[04-2011] 07 - Il Caso Italiano, Dallo Stato Liberale Al Fascismo

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Difficoltà economiche nel primo dopoguerra

GLI EFFETTI DELLA GUERRA E GLI SQUILIBRI STRUTTURALI DELL’ECONOMIA

Nello svilupparsi della situazione sociale e politica europea giocò un ruolo di fondamentale influenza ciò che accadde in Italia. L’Italia, che

faceva parte delle potenze vincitrici della Grande Guerra, non vide un rafforzamento della classe liberal-conservatrice che l’aveva portata

alla vittoria, ma, al contrario, vide un rafforzamento delle tensioni sociali e lo schierarsi dei cedi medi e della borghesia agraria. In breve

tempo lo stato liberale crollò, dando spazio all’affermazione di un regime autoritario (il fascismo) a cui si ispireranno i vari movimenti

reazionari di tutta Europa. Se la Repubblica di Weimar impiegò almeno 15 anni a crollare, lo stato liberale italiano invece resse pochissimo,

e ciò sottolinea l’intrinseca fragilità della struttura sociale e politica italiana.

Così come gli altri paesi che avevano partecipato alla guerra, l’Italia subì una grave crisi economica, risultato di un’inflazione crescente e

della difficoltà di riconvertire la produzione industriale per adeguarla al tempo di pace. La crisi economica è causa di una crisi sociale, che

vedrà l’aumento delle grandi lotte sociali. Tutto ciò comprometterà ancor di più l’equilibrio dell’assetto sociale ed economico italiano.

Durante la Grande Guerra, l’Italia vide una notevole espansione e concentrazione dell’industria: le più grandi industrie (Fiat, Ansaldo,

Montecatini, Ilva ecc) passarono dalle poche migliaia alle decine di migliaia di dipendenti. Tuttavia questi “giganti industriali” fondavano le

proprie radici su un terreno instabile a causa della rapidità con cui essi si svilupparono. Inoltre erano forti le esigenze di capitali (finora

“rimediati” dalla cospicua massa di capitali pubblici e dagli aiuti dati dallo stato, loro maggior committente), che furono soddisfatte grazie

all’intervento attivo delle 4 più grandi banche italiane (Banca commerciale, Credito italiano, Banca di Sconto, Banca di Roma). Il rapporto

che si veniva a creare tra banca e impresa talvolta diventava fortissimo, come nel caso di Ansaldo-Banca di Sconto che, di fatto, divennero

un unico gruppo economico.

UN CAPITALISMO MONOPOLISTICO E IL DUALISMO NORD-SUD

In Italia si sviluppò un vero e proprio capitalismo monopolistico. Le grandi imprese infatti erano quasi interamente “pilotate” dallo stato

che organizzava l’offerta e regolava la domanda. Questa industria monopolistica non fece altro che accentuare il divario tra nord e sud. Le

aziende e le imprese che inglobavano quasi interamente le risorse pubbliche erano nel nord, più precisamente nel triangolo industriale

formato da Milano-Torino-Genova gettando sempre più nella miseria le industrie meridionali. Al sud quindi vi fu un’esponenziale crescita

della disoccupazione, che portò molti italiani a fare l’unica scelta possibile: emigrare (in America). Tuttavia dal 1917, in seguito a

provvedimenti atti a ridurre l’immigrazione straniera, le emigrazioni si ridussero drasticamente, portando al rialzo della disoccupazione.

LA QUESTIONE MERIDIONALE

A rendere esplosiva la situazione fu l’irrisolta questione della terra ai contadini del sud, che ancora non avevano avuto la possibilità di

accedere alla proprietà fondiaria. La conquista della terra è stata per tantissimo tempo un miraggio un sogno per tutti i contadini del sud,

sogno che li aveva spinti a combattere con coraggio nelle trincee, sogno alimentato dallo stato per sfruttarli, ma mai avverato. Né i

governi liberali, né l’opposizione cattolica e socialista, né nessun altro fu in grado di affrontare efficacemente tale questione, che avrebbe

permesse di rendere “parte” della nazione le povere masse del sud. Tutto questo sfociò nell’occupazione contadina dei grandi latifondi

incolti, richiedendo che gli venissero affidati, consegnati (al fine di poter crescere economicamente ecc), ma lo stato rimase inerte di

fronte a tali richieste, accentuando il forte divario che già esisteva con i contadini. L’unico gruppo che riuscì ad intravedere l’importanza

della risoluzione della questione meridionale fu l’ “Ordine nuovo” formato da giovani intellettuali e Antonio Gramsci. Essi ritenevano

fondamentale l’inserimento dei contadini del sud nella vita della nazione, e ritenevano che se ciò non fosse accaduto, si sarebbero

verificati diversi problemi. Tuttavia i contadini non ottennero mai ciò che volevano, e, rassegnati, rimasero pronti ad accogliere

passivamente l’avvento della dittatura.

Il biennio rosso in Italia

LA CRISI NEL SETTORE INDUSTRIALE

Al concludersi della guerra, le imprese che fino a quel momento avevano conosciuto uno sviluppo rapidissimo basato per lo più dalle

commesse statali, si ritrovarono sull’orlo della crisi nel momento in cui s’inaridì la spesa pubblica. L’Italia era ammalata di gigantismo ed

era priva di un mercato interno capace di sostituire la spesa pubblica. Gli italiani infatti non erano abbastanza ricchi per garantire una

domanda abbastanza alta, cosicché le industrie italiane furono costrette all’esportazione e all’importazione (principalmente dall’America).

3 fattori distrussero l’Italia: disoccupazione, inflazione, svalutazione. La svalutazione infatti rendeva meno redditizie e più dispendiose le

esportazioni e le importazioni, gettando l’Italia in una situazione disastrosa.

LA MOBILITAZIONE DEL PROLETARIATO INDUSTRIALE

Questi processi culminarono in un ciclo di lotte unico nella storia italiana. Tra il ’18 e il ’19 si scatenarono 3500 scioperi di operai e

braccianti. I primi lottavano per ottenere una riduzione dell’orario lavorativo, un aumento dello stipendio per far fronte all’aumento del

costo della vita, e alla concessione delle “commissioni interne”. I secondi lottavano invece per un aumento del salario e per un maggior

controllo dell’organizzazione del lavoro agricolo. Tali scioperi, se da una parte causarono morti e feriti, dall’altra conseguirono il loro scopo:

gli operai tutelarono il proprio potere d’acquisto e ottennero la giornata lavorativa di 8 ore. Il Psi e la Cgl, che videro in 5 anni

decuplicare i propri iscritti, politicizzarono notevolmente il conflitto sociale: in esso confluirono istanze sia del partito comunista russo che

del partito socialista massimalista (che aveva ottenuto la maggioranza su quello riformista nel XV congresso del Psi). Il culmine di questa

situazione di instabilità fu raggiunto tra giugno e luglio del 1919 con l’esplosione di uno sciopero per il rincaro dei prezzi che si estese in

tutta l’Italia centro-settentrionale. Lo stato intervenne con decisione, provocando alcuni morti e feriti, ma riuscendo a calmierare i prezzi.

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LA FRUSTRAZIONE DEI CETI MEDI

Il movimento operaio perse d’incisività, anche perché non si coalizzò né con i braccianti né con i medi e piccoli ceti urbani. L’inflazione

infatti colpì non solo operai e braccianti ma anche la piccola e media borghesia, sia come salariati che come risparmiatori. Le difficoltà

economico poi si combinarono con una crisi di identità sociale. La piccola borghesia aveva goduto di un certo prestigio nell’esercito, al

quale aveva dato le leve di ufficiali e sottoufficiali, e nel momento in cui questi tornarono alla vita quotidiana del dopoguerra, talvolta

conobbero la disoccupazione, talvolta videro il loro tenore di vita peggiorato. Il sentimento di frustrazione che ne derivava sfociava in un

forte risentimento verso:

• Gli operai: essi diedero luogo ad una sorda opposizione alla classe operaia, che appariva in grado di aumentare la sua fetta di

reddito nazionale, minacciando i loro piccoli privilegi e il loro status di classi intermedie non proletarie.

• La borghesia agiata: ritenuta avida ed egoista. I suoi componenti erano chiamati “pescicani” in quanto si erano arricchitti

speculando sulle commesse statali o sulla scarsità di beni di prima necessità.

Sempre più netta divenne la divisione tra alta borghesia e questo “agglomerato di strati sociali intermedi”. Ciò portò ad una sfiducia nel

governo liberale.

BENITO MUSSOLINI E LA NASCITA DEL MOVIMENTO DEI FASCI E DELLE CORPORAZIONI

La crisi di rappresentanza del ceto medio è già riscontrabile nel 1919. Uno dei primi a riconoscere il disagio in cui viveva il ceto medio e a

tentare di canalizzarlo entro forme organizzate fu Benito Mussolini (ex direttore dell’Avanti”, giornale organo del Psi). Dopo esserne stato

espulso, il 23 marzo 1919 Mussolini fondò il Movimento dei fasci e delle corporazioni, che due anni dopo diventerà il Partito nazionale

fascista. Il movimento aveva l’obbiettivo di porsi come punto di riferimento di quelle correnti d’opposizione senza un chiaro riferimento

politico, che comprendevano principalmente ufficiali e sottufficiali delusi dal ritorno alla vita quotidiana e larga parte del ceto medio

urbano. La principale azione del movimento fu l’atto di incendio compiuto contro la sede principale a Milano dell’ Avanti!. Era chiaro che il

loro principale avversario fosse il movimento operaio e che il loro principale obbiettivo fosse quello di sostituirsi allo stato facendo uso

della violenza. [Finire]

IL MITO DELLA VITTORIA MUTILATA

La delegazione italiana alla conferenza di pace (Orlando e Sonnino) pretese da un lato il rispetto del Patto di Londra (e quindi l’annessione

di numerosi territori secondo il principio delle annessioni) e dall’altro l’annessione di Fiume (secondo il principio di nazionalità). Data

questa ambiguità della posizione italiana, essa perse entrambe le soluzioni. Nacque così, alimentato dalle forze nazionaliste, il mito della

“vittoria mutilata”. I nazionalisti infatti giudicavano il governo liberale colpevole di non difendere i diritti della nazione, che, a causa sua,

aveva combattuto inutilmente nelle trincee. Nacque la contrapposizione tra l’Italia postbellica, forte della sua vittoria, e l’Italia prebellica,

sottostante all’imbelle democrazia liberale. Orlando diede le dimissioni, e al suo posto salì, a capo del governo, Francesco Saverio Nitti,

che tuttavia non riuscì a risolvere le diverse problematiche interne ed esterne all’Italia.

LA “QUESTIONE DI FIUME”

Poco dopo la Conferenza di Pace di Parigi (1919) si profilò un accordo per il quale Fiume sarebbe stata dichiarata “città libera” e ciò

scatenò la rivolta dei nazionalisti contro il governo. In seguito alle notizie degli incidenti di Fiume (truppe francesi contro italiani) si decise

di trasferire a Ronchi un reggimento di Granatieri di Sardegna. Ma proprio da Ronchi, alla guida di un migliaio di uomini appartenenti a

questo reggimento, D’Annunzio patì verso Fiume, occupandola per più di un anno (sostenuto dagli alti ufficiali dell’esercito che lo

rifornirono di armi e vettovagliamenti). Tale azione, violando gli accordi di pace, delegittimò il governo ed il parlamento, che non

riuscirono ad intervenire efficacemente per più di un anno. Fiume divenne simbolo del nazionalismo, del militarismo e

dell’antiparlamentarismo. Con il trattato di Rapallo del 1920 Fiume fu finalmente dichiarata città libera, e d’Annunzio, rifiutando l’accordo,

fu scacciato con la forza.

IL PARTITO POPOLARE E IL CATTOLICESIMO DEMOCRATICO DI STURZO

Nel 1919 don Luigi Sturzo fondò il Ppi (Partito popolare italiano) con l’intento di raccogliere l’adesione dei cattolici per costruire una

nuova forza politica: il papa diede il nulla osta. Il partito raccoglieva la maggior parte dei consensi tra la popolazione meno abbiente, dove

maggiore era l’influenza delle organizzazioni cattoliche, ma anche dal mondo operai e dai ceti medi urbani. Il programma di Sturzo:

• Rispetto della proprietà privata;

• Sviluppo solidarietà sociale;

• Riforma agraria e tributaria (equa distribuzione della terra e dei salari).

• Decentramento amministrativo.

Il Ppi era immagine dell’universo cattolico, quindi presentava un carattere composito e contradditorio. Con Benedetto XV il Ppi si rafforzò,

mentre con Pio XI crollò, finché venne sciolto nel ’26 dal fascismo.

LA VITTORIA DEI PARTITI POPOLARI

Le nuove elezioni si basarono sul nuovo sistema proporzionale, voluto da cattolici e socialisti. Venivano così eletti più candidati in ciascun

collegio in proporzione al numero dei voti (il precedente sistema uninominale favoriva il Partito Liberale in quanto riusciva sempre a

recuperare una certa quantità di voti). Già prima del sistema proporzionale il Partito Liberale aveva subito il suffragio universale maschile,

che favoriva il Psi e il Ppi, in quanto favoriva i partiti meglio organizzati e non quelli fondati sui notabili locali. Nelle elezioni del 1919 infatti

vinsero il Psi e il Ppi, il primo con 2 milioni di voti e il secondo 1 milione. L’insieme delle forze liberali mantenne comunque la maggioranza

relativa con 2 milioni e mezzo di voti ma:

• Socialisti e cattolici: 257 seggi.

• Liberali: 251 seggi.