1992 - Sebastiano A. Patanè - Amante binario

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narrativa, racconto

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Sebastiano A. Patane Ferro

Amante binario

Catania 1992

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© “Amante binario”

by Sebastiano A. Patanè Ferro

Catania 1992

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Amante binario Catania 1992

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La stanza era inondata da una tenue e molto soffusa luce

che lasciava passare solo le note della Sonata al chiaro di

luna.

Solo quelle e nient’altro.

Persino i pensieri di Andrea rimanevano immobili:

nascevano e morivano là, in quella splendida mente di

poeta, esausta d’esperienza e non amore.

Il salone era abbondantemente arredato di ogni sorta di

stimolanti lirici che si era portato appresso da ogni parte

del mondo, mentre la tastiera del piano, come uno

scheletro antico, splendeva in quella penombra magica

come per ricordargli quei morti che non torneranno più.

Tutto questo attorno ad un uomo stanco di cercare lei,

quella lei che non aveva trovato in nessun’altra donna,

ma i cui tratti aveva intravisto in ognuna di loro.

Lei doveva essere una composizione di brani delle sue

poesie; un origami di romanze che gli erano rimaste

intrappolate nella memoria; un’esposizione sequenziale

di bello e di brutto dentro una caotica quotidianità; la

casualità oppure, molto semplicemente, il se femmina

estremamente uguale e opposto, talmente complementare

da permettere quell’equilibrio che fa si che la luna, non

precipiti nel mare e che diventi tutt’uno con la terra, né

che ne sfugga afferrata dal sistema esterno.

Intanto, di là, qualcuno si muoveva con cautela, cercando

di fare il meno rumore possibile, mentre sistemava la

gabbia di Geronimo, il criceto bianco e marrone che le

faceva compagnia quando Andrea era fuori per lavoro.

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Anastasia si preoccupava di non fare alcun rumore,

perché sapeva che lui stava creando e non voleva

distrarlo.

In punta di piedi si avviò verso la stanza da letto ma,

davanti alla porta del salone, volle fermarsi a guardare.

Lui era la, affondato in una sofferenza creativa, sulla sua

poltrona-dondolo, con gli occhi chiusi e un bicchiere

vuoto nella mano che pendeva a sinistra. Tentava di

afferrare quel verso ormai maturo, pronto ad emergere

dalla cava dove si era formato. C’era una fornace da

qualche parte, nel profondo del suo essere, dove venivano

temprate le parole che, poi avrebbero danzato nella sua

mente per diventare poesia.

Lo guardava con amore mentre lui stava la immobile ed

era come se gridasse il suo nome.

Sentiva distintamente quel pensiero e, come chiamata, si

avvicinò.

Era la prima volta che si accostava a lui in quei momenti

particolari ma, qualcosa le diceva che doveva farlo, che

lui, Andrea, aveva bisogno di lei.

Piano, leggerissima, scivolò sul tappeto, ai suoi piedi,

consapevole del suo amore e appoggiò la testa sulla sua

gamba mentre un sapore di malinconica tristezza e gioia

insieme, le scendeva lungo il corpo fino ai piedi che, con

spontanea femminilità, aveva raccolto sotto di lei.

Andrea sembrò non accorgersi di tutto ciò, voglio dire

che non si scosse per niente ma, un momento dopo, le

poggiò la mano sui morbidi capelli e prese ad

accarezzarli con delicatezza.

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Brucia come il fuoco

di un ceppo perenne questa smania di trovare l’altra fiamma che, pur confondendosi con la mia manterrà immutati i propri petali

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La macchina che correva dietro le palpebre chiuse di

Andrea, d’un tratto mise le ali, s’impennò e volò insieme

ai suoi pensieri, verso il centro di un vortice di ricordi. Sul suo viso si disegnavano le espressioni ora tristi, ora

appena allegre, ma sempre all’interno di una costante

immagine malinconica, man mano che i pensieri

affluivano e vorticavano da un lobo all’altro del suo

cervello.

C’erano tutti in quel quasi-sogno e tutti lo aiutavano a

muovere, con la giusta armonia, quella mano sui capelli

di Anastasia.

A un certo punto, quasi alla fine del secondo movimento

della Sonata, Andrea mosse il capo lentamente, girandolo

verso di lei. Aprì pian piano gli occhi lucidi di lacrime,

per guardarla e lei, come se avesse sentito quel silenzioso

movimento, alzò il suo viso pieno di tenerezza verso il

suo compagno. Lui la guardò come si guarda una

qualcosa o qualcuno che conosci da sempre: con il suo

pullover rosa, i suoi larghissimi pantaloni ghiaccio e le

affusolate dita che, molto lentamente, si muovevano sulla

sua gamba; lei, la stessa di sempre, sempre uguale.

Richiuse gli occhi.

La macchina nella sua mente correva sempre più

velocemente, fin quando non cominciò a roteare dentro

un immenso imbuto di memorie che ormai avevano perso

ogni forma e somigliavano alle migliaia di corde che lo

legavano al passato.

Poi l’auto si capovolse e sprofondò in un abisso senza

fine, sempre più giù, verso qualcosa che non si conosce,

verso un buio che è veramente buio, quella immensa

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voragine che ci inghiotte quando dentro di noi è solo

vuoto, persino di paure.

E continuò a cadere finché un’accecante luce non esplose

nella sua testa.

Scosse il capo e, girandosi verso di lei, riaprì gli occhi per

guardarla ancora e la vide all’interno di un miracolo,

sostenuta da un’energia che proveniva dall’origine, dal

centro del cuore.

Anastasia era come avvolta da una luce nuova, diversa,

strana forse, quasi non umana. Non la sentì più sua,

com’era abituato a percepirla, erano un sistema dentro di

un’enorme fascia di sentimenti che avvolgeva i loro corpi

pur lasciando chiara l’identità, un effluvio di sostanza e

spirito che, in un’elisse perfetta, li legava come due

pianeti ruotanti intorno ad un fulcro comune, un punto

che era il contrario di loro, fatto di tutto ciò che non

erano, cioè di assenza, di separazione, di annullamento. E

loro mantenevano sotto controllo quel fulcro del non-

esistere, del non-amore, dell’urgenza fisica che trova ogni

sua casuale solo nella sessualità o, peggio che mai,

nell’opportunismo.

Ma laddove la materia non esisteva più e quindi non

c’erano motivazioni corporali, là, in quell’universo

regolato solo da impulsi sentimentali, c’era solo amore,

quello che non siamo più abituati a riconoscere nei volti

dei nostri cosiddetti “partner perfetti” né, persino nella

natura circostante. Non più, solamente amante, ma

qualcosa che completava quella funzione con l’apertura

di sequenze spirituali in armonia tra loro. Chimiche

naturali, punti equidistanti in uno spazio creato solo per

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loro attraverso forze esistenziali che ne mantenevano la

consistenza e l’equilibrio.

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Oh carezza d’occhi rosa mutata fiamma. Oh effluvio di parole senza voce, di baci senza labbra oh magica armonia di sentimenti per sempre snodati e disciolti nella mente: Oh amore!

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Andrea sapeva di essere un sistema binario e sapeva che

prima o poi, dall’altro capo della corda, avrebbe visto

materializzarsi quegli occhi e quelle mani ma, non sapeva

di averla così vicina… e lei era là, vicinissima anche

nella mente, essenziale per vivere, indispensabile per

mantenere un equilibrio perfetto, su un piano perfetto, su

una perfezione “umana”, la meno imperfetta possibile.

Lei, la dolce Anastasia non sapeva di essere quel ponte

fatto di sostanza d’amore e di vaghe molecole corporee,

lei non sapeva di essere il puntino coronato che può

allungare la nota all’infinito; pensava di essere soltanto

una donna, la più fortunata forse, la più emancipata, la

più tutto quello che vogliamo ma, non sapeva di essere

“la donna”, l’altro pilastro di quell’immenso ponte che la

congiungeva ad Andrea e a nessun altro essere al mondo.

In quei grandi occhi di muschio, ora non si muovevano

più mille lune ma mille galassie, mille universi con tutte

le loro divinità.

Anastasia era l’universo identico e opposto all’universo

di Andrea, in una dimensione che soltanto loro

riconoscevano tra i mucchi di ricordi e di scarpe e di

sedie e di impianti stereo e di uomini.

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