restante 52,5% dei 1.735 miliardi gestiti dall'industria italiana

dell'asset management, un dato che mese dopo mese registra nuovi record, e aprile non ha fatto eccezione.

La raccolta dei mandati di gestione è stata di 4,2 miliardi ad aprile e di 20,8 miliardi nei primi quattro mesi

dell'anno.

Quanto alle singole categorie dei fondi aperti, ad aprile, complice il rallentamento della corsa delle borse

europee, i fondi azionari hanno registrato una raccolta in rosso (-299 milioni rispetto ai + 2,2 miliardi di

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marzo). Stabili invece i bilanciati con flussi per quasi 2 miliardi e i fondi obbligazionari con 4,5 miliardi (importi

stabili rispetto al mese precedente). In diminuzione la raccolta dei fondi flessibili (che continuano comunque a

rappresentare la maggiore tra le categorie), pari a 5,5 miliardi dopo i 6,9 miliardi di marzo. Da inizio anno i

flessibili, che lasciano carta bianca al gestore di muoversi tra le varie classi di attivo, registrano i flussi

maggiori di tutti (20,9 miliardi), seguiti dai fondi obbligazionari (16,7 miliardi), dai bilanciati (8,4 miliardi) e

dagli azionari (4,9 miliardi). In rosso invece la raccolta degli hedge fund italiani (-110 milioni in aprile e -326

milioni da inizio anno) e dei monetari (-74 milioni in aprile e -560 milioni da gennaio).

Sul fronte delle singole società di gestione, a trainare la raccolta del sistema ad aprile è stata ancora Intesa

Sanpaolo, che ha registrato flussi per 6,7 miliardi, di cui 5 relativi alla controllata Eurizon Capital. Segue il

gruppo Generali con 1,3 miliardi e Pioneer Investments (gruppo Unicredit) con quasi 1,2 miliardi. Tra le

società estere spiccano i numeri di Deutsche Asset and Wealh Management (gruppo Deutsche Bank) con

una raccolta di 1,1 miliardi, seguiti da quelli di Invesco (773 miliardi). Mentre appare ancora sottotono la

raccolta di Franklin Templeton, che nel mese ha registrato un rosso nella raccolta di 548 milioni, ma resta

comunque il maggior gestore estero in Italia in fondi aperti con masse per 26,3 miliardi, incalzato però da Jp

Morgan Asset Management, che a fine aprile ha visto salire gli asset a 24 miliardi. Guardano ai gruppi

quotati, infine, buono il risultato di Anima (845 milioni), mentre Mediolanum ha ottenuto 245 milioni, Azimut

276 milioni e Poste Italiane ha chiuso il mese con flussi netti per 211 milioni di euro. (riproduzione riservata)

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PRIMO PIANO 28 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

POLETTI «Estendiamo la Cig alle piccole imprese sopra i 5 dipendenti e agli apprendisti. Allungamento stabile del nuovo sussidio»

Jobs act, tetto a 36 mesi tra Cig e solidarietà

Naspi a 24 mesi anche dopo il 2016 - Stop aumento contributi se c’è boom di

trasformazioni

ROMAUn mix fatto di contratti di solidarietà e di cassa integrazione assicurerà un sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro fino a 36 mesi. Mentre per chi perde il lavoro, la durata della Naspi si estenderà in modo strutturale a 24 mesi dal 2017 (quando doveva scendere a 18 mesi di durata).Sono alcune delle novità illustrate ieri dal ministro del lavoro, Giuliano Poletti, ai rappresentanti delle parti sociali, nell’incontro in vista dei 4 decreti attuativi del Jobs act (cig, politiche attive, ispezioni e semplificazioni) che saranno varati dal prossimo consiglio dei ministri ai primi di giugno. «Abbiamo trovato le risorse per uniformare a 24 mesi la durata del nuovo assegno di disoccupazione in vigore da maggio», ha spiegato il ministro annunciando un nuovo faccia a faccia con sindacati e imprese prima della prossima riunione di governo. Per la Cig, che viene estesa agli apprendisti, è confermato il nuovo meccanismo ispirato al principio del bonus malus, ovvero più ricorri agli ammortizzatori e più paghi. È prevista un’addizionale che gradualmente può salire fino ad un massimo del 15%, in base all’utilizzo della cig (9% per i primi 12 mesi, 12% fino a 24 mesi e 15% fino a 36 mesi). La durata della cassa integrazione ordinaria e straordinaria è fissata in 24 mesi, calcolati però in un quinquennio mobile (prima era fisso, ma il periodo scadeva il 10 agosto 2015). La cigo o la cigs possono essere prolungate fino a 36 mesi, se prima viene utilizzato il contratto di solidarietà per 24 mesi (viene conteggiato come 12 mesi ed equiparato come trattamento alla Cigs, compresi i massimali retributivi). Non sarà più possibile il ricorso alla Cig in caso di cessazione definitiva delle attività o di ramo di essa. Novità anche per le piccole imprese che finora erano escluse dagli ammortizzatori ordinari e potevano contare sulla cassa in deroga, finanziata dalla fiscalità generale. Dovranno contribuire aderendo ad un fondo bilaterale di solidarietà: quello degli artigiani l’aliquota salirà allo 0,45%. Altrimenti dovranno aderire al fondo residuale per il quale l’aliquota ordinaria è fissata allo 0,45% se sono imprese da 5 a 15 dipendenti, e allo 0,65% da 15 in su (oggi è lo 0,50% per tutti). Uno “sconto” dello 0,20%, invece, verrà applicato alle imprese che oggi pagano l’1,90% e quelle con più di 50 dipendenti che pagano il 2,20%, e avranno un’aliquota, rispettivamente, dell’1,70% e del 2%. Per Serena Sorrentino (Cgil) «il governo punta a ridurre le risorse per la cig per finanziare le politiche attive, senza prevedere finanziamenti aggiuntivi. È inaccettabile considerando la crisi». Per Gigi Petteni (Cisl) «se la tutela è nel mercato e non più nel posto di lavoro, bisogna rafforzare le politiche attive che rappresentano l’anello debole». Per Tiziana Bocchi (Uil) «la politica dei due tempi non funziona. Non vorremmo che ci possa essere una sfasatura tra ammortizzatori e politiche attive nella quale i lavoratori non siano supportati».Mentre per Marco Leonardi, economista alla Statale di Milano, «è positivo che il governo vari tutti e 4 i Dlgs mancanti, e che la cig e le politiche attive viaggino finalmente in parallelo».Non si è parlato ieri di riordino delle tipologie contrattuali, anche se il governo è deciso a cambiare la contestata clausola di salvaguardia che prevede un contributo per le gestioni previdenziali, a carico di datori di lavoro e autonomi, per le stabilizzazioni dei collaboratori, se i fondi della legge di stabilità saranno insufficienti coprire un’eventuale ondata di trasformazioni di collaborazioni (che hanno un’aliquota del 27,7%) in contratti a tempo indeterminato (che beneficiano della decontribuzione nel 2015). Per eventuali spese aggiuntive verrà utilizzata una sorta di “cauzione” garantita dalle risorse del Fondo occupazione, se non bastassero interverrà il governo. «L’importante è risolvere i problemi - spiega il presidente della commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia - e chiarire alle aziende che non ci saranno aumenti di

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contributi». Si profila una novità per l’apprendistato che sarà possibile dal terzo anno scolastico, ovvero a partire dai 16 anni. Novità anche sull’individuazione del perimetro del lavoro subordinato, che serve per contrastare le false cococo, ed è definito dal Dlgs come una prestazione eterorganizzata ed eterodiretta (in riferimento a tempi e luogo di lavoro). Viene meno il riferimento alla ripetitività della prestazione contenuta nel testo originario, come caratteristica del lavoro subordinato.© RIPRODUZIONE RISERVATAGiorgio PogliottiClaudio Tucci

Tre ipotesi per disinnescare la clausola di salvaguardia

Pagina 2 di 2Il Sole 24 Ore

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NORME E TRIBUTI 28 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

Jobs act. Le ultime indicazioni sul nuovo Ispettorato nazionale: salta l’impugnazione gerarchica

Sanzioni, via il ricorso «interno»

Contro gli accertamenti il datore potrà rivolgersi solo al tribunale ordinario

Scompare il ricorso amministrativo avverso l’ordinanza-ingiunzione irrogata dalla

direzione territoriale del lavoro per l’applicazione delle sanzioni alla parte datoriale.

Ricorrere al tribunale ordinario, quindi, sarà l’unica possibilità a disposizione del

presunto trasgressore.

Lo prevede lo schema di decreto legislativo istitutivo dell’Agenzia unica ovvero

dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che dovrà essere emanato entro il prossimo 16

giugno, a pena di decadenza.

L’ipotesi legislativa è di abrogare l’attuale formulazione dell’articolo 16 del decreto

legislativo 124/2004, il quale prevede che nei confronti dell’ordinanza-ingiunzione

emessa dalla direzione territoriale del lavoro, ferma restando la possibilità di opporsi

prevista dall’articolo 22 della legge 689/1981, è ammesso ricorso, in via alternativa,

davanti al direttore della sezione regionale entro 30 giorni dalla notifica.

Lo schema di decreto legislativo, però, sopprime le direzioni regionali del lavoro,

facendo cadere la possibilità della tutela in sede gerarchica amministrativa. Al datore

di lavoro, quindi, rimarrà una sola strada: presentare ricorso in opposizione davanti al

tribunale. Strada evidentemente molto più onerosa rispetto a quella che era

percorribile con la vecchia normativa.

Con la soppressione dell’alternativo sistema di tutela in sede amministrativa, peraltro,

viene meno uno degli strumenti che avrebbero potuto allegerire l’enorme carico

processuale civile.

Per garantire l’uniforme applicazione delle disposizioni sul lavoro, sulla legislazione

sociale, nonché in materia contributiva e assicurativa, tuttavia, il nuovo articolo 16 fa

salvo il ricorso amministrativo indirizzato alla direzione territoriale del lavoro

competente, avverso l’ordinanza che ingiunge sanzioni amministrative emessa da altri

organi di polizia giudiziaria diversi dagli ispettori del lavoro.

Il ricorso va inoltrato al direttore entro 30 giorni dalla notifica dell’ordinanza e

definito entro i successivi 60 giorni. Vale il principio del silenzio rigetto.

Vengono confermati, invece, i comitati per i rapporti di lavoro, già previsti

dall’articolo 17 del decreto legislativo 124/2004, che saranno costituiti presso ciascun

ispettorato del capoluogo dove questo ha sede. Ne faranno parte i corrispondenti

direttori dell’Inps e dell’Inail.

Al comitato vengono indirizzati i ricorsi avverso gli atti di accertamento

dell’ispettorato (che comprenderà gli ex “007” degli Istituti nazionali di previdenza

sociale e di assicurazione contro gli infortuni) e quelli degli enti previdenziali diversi

da Inps e Inail, che riguardino la sussistenza o la qualificazione dei rapporti di lavoro,

nonché avverso le “diffide accertative” per crediti patrimoniali previste dall’articolo

12 del decreto legislativo 124/2004.

Il ricorso va prodotto entro 30 giorni e definito entro i successivi 90. Anche in questo

caso vale il principio del silenzio rigetto.

Una situazione insolita potrebbe verificarsi nella trattazione di questi ricorsi: che

vengano decisi dal comitato presieduto dal direttore dell’ispettorato del lavoro dal

quale dipendono i “controllori” stessi che hanno prodotto l’accertamento oggetto di

opposizione da parte del presunto trasgressore.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Luigi Caiazza

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NORME E TRIBUTI 28 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

Licenziamenti. Sì della Cassazione come modalità di tutela del patrimonio aziendale

Falso profilo Facebook per controllare i

lavoratori

Attività non indirizzata a monitorare la prestazione

Milano

Non è illegittima la condotta dell’azienda che crea un falso profilo Facebook per

incastrare il dipendente negligente. Provando in questo modo la propensione ad

assentarsi dal posto di lavoro, tanto da arrivare al licenziamento. Sul punto, e sulla più

generale questione dei controlli sul lavoratore, interviene la Corte di cassazione,

sezione Lavoro, con la sentenza n. 10955 depositata ieri. La pronuncia ritiene accertati

i fatti sulla base dei giudizi di merito, nei quali era emerso come il capo del personale

dell’impresa avesse creato un falso profilo femminile su Facebook con richiesta di

amicizia a un dipendente che già era stato sorpreso ad assentarsi dal posto di lavoro

per una telefonata di oltre un quarto d’ora, lasciando incustodito un macchinario che,

durante l’assenza, si era bloccato. Quello stesso giorno era stato trovato nel suo

armadietto aziendale un Ipad acceso e collegato alle rete elettrica.

Nei giorni successivi, in seguito alla richiesta di amicizia arrivata dal falso profilo

Facebook, il dipendente aveva chattato a lungo e in più occasioni in orari che

coincidevano con quelli di lavoro. Sulla base di tutti questi elementi era scatta la

procedura di licenziamenti per giusta causa, adesso avallata dalla decisione della

Cassazione.

La Corte, in una fase in cui si attende il decreto attuativo del Job’s act sui controlli a

distanza, sottolinea la necessità che il potere di controllo del datori di lavoro sia

temperato dal diritto alla riservatezza del dipendente e che l’esigenza del datore di

evitare condotte illecite da parte dei dipendenti annulli ogni forma di garanzia della

dignità del lavoratore.

Problema di bilanciamento quindi tra diritti diversi e confliggenti. Una sintetica

ricostruzione giurisprudenziale conduce la Cassazione a sottolineare il principio della

tendenziale ammissibilità dei controlli difensivi «”occulti”, anche ad opera di

personale estraneo all'organizzazione aziendale, in quanto diretti all’accertamento di

comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa».

Una fattispecie, che comprende anche il caso in questione,che si pone al di fuori del

perimetro dello Statuto dei diritti del lavoratori.

Per la Corte, infatti, il comportamento dell’azienda aveva come obiettivo non tanto la

verifica sulla prestazione lavorativa e sul suo esatto adempimento, quanto piuttosto la

realizzazione di atti illeciti da parte del dipendete, poi effettivamente riscontrati e già

manifestatisi nei giorni precedenti. Un controllo difensivo, quindi, indirizzato a

individuare e sanzionare un comportamento tale da «ledere il patrimonio aziendale,

sotto il profilo del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti».

In questa prospettiva allora, la creazione del profilo Facebook costituisce, nella lettura

della Cassazione, un semplice modalità di accertamento dell’illecito commesso «non

invasiva nè induttiva all’infrazione».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Giovanni Negri

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PRIMO PIANO 29 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

I TEMI DEL

CONFRONTO Parti sociali in cerca di un’intesa su nuovo modello contrattuale, attuazione della rappresentanza, salario minimo e partecipazione

«Contratti per la competitività»

Il leader di Confindustria: i legami tra salari e produttività vanno resi più forti

ROMA

Confindustria rilancia l’appello ai sindacati a confrontarsi per rinnovare il modello

contrattuale: «Dobbiamo recuperare competitività e la contrattazione collettiva deve

sostenere gli sforzi che si compiono in questa direzione», ha detto il presidente

Giorgio Squinzi, sottolineando come «i legami tra dinamica dei salari e miglioramenti

della produttività devono essere resi più forti e stringenti».

Dopo l’accordo sulla rappresentanza, che ancora va attuato, è il modello contrattuale il

nuovo terreno di sfida per le parti sociali. Con un’importante novità, la disponibilità

espressa da Palazzo Chigi a stralciare le norme sul salario minimo dal pacchetto di

quattro Dlgs attuativi del Jobs act attesi al primo consiglio dei ministri di giugno, per

dare modo a imprese e sindacati di raggiungere un accordo complessivo su quattro

capitoli di ampio respiro. Insieme al tema del compenso orario minimo per i settori

non coperti dalla contrattazione, infatti, l’intesa dovrà definire un nuovo modello di

contrattazione che sposti il baricentro sulla contrattazione decentrata, insieme

all’attuazione delle nuove regole sulla rappresentanza e sistemi partecipativi.

L’opzione è sul tavolo del premier Renzi, che però non intende aspettare le parti

sociali all’infinito; l’intesa complessiva andrebbe raggiunta entro settembre, per

consentire al governo di dare risposte concrete nell’ambito della prossima legge di

stabilità, ad esempio utilizzando la leva del fisco per sostenere la contrattazione

decentrata.

In questa partita la posta in palio è alta, essendo in gioco l’autonomia delle parti

sociali: se non saranno in grado di accordarsi su questi quattro punti, lasceranno il

campo d’azione al governo che, a quel punto, sarà libero di intervenire come meglio

crede su materie proprie delle relazioni industriali, senza che vi siano paletti fissati da

imprese e sindacati. Questa partita Confindustria vuole giocarla fino in fondo, ha fatto

capire Squinzi convinto che il nuovo modello contrattuale possa «accompagnare la

stagione dei rinnovi»; come direzione di marcia il presidente di Confindustria ha citato

«i molti casi i cui le imprese e i lavoratori condividono già a livello aziendale,

attraverso i premi di risultato, i miglioramenti raggiunti», sottolineando che «i

contratti nazionali devono incoraggiare ad andare in questa direzione». Il modello del

2009 è scaduto da tempo, prevede che aumenti del contratto nazionale siano riferiti

all’indicatore Ipca (indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi europei), che

in una fase come l’attuale, caratterizzata da bassa inflazione, non funziona più.

Secondo la proposta di Confindustria, elaborata un anno fa, va «completato il percorso

della derogabilità dei contratti nazionali ad opera della contrattazione collettiva

aziendale in un quadro di regole certe fissate dai Ccnl». Nei contratti nazionali, per

Confindustria, vanno individuate nuove soluzioni che tengano conto delle peculiarità

dei diversi settori, consentendo alle imprese che hanno la contrattazione aziendale di

negoziare solo incrementi retributivi collegati ai risultati aziendali (senza riconoscere

gli aumenti fissati dai Ccnl). Per le imprese che non fanno contrattazione aziendale,

Confindustria propone che possano optare, secondo le previsioni dei contratti

nazionali, tra l’applicazione degli aumenti economici da essi previsti e l’applicazione

di schemi retributivi collegati ai risultati aziendali (predisposti dagli stessi Ccnl).

Sul nuovo modello i sindacati sono divisi. La Uil ha proposto di legare gli aumenti del

contratto nazionale all’andamento del Pil. La Cisl finora ha scelto di non presentare

alcuna proposta, per favorire la ricerca di una posizione comune nel confronto, senza

avere le mani legate. Le resistenze arrivano dalla Cgil, che invece della riforma del

modello contrattuale, considera prioritario il rinnovo dei contratti in scadenza senza,

però, che vi sia un parametro comune di riferimento.

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Giorgio Pogliotti

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PRIMO PIANO 29 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

Le reazioni sindacali. Ma la Cgil frena: «No alla riduzione dei salari, piuttosto risolviamo il problema dell’erga omnes nei contratti nazionali»

Cisl apre: «Sì alla revisione del modello»Dopo mesi di incontri informali, il confronto sul nuovo modello contrattuale divide i sindacati. Aperture da Cisl e Uil, critiche dalla Cgil alla proposta del presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, di individuare nuove relazioni industriali partendo dal nuovo modello contrattuale che abbia come stella polare la crescita della produttività, alla quale agganciare gli aumenti contrattati in azienda o sul territorio. Chiude la porta la leader della Cgil, Susanna Camusso, che si dice «preoccupata» che «in una relazione fondata sull’innovazione in realtà si proponga la ricetta più antica del mondo» e cioè «quella della riduzione dei salari, esattamente l’opposto di quello di cui ha bisogno questo Paese per crescere. Piuttosto risolviamo il problema dell’erga omnes per i contratti nazionali». Camusso, che al temine della relazione ha stretto le mani a Squinzi, non ha risparmiato una stoccata al numero uno di Fca che ha rilanciato il sindacato unico da Melfi: «Non c’è un sindacato unico in Germania, la vera sfida è la co-determinazione, cosa ne pensa Marchionne?». Al contrario di Camusso, la numero uno della Cisl, Annamaria Furlan, «accoglie l’invito di Squinzi a sedersi al tavolo con gli altri sindacati e Confindustria» per definire un nuovo modello: «ci vuole un contratto nazionale, il valore aggiunto lo dà il contratto aziendale» che «si basi sulla produttività e quindi rafforzi la competitività di molta della contrattazione sul territorio e nell’azienda». Il ragionamento di Furlan è che lasciando le cose come stanno i salari non si aumentano; invece di arroccarsi a difesa dell’esistente, conviene percorrere altre strade agganciando gli aumenti della contrattazione aziendale alla produttività, per beneficiare della detassazione, che andrebbe incrementata e resa strutturale. «Pensiamo che la contrattazione debba oggi significare più produttività - ha aggiunto Furlan -. È con il contratto aziendale che si rendono più pesanti le buste paga e si tengono in piedi le imprese». Quanto alla Uil, che ha proposto un sistema con aumenti contrattuali legati all’andamento del Pil: «Noi siamo per fare i contratti e abbiamo proposto un modello contrattuale basato sulla crescita - ha detto il segretario generale, Carmelo Barbagallo -. Dobbiamo far crescere la contrattazione di secondo livello, ma all’interno di un contratto nazionale quadro. Sfidiamo l’impresa a discutere con noi per ridare il potere d’acquisto ai lavoratori e ai pensionati, perché altrimenti non c’ è crescita».© RIPRODUZIONE RISERVATAG.Pog.

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NORME E TRIBUTI 29 MAGGIO 2015Il Sole 24 Ore

IL QUADRO

Dall’anticipazione con rimborso successivo alla staffetta generazionale: scelte da ponderare senza un’altra riforma di sistema

Il punto di vista

La pensione flessibile aiuta lavoratori e aziende

Il premier Renzi ha riaperto il tema della “pensione flessibile”, già considerato dagli

esperti e da varie proposte legislative, ma rimasto finora dormiente.

L’esigenza di riconsiderare la questione è indubbia; a condizione di “maneggiare con

cautela”, per le implicazioni non solo finanziarie, ma sociali e psicologiche, di ogni

intervento in materia pensionistica.

Bisogna non dare l’impressione che si vuole rifare un’altra riforma delle pensioni.

L’impianto dell'attuale normativa non va alterato; serve qualche modifica per

rimediare ai disagi reali da essa creati, in particolare alla sua eccessiva rigidità. La

flessibilità, se bene amministrata, è utile in molti aspetti del lavoro. Lo è anche per

permettere alle persone di adattare i tempi e i modi del pensionamento alle proprie

condizioni di vita e di lavoro. Del resto simili forme di flessibilità sono adottate in

molti paesi europei, le cui buone pratiche possono fornire spunti utili.

Una pratica largamente usata, e proposta anche da noi (ad esempio dal ddl a prima

firma Damiano), è quella di ammettere un anticipo di pensionamento entro una fascia

definita, con riduzione della prestazione pensionistica. Il punto critico, da cui dipende

anche il costo dell’intervento, riguarda la quantità e le modalità della riduzione. Una

soluzione possibile è di applicare la logica del metodo contributivo alla quota della

pensione retributiva, oppure in toto, ricalcolando l’intera pensione con il metodo

contributivo, come è oggi previsto per le donne (fino alla fine di quest’anno). Un

simile ricalcolo comporterebbe una riduzione considerevole del trattamento, si stima

fra il 20 e il 30%, che è ritenuto difficilmente sostenibile specie per le pensioni medio-

basse. Le penalizzazioni previste nel ddl Damiano sono più contenute: il 2% per ogni

anno di anticipo rispetto all’età di riferimento (66 anni), fino a un massimo dell’8 per

cento. Ma per questo motivo la proposta è alquanto costosa (oltre 8 miliardi a regime),

mentre quella del ricalcolo contributivo potrebbe costare la metà.

Ricordo peraltro che nei Paesi ove si è scelta questa strada le riduzioni previste sono

consistenti: si va dal 3,6% per ogni anno di anticipo della Germania (con riduzioni per

certi soggetti), al 5% della Francia (fino a un massimo di 5 anni), al 6-7% della

Spagna.

Una soluzione più graduale, seguita con varianti da Francia e Spagna, prevede che i

lavoratori cui manchino 2-3 anni all’età di pensionamento possano accedere a un

lavoro part time, acquisendo il diritto a una pensione parziale (fino a un massimo da

stabilire), così da minimizzare la perdita del reddito. In tali casi si prevede la

possibilità che i contributi pensionistici continuino a decorrere per intero al fine di

garantire il raggiungimento della pensione prevista per un lavoro full time. Tale

soluzione permetterebbe alle aziende di assumere giovani come apprendisti o a part

time (senza peraltro un obbligo in tal senso).

Una variante di tale ipotesi è la cosiddetta staffetta generazionale, prevista in altri

Paesi (Germania) e avanzata anche da noi, in base alla quale la perdita di reddito e di

contributi conseguente al part time è compensata dalle aziende e in parte dallo Stato.

Si tratta di una soluzione rivelatasi costosa e quindi non facilmente sostenibile.

D’altra parte l’accettazione del part time da parte del pensionando risulta difficile, se

non gli è garantito in tutto o in parte almeno il pagamento dei contributi. Questo

spiega lo scarso esito della sperimentazione di tale soluzione avviata in qualche

regione (Lombardia). L’esito non sarebbe diverso per la ipotesi di seguire questa

strada nel pubblico impiego prevista nella normativa Madia, se non ci fosse qualche

modo di compensare i part timers volontari.

Le aziende potrebbero essere disposte a sostenere parte degli oneri se la loro

prestazione fosse agevolata, o non gravata essa stessa da tasse e contributi.

La proposta meno costosa (meno di 1 miliardo) è quella studiata a suo tempo dal

ministro Giovannini e ripresa dal ministro Poletti, che prevede di corrispondere al

lavoratore il quale voglia pensionarsi 2-3 anni prima del limite legale, un anticipo

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della pensione, magari raccordato al livello degli ammortizzatori (si ipotizzano 700

euro mensili).

L’anticipo andrebbe restituito dal lavoratore al raggiungimento dell’età pensionabile

con opportune rateizzazioni, senza interesse e con eventuali aiuti da parte delle

aziende.

Tale soluzione potrebbe essere utile in particolare per i lavoratori anziani che hanno

esaurito gli ammortizzatori sociali. Sarebbe un’alternativa utile agli attuali interventi a

favore degli esodati. Del resto Paesi che non prevedono anticipi di pensionamento,

come Svezia, Regno Unito e Danimarca, prevedono a favore dei soggetti cui

manchino alcuni anni all’età di pensione (2-4 anni) la possibilità di godere di indennità

di disoccupazione o di invalidità, magari facoltizzando i comuni a chiedere a tali

soggetti un impegno in lavori socialmente utili. Una simile soluzione è stata

prospettata anche in Italia in recenti disegni di legge parlamentari.

Le varie soluzioni qui indicate possono essere applicate anche in modo alternativo,

secondo valutazioni che tengano conto delle condizioni personali ed economiche del

caso.

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Tiziano Treu

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