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Editoriale

Istituto Tumori MilanoRicerca d’alto livelloListe d’attesa al minimo

Donazione,una esperienzadi positività02 Diabete mellitoUna pandemia misconosciuta

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Mensile di cultura sanitaria del Consiglio RegionaleAIDO Lombardia -ONLUS

Anno XVI n. 143 - gennaio/febbraio 2006

Editore: Consiglio Regionale AIDO Lombardia -ONLUS 24125 Bergamo, Via Borgo Palazzo 90Tel. 035 235327 - fax 035 244345 e-mail: [email protected]

Direttore EditorialeLeonida Pozzi

Direttore ResponsabileLeonio Callioni

Collaborazioni scientifiche:Dott. Gaetano Bianchi

Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Bergamo

Dott. Michele ColledanDirettore Chirurgia Generale III Direttore Centro Trapianti di fegato e di polmoni

Dott. Paolo FerrazziDirettore Dipartimento CardiovascolareDirettore U.O. di Cardiochirurgia

Prof. Roberto FumagalliProfessore Associato di Anestesia e Rianimazione Università degli Studi Milano BicoccaCapo Dipartimento di Anestesia e Rianimazione

Dott. Amando GambaResponsabile Unità Semplice dipartimentaleCentro Trapianti di cuore

Dott. Giuseppe LocatelliDirettore Dipartimento di PediatriaResponsabile Centro trapianti renali

Dott. Giuseppe Remuzzi Direttore Dipartimento di Immunologia e Clinica dei Trapianti

Regione Lombardia

Prof. Alessandro PellegriniCoordinatore regionale al Prelievo e Trapianto di Organi e Tessuti

NITp - Nord Italia Transplant

Prof. Cristiano Martini - Presidente

Dott. Mario Scalamogna - Direttore

Istituto Mediterraneo Trapianti e Terapie di alta specializzazione - ISMeTT

Prof. Bruno GridelliDirettore Medico scientificoProfessore di Chirurgia Università di Pittsburgh

Istituto Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” - Bergamo

Dott. Giuseppe Remuzzi - Direttore

Yale University School of Medicine

Dott. Mario StrazzaboscoProfessor of Medicine,Director of Transplant HepatologyDepartment of Internal MedicineSection of Digestive Diseases

Redazione esternaLaura SpositoCristina Grande

Redazione tecnicaBergamo e-mail: [email protected] Seminati

Segreteria e Amministrazione24125 Bergamo, Via Borgo Palazzo 90Tel. 035 235327 - fax 035 244345e-mail: [email protected]/C postale 36074276Ester MilaniLaura Cavalleri

Sottoscrizioni

Socio Aido Simpatizzante Sostenitore Benemerito € 26,00 € 37,00 € 52,00 € 78,00

C/C postale 36074276 AIDO Cons.Reg.LombardiaONLUS Prevenzione Oggi

Si contribuisce alle spese di stampa come amici.

Il socio sostenitore ha diritto a n. 9 copie aggiuntiveall’anno da omaggiare a un’altra persona previasegnalazione all’atto della sottoscrizione.

Stampa

CPZ - Costa di Mezzate BG

Reg. Trib. di Milano n. 139 del 3/3/90

Con il primo numero del 2006 i contenuti di“Prevenzione Oggi” si arricchiscono ulteriormente,nello sforzo mai diminuito di offrire una rivista semprepiù intertessante per i lettori e ricca di informazioni utili ad una

corretta prevenzione sanitaria. L’articolo del dottor Gaetano Bianchiintroduce infatti l’argomento del diabete chesuccessivamente verrà trattato anche attraversointerviste (prevista per il mese prossimo quellacon il dott. Roberto Trevisan, direttore dellaUSC Diabetologia degli Ospedali Riuniti diBergamo) e articoli sull’alimentazione con par-ticolare riferimento alle malattie del fegato.Nell’ormai lungo cammino attraverso le strut-ture sanitarie lombarde torniamo a Milano,presso l’Istituto Tumori, per l’intervista con ladott.sa Coppa, il dott. Pulvirenti e il dott.Schiavo, collaboratori del dott. Mazzaferro (dicui pubblicheremo l’intervista prossimamente).Ci fermiamo ancora, per questo primo numerodel 2006, nella struttura di prestigio interna-zionale, dove sono stati elaborati i “criteri diMilano” per il trapianto di fegato in caso dipresenza di tumore.Sulle realtà di Milano rimarremo per alcuni numeri di “PrevenzioneOggi”, così come avevamo annunciato già tempo fa, con l’intento di com-pletare l’opera di analisi e illustrazione delle potenzialità e dell’effettivaofferta curativa, con particolare riferimento al trapianto di organi e tessu-ti, della sanità in Lombardia.Attraverso l’informazione e l’impegno ad una più approfondita conoscen-za della realtà regionale, vogliamo contribuire al “risveglio” dellaLombardia che può e deve fare di più per il prelievo di organi. In questotutta l’Associazione, nella sua vasta organizzazione, è chiamata ad unmaggior impegno con tutte le espressioni della comunità civile. Dobbiamoincalzare le realtà sanitarie, gli enti locali, i livelli politici. Dobbiamoprendere esempio dalle Regioni che fanno più di noi nell’ambito del prelie-vo d’organi per attivare quelle scelte che fanno migliorare la situazione.Abbiamo ancora liste d’attesa troppo lunghe e non possiamo più ignorareche fare meglio si può e si deve, come dimostrano le Regioni del Veneto, dellaToscana e come dimostrano Paesi come la Spagna che hanno saputo inne-stare quella marcia in più che ha portato a risultati eccezionali.La Lombardia ha già saputo dimostrare di saper raggiungere livelli dieccellenza in tanti settori. L’Aido deve spingerla a dare il massimo anchenel campo dei prelievi e dei trapianti.

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In copertina:«VERSO PONENTE» ©

foto di Giuseppe Pellegrini - Mantova

Lasciati gli spazi bianchi del turismo, verso ovest appare un altra Neve: solitaria e naturale, angolo di spazio miracolosamente silenzioso.Qui, la luce che viene da levante,ricama i rami degli alberi, svela orme e sentieri, accompagna il cammino e affascina con il suo Riverbero.È il sole che dipinge dal vero .

Dobbiamo spingere la Lombardiaa raggiungere livelli di eccellenzaanche nell’ambito dei prelievi e trapianti

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Una prima parte della nostralunga intervista con alcunisanitari in prima lineapresso l’Istituto Tumori diMilano è stata pubblicata

nello scorso dicembre. Nell’occasioneabbiamo dato la parola alla dott.ssaLoredana Maspes, commissariodell’Istituto, e al prof. Paolo Corradini,direttore del Dipartimento di MedicinaOncologica dell’Int-Università diMilano, il quale ci ha parlato in partico-

lare di ricerca e utilizzo delle cellule sta-minali nella cura delle malattie. In questonumero di gennaio-febbraio 2006 prose-guiamo la pubblicazione dell’intervistacon i dottori Andrea Pulvirenti,Jorgelina Coppa e Marcello Schiavo, col-laboratori del prof. VincenzoMazzaferro, responsabile dell’ UnitàOperativa di Chirurgia I (apparato dige-rente epato-gastro-pancreatico) e delTrapianto di fegato dell’IstitutoNazionale dei Tumori di Milano.

L’intervista con il prof. Mazzaferro, chepubblicheremo nei prossimi numeri, con-cluderà il nostro ampio e articolato servi-zio sull’Istituto Tumori di Milano.

Pozzi: Cominciamo dalle origini:Come è nata questa idea del trapiantodi fegato all’Istituto Tumori diMilano?Coppa: All’inizio degli anni ‘90 èiniziata l’attività del trapianto epatico,ma già l’idea di sottoporre al trapian-

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to di fegato pazienti con epatocarcino-ma era stata sviluppata negli anni pre-cedenti. Il primario dott. Mazzaferroera stato in America per un po’ di anniper formarsi in questo campo.Quando è tornato ha iniziato a fare itrapianti a pazienti con una diagnosiparticolare, secondo un criterio preci-so per epatocarcinoma.L’epatocarcinoma è una degenerazio-ne maligna della cirrosi epatica; il piùdelle volte la cirrosi epatica è causatadal virus dell’Epatite B o dell’EpatiteC. Poi ci sono anche altre cause. Inquesti quindici anni abbiamo effettua-to circa trecento trapianti.Schiavo: Va precisato che il dottorMazzaferro è andato negli Stati Unitiper imparare e perfezionare la tecnicachirurgica del trapianto; però avevagià iniziato a lavorare sull’idea di uti-lizzare il trapianto nella cura deltumore del fegato, migliorandone irisultati. Nel 1996 il dottorMazzaferro ha pubblicato uno studioche è diventato una pietra miliarenelle pubblicazioni scientifiche delsettore. Con questo lavoro ha definitoquali sono i criteri per poter trapian-tare con buoni risultati i pazienti chesono affetti da epatocarcinoma su cir-rosi epatica. Sono criteri chiamati intutto il mondo i “criteri di Milano”.Pozzi: Diciamo pure che avrebbepotuto benissimo chiamarli “criteriMazzaferro” ma che ha preferito attri-buirli all’espressione medico-scientifi-ca della città di Milano.Schiavo: Verissimo. Va detto cheprima della pubblicazione di questicriteri il trapianto per epatocarcinomaaveva risultati scadenti. Infatti siinterveniva pensando che trapiantan-do l’organo sede della malattia sipotesse guarire dalla malattia, invecenel caso del tumore del fegato non ècosì perché se i tumori che hanno sedenel fegato sono di un certo numerosuperiore o di dimensioni superiori aquanto indicato nel lavoro del dott.Mazzaferro, significa che il trapiantoè inutile perché la malattia è già pro-gredita in altre sedi.Pozzi: Questo è l’inizio. All’Istituto

Tumori di Milano mi risulta che que-sto sia l’unico intervento di trapiantod’organi (non parliamo di quello dimidollo osseo, trattandosi di tessuto)e che su questo intervento si sianoraggiunti livelli di specializzazionealtissimi.Schiavo: Vorrei precisare che ese-guiamo il trapianto di fegato non soloper i tumori primitivi del fegato, cioènon solo per epatocarcinoma. C’è unaquota, ovviamente minore, di tumoriche vengono trapiantati, che sono fon-damentalmente le metastasi epaticheda tumori neoendocrini, ed è l’unicaindicazione al trapianto epatico permalattia metastatica. In quindici anni,su circa trecento trapianti, questi ulti-mi sono circa una ventina. Quindi unapercentuale molto contenuta.Coppa: Anche per questo c’è un cri-terio molto specifico per il trapianto.Pozzi: Quindi possiamo dire, perentrare nel dettaglio, che il trapiantodel fegato per epatocarcinoma ha lasua procedura, il suo protocollo, ecc.L’altra procedura, gli altri protocolli,riguardano le metastasi epatiche datumori neuroendocrini.Schiavo: Proprio così. Si tratta diuna patologia fortunatamente abba-stanza rara. Sono tumori che nasconoin qualcunque sede del corpo, ma noiin questo caso trapiantiamo solo quel-li che nascono in regioni dell’intesti-no, quindi dallo stomaco al colon, chesono denominati anche cardinoidiperché hanno un comportamento ametà fra i tumori benigni e quellimaligni. Questi tumori possono svi-luppare metastasi al fegato e alcuneindicazioni su queste metastasi sonoindicazioni al trapianto nel nostrocentro.Pozzi: E parliamo di un numerocontenuto di casi, come detto, circauna ventina...Coppa: Sì. Va aggiunto che si trattadella casistica più importante a livelloeuropeo, con una sopravvivenza di piùdel 90 per cento a dieci anni dal tra-pianto. Il più “longevo” in questosenso è un trapiantato del 1989.Pozzi: Sono dati molto significativi.

Schiavo: C’è da dire che essendouna patologia rara i numeri sonomeno importanti.Pozzi: Negli interventi di trapiantodell’Istituto Tumori di Milano utiliz-zate la tecnica dello split liver? (Sitratta di una tecnica specifica, già illu-strata su “Prevenzione Oggi” nelrecente passato, attraveso la quale siottengono da un fegato di un donato-re due parti non uguali: la partedestra, più grande, viene trapiantataall’adulto, la parte sinistra, più picco-la, a un bambino: N.d.R.).Coppa: Lo pratichiamo ma utiliz-ziamo solo la parte destra, quelladestinata all’adulto. La parte sinistradel fegato viene utilizzata per un bam-bino in un altro centro, il più dellevolte è Bergamo.Pozzi: Mi risulta che grazie a questatecnica e con centri di eccellenza comeappunto Bergamo, che soddisfa circal’80 per cento del fabbisogno naziona-le, non ci sia lista d’attesa in Italia peril trapianto di fegato pediatrico.Coppa: È vero. Sono risultati bellis-simi, i primi in assoluto in Europa.Callioni: Quali sono le patologie, seve ne sono di prevalenti sulle altre,che portano a dover trapiantare ilfegato a un bambino?Coppa: In genere questo avviene acausa di anomalie così importanti daportare alla necessità della sostituzio-ne del fegato. In particolare parliamodi atrasia delle vie biliari.Callioni: Prima di introdurre il tra-pianto quali possibilità di cura aveva-no questi bambini?Coppa: Si attuavano interventi chi-rurghici di derivazione biliare ma conrisultati sicuramente molto meno feli-ci. Erano soluzioni temporanee (da seimesi a un anno) che alla lunga provo-cavano altri problemi gravi, comequello dello sviluppo, di difficoltà nel-l’alimentazione, di infezioni e altrecomplicanze. Il trapianto invece risol-ve il problema.Pozzi: Peccato che qui all’IstitutoTumori non si effettuino prelievi diorgani.Coppa: D’altra parte bisogna consi-

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derare che da noi i pazien-ti sono ammalati di tumo-re, quindi non è possibileutilizzare gli organi perscopo trapiantologico.

Pulvirenti: Abbiamoperò attivato una convenzio-

ne con l’ospedale di Cremonaattraverso la quale abbiamo la

disponibilità dei donatori che ven-gono considerati come interni

dell’Istituto Tumori di Milano.Questo per non essere penalizzatirispetto agli istituti che fanno prelie-vo e che hanno quindi una donazioneinterna all’ospedale stesso. D’altraparte dobbiamo considerare che gliorgani sono sempre una risorsa moltolimitata e quindi abbiamo la necessitàdi incrementare questo tipo di attivitàanche con questa convenzione ester-na.Pozzi: La convenzione conCremona vi garantisce la disponibilitàdi un sufficiente numero di organi datrapiantare?Pulvirenti: Purtroppo no. La paro-la sufficiente nel campo dei trapianti èdifficile da usare perché il bilanciorichiesta/offerta è sempre negativo.Non è mai sufficiente. La richiesta èsempre più alta della disponibilità.Pozzi: Quali sono i tempi e le liste diattesa? Qual è la mortalità in listad’attesa?Pulvirenti: Noi, avendo come indi-cazione le patologie oncologiche,abbiamo necessariamente come “mis-sion” una breve lista d’attesa. Èimpensabile tenere un paziente neo-plastico in attesa di trapianto peranni. Necessariamente la nostra poli-tica è quella di accogliere un numerolimitato di pazienti e quindi, presol’impegno con questi pazienti neopla-stici, portarli al trapianto in un breveperiodo di tempo (in genere fra i sei ei dodici mesi).Coppa: Durante questa attesa lapatologia neoplastica viene ovvia-mente trattata, tenendo sotto control-lo la malattia.Schiavo: La mortalità in lista d’at-tesa di trapianto di fegato per epato-

car-cino-ma èa n c h eun argo-m e n t omolto sentitoe molto pre-sente nella lette-ratura medica,tanto è vero che negliStati Uniti essere portato-re di Epatocarcinoma costitui-sce un criterio di priorità nella listad’attesa.Callioni: Quindi l’Istituto Tumoriaccoglie un numero di ammalati inattesa di trapianto in base anche alnumero di organi su cui sa di potercontare.Pulvirenti: Noi abbiamo la capa-cità di eseguire dai 30-40 trapiantil’anno. Callioni: Sarebbe perciò tanto piùimportante poter disporre di un mag-gior numero di donazioni.Pulvirenti: Questo è un discorsopiù generale che riguarda tutta l’Italiaanche se la situazione mi sembra stiamigliorando. Anche se non siamocome la Spagna che ha fatto delladonazione una politica prioritaria intutti gli ospedali del territorio.Callioni: Mi stavo ponendo questadomanda: se domani, per ipotesi,l’Istituto Tumori dovesse poter con-tare su un numero maggiore di orga-ni da trapiantare, potenzialmente lastruttura di quanto potrebbe aumen-tare i propri interventi?Pulvirenti: Primo ragionamento:la risorsa donazione d’organi non èuna risorsa privata, personale. È inve-ce un bene della comunità che quindisegue delle regole della comunità.Non possiamo pensare che alcuniorgani siano per un certo ospedale,altri per un altro. La risorsa “donato-re d’organo” è una risorsa italiana chesegue le regole italiane stabilite dalle

Dott. Andrea PulvirentiStato civile: celibe

Nazionalità: italianaLuogo di nascita: MilanoData di nascita: 28/12/65

Residenza: [email protected]

Il dottor Andrea Pulvirenti milanese, quaranten-ne, si è laureato a Pavia con il massimo dei voti.Si è successivamente specializzato in chirurgia

generale con una tesi che evidenzia la sua sceltanel campo della medicina “Il ruolo del trapianto di

fegato per epatocarcinoma in cirrosi epatica.L’esperienza dell’Istituto dei Tumori di Milano”

Anche questa vicenda è stata superata con ilmassimo dei voti.

Dopo diverse esperienze professionali, all’univer-sità degli studi di Pavia “Medicina di base” e deiservizi di guardia medica, si è fermato all’Istituto

Nazionale dei Tumori di Milano, nell’Unita’Operativa Chirurgia Epato-gastro-pancreatica

con la direzione del Dott.Vincenzo Mazzaferro.Oggi è un Dirigente Medico di 1° Livello.

Si occupa di attività clinica e di ricerca dal marzo1993 nell’ambito dell’oncologia chirurgica gene-

rale e dell’apparato digerente con particolareriguardo all’attività di trapianto di fegato;

Collabora ai progetti AIRC, nello specifico:“Applicazioni clinico-sperimentali del trapianto difegato nel trattamento delle neoplasie epatiche”

(1994-1996) “New therapeutic strategies for hepatocellular

carcinoma” (1998-2000) in particolare TOPIC B“Hormonal treatment tailored on estrogen recep-

tor tumor status”Collabora ai progetti CNR (1998):

“Il trapianto di fegato in pazienti con neoplasia:studio dell’efficacia terapeutica e del metaboli-

smo glucidico con particolare riferimento allafase anepatica in pazienti con o senza

diabete mellito”Ha realizzato oltre cinquantasei pubblicazioni

scientifiche di pertinenza chirurgica.Ha partecipato a numerosi Congressi e Corsi diAggiornamento in qualità di relatore o Docente,segnalando che è stato Vincitore di varie fellow-

ships che gli hanno permesso di frequentarecorsi di aggiornamento in Italia e all’estero

(Germania, Giappone). Ha seguito molti stage.L’ultimo risale al 2005 e riguarda la formazione

manageriale per dirigenti di struttura complessaospedaliera (IREF-SDA Bocconi, Milano).

Partecipa attivamente alla programmazione edefinizione dei percorsi diagnostici-terapeutici deipazienti, con neoplasie epatobiliari pancreatiche.

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nizzazionidi riferimen-

to. E tutto ècoordinato dal

Centro NazionaleTrapianti. Chiarito che ci

sono delle regole di attribuzioneche stanno sopra tutti e sono valideper tutti, possiamo aggiungere che sein Italia potessimo disporre di unmaggior numero di organi faremmosicuramente più trapianti.Callioni: Siamo perfettamente d’ac-cordo, tant’è che “Prevenzione Oggi”è uno strumento di comunicazionecon lo scopo di creare una culturadella donazione. Il nostro impegno ètutto dedicato all’aumento delle dona-zioni in Italia. Ma nel felice caso in cuiquesto avvenisse, qual è il livello mas-simo di attività di trapianto gestibilenell’Istituto Tumori di Milano?Pulvirenti: Dobbiamo premettereche siamo un’unità che si occupaanche di chirurgia epatica e di chirur-gia addominale (facciamo circa 300resezioni epatiche l’anno), oltre all’at-tività di trapianti. Siamo quindi il cen-tro che fa più resezioni epatiche inItalia. Secondo lo “sportello cancroepatobiliare” del Corriere della Sera,siamo al primo posto per volume diattività. Detto questo potremmo pro-babilmente arrivare ad una cinquanti-na di trapianti l’anno. Evidentementeperò si tratta di adeguare la strutturaad un volume più alto di attività.Pozzi: Sicuramente andrebberocambiate anche certe mentalità, per-ché visto che il trapianto degli organiè un obiettivo individuato dal Serviziosanitario nazionale per la cura dideterminate patologie, bisogna inve-stire in questa direzione.

Pulvirenti: Suquesto argomento

il dottorMazzaferro ha certa-

mente cambiato lamentalità nella trapianto-logia portando il concettodella trapiantologia in onco-logia. Venti anni fa questo nonsi faceva. Non si trapiantava unpaziente con tumore. Poi grazie allavoro del dott. Mazzaferro si è capi-to che anche una persona ammalata ditumore al fegato, se rientra in deter-minati parametri (i “Criteri diMilano” nella terminologia scientificainternazionale) può essere trapiantatocon ottime possibilità di sopravviven-za, pari a quelle di pazienti senzatumore.Pozzi: Quante possibilità vi sonoche l’intervento di resezione non eli-mini residui noduli maligni non indi-viduati o individuabili?Schiavo: La possibilità di sottosti-mare la presenza di noduli di untumore al fegato è piuttosto bassa. LaTAC più moderna, così come le riso-nanze più moderne permettono diindividuare abbastanza bene anche ipiù piccoli focolai. Sfuggono peròancora quelli microscopici. Ciò rendeil trapianto per certi aspetti e in certesituazioni più vantaggioso perché conla resezione ci si limita al taglio dellaparte malata di un fegato con tumore.Esiste il caso del trapianto dopo rese-zione epatica ma sono veramentepochi nel mondo. Pulvirenti: Bisogna far sapere allagente che il trapianto è “una” delleterapie. Non è né “l’unica” né “l’ulti-ma” terapia. C’è un po’ la tendenza apensare che prima del trapianto siattivino tutte le altre cure necessarieper vedere se sia possibile evitarlo. Ilconcetto moderno della trapiantolo-gia e dell’epatologia chirurgica è diavere la potenzialità di fare anchequesto. L’unità fegato può fare dalquasi nulla al tutto. In mezzo c’è tuttala gamma delle terapie che si possonoproporre. Se si propone il trapianto adun paziente è perché quella è la sua

Dott. Marcello SchiavoStato civile: sposatoNazionalità: italianaData di nascita: 31 luglio 1966 Residenza: [email protected]

Il dottor Marcello Schiavo, quarantenne, si è lau-reato all’Università degli Studi di Milano nellaFacoltà di Medicina e Chirurgia, ottenendo nel1992 la “Laurea in Medicina e Chirurgia”. Nel1993 ottiene l’abilitazione professionale. Si è poi specializzato tra il 1993 e il 1998 , fre-quentando l’Università degli Studi di Milano -Scuola di Specializzazione in Chirurgiadell’Apparato Digerente ed Endoscopia DigestivaChirurgica.Le principali materie oggetto di studio, sonostate:* Ecografia endoscopica, Endoscopia diagnosti-ca e Interventistica, Chirurgia Laparoscopica,Ecografia laparoscopicaLa qualifica conseguita è stata:* Specializzazione in Chirurgia dell’ApparatoDigerente ed Endoscopia Digestiva ChirurgicaDopo diverse esperienze professionali, la piùimportante dal 1993-1998 all’Università degliStudi di Milano lavorando come Assistente allaScuola di Specializzazione in Chirurgiadell’Apparato Digerente ed Endoscopia DigestivaChirurgica, comincia, nel 1999, la sua attivitàpresso l’Istituto dei Tumori di Milano.Oggi è un Dirigente Medico di 1° Livello pressol’Unità Operativa di Chirurgia dell’ApparatoDigerente e Trapianto di Fegato diretta dal DottorVincenzo Mazzaferro (Istituto Nazionale per loStudio e la Cura dei Tumori Milano). Inoltre, pres-so L’Unità Operativa, è responsabile della pro-gettazione e pianificazione informatica, finalizzataalla creazione di archivi di dati e di immagini ascopo di produzione scientifica.Collabora a diversi progetti di ricerca, fra i piùimportanti:* “Profilassi contro la recidiva di epatite C, coninterferone e Ribavirina dopo il Trapianto diFegato”.* “Studio del linfonodo sentinella su tumoregastrico iniziale”Ha realizzato oltre 40 pubblicazioni su rivistescientifiche. Inoltre ha partecipato a numerosi Congressi eCorsi di Aggiornamento in qualità di relatore oDocente.

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terapia e allora tutte lealtre terapie devono esse-re commisurate per que-sto fine. Non stiamo aprovare una, due, tre o più

terapie per poi, solo allafine, arrivare al trapianto.

Questo concetto è purtroppoancora molto diffuso, anche in

colleghi medici che inviano ipazienti al termine di un iter tera-peutico burrascoso fatto di mille ten-tativi ma non del trapianto che invecenon va pensato per ultimo ma perprimo, in base a tutta una determina-ta serie di caratteristiche del paziente.Fra queste l’età, l’aspettativa di vita,le possibilità di guarigione, lo stadiodel tumore, la concretezza di una listad’attesa... Bisogna tener conto anchedi questo perché se non ho la possibi-lità di trapiantare una persona è benesaperlo da subito per evitare di perde-re tempo prezioso.Callioni: Questo non potrebbeindurre il paziente e la sua famiglia achiedere che nel frattempo venganoattivate tutte le terapie che sononecessarie alla miglior sopravvivenzapossibile?Pulvirenti: Sì. Però il nostro impe-gno è di essere chiari fin dall’inizio.Altrimenti il paziente ha tutto il dirit-to di provare da altre parti, in altricentri.Schiavo: È un problema culturaleimportante dal punto di vista medicoe anche, di riflesso, sui pazienti i qualidevono sapere che non esiste solo l’e-patologo che cura la cirrosi, il radiolo-go che usa gli aghi e l’emissione diradiofrequenze per bruciare i tumori,il chirurgo che taglia la parte di fega-to ammalata, il trapiantologo chesostituisce il fegato. Esiste uno spet-tro di trattamenti che devono esseredecisi fin dall’inizio sulla base dellegiuste indicazioni mediche.Pozzi: È evidente che quando unpaziente si rivolge a una struttura siaspetta che siano gli operatori sanita-ri di questa stessa struttura a indicarela strada da percorrere.Coppa: Proprio per questo abbiamo

parlato di cultura medica, di condivi-sione fra i diversi livelli della medici-na. L’informazione non va tanto onon solo al paziente quanto al medicodi base.Pulvirenti: Nelle patologie tumo-rali è importante non perdere tempo;evitare di girare i vari santuari dellamedicina e provare i trattamenti piùvari, che si concludono con un nulla difatto e così il paziente si rimette ingioco da un’altra parte; poi ancora daun’altra e poi un’altra ancora. Intantola malattia procede, l’età avanza, e lasituazione complessiva si complica. Va evidenziato che comunque la rese-zione usata con criteri ormai moltoperfezionati, ha dei buonissimi risul-tati: fino al 70 per cento di sopravvi-venza a tre anni dall’intervento. Nonbisogna fare l’errore di consideraretutto “meno buono” rispetto al tra-pianto. Il chirurgo che si occupa dipatologia neoplastica del fegato deveavere anche la possibilità del trapian-to per offrire il massimo al paziente.Quello che si impara in oncologia èche ad ogni stadio della malattia cor-risponde una terapia così come corri-sponde una prognosi. Questo è validoper tutta l’oncologia. Dal tumoredella mammella, al linfoma, al tumoredel fegato. Questi concetti devonoessere tenuti bene in mente. Nessunopuò dire “intanto proviamo”: se iltumore della mammella è di un centi-metro si fa un intervento conservati-vo e la possibilità di guarigione èaltissima. Non c’è nessuno che dica:“Tolgo tutta la mammella per mag-gior garanzia”. Non c’è un guadagno.Questo lo devono sapere le personecomuni ma anche i medici di base per-ché spesso l’informazione che arrivaai pazienti non è totalmente corretta.Pozzi: Da qui, anche da qui, l’im-portanza di una campagna per unasempre più capillare, diffusa e seriacultura sanitaria che sia contempora-neamente di sostegno alla donazionedi organi.

Testi a cura di Leonio CallioniHa collaborato Leonida Pozzi

Servizio fotografico Paolo Seminati

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dott.ssa Jorgelina Clara Coppa Stato civile: sposataNazionalità: italiana

Luogo di nascita: Buenos Aires, ArgentinaData di nascita: 26 Gennaio 1967

Residenza: [email protected]

La dottoressa Jorgelina Coppa di origine argenti-ne ma ormai milanese, si è laureata ben due

volte; nel 1990 in Medicina e Chirurgia,Universidad Nacional de Buenos Aires Luglio e

nel 1999,sempre in Medicina e Chirurgia, all’Università

degli Studi di Milano, conseguendo il massimodei voti.

Successivamente si è specializzata in:Chirurgia Generale e Chirurgia dell’Apparato

Digerente presso Pontificia Universidad CatolicaArgentina “Santa Maria de los Buenos Aires” nel

1996. A seguito, per la sua formazione profes-sionale, oltre 36 corsi post laurea. Inoltre ha otte-

nuto due borse di Studio.Dopo diverse esperienze professionali, fra cui

anche l’insegnamento universitario in Argentina,nel settembre del 1996 arriva come borsista

all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano,nell’Unita’ Operativa Chirurgia Epato-gastro-pan-

creatica con la direzione del Dott. VincenzoMazzaferro. Oggi è un Dirigente Medico di 1°

Livello.Si occupa di attività clinica e di ricerca. Fra I pro-

getti di Ricerca più importanti ricordiamo:* Research Doctorate Fellow per il progetto diricerca AIRC: “New Therapeutic Strategies for

Hepatocellular Carcinoma.” Giugno 1998.* “Immunizzazione attiva in pazienti con metasta-

si epatiche da carcinoma colon con HSPPC-96vaccine. 1999.

* “Radiofrequenza interstiziale combinata all’i-schemia arteriosa nell’epatocarcinoma non rese-

cabile”. 1999. Ha realizzato oltre 30 pubblicazioni su riviste

scientifiche di pertinenza chirurgica.Ha partecipato a numerosi Congressi e Corsi diAggiornamento in qualità di relatore o Docente.

Inoltre ha aderito a molti congressi per la propriacrescita professionale.

Ha vinto diversi premi, che arricchiscono la suavita professionale, ricordiamo fra il più importante:

Settembre 2000. Resection versusTransplantation for liver metastases from neu-roendocrine tumors, International Symposium

Liver metastases, Bologna

Ci riceve nel suo studio dopo una mezz’ora di antica-mera. Non tardiamo a capirne il motivo: la piccolastanzetta che si affaccia sul cortile dell’Ospedale

Niguarda è il crocevia di tutte le decisioni del reparto, lepiù banali come le più importanti. Dal fermento del perso-nale medico e infermieristico che vi transita si intuisce che lìci si consulta sulle situazioni urgenti da risolvere, si inqua-drano i “casi”, si stabiliscono le cure, si analizzano i decor-si. L’ultima parola però spetta a lei, la Dr.ssa PaolaMarenco, che nel 1986 ha letteralmente messo in piedi ilCentro trapianti di midollo, avviando l’attività con unasola camera sterile. “Di passo in passo - dice - siamoarrivati a una struttura, oltre che funzionale e perfet-tamente attrezzata, esteticamente bella e curata nei

Donazione, una esperienza di positività

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particolari, cosicché la fatica dei pazienti potesse venirripagata anche dal fatto di trovare un ambiente grade-vole. Chi vi arriva, forse può trovare ovvio tutto ciòche vede, ma vent’anni fa non lo era affatto”. Nessunatraccia di orgoglio in queste parole, solo la consapevolezzache “le cose si fanno per incontri, perché è sempre perun fascino che l’uomo si muove”. “Io ad esempio - diceraccontando gli esordi del suo lavoro - mi ero iscritta aMedicina contando di diventare psicanalista, ma alquarto anno, conosciuta la Dr.ssa Pellò che si occu-pava di ematologia, decisi di laurearmi con lei e diaccettare la sua indicazione: specializzarmi in questocampo e cominciare a lavorare come assistente pressol’ambulatorio di ematologia di Niguarda”. Qui il cam-

mino futuro comincia a delinearsi ma è solo nell’incontrodecisivo con il Dr. Francesco De Cataldo, allora Primariodella Divisione Regionale di ematologia, che trova unosbocco assolutamente inaspettato. Siamo agli inizi deglianni ‘80: il trapianto sta uscendo dalla fase sperimentale esi sta incanalando a diventare una terapia consolidata peralcuni tipi di patologie, tra cui la leucemia “Non è giusto- dice il Dr. De Cataldo - che i pazienti che seguiamoper questa malattia e necessitano di un trapianto deb-bano rivolgersi altrove”. A questo punto la Dr.ssaMarenco si sente rivolgere una domanda che non aveva pre-visto: “Che ne dici se dessimo avvio a un Centro tra-pianti?”. Visto che la motivazione è più che adeguata, allaDr.ssa Marenco non resta che accettare. “Bene - si senterispondere dal suo capo - per cambiare il mondo bisognaassumersene la responsabilità”. Di certo non se lo faripetere due volte. Conseguita la seconda specialità inimmunologia, nel 1983 è a Parigi per uno stage presso ilCentro trapianti diretto dalla Prof. Gluckman e successi-vamente si trasferisce per quattro mesi a Seattle, presso l’e-quipe del Prof. Thomas, Nobel per la medicina dei tra-pianti di midollo. “Cercai di imparare tutto, dal comefar preparare il pasto sterile al paziente fino a orga-nizzare interamente un reparto e tornata a Milanocominciai la mia avventura”. L’inizio è una autenticascommessa: si tratta di progettare la struttura muraria, tro-vare il personale infermieristico e formarlo, allestire gliimpianti sterili e il laboratorio. Eppure, a sentirlo racconta-re, non c’è alcuna enfasi autoreferenziale . “Non siamopartiti con l’idea di dar vita a un centro nazionale diriferimento, anche perché ne esistevano già di benorganizzati - ammette - semplicemente era chiaro chestavamo rispondendo al bisogno dei nostri pazienti equindi dovevamo semplicemente obbedire alle circo-stanze che si presentavano. Così facendo, la realtà erauna continua fonte di sorpresa perché quando tuttosembrava dire che era impossibile continuare (la capo-sala che non si trovava, gli infermieri che venivanospostati in un’altra divisione, con il conseguenterischio di dover chiudere il reparto) accadeva semprequalcosa che rimetteva in gioco la partita”. Oggi che itrapianti hanno superato gli 80 all’anno , il Centro - annes-so alla divisione di ematologia diretta dal Primario Dr.ssaEnrica Morra - è al 10º posto nazionale per l’attività ditrapianti da donatore non consanguineo e le camere sterilisono diventate 6, si può dire che tutte le più ottimisticheprevisioni siano state abbondantemente superate. “Non ècerto merito mio, ma di una storia che si è dipanataattraverso la disponibilità mia e dei miei collaboratori.Il che ha voluto dire che quando c’era bisogno di farerichieste precise all’amministrazione lo abbiamo fattoma poi le risposte sono avvenute in modo imprevedi-bile. Del resto la legge della vita è stare ai fatti cheaccadono come ho sperimentato in prima persona

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Curriculum dott.ssa Paola MarencoNata a Milano il 07.12.1951, laureatasi in Medicina e chirurgia presso l’Universitàdi Milano nel luglio 1975, (110 e lode).Nel 1978 consegue la Specializzazione in Ematologia Clinica presso l’Università diMilano e nel 1982 la specializzazione in Immunologia .Dal 27.12.1978 lavora presso la Divisione di Ematologia dell’Ospedale di Niguardaprima come Assistente e quindi dal 1993 come Aiuto Ematologo.Dal 1979 riceve l’incarico di iniziare un laboratorio per la diagnostica immunologicadelle Leucemie e dei Linfomi (Markers di membrana) nella divisione di Ematolgia; atale scopo riceve comandi per partecipare al lavoro del Laboratorio di Parigi direttodal Prof. Mathé (1979 e 1980)Nel 1983 viene incaricata di avviare l’attività trapiantologica annessa alla DivisioneRegionale di ematologia Ospedale di Niguarda. A tale scopo ottiene un comandoper perfezionamento professionale presso il Centro Trapianti di Parigi diretto dallaProf. Gluckman dal 07 al 25.11.1983 e presso l’équipe trapiantologica statunitensedi Seattle, (University of Washington) dal settembre al dicembre 1984 Al rientroriceve l’incarico dal Primario di organizzare una unità trapiantologica con cameresterili in cui sia possibile eseguire auto e allotrapianti di midollo. Progetta pertantola struttura muraria, gli impianti sterili, segue la formazione del primo gruppo infer-mieristico e medico e la parte di laboratorio necessaria ( crioconservazione ecc..) estabilisce i contatti con i vari servizi necessari ad avviare tale nuova attività.Nel 1986 viene avviata l’attività con una sola camera sterile in attesa del completa-mento della prima parte del reparto che consentirà nel 1989 il vero inizio di attività.L’incremento di attività sarà progressivo fino a 80 trapianti nel 2003. Il centro vieneaccreditato (EMBT) per Autologo, allogenico, non consanguineo e come CentroPrelievi ed iscritto dal 1987 come membro attivo all’EBMT cui invia regolarmente idati. ( si vedano le pubblicazioni EBMT relative all’attività trapiantolgica del Centroinserita nelle survey europee)Nel 1987 consegue l’idoneità a Primario di Ematologia. Dal 21.04.1989 in qualità diaiuto ematologo presso la Divisione Talamona dell’ospedale di Niguarda, è incari-cata dal Primario della responsabilità del Centro trapianti midollo , sia per quantoriguarda i trapianti allogenici che quelli autologhi. Dal 1988 partecipa al GITMO,(Gruppo Italiano Trapianti di Midollo), che si costituisce in tale anno. Due ulterioriperiodi di comando per aggiornamento ( Parigi , Prof Gluckman e Seattle nel 1988e 1990)Dal 1992 inizia presso il Centro Trapianti l’attività per i trapianti da donatore nonconsanguineo e vengono eseguiti nella Divisione i primi due trapianti a Milano inadulti da non consanguineo . Tale attività è ad oggi ad oltre 46 MUD , collocando ilCentro al 10° posto nazionale per tale attività, Pertanto oltre a partecipare alGruppo Italiano Trapianti Midollo (GITMO) dalla sua costituzione, è membro dellacommissione allargata per il trapianto da non consanguineo del GITMO.Membro eletto del comitato scientifico del direttivo lombardo di ADMO fino al 2003Nel 1999 riceve dall’Ospedale un premio per la qualità della prestazione individualearea Dirigenza Medica nel campo prelievi e trapianti.Nel 2000 con l’aiuto dell’Ufficio controllo di Gestione dell’Ospedale svolge un lavorosui costi dei trapianti suddivisi per tipologia che costituirà la base della valorizzazio-ne da parte della Regione Lombardia differenziata per sottotipi del DRG trapianto.Dal 2003 è stata nominata referente per l’Azienda ospedaliera Niguarda nel gruppodi lavoro trapianto di midollo presso la Direzione Generale Sanità della RegioneLombardiaIncarico dirigenziale con retribuzione di posizione dal 1999 ( dirigente di 1 livelloresponsabile dell’attività trapiantologica, trapianto allogenico).. Dal 2004 l’incaricodirigenziale viene modificato in incarico di natura professionale ad alta specializza-zione.Nel 2003 l’ampliamento del reparto a 6 camere sterili ha consentito una ulterioreestensione del programma trapiantologico con avvio anche del programma dei tra-pianti con condizionamento a ridotta intensità.Negli ultimi anni ha anche partecipato ai programmi GITMO in previsione dei pro-cessi di accreditamento secondo le norme europee.

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quando, volendo fare lo psicanalista, mi sono ritrovataa occuparmi di trapianti di midollo”. A testimoniarcelo èla sovrabbondanza di tempo che la Dr. Marenco ci concede,nonostante i mille impegni che il suo incarico comporta e chel’attendono subito dopo l’intervista. Vi si sottopone senzarisparmiarsi, dando inizio a un dialogo serrato che, parten-do dalla domanda se la Chiesa abbia contribuito a favori-re la crescita della donazione , arriva a toccare le questionifondamentali ad essa legate. Alla fine ne usciamo felicemen-te frastornati: per fortuna c’è ancora qualcuno che pensache la malattia sia il più drammatico ma straordinariorichiamo a un cambiamento, una specie di post-it sulla vitapronto a ricordarci che quello che diamo per scontato tuttele mattine, in realtà ci viene continuamente donato. Secondo la sua esperienza, cosa ha determinato lacrescita del consenso alla donazione anche per itrapianti di organo? Uno di questi fattori in parti-colare (il fatto che la medicina abbia raggiuntocertezze sempre più consolidate, che la Chiesa leabbia progressivamente appoggiate, che i mezzi diinformazione le abbiano trasmesse correttamente,che le strutture deputate al prelievo e al trapiantosi siano meglio organizzate) o tutti, ciascunosecondo il proprio compito? L’informazione corretta è stata sicuramente uno deglistrumenti più decisivi che hanno contribuito a stabi-lizzare una cultura normale del trapianto: quello chefino a vent’anni fa veniva percepito come “strano”, oranon lo è più. Se è indubbio che nel tempo sia progres-sivamente maturata una fiducia nelle possibilità tera-peutiche di questa prassi chirurgica e nella rigorositàdella sua applicazione, non credo tuttavia che ciò siaavvenuto unicamente perché la gente si è documenta-ta. Secondo me, è semplicemente capitato che unnumero sempre maggiore di persone impattasse ilproblema, o sulla propria pelle o perché qualcuno aloro vicino ne era coinvolto, e che sia stata questa“conoscenza affettiva” del fenomeno a farlo sentiremeno astratto, riducendo - parallelamente ai chiari-menti forniti dalla scienza - i dubbi residui. La Chiesaa sua volta non ha mai considerato la questione in ter-mini di principio (è giusto o no). Esprimendo il suoparere favorevole nei confronti della donazione, hasempre sottolineato la necessità che la tecnica fosse alservizio del bene dell’uomo e che il gesto fosse libero,non un dovere civile. Sicuramente, con il suo additareil vero in ogni cosa e la sua capacità di educare allagratuità e al dono (fino a dare una parte di sé per lavita di un altro), è facile che anche la Chiesa abbia con-tribuito a chiarire alla gente le ragioni di una similescelta. Cosa realmente incide sulla volontà di dare il pro-prio assenso al prelievo d’organo?Una esperienza di positività. Lo dico perché l’ho veri-

ficato di persona quando mi sono trovata al centro diuna vicenda che mi ha coinvolta come medico e altempo stesso come parente. Marilina, una mia carissi-ma amica di Piacenza, viene ricoverata d’urgenza all’o-spedale di Cremona (unica rianimazione libera) per larottura di un aneurisma e finisce in morte cerebrale.Dopo un giro di telefonate, fra amici e parenti siamotutti al suo capezzale. L’anestesista parla chiaro: “Nonc’è più niente da fare. Puoi però provare a capire se c’èla disponibilità dei parenti a donare”. Io, che da annimi occupo di trapianti di midollo (e quindi da vivente),per la prima volta mi trovo a che fare direttamente conla donazione da cadavere. La situazione è molto diver-sa da quella che sono abituata ad affrontare: nel tra-pianto di midollo il donatore ha tempo per pensare alda farsi, qui i parenti vivono il dramma del luttoimprovviso e devono decidere in poche ore. Eppureecco che la decisione dei parenti matura in poco tempoe con grande serenità: Marilina, che aveva semprespeso la sua vita generosamente, l’avrebbe fatto anco-ra donando i suoi organi. Cosa aveva facilitato questopasso? Il fatto che tutte le persone che erano oradrammaticamente accanto a Marilina, tra cui io, aves-sero precedentemente fatto esperienza di una grandegioia: un’altra comune amica, Giuliana, che dopo ilmatrimonio aveva scoperto di essere portatrice di unagravissima insufficienza renale, dopo lunghissimi annidi attesa, aveva finalmente ricevuto un rene, godeva diottima salute e addirittura era anche riuscita a diven-tare madre di una splendida bambina. L’esperienza dibene accaduta a Giuliana aveva convinto tutti dell’op-portunità di donare. E così vedere Marilina che dallarianimazione entrava in barella, come un qualunquepaziente, nella camera operatoria e da qui ritornavadopo il prelievo, è stato qualcosa che difficilmente riu-scirò a scordare. Il primo pensiero è stato : “Ha vera-mente dato tutto di sé, come mai avrebbe immagina-to”. Era impossibile, guardandola, non avere in mentele sei persone che avevano ricevuto da lei una nuovasperanza di vita e che in quel momento erano proba-bilmente colme di gratitudine. Generosità personale, solidarietà verso il prossi-mo, dono di sé commosso: quale di questi atteg-giamenti sta all’origine di un gesto di donazione ecosa invece lo ostacola?Nessuno dei tre. Credo di aver spiegato con il raccon-to precedente che a suscitare la dinamica sia l’affezio-ne all’altro, la gioia di affermare l’altro più di se stessi,tipico compimento dell’antropologia umana. Una voltauna donatrice (di midollo), prima di compiere questogesto, ha detto: “Adesso, quando vado in bicicletta fac-cio attenzione perché per la prima volta la mia vita èimportante non per me ma per qualcun altro”.Purtroppo questa dinamica naturale dell’uomo non è

facilitata dal contesto sociale in cui viviamo, che deviaquesta esperienza radicale di soddisfazione su idealieffimeri e illusori, come il mito dell’eterna giovinezzaconquistabile in palestra. Il principale ostacolo credodunque sia di natura culturale. Per quanto riguardapoi il prelievo da cadavere, credo ne esistano anchealtri, più concreti, legati alla percezione del fenomenoda parte dei parenti: da un lato il fatto di non poterportare subito a casa il congiunto, dall’altra la scarsaaccettazione che il cadavere della persona cara vengatoccato, sia pure chirurgicamente (un po’ come capitaper l’autopsia) . A queste due difficoltà ne aggiungereiuna terza, più individuale, che a mio parere rende pocopercorribile la strada del pre-consenso: una radicaleimpossibilità per l’uomo di pensare a se stesso come “morto” (e soprattutto a seguito di una circostanzaimprovvisa). Lo dico perché ho visto pazienti contumori allo stadio terminale che fino all’ultimo attri-buivano la colpa del loro star male al risotto che ave-vano appena mangiato!! A volte sulla inclinazionestrutturale dell’uomo a dare il proprio “sì”, può pre-valere la paura, un sentimento naturale di cui occorretener conto e rispetto al quale gli operatori possonosolo dire, con delicatezza, le ragioni dell’importanza didonare. Il passo poi è lasciato alla libertà del singolo,libertà che - come suggerisce giustamente la Chiesa -va sempre salvaguardata, perché ci può essere anche lapersona che non se la sente di fare questo tipo di scel-ta e non per questo va colpevolizzata. Molti dei trapiantati che ho incontrato mi hannodetto: “Questa esperienza o ti allontana dalla fedeo ti riavvicina”. E’ d’accordo?In vent’anni che faccio questo lavoro dico sempre aimiei pazienti: “La malattia ricorda a tutti che la vitanon ce la diamo da soli, Qualcuno ce la dà e alloraprima o poi dobbiamo renderla. Il problema da porsi èdunque chiedersi cosa sia questa vita che abbiamo trale mani”. La malattia, come esperienza di limite, non fache riporre questa domanda a cui di solito tendiamo asottrarci. E questa sollecitazione, che sembra una feri-ta, può incredibilmente essere l’inizio di una possibi-lità di verità e bellezza: da quel momento, così dram-matico, si cominciano a guardare le cose solite inmodo nuovo, con delle domande inconsuete fino a pocotempo prima: io, la mia vita, gli altri, il mio destino. Illimite riavvicina dunque tutti, medico e paziente, nontanto al credo generico in un Dio remoto, ma all’inna-to senso religioso fino alla domanda di una Presenzache dia significato alla vita e alla morte, alla gioia e allasofferenza, come Papa Woityla ci ha magistralmenteinsegnato. Per il medico che voglia tenerne conto, que-sto riconoscimento ha delle implicazioni non indiffe-renti, che rendono tuttavia il suo lavoro cento voltepiù bello. Innanzitutto la malattia del paziente viene

vissuta come l’occasione di un rapporto fra due perso-ne che hanno le stesse domande e che, essendo seria-mente impegnate nella ricerca delle risposte, ciascunaper la sua parte, possono proprio per questo aiutarsi.Al di fuori di questa prospettiva, il lavoro del medico -soprattutto in un settore così cruciale come quello deitrapianti - si riduce nel migliore dei casi al tentativodi spostare un po’ più in là il limite, generando due solipossibili atteggiamenti: o il delirio un po’ ridicolo dionnipotenza che funziona finché non si sbaglia o ilpanico paralizzante perché ci si sente perennementeinadeguati al proprio compito. L’esito è una tristezza,che si cerca di censurare vivendo le proprie giornate dilavoro con il pensiero di andare al più presto in vacan-za. Viceversa c’è una seconda implicazione positivaper chi accetta la sfida dell’evangelico “Ama il prossi-mo tuo come te stesso” (e per amare un altro occorreessere appassionati alla propria vita, tesi alla ricercadel suo significato): si chiama imprevisto. La realtà tisorprende sempre, accadono infatti cose che ti cambia-no la giornata; la tua giornata e la tua vita.Che cosa intende dire con questa affermazione?Perché sia più comprensibile provo a raccontare unepisodio che mi è capitato. Anastasia era un casograve, costantemente a rischio di emorragia per via diun numero bassissimo di piastrine e non trapiantabile.Una mattina telefona in reparto dicendo che non civede più. La sollecito a venire subito in ospedale,sapendo che con una emorragia retinica non c’è tempoda perdere e la indirizzo dall’oculista. MentreAnastasia viene visitata, insieme ad alcune infermieremi dirigo in cucina a bere il caffè e lì trovo delle brio-ches. Nessuno ha idea di chi le abbia portate, solo piùtardi si scoprirà essere stata Anastasia. Pur sapendodi essere in pericolo - pensiamo a come in questesituazioni uno sia tutto preoccupato di sé - questaragazza si era fermata lungo la strada per l’ospedale alsolo scopo di comprarci qualcosa che poteva farci pia-cere. Commossa, quel giorno non ho potuto fare ameno di commentare con le mie infermiere: “Oggiabbiamo avuto la nostra bella lezione: Anastasia ci hainsegnato che l’esperienza fondamentale della vita èdonarsi, che si è felici nel fare questo gesto!!”. Ma percapirlo bisogna essere disposti ad accettare l’incontrocon una novità inattesa, quella che ti si presentadavanti attraverso le persone che sono in reparto adattenderti e che hanno magari appena accusato l’urtodi una diagnosi che lascia poche speranze. Ti accorgibenissimo quando apri la porta dell’ambulatorio conquesto desiderio o quando invece prevalgono le preoc-cupazioni!! Eppure è solo quando accetti questa aper-tura impegnativa che incontri veramente il malato, lesue caratteristiche, la sua famiglia. E’ il gioco dellalibertà: devi decidere ogni volta se fartene carico o no,

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se implicarti o no fino in fondo con quella personaprecisa che ha quel grido preciso nel cuore, spessosoffocato ma presente: “Perché proprio a me?”. Ognigiorno, quando il paziente varca la porta del reparto eattende dal trapianto una possibilità di guarigione,ripropone a noi la scelta fra l’essere “gentili “ o lostare di fronte seriamente al suo dramma(con l’acutachiarezza che solo transitoriamente non è il nostro!).Assumere questa posizione ha un costo, perché signi-fica che il “caso x” diventa un volto, unico e irripetibi-le, a cui non puoi più dedicare dieci minuti frettolosi.Optare per questa strada è tuttavia pacificante. Lacoscienza di servire, con tutto il cuore e con tutta lacompetenza, chi hai davanti libera infatti dalla presun-zione di ottenere sempre i risultati voluti e permette diaprirsi alla bellezza che accade in ogni istante, anchequando non coincide con quello che si era immagina-to.Cosa significa concretamente che il paziente iniziaun percorso?Che ci sono una serie di tappe in cui viene accompa-gnato dall’equipe medico-infermieristica che lo hapreso in cura. Qui al Centro trapianti ad esempiovediamo i donatori e i pazienti prima del trapianto peruna serie di esami e valutazioni, poi durante il tempodel ricovero in camera sterile per il trapianto e poianche a trapianto avvenuto perché continuiamo aseguirli periodicamente in ambulatorio. Il cammino diconoscenza reciproca è dunque lungo e questo tempoprivilegiato è per entrambi una grande opportunità dicambiamento, nonostante momenti terribilmente cru-ciali come quello del consenso informato Perché si tratta di un momento difficile?Perché è la fase in cui il malato deve decidere di corre-re un rischio di morte per tentare di guarire. E’ quin-di una situazione delicata in cui si fronteggiano duelibertà, quella del medico che spiega quanto sianoragionevoli i rischi da correre e quella del paziente chedeve valutare se affrontarli oppure no. Entrambi sonogli attori di una scelta, attraverso la quale - uniti inun’alleanza terapeutica - capiscono di più chi sono ecosa vogliono. Se dovessi infatti limitarmi a esporre aimiei malati l’entità della decisione da prendere solo inpercentuali, francamente come professionista mi sen-tirei a disagio, perché quando è in gioco la vita di unapersona le percentuali sono una approssimazione trop-po dolorosa. Infatti, quand’anche le previsioni desseroil 99% dei vantaggi e l’1% di rischio non potremmomai dire con certezza dove potrebbe andare a collo-carsi quel particolare paziente che ho di fronte. Almomento della firma allora dico sempre: “Per quantosi possano fare tutti i conti, la vita non si può misura-re in questi termini. Io stessa domani , alla faccia ditutte le percentuali, potrei morire di infarto (e non è

nemmeno così improbabile, visto il tipo di vita checonduco). Questo sta a significare che per fortuna lavita non è nelle nostre mani e, siccome non ho moti-vo di pensare che Chi ce l’ha data voglia farci deidispetti, non ci resta che affidargliela”. Il risultato? Lagente, capendo che non è sola di fronte al rischio, chechi gli ha detto queste parole è disposto a portare conlei tutto il peso della fatica, mette la firma e al tempostesso si sente sollevata perché il livello che le vieneprospettato è più vivibile di qualsiasi arido calcolodelle probabilità. Curare credo sia questo “prendersicura” dell’altro, accompagnandolo a guardare i fran-genti più drammatici con occhi rinnovati. Un “pren-dersi cura” che è sempre possibile, anche qualoravenisse meno ogni speranza di guarigione. Si assisteoggi ad uno strano fenomeno: tutti quei professionistiche fino ad alcuni anni fa erano scettici sulle tecnolo-gie trapiantologiche, oggi sono quelli che tratterebbe-ro tutti i casi disperati con questa modalità, senza per-ciò tenere presente la persona del malato nella suainterezza e unicità e dimostrando soprattutto di nonsaper stare di fronte a un uomo, quando si tratta diaccettare che non ci sia altro da fare che accompa-gnarlo a morire . Si tratta di un approccio ideologico,che fa perdere di vista quanto la malattia chiami tutti,medici e pazienti, a partecipare di una esperienzadrammatica ma straordinaria. Esperienza che si puòfare con verità umana solo se si rimane ben coscientiche si è servitori di un Disegno più grande e nonpadroni della vita.E cioè?Come dicevo prima, siamo tutti chiamati allo stuporedi un cambiamento che accade spesso davanti ai nostriocchi. La malattia, per quello che ho potuto vedere quial Centro, non è solo quella spaccatura terribile chesembra di colpo separarci dal mondo dei sani, ma untratto intenso della nostra strada, di cui abbiamo biso-gno a volte per ridestarci e che ci spinge a vivere lavita per quello che è realmente. Io posso dire di averdavvero assistito tante volte - durante e dopo il tra-pianto - a una nuova nascita dei miei pazienti. Nontanto alla ripresa della vita di prima ma a una nuovafecondità, unita alla consapevolezza che era stato ilgesto gratuito di un donatore a renderla possibile. Inquesto senso ritengo che fare il medico, anche in que-sto campo così complesso, sia una grande fortuna, dauna parte per la possibilità di partecipare attivamen-te a questo tempo intenso della vita di un uomo, che èla malattia e dall’altra per il fatto di essere costante-mente richiamati al positivo anche in questa esperien-za drammatica del limite. Ne abbiamo tutti un granbisogno, noi che, come tutti, sentiamo così facilmentenemico tutto ciò che non va secondo i nostri piani.

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Ènoto che il diabete mellito, nei Paesi industriali e maggior-mente sviluppati, rappresenta una malattia assai diffusa e perlo più misconosciuta, soprattutto nella popolazione adulta.Essa è legata in parte a fattori genetici di predisposizionefamiliare, ma associata a iperalimentazione e obesità. Perquesto è ritenuta una malattia propria del benessere.

Il diabete mellito è così chiamato in quanto è caratterizzato da un eccessodi zuccheri nel sangue, anche a digiuno (iperglicemia) con facile perditadegli stessi con le urine, quando i valori di glicemia sono particolarmenteelevati (glicosuria) e superano la soglia del filtro renale.È una sindrome: cioè le cause prime di malattia possono essere diverse,anche se le manifestazioni cliniche sono simili.La iperglicemia è legata a una ridotta secrezione di insulina, oppure a unaincapacità della stessa a utilizzare (metabolizzare) gli zuccheri (carboidrati)soprattutto a scopo energetico: cioè fornire energia all’organismo.Il diabete è associato ad alcune complicazioni acute anche molto severe comela chetoacidosi e il coma diabetico, ma anche a numerose complicazioni tar-dive, che cioè compaiono dopo anni dalla scoperta della malattia: tra le piùfrequenti, alterazioni della retina (retinopatia diabetica) che porta a disturbidella vista finanche alla cecità, alterazioni della funzione renale (nefropatia

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diabetica); ateroschlerosi delle coronarie e maggior esposizioni al rischio diinfarto miocardico, angina di petto, scompenso cardiaco, aterosclerosi cere-brale e degli arti inferiori, ecc.Il diabete mellito è dovuto alla associazione di fattori genetici di predisposi-zione familiare, ambientali (abitudini errate, obesità, forse alcune infezionivirali soprattutto nell’infanzia). Si distinguono solitamente tre gruppi didiabete mellito:1) diabete mellito di tipo I o insulino-dipendente: che cioè è legato a scarsa pro-duzione ed escrezione di insulina da parte delle cellule beta del pancreas. Piùfrequentemente compare nell’infanzia e nell’adolescenza, prima dei trent’an-ni; non si associa in genere all’obesità, è tendente alla chetoacidosi e al comadiabetico, necessita assolutamente di somministrazione di insulina anche piùvolte al giorno. Pure nell’adulto e nell’anziano può esservi necessità di som-ministrazione di insulina nelle fasi avanzate di malattia. È legato alla distru-zione selettiva fino all’80-90% delle cellule secernenti insulina del pancreas(cellule beta delle isole del Langherans), distruzione geneticamente deter-minata e su meccanismi di auto-immunità specifica. Vi sono anche i segni diinfiammazione a carico delle cellule insuliniche. Di regola la comparsa èimprovvisa, anche se in alcuni pazienti ha un andamento più mascherato emeno acuto. Alterazioni cromosomiche specifiche (a carico del cromosoma6) sono state osservate in alcune popolazioni (caucasiche). Ma solo nel 10-12% dei casi si è potuto dimostrare la contemporanea presenza di un paren-te di primo grado affetto da diabete mellito. Si è osservata la comparsa didiabete mellito dopo alcuni mesi in giovani colpiti da morbillo, rosolia, viro-si da cocxaki; sembra che queste infezioni virali favoriscano i meccanismiautoimmuni di distruzione delle cellule secernenti insulina.2) Diabete mellito di tipo OO non insulino dipendente: è il diabete che comparepiù frequentemente in età adulta; è frequentemente associato ad obesità, nonsviluppa facilmente la chetoacidosi e il coma, se non in casi di diabete seve-ro non trattato farmacologicamente. Anche in questo caso vi è una predi-sposizione familiare. In questi pazienti l’insulina può essere secreta in con-dizioni sufficienti, oppure si ha una secrezione ritardata o diminuita anchedopo somministrazione di carico di glucosio. Vi può essere sia una alteratarisposta secretoria di insulina, sia una diminuita attività metabolica dellastessa, come avviene negli obesi, talora anche per predisposizione genetica.Malgrado gli alti valori di glicemia nel sangue e la presenza di insulina, viè una diminuita capacità dell’ormone a limitare la dismissione di glucosiodal fegato (organo di deposito degli zuccheri sotto forma di glicogeno) e distimolarne la captazione ad esempio da parte dei muscoli schelettrici (insu-linoresistenza). Sono questi due dei fondamentali meccanismi di regolazio-ne del glucosio plasmatico. La iperglicemia a lungo andare sembra avere uneffetto “tossico” a carico delle cellule pancreatiche produttrici di insulina.Tale meccanismo spiegherebbe la necessità di insulinoterapia in alcuni dia-betici cronici anziani. Che l’obesità sia un fattore determinante importantelo dimostra il fatto che dopo significativa riduzione del peso corporeo aseguito di dieta ipocalorica equilibrata, spesso si osserva una ripresa dell’at-tività di secrezione insulinica da parte del pancreas così da poter ridurre osospendere la terapia con insulina stessa.3) Diabete mellito gravidico: si manifesta durante la gravidanza; colpisce circail 3% delle gestanti; è più frequente nelle obese. È questa una situazione cli-nica delicata, che richiede un attento controllo, perché in caso contrariopotrebbero sorgere seri problemi a carico della madre e del nascituro.Ma quali sono i sintomi che possono far pensare ad un diabete mellito?Di regola il paziente colpito dalla malattia accusa una intensa sete, tale da

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indurlo a bere molto frequentemente(polidipsia), accompagnata da fre-quente bisogno di urinare (poliuria).Infatti l’organismo cerca di eliminarelo zucchero presente in alta dose nelsangue (iperglicemia), diluendolo edeliminandolo poi con le urine (glicosu-ria).Il paziente diabetico tende a perderepeso; è più facilmente esposto alleinfezioni; le ferite guariscono con piùdifficoltà. La polidipsia e la poliuriasono i segni più frequenti all’insorge-re della malattia nei bambini e nei gio-vani. Negli adulti, soprattutto se insovrappeso od obesi, la malattia è piùsubdola e il suo riconoscimento avvie-ne di solito in occasione di esamigenerali di laboratorio per vari motivi(previsti interventi, malesseri in gene-rale, controlli periodici, ecc.). In casiparticolari la malattia viene diagnosti-

cata quando già vi sono complicanze anche severe. Quelle più terribili edacute sono la chetoacidosi diabetica che, se non prontamente corretta, puòsfociare nel coma diabetico. La chetoacidosi è legata al mancato controllo daparte della insulina della normale trasformazione ed utilizzo degli zuccherie dei grassi a scopo energetico (metabolico). Ciò può accadere per mancan-za o insufficiente quantità di insulina prodotta, come nel diabete giovanile, oper incapacità della insulina a svolgere la sua specifica funzione. Vi è quindil’accumulo nel sangue di scorie tossiche (ac. Acetacetico e betaossibutirrico)cui conseguono disturbi respiratori e renali che, inizialmente, hanno comescopo il tentativo di eliminare per via respiratoria o renale le scorie stesse.Lo stato di coma è assai pericoloso per la vita del paziente e va quindi cura-to in ambienti idonei e il più prontamente possibile. Questa complicanzaacuta è più frequente nel diabete giovanile.Il diabete causa nel tempo altre temibili complicanze, cosiddette tardive, cherappresentano delle cause di invalidità tra le più frequenti. L’infarto del mio-cardio, come in genere l’aterosclerosi sia delle coronarie, che cerebrale erenale, ha una maggior alta incidenza nel diabetico rispetto al soggetto nor-moglicemico. Se poi si associano al diabete il fumo di sigaretta, l’ipercole-sterolemia, la vita sedentaria, l’ipertensione arteriosa, il rischio di incorrerein un disturbo cardiaco ischemico, cerebrale, degli arti inferiori o in unainsufficienza renale risulta enormemente elevato.Ovviamente queste poche note sul diabete non escauriscono un problemaclinico e sociale molto complesso; servono a mettere in guardia tutti noi suun aspetto della sanità di cui la popolazione in generale non è ancora suffi-cientemente sensibilizzata. Si calcola che il 50% del diabete degli adulti nonè riconosciuto se non quando vi siano già i segni di compromissione di alcu-ni organi bersaglio (cuore, reni, retina, ecc.).Alcune nozioni ed alcune raccomandazioni quindi possono essere utili atutti.Innanzi tutto, in particolare se vi sono casi di diabete nei propri familiari, sesi è in sovrappeso, sarà bene controllare periodicamente la glicemia, cioè iltasso di zuccheri nel sangue. I valori ottimali si collocano al di sotto di 110

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mg % a digiuno. Nel dubbio una prova da carico di glucosio potrà megliochiarire il quadro.Se un bambino o un giovane sotto i 30 anni improvvisamente avverte unasete fastidiosa e il frequente bisogno di urinare, è bene pensare al diabete efar eseguire prontamente una glicemia ed una glicosuria. Non infrequente-mente questa sintomatologia compare dopo alcune settimane di una malat-tia virale (rosolia, morbillo, ecc.)Questi esami vanno praticati anche in caso di banali ferite che guarisconocon difficoltà, se si osserva una perdita di peso ingiustificata ecc.Una misura utile a tutti è quella di praticare una dieta giusta, rapportata altipo di lavoro che si svolge (faticoso o sedentario), al sesso e all’età.Mantenere un giusto controllo del peso corporeo è una misura fondamenta-le non solo per la cura del soggetto diabetico noto, ma anche del sano. Si puòmangiare bene e con piacere anche senza abbuffarsi. Che la dieta nel diabe-tico sia fondamentale, lo dimostra anche l’osservazione che nel diabete degliobesi una riduzione del peso corporeo entro limiti accettabili si accompagnaa un miglior controllo della glicemia e ad un rallentamento delle compli-canze.Il diabetico deve essere persuaso che la medicina prima della cura del diabe-te dell’adulto (II tipo) è la giusta dieta. I farmaci ipoglicemizzanti, che abbas-sano cioè la glicemia, sono utili ma solo se affiancati alla giusta dieta. È veroche il diabetico è sempre affamato di zuccheri e che quindi tende a non segui-re il regime dietetico consigliato, ma questa è l’unica strada corretta e utile.Nel diabete giovanile l’unico intervento utile è la somministrazione di insu-lina, con dosi molto personalizzate e sotto stretto controllo del medico spe-cialista diabetologo.Un utile ausilio per il controllo del diabete mellito è rappresentato anche dauna moderata attività fisica, regolarmente svolta; questa aiuta a megliometabolizzare gli zuccheri e a mantenere un peso corporeo più opportuno.Queste brevi note penso possano essere utili al lettore non solo come fattoculturale, ma anche come regola di vita.

Dott. Gaetano Bianchi

Il diabetico deve essere persuaso che la medicinaprima della cura del diabete dell’adulto (II tipo) è lagiusta dieta. ”“

“Vorrei infine ricordare coloro a cui,durante tutti questi anni di successi,non siamo riusciti a trovare un fegato

e che quindi sono morti in lista d’attesa; vorreiricordare anche tutti quelli che sono morti duran-te l’intervento e che quindi non siamo riusciti asalvare; e vorrei ricordare anche un caro amicoscomparso prematuramente con cui ho condivisouna parte di questo cammino”. Conclude così ilsuo discorso, visibilmente emozionato, il dott.Michele Colledan, responsabile dei trapianti degliOspedali riuniti di Bergamo, durante la festa peril cinquecentesimo trapianto di fegato della pre-stigiosa Azienda Ospedaliera Bergamasca la seradel 10 gennaio al Teatro Donizetti di Bergamo. Una carriera ricca di successi, da quando insiemeal dott. Bruno Gridelli e al dott. MarioStrazzabosco, ha costituito quella fantastica équi-pe che, dopo poco tempo dalla nascita, iniziò subi-to la pratica del trapianto di fegato, azzerando incirca un anno la lista d’attesa per il trapiantopediatrico grazie all’allora nuova tecnica dellosplit (con la quale un fegato viene separato in duemetà che vengono utilizzate per il trapianto indue pazienti distinti), oggi ben conosciuta e per laquale si può dire che Bergamo ha fatto scuola.Una équipe che ha bruciato le tappe e ha saputorinnovarsi restando a livelli di assoluta eccellenzanonostate la partenza del dott. Gridelli prima edel dott. Strazzabosco l’anno scorso. Ma nono-stante l’inattaccabilità di una esperienza che ha

per-messoa centi-naia di bam-bini di rinascere etornare ad una vita norma-le, il nobile pensiero va a coloro che non ce l’han-no fatta; una testimonianza del fardello che ognigiorno carica le spalle del dott. Colledan al qualeporgiamo la nostra massima gratitudine per ilnon sentirsi appagato. Anche noi come lui cirispecchiamo nel rispetto e nel dolore che ognisconfitta porta con sé. E anche se non possiamofarcene una colpa, vogliamo caricarci di questopeso per riuscire, se è ancora possibile, a fare dipiù, nonostante le difficoltà che ogni giorno ci fre-nano.Le sue parole sono seguite da alcuni brani musi-cali eseguiti dalla Filarmonica Mousikè quindi è ilmomento delle premiazioni. Tre riconoscimentiper tre medici che hanno saputo dare molto,anche dal lato umano, al mondo della medicina. Enoi speriamo che la loro esperienza possa conti-nuare a dare speranza a tutti coloro che sono inattesa di un trapianto.

Paolo Seminati

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500ma non solo...

Chi non ricorda Rain Man? Lamagistrale interpretazione diDustin Hoffman nei panni dell’au-tistico Raymond valse all’attore unmeritato Oscar e alla pellicola un

imperituro successo. Il film che, realizzato con loscopo di raccogliere fondi per Autism Europe, sicu-ramente contribuì a focalizzare l’attenzione delmondo sul problema, ha cristallizzato tuttavianella memoria collettiva un’immagine di autismo“sapiente”, corrispondente a una percentuale assaiesigua di casi. Da allora sono trascorsi quasivent’anni e le stime epidemiologiche calcolano cheil numero dei bambini affetti da questo distubo siadi uno su 500 nati. Benché dunque sul grandeschermo non se ne sia più parlato, se non in modomarginale, il problema sussiste e in misura mag-giore di prima. L’unico vantaggio rispetto al pas-sato è che forse lo si conosce di più. Si è superato ad esempio il grande equivoco deglianni’60, originato dalle teorie freudiane: si riteneva infatti che tale sindrome derivasseda un disagio psicologico (imputabile in particolare alla madre), cosa che implicava l’u-tilizzo del tutto inefficace di metodologie psicoterapeutiche. Oggi si sa invece che l’auti-smo (vedi pag. 19), di probabile eziologia multifattoriale, è un disturbo generalizzatodello sviluppo che si manifesta in ogni area funzionale della persona per tutto l’arcodella sua esistenza. Come tale necessita di una presa in carico globale e continuativa,rispetto alla quale il programma Teacch, inventato negli anni ‘60 dal prof. Eric Schopler(vedi pag. 20), si è dimostrato una fra le metodologie più efficaci . Quello che tuttavia lestatistiche non riferiscono e la cinematografia non racconta è la vita reale dei bambiniautistici e delle loro famiglie, compromessa nella sua qualità da una patologia tantoinvalidante. Provate a immaginare di trovarvi sperduti nell’aeroporto di un Paese stra-niero di cui non riuscite a decodificare la lingua, circondati da chi insiste - inutilmente- a gesti e a parole, nel tentativo di farsi capire da voi. Come vi sentireste? A dir pocosmarriti, spaventati, frustrati. Ebbene, questa è la condizione drammaticamente para-dossale che si trova a vivere un bambino autistico: la realtà vista come rebus indecifrabi-le. Provate ora a cambiare prospettiva, supponete per un istante di essere i genitori diquel bambino che non sorride, non ricambia il vostro sguardo, evita il contatto fisico,fatica a parlare o ripete sempre le stesse frasi, urla o diventa aggressivo ogni volta che sisente minacciato o viene cambiata una sua abitudine, per dire soltanto alcuni dei sinto-mi che tale sindrome, con variabili modalità e gravità diverse, comporta. Non sareste

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AUTISMO

Quello chei film

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forse presi da sconforto di fronte a questa creatura che sentite totalmente indifesa e altempo stesso impenetrabile, chiusa nel suo mondo, un mondo di cui qualcuno sembra averbuttato via la chiave d’accesso? Probabilmente sì. Eppure c’è chi non si arrende: madriche, nonostante duri momenti di crisi, considerano positiva la loro esperienza con unfiglio autistico, professionisti sanitari mossi nel loro lavoro dalla passione verso ilMistero che questi bambini rappresentano, educatrici che si dicono cambiate dal fatto di

avere avuto l’opportunità di curarli. Perché conviverecon l’autismo si può, ma viverlo con amore è tuttaun’altra cosa.

“Se cercate qui gli “autistici intelligenti” temo didovervi dare una delusione. I miei bambini rag-giungono a mala pena un q.i. di 30 e non riesco-no a rispondere alle domande più elementari. Illoro livello di gravità, pur variando da un sog-getto all’altro, è mediamente elevato e se arriva-no da noi è perché i genitori sono disperati”. Adescrivere la situazione è la Dr.ssa TinaTomasini, da dieci anni Direttrice dell’IstitutoVilla S. Maria di Tavenerio in provincia di Como.Stereotipie molto accentuate, frequenti compor-tamenti aggressivi e autolesionistici, scarso con-trollo degli sfinteri, linguaggio pressoché inesi-stente sono solo alcuni dei tratti che caratteriz-zano il livello di autismo di questi bambini, scon-certanti per chi li osserva. Con un simile quadroci si aspetterebbe un intervento molto medica-lizzato. Niente di più falso, perché la filosofia chepersegue l’Istituto fa, ad esempio, dell’uso dellafarmacologia l’estrema ratio. Qui vige piuttostoun programma educativo individuale, struttura-to secondo l’approccio Teacch (vedi pag. 20) efondato sullo sviluppo delle capacità cognitivedel bambino. L’intervento è dunque personaliz-zato, modulato cioè - attraverso una precisa seriedi attività educativo-riabilititative - sul soggetto,che viene preso in carico e condotto gradual-mente ad una progressiva autonomia. “Di sche-matico non c’è assolutamente nulla, si parte piut-tosto da un dato di osservazione, il primo stru-mento che utilizziamo per conoscere il nostroospite, parallelamente alle informazioni sulla suastoria che ci forniscono i genitori”. Nessunaricetta preconfezionata dunque, ma di base unagrande attenzione a ogni singolo bisogno, ognisingolo dettaglio del bambino, che si estendeanche alla sua dimensione familiare. “I genitoriche ascoltiamo durante il primo colloquio sonotutti molto provati; spesso si tratta di personeche, non riuscendo a reggere l’impatto distur-bante della patologia, hanno abdicato al lorocompito educativo. Noi ripartiamo proprio daquesto punto, una educazione strutturata chepassa attraverso l’approccio affettivo”. E lo si

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Istituto Villa Santa Maria

Villa Santa Mariaè un bellissimoedificio del ‘700

appartenuto alla fami-glia Porro Lamberten-ghi e ceduto nell’imme-diato dopoguerra allaCuria di Como che nefece un Istituto per lacura dei “bambini biso-gnosi”. Caratterizzatosinel tempo come IstitutoPsico-medico-pedago-

gico rivolto a quelli affetti da handicap mentali medio-gravi opatologie genetiche non ancora comprese, è oggi una struttu-ra sanitaria accreditata con due specifiche funzioni, distinte mainteragenti fra loro: quella di Residenza Sanitaria per Disabili equella di Centro Diurno di neuropsichiatria infantile, che lo qua-lificano a tutti gli effetti come luogo di cura e riabilitazione. Alsuo interno si trova una Scuola statale a carattere Speciale(18 insegnanti per 40 alunni dai 6 ai 18 anni). La struttura acco-glie in tutto 70 bambini, 35 interni in regime di residenzialità e35 esterni in condizioni di diurnato. Entrambi accedono sia atutte le prestazioni sanitarie, neuropsichiche, socio-assisten-ziali, educative e riabilitative offerte, sia alle attività didattichedella Scuola. Le une e le altre vengono erogate attraverso unprocesso di massima integrazione e programmate a rotazione.Ciò significa che il tempo della didattica viene alternato sia atrattamenti di natura riabilitativa (psicomotricità, logopedia,supporto psicologico ecc.) sia al trattamento educativo indivi-duale, strutturato secondo l’approccio Teacch. Al fine cioè dicompiere un lavoro cognitivo individualizzato, ogni mattina cia-scun bambino rimane impegnato con il proprio educatore perun tempo programmato, diversificato e stabilito in base alleindividuali capacità attentive. Durante questo periodo, al sog-getto vengono proposte diverse attività, specificamente adatta-te al suo stile di apprendimento e proposte secondo un approc-cio visivo. Il bambino impara ad esempio a coordinare abilitàvisive con abilità motorie, a classificare oggetti e forme, a farnesemplici abbinamenti; ma non mancano anche esercizi perfavorire la comunicazione verbale e non verbale, alternati adattività di laboratorio (pittura, cucina, musica, canto) per l’ac-quisizione delle abilità sociali. All’interno dell’Istituto i piccoliospiti, suddivisi per competenze ed età, vengono distribuiti ingruppi diversi (scoiattoli, primule, alpini), ognuno dei quali con-sta di 6 bambini e 2 insegnanti. Gli orari di ingresso e di uscitasono adeguati alle esigenze lavorative dei genitori: il primobambino arriva alle 7.15, l’ultimo se ne va alle 19. Sono inoltreprevisti “ricoveri di sollievo” per gli esterni e soggiorni estivi, almare o in montagna, in cui i bambini sono assistiti dallo stessopersonale che li ha in cura presso l’Istituto.Per informazioni: Istituto Villa S. Maria, Via IV Novembre 21 -22038 Tavernerio (CO). Tel. 031/426042.

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intuisce. Inutile dirlo, la Dr.ssa Tomasini stravede per i suoi bambini e loro perlei. “Sono reduce da un intervento di asportazione chirurgica di un tumore cheper alcuni mesi mi ha tenuto lontana dall’Istituto; il pensiero di rivederli mi hadato tanta forza e ora sono qui, un po’claudicante ma contenta di esserci”. In suaassenza, il giovane Claudio, uno fra i residenti più “anziani”, faceva capolino tuttii giorni nel suo studio a chiedere notizie. “I progressi che alcuni bambini hannofatto da quando sono in Istituto sono il frutto del lavoro di anni (anche due o tre,quando va bene). A volte può trattarsi dell’acquisizione di un piccola abilità cheper i “normodotati” è assolutamente quotidiana: mangiare con le posate, essereautonomi nell’igiene personale, allacciarsi le cerniere di un maglione. Anche lasemplice pronuncia del fonema pa per indicare la pastasciutta può essere ungrande successo per chi ha enormi difficoltà di linguaggio, esattamente comeriuscire a diminuire la successione dei comportamenti ripetitivi può essere unaconquista clamorosa per chi con quei rituali si difende dall’angoscia”. Un esem-pio di ri-educazione che ha portato a un miglioramento è Sonia, una bambinaestremamente aggressiva, capace - incredibile a dirsi - di sollevare, in unmomento di crisi, una lavapiatti da cinque chili e lanciarla dalla finestra. “Ilprimo passo è stato quello di disintossicarla dai farmaci, lasciandole solo unaterapia leggera; i diversi ospedali in cui era stata ricoverata avevano infatti uti-lizzato dosi massicce di sedativi, trattandola come un paziente psichiatrico eottenendo come unico risultato un effetto paradosso, ovvero un aumento dellasua eccitazione”. I primi sei mesi di permanenza sono molto difficili e la bambi-na passa da una stereotipia a un’altra: prima si strappa i capelli e se li mangia (eallora si interviene convincendo la mamma a farglieli tagliare), poi passa a lace-rarsi le magliette, infine- non contenta - i pantaloni. “Era arrivata a rovinarne30-40 al giorno, finché l’abbiamo aiutata a diminuire, anche col dirle che se liavesse rotti tutti, non glieli avremmo più comprati; a poco a poco quando arri-vava alle ultime paia, cominciava a rallentare”. Mentre soffocare i problemi conuna pastiglia è molto facile, la strada del metodo educativo, pur richiedendo undispendio non indifferente di energie, porta a risultati sorprendenti. Come nelcaso di Maurizio, “il mio unico bambino da film”, dice scherzando la Dr.ssaTomasini. Alle spalle una storia familiare drammatica, come quella di tanti altribambini dell’Istituto, 18 dei quali hanno un provvedimento del giudice tutelaredi allontanamento dai genitori. La mamma è una donna psichicamente compro-messa, con problemi di alcolismo che - ciò nonostante - ottiene, con la separa-zione dal marito, l’affidamento del bambino, senza occuparsene minimamente.P

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Autismo, questosconosciutoLa parola autismo, che deriva dalgreco autos (se stesso), venneimpiegata per la prima volta in psi-chiatria dal Dr. Bleuler per descrivereuno dei sintomi della schizofrenia, ilripiegamento su se stessi. A utilizzar-la con il significato attuale fu nel1943 Leo Kanner che parlò di “auti-smo infantile precoce” per identificareun complesso di sintomi presenti inun gruppo di 11 bambini. Oggi si dicepiù propriamente che l’a. è un distur-bo pervasivo dello sviluppo caratte-rizzato da deficit nelle seguenti aree:- interazione sociale: scarso interes-se nei confronti delle altre persone,assenza di sguardo diretto, fastidio opassività nel contatto fisico; scarsocontrollo delle proprie emozioni e dif-ficoltà a comprendere quelle altrui;preferenza per attività solitarie;- comunicazione: ritardo o totalemancanza dello sviluppo del linguag-gio parlato, a volte ecolalico o eccen-trico; incapacità di iniziare o sostene-re una conversazione; carenza diimmaginazione e assenza di giochidi imitazione;- comportamenti e attività: dedizioneassorbente a uno o più interessiripetuti e ristretti, anomali per inten-sità e focalizzazione; sottomissionerigida a rituali specifici; manierismimotori stereotipati; comportamentiaggressivi e autolesionistici.Il disturbo ha un esordio precoce (frai 18 e i 36 mesi di vita) e perduratutta la vita; nella popolazione pedia-trica ha una incidenza maggiore deldiabete, della spina bifida e della sin-drome di down.

(fonte: autismo italia)

Dialogando con la Dr.ssa Tomasini

A lezione in un’aula della scuola speciale

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Maurizio, un autistico con un discreto livello di comprensione, quando arrivaall’Istituto è in condizioni terrificanti: non mangia, non parla, defeca ovunque einghiotte i propri escrementi. La rieducazione inizia gradualmente: con lui,come con tutti gli altri, si cerca di stabilire prima un legame affettivo, poi otte-nuto anche un minimo contatto fisico - che normalmente viene rifiutato - que-sto diventa il primo gradino su cui costruire il successivo stadio del percorso: ilcontatto oculare. Parallelamente si procede con le attività riabilitative e quelleludico-ricreative scandite dall’agenda giornaliera, per facilitare l’emergere delleabilità cognitive inespresse (ad esempio il lavoro sulle forme, sulle lettere alfa-betiche, sui colori). “Oggi Maurizio è realmente un altro ragazzo - afferma sod-disfatta la Dr.ssa Tomasini - ha un discreta padronanza del linguaggio, il pienocontrollo dell’igiene personale e una buona capacità di apprendimento. Se tuttova bene, probabilmente a breve riusciremo a inserirlo in una scuola elementarepubblica e forse tra non molti mesi potrà anche tornare a casa, visto il suo gran-de bisogno di una famiglia. Il padre ha infatti ripreso i rapporti con il bambinoe, adeguatamente motivato, è tornato a coinvolgersi con lui, dimostrando divolergli un gran bene”. E poi c’è Giuseppe che mangiava solo con le mani, but-tando per terra qualsiasi genere di recipiente. Un banco di legno, con inchioda-to il piatto, appositamente studiato per andare incontro alla sua difficoltà, lo haaiutato ad apprendere una modalità diversa. “Con Dario invece abbiamo ottenu-to piccoli miglioramenti sul linguaggio, facendo leva su un suo interesse.Chiedendo alla madre perché continuasse a disegnare strisce rosse e nere, abbia-mo scoperto che era un accanito tifoso milanista. Regalandogli la maglietta diKakà e utilizzandola come premio per ogni suo tentativo di profferire un nuovovocabolo, oggi Dario riesce finalmente a dire oltre a Milan, anche minestra,mamma e grazie. Una parola quest’ultima che, pronunciata per la prima volta acasa, ha fatto commuovere la madre del bambino per un’emozione che non avevamai provato”. Piccoli, quasi impercettibili passi agli occhi dei più, immensi per i genitori chequasi stentano a credere che i propri figli possano progredire. “Come ho dettoprima - prosegue la Tomasini - i nostri ospiti sono autistici gravi e il fardello cheportano queste famiglie nel prendersene cura è davvero inimmaginabile.Legami, spesso già labili prima della scoperta della patologia, si sfaldano deltutto. Le madri tendono a instaurare con i loro figli rapporti simbiotici di amore-odio, escludendo i padri, molti dei quali non reggono alla duplice pena dellamalattia del bambino e dell’isolamento a cui ci ha relegati la loro compagna,finendo con l’abbandonare l’uno e l’altra. Con una situazione così solo i santi nonandrebbero in crisi! E infatti si incontrano uomini e donne che dimenticano diessere una coppia, che da anni non possono più concedersi una serata da soli, chefanno fatica ad occuparsi degli altri figli quando ne hanno”. L’idea di poter offri-re un sollievo a genitori duramente messi alla prova dalla malattia, chiariscebene perché Villa Santa Maria sia uno dei pochi Istituti dove i bambini vengo-no accolti anche per situazioni di emergenza della famiglia: la malattia di uno deiconiugi, un lutto improvviso, un imprevisto. Talora si tratta semplicemente dipermettere ai familiari di trascorrere una breve vacanza per ritemprare le forze.“La valenza sociale di un servizio va misurata sui bisogni a cui va incontro, nonsul suo statuto. Ci sono strutture che al sabato e alla domenica mandano a casai bambini, al pomeriggio non li tengono oltre a un certo orario, nei mesi estiviinterrompono il servizio. Trovo inconcepibile questa filosofia, perché le esigen-ze di questi bambini, le gravi problematiche di gestione che pongono ai genito-ri perdurano per tutta la vita, non sono archiviabili ad alcuni momenti dellagiornata o dell’anno. Motivo per cui abbiamo scelto di essere sempre aperti,anche a costo di grandi sacrifici finanziari per la struttura, come possono esse-re gli straordinari da retribuire alle educatrici. Questa misura ci consente tutta-

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Il programma Teacch

Inventato negli anni’60 da EricSchopler e sperimentato con otti-mi risultati negli USA, nel corso diquasi un lustro ha ridotto dal 90 al10% il numero degli autistici rico-verati in Istituto e ha portato alla

costituzione di classi speciali nellescuole pubbliche. Suo fine è lo

sviluppo del miglior grado possibi-le di autonomia nella vita perso-

nale, sociale e lavorativaConsiste in un sistema educativo,

in cui l’intervento non è di tipocomportamentale bensì struttura-le, capace di adattare l’ambiente

alla persona. Un quadro temporo-spaziale in cui i punti di riferimen-

to siano visibili e concreti, com-prensibili e prevedibili, costitui-

sce l’impalcatura del programma.L’ambiente viene strutturato con

spazi visivamente delimitati, ognu-no con la sua funzione contrasse-gnata da simboli di identificazione(uno dedicato al lavoro individua-le, uno al riposo, uno alle attività

di gruppo, uno al tempo libero)mentre l’organizzazione del tempoviene scandita da apposite agen-de, costituite da una sequenza di

immagini o parole ordinate dall’al-to verso il basso. Non appena ilbambino dimostra di aver conse-guito una certa padronanza degli

strumenti, gradualmente questivengono ridotti all’essenziale.

L’approccio è quindi molto pratico,tarato in funzione dei bisogni rile-

vati, olistico e anti-ideologico: siparte da dove il bambino è, per

portarlo fin dove può arrivare.Globalità e continuità sono i due

cardini del programma, che vienecostantemente riadeguato ad ogni

periodo della vita, per sempre.(fonte: autismo italia)

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Cvia di garantire prestazioni qualificate costanti e far fronte anche a improvvisenecessità. Quando un bambino deve essere ricoverato in ospedale, per accerta-menti o per un intervento, è nostra cura farlo assistere per tutto il tempo neces-sario da un’educatrice. Sappiamo bene infatti quanto un cambiamento diambiente possa essere molto destabilizzante per il suo precario equilibrio”.Aspetti organizzativi che spiegano il crescente numero di richieste di accessoall’Istituto, costantemente in aumento. “La fatica che sostengono le famiglie haanche un aspetto economico non secondario. Molti dei nostri bambini vengonoda città e paesi che non sono nel circondario e questo implica una spesa di tra-sporto in pulmino che è pari a circa 120 euro all’andata e 120 al ritorno. Chi, purlavorando, può permettersi una somma di questa entità? Così capita che moltimi chiedano di ospitare i loro figli in regime di residenzialità perché la retta gior-naliera, a carico del SSN, è meno della metà della suddetta cifra nel suo com-plesso. Il problema è che non ho più posto, ragione che mi ha spinto a chiedereall’amministrazione un ampliamento strutturale”. Per tutti i Giuseppe, Dario,Maurizio, Sonia che ancora attendono di essere accolti per iniziare un percorsodi riabilitazione e cura è una bella notizia. “Non posso permettermi di fermarmi- conclude la Direttrice dell’Istituto - Adesso come in passato, quando mi sonotrovata ad operare coi dializzati e i carcerati, mi ha sempre mosso un’unica pas-sione: quella per il Mistero che la persona è, specie se sofferente, specie se fragi-le e indifesa come sono i bambini, in particolare quelli autistici. In Maurizio e intutti gli altri da dieci anni vedo il volto buono di questo Mistero, che dà dignitàanche al più irrecuperabile di loro, un Mistero che è anche il motore delle miegiornate e la ragione delle mie battaglie, quelle che ad esempio ho dovuto soste-nere con alcuni medici per far capire loro che una pastiglia poteva anche servi-re ma non bastava a modificare i problemi. L’esito è il dilatarsi della misura delcuore e della mente e la riprova sono le mie educatrici, l’amore che mettono nelcurare i bambini. Un’apertura che richiede un unico requisito, possibile a tutti:il coraggio di sporcarsi le mani”.

La passione di un’educatrice

“Ho iniziato questo lavoro quasi per caso ma non credo lo barat-terei con nessun altro”. Ce lo racconta con enfasi TizianaSordi, educatrice del Centro per la cura e lo studio dell’auti-smo di Milano. Maestra d’asilo nel 1981 presso la scuolamaterna comunale “Pini Stefanardo” di Vimercate, Tiziana

comincia a conoscere l’autismo in questa struttura avendo in classe quattrobambini con questo problema. Qui incontra anche una collega “speciale” e dopoaver frequentato in sua compagnia la scuola ortofrenica (un corso di formazio-ne parauniversitario sulle varie tipologie di handicap), nell’83 ottiene insieme alei un incarico da educatrice presso il Centro. “Ormai sono più di vent’anni diservizio passati insieme al punto che ci basta uno sguardo per capire cosa nonva; forse è una rarità fra colleghi, ma io credo che a sviluppare questa sintoniamolto abbia contribuito questo tipo di lavoro. Bambini come quelli che abbiamoin carico, infatti, insegnano molto: prima di tutto a incrementare la capacità diattenzione ai particolari, a cogliere ogni sfumatura, perché usare un timbro diP

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Tiziana Sordi, educatrice del Centro per la cura e lo studio dell’autismo di Milano

Un’infermiera dell’Istituto Villa S. Maria accanto a un piccolo ospite

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voce o un altro, provare ad abbracciarli oppure no può scatenare reazioni impre-vedibili; in secondo luogo permettono di maturare una certa flessibilità perchéla modalità giusta per entrare in relazione con gli autistici è il frutto di unpaziente lavoro di adeguamento alle loro risposte, non sempre facili da identifi-care”. Cercare di migliorarne la qualità di vita - sembrano dirci le parole diTiziana - è dunque una grande occasione di crescita personale, innanzitutto perl’operatore. “Senza banalizzare, posso dire che devo a questi bambini il fatto diaver vissuto con più profondità il rapporto con le mie figlie e altri momentidrammatici della mia vita. Spesso mi sento dire: “Ma come fai a essere semprecontenta di lavorare?” Forse perché mi diverto. Non vorrei essere fraintesa,intendo dire che nel mio impegno a contatto con questi bambini non mi trat-tengo dal dare molto spazio all’allegria e alla creatività”. E ci racconta del trai-ning per preparare un bambino autistico a sostenere un elettroencefalogrammain ospedale. “Per abituarlo all’idea degli elettrodi, insieme ad altre strategie ado-perate, ho fatto il gioco di mettergli dei pezzi di lego in testa. Così quando siamoarrivati al momento fatidico, i medici mi hanno detto che neanche un normodo-tato si sarebbe comportato così bene”. Probabilmente il rischio di dare per scon-tate situazioni normali, con questi bambini si corre meno. “A volte mi sorpren-do a pensare quanto siamo fortunati a poter esprimere le nostre emozioni, acapire gli altri ed esserne capiti. Forse è per questo che molte mie preoccupa-zioni spariscono quando arrivo in sede. E non vuol dire che vada tutto bene,anzi. A volte ho davanti un bambino in difficoltà o una famiglia a pezzi, esatta-mente l’opposto di una circostanza tonificante! Credo in quello che faccio e cosìle persone che mi circondano. L’unica marcia in più che mi riconosco, e che giu-stifica la domanda degli altri sulla mia costante serenità, è l’aver trovato unarisposta alla sofferenza dei bambini che curo. Senza, avrei sicuramente fatto piùfatica”.

La positività di una mamma

“Federico è stato da subito un bambino anomalo, dai comporta-menti inusuali: aveva frequenti risvegli notturni, non parlava,tendeva a ripetere sempre lo stesso gioco, manifestava iperat-tività e non fissava lo sguardo. Tutti mi rassicuravano, dicen-domi che non c’era di che preoccuparmi - racconta Rosalia

Ceriani, caposala in una clinica odontoiatrica di Milano - ma io non ero affattotranquilla, anche perché avendo già un altro figlio notavo una preoccupantedifferenza”. Occorrono tuttavia cinque lunghi anni prima che quei sintomivengano ricondotti all’autismo. Si rivela decisivo l’appuntamento con il Dott. Micheli, allora coordinatore delCTR di Milano. “Fu il momento della diagnosi. Il medico ci confermò i nostrisospetti, spiegandoci al tempo stesso che avevamo tutti i mezzi per poter con-vivere serenamente con questa patologia”. Una drammatica liberazione, cosìdefinisce Rosalia quel momento. I dubbi venivano finalmente chiariti e con essiveniva archiviata anche quella sordida sensazione di inadeguatezza che i man-cati progressi di Federico con la pregressa terapia psicologica le avevano tal-volta trasmesso. “Qualcuno aveva finalmente capito la natura del problema, ora

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Centro per la cura e lo studio dell’autismo

e dei disturbi generalizzatidello sviluppo

Il Centro, che afferisce all’UnitàOperativa di Neuropsichiatria Infantile

dell’Azienda Ospedaliera San Paolo diMilano, si è specializzato negli ultimi

12 anni nella presa in carico dei bam-bini autistici. L’equipe che vi opera, for-

matasi in Europa e negli Stati Uniticon i maggiori esperti mondiali, èstata la prima in Italia a studiare l’

“approccio Teacch”. La struttura offrealle famiglie servizi di: valutazione dia-

gnostica (mediante i test ADOS eCARS che stabiliscono il grado di auti-smo) valutazione psicoeducativa (tra-

mite i test PEP e APEP che registranorispettivamente l’uno il livello di svilup-po dei bambini, l’altro le abilità funzio-

nali degli adolescenti); trattamenti edu-cativi individuali e di piccolo gruppo. IlCentro, riservando una grande atten-zione al bambino nella sua globalità,

dilata il suo intervento a tutti i contestiche lo riguardano; si fa carico ad

esempio della scuola in cui è inserito,avviando con la stessa rapporti di col-

laborazione per lo sviluppo dell’inte-grazione scolastica (classi Teacch).

Intenso il coordinamento anche con iCSE (centri socio educativi) territorialiche però riescono a seguire i ragazzisolo a partire dal compimento del 18°

anno di età; dal momento che il pro-gramma Teacch garantisce copertura

solo fino alla scuola dell’obbligo, perfar fronte al problema del vuoto fra i

14 e i 18 anni, il servizio sta studian-do un progetto di ponte sperimentalecon le scuole superiori. In collabora-zione con l’Università degli Studi di

Milano, il Centro è sede di tirocini, sioccupa di ricerca e soprattutto ha una

forte connotazione formativa. Organizza infatti corsi di

sostegno per genitori e fratelli ( focaliz-zati su tre parole-chiave: conoscenza,

comprensione, condivisione) maanche corsi di aggiornamento e for-

mazione esterna per educatori, psico-logi e psichiatri.

Sulla struttura gravitano settimanal-mente circa 50 minori, dai 2 fino ai 18

anni, con una alta percentualità dibambini in età prescolare. Presto, gra-zie all’Associazione KOALA, sarà atti-

va una nuova sede, dotata di spaziideonei e di una equipe

multidisciplinare.Info: Centro per la cura e lo studio

dell’Autismo e dei DGS, Via Vallarsa,19 - 20139 - Milano. Tel. 02/81843400

- fax 02/81843412;[email protected]

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si trattava di affrontarlo”. Le premesse per farlo con positività non mancano datempo. “ Quando Federico era molto piccolo, a tutte le sue manifestazioni checi arrecavano angoscia, cercavamo di reagire in modo propositivo; insieme alfratello, lo coinvolgevamo in situazioni che potessero procurargli gioia, anchese poi non era in grado di esprimerla. Nulla, dopo la sua nascita, era più pos-sibile come prima: improponibile uscire a cena con Federico, impensabile ricor-rere a una baby-sitter, arduo mantenere rapporti sociali con chi faticava a com-prendere la situazione, eppure avevamo chiaro che se ci era stata data questacircostanza, dovevamo viverla fino in fondo con speranza”. A riaccenderla èl’avvento in famiglia del programma Teacch, che Rosalia e il marito appren-dono al Centro e che cambia completamente la modalità di gestione della vitaquotidiana. “Utilizzando a casa le metodologie di approccio visivo che Federicoimparava al Centro e ritrovava anche in classe, prime fra tutte l’agenda (vedifoto in basso), constatammo che il bambino riusciva a comprendere quello chei cartellli gli suggerivano”. Si stabilisce così un ponte comunicativo, preziosis-simo per la convivenza e per la serenità di tutti. “Prima era tutto più proble-matico: molto disorientato, Federico aveva forti crisi d’ansia; se veniva portatoin un posto sconosciuto non scendeva dalla macchina; in seguito invece fu suf-ficiente indicarglielo sull’agenda per evitare scene di panico. All’inizio la nostraabitazione era letteralmente sommersa da calendari!”. Un altro aiuto si rivelail corso per genitori che i coniugi seguono subito dopo l’incontro con il Dr.Micheli. “Il fatto di conoscere altre famiglie nella stessa situazione ci ha moltoincoraggiati: non solo perché è stata una grandissima opportunità per strin-gere amicizie che tutt’ora ci sostengono e ci confortano, ma perché di esse hafatto esperienza anche nostro figlio maggiore Lorenzo, quando a 9 anni, ha asua volta partecipato a un corso per fratelli. Finalmente poteva porre i suoiinterrogativi a persone esperte che non eravamo noi ed essere accompagnatoa verificare le risposte”. Oggi Federico ha 13 anni e se parli con Rosalia ti diceche non si ricorda di un momento “peggiore” di altri. “Questo figlio, con la suafragilità, ha reso più unita la nostra famiglia e cementato il legame con miomarito. Certo con quest’ultimo ci sono stati dissapori ma, dividendoci i compi-ti e la fatica, oggi abbiamo una maggiore sintonia. Sicuramente una capacitàche abbiamo acquisito è quella di sdrammatizzare, di sorridere anche dellestranezze di Federico”. Si intuisce tuttavia che la solidarietà intorno a loro èsempre stata poca. Molti dei vecchi amici, chi per paura, chi per ignoranza, sisono dileguati. “Vivere questa rarefazione dei rapporti e sapere che alcune per-sone stentano a immedesimarsi con la situazione è sintomatico dell’autismo;accettarlo non è rassegnazione: significa abbracciare quello che è capitato conla sua parte di dolore, senza giudicare nessuno perché a ciascuno è riservata lasua particolare “croce”, piccola o grande che sia. Federico è stato ed è per noinon una “disgrazia” come spesso mi sento dire daqualcuno, ma una straordinaria occasione di consape-volezza. Da quando ho smesso di chiedermi il perchédella sua malattia, l’angoscia iniziale a poco a poco si ètrasformata in letizia: oggi sono più certa che il miocompito è portare nel modo migliore questa condizio-ne, facendomi sorreggere nel guardare mio figlio congratitudine, per il dono che è. “Siamo fortunate - dicespesso la mia amica Giusi - perché nel dedicare granparte della nostra giornata a questi figli, siamo costan-temente richiamate a capire perché viviamo. Più iltempo passa, più mi convinco che ha veramente ragio-ne”.

Laura Sposito

Uno dei disegni a cui si dedicaintensamente Federico

L’agenda che scandisce i momentidella giornata e della settimana

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Sul fatto che il vino sia uno dei piaceri della vitanessuno ha da obiettare. Pane e vino sono senz’al-tra un’accoppiata storica e i tarallucci con il vino

sono il simbolo della pace fatta e dell’accordo ritrovato.Davanti ad un buon bicchiere di vino si confidanosegreti o si da inizio ad una storia d’amore. Il ruolo delvino nell’alimentazione è antichissimo e, culturalmen-te, è un ruolo centrale. Dal punto di vista nutrizionale,invece, c’è bisogno di qualche cautela: il vino, al contra-rio di quello che recita un vecchio proverbio, non sem-pre fa buon sangue. Il vino può avere effetti beneficisulla salute ma anche negativi. Ecco perché è necessa-rio sapere quale, quanto e a chi è concesso. Fa bene o fa male?Il vino fa buon sangue? Dipende dalla quantità. Piccolequantità hanno un effetto protettivo a livello delle coro-narie, aumentando la parte del colesterolo “buono”(HDL).Molti studi hanno dimostrato che modiche quantità dialcool etilico migliorano il flusso di sangue all’internodelle coronarie. Nei bevitori moderati il rischio d’infar-to è sensibilmente più basso che negli astemi. Unabuso di vino, al contrario, può causare aumento deigrassi nel sangue e gravi forme di anemia. La credenza che il vino faccia buon sangue, indipen-dentemente dalla quantità, è legata alla convinzioneche questa bevanda sia ricca di ferro e che sia nutrien-te. In realtà, il vino non è una buona fonte di ferro e l’al-cool che è in massima parte responsabile del poterecalorico del vino, pur essendo molto energetico (7 kcalper grammo, quasi il doppio rispetto agli zuccheri edelle proteine che ne forniscono circa 4 per grammo),

non è una sostanza indispensabile all’organismo. Lecalorie dell’alcool sono calorie “vuote”, perché nonpossono essere immagazzinate né utilizzate dall’orga-nismo a fini costruttivi (funzione plastica). Brucianorapidamente e vengono disperse sotto forma di calore.Bere poco e a pastoIl vino contiene numerosi antiossidanti. Queste sostan-ze combattono i radicali liberi che accelerano l’invec-chiamento e sono nocivi per il cuore e per la salute ingenerale. Tra gli antiossidanti più efficaci ci sono i tan-nini e i polifenoli. Il vino rosso è ricco di molte sostan-ze fenoliche con attività anti-aterosclerosi e anti-cole-sterolo: i procianidoli e, in particolare il resveratrolo.Altri due flavonoidi del vino rosso:l’epicatechina equercitina sono potentissimi antiossidanti.Per sfruttare al meglio le virtù del vino ed evitarne idifetti bisogna bere piccole quantità a stomaco pieno.

Le dosi consigliateSia il vino rosso che quello bianco, come tutte le altrebevande alcoliche, contengono alcool etilico ( etanolo),una sostanza non necessaria al nostro organismo, che,in alcuni casi, può essere addirittura tossica e nuocerealla salute. Le Linee Guida per una SanaAlimentazione Italiana raccomandano di non supera-re la quantità di 1 - 2 Unità alcoliche per la donna , 2 -3 per l’uomo e 1 per l’anziano. L’Unità Alcolica o U.I.corrisponde a circa un bicchiere di vino di media gra-dazione da 120 ml che contiene 12 g di etanolo circa.L’alcol viene assorbito più lentamente se lo stomaco èpieno, rapidamente a digiuno o in presenza di bevandefrizzanti.

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Il vino fa buon sangue?

Pollo al vino rossoIngredienti:

1 busto di pollo pulito tagliato a pezzimezzo litro di vino rosso2 foglie d’alloro1 rametto di rosmarinoqualche chiodo di garofano2 cucchiai d’olio3 spicchi d’agliosalepepe

Preparazione:Mettere a marinare il pollo nel vino rosso

con gli aromi e l’aglio, coprire con una pelli-

cola e conservarlo in frigo. Rosolare i 2

spicchi d’aglio rimasti nell’olio. Unire il

pollo scolato dal vino. Salare, pepare e por-

tare a cottura semicoperto. rice

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La tolleranza all’alcool varia da individuo ad individuo.La donna sopporta meno l’alcool perché, rispettoall’uomo, dispone di una quantità inferiore di aldeide-deidrogenasi, l’enzima che fraziona l’etanolo nello sto-maco . Il consumo di alcolici da parte dei ragazzi èancora più pericoloso, perché influisce negativamentesulle funzioni degli organi impegnati nella crescita .Gli anziani dovrebbero limitare il consumo di alcoliciperché con l’avanzare dell’età i sistemi di metabolizza-zione dell’etanolo diminuiscono in maniera rilevante.Durante la gestazione e l’allattamento bisogna elimi-nare l’alcool perché passa la barriera placentare e vienesecreto nel latte con possibili danni alla salute del bam-bino.

Come calcolare le calorie partendo dai gradi alcoliciLa gradazione alcolica di un vino non corrisponde alsuo contenuto di alcool in grammi ma al volume dialcool. Per conoscere i grammi di alcool contenuti in100 ml di vino occorre moltiplicare il numero di gradialcolici espresso in etichetta (per esempio, 11 gradi) per0,79 che è il peso specifico dell’alcool. Per evitare noiosi calcoli si può usare il normogrammadi Mellor riportato infigura qui accanto.Per conoscere laquantità di alcool apartire dal gradoalcolico basta unirecon un righello labevanda alcolicariportata a sinistra(es. il vino) con laquantità riportata a destra (es. un bicchiere).

I marchi di qualitàI marchi di qualità dei vini sono l’IGT, la DOC, e laDOCG.IGT, Indicazione Geografica TipicaE’ un riconoscimento di qualità attribuita ai vini datavola caratterizzati da aree di produzione general-mente ampie e con disciplinare produttivo poco restrit-tivo. L’indicazione può essere accompagnata da altremenzioni, quali quella del vitignoMaggiori garanzie offre il marchio DOC e ancora di

piu’ ne offre la DOCG.Denominazione di origine controllata (Doc)È il riconoscimento di qualità attribuito a vini prodot-ti in zone limitate recanti il loro nome geografico. Ingenere il nome del vitigno segue quello della Doc e ladisciplina di produzione è rigida. Tali vini sonoammessi al consumo solo dopo accurate analisi chimi-che e sensoriali. Denominazione di origine controllata e garantita(Docg).È un controllo ancora più severo. È il riconoscimentodi particolare pregio qualitativo attribuito ad alcunivini DOC di notorietà nazionale ed internazionale.Questi vini vengono commercializzati in recipienti dicapacità inferiore a cinque litri e portare un contrasse-gno dello Stato che dia la garanzia dell’origine, dellaqualità e che consenta la numerazione delle bottiglieprodotte.

Come conservarlo e servirloPer evitare che il vino abbia il sapore “di tappo” èmeglio conservare le bottiglie di vino in posizioneorizzontale per contrastare l’eventuale formazione dimuffe e funghi sul tappo(se il tappo è immerso nel vinoi parassiti non si sviluppano). La temperatura idealeper la conservazione è di circa 14 gradi.Un vino rosso, conservato a lungo va stappato in anti-cipo e servito in caraffa per permettere l’ossigenazioneche migliora le sue caratteristiche ed evita il sapore dichiuso. Per lo stesso motivo, il vino rosso invecchiato siapprezza meglio in bicchieri panciuti, mentre pergodere al meglio un vino bianco è preferibile un bic-chiere non troppo grande che ne trattenga i profumidelicati.

Il vino in cucinaIl vino può essere usato come ingrediente in nume-rose ricette di primi, secondi e contorni. Spruzzatosu diverse pietanze, per esempio le carni, ne miglio-ra il gusto e il profumo e permette di evitare condi-menti grassi come burro e olio, risparmiando sullecalorie. L’alcool del vino evapora con la cottura equesto lo rende particolarmente adatto alle ricettedietetiche (l’alcool è responsabile dell’apporto calo-rico del vino).

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30 anni di vita Aido GrassobbioUn grande libro della solidarietà“A Grassobbio sono quasi cinquecento le persone che in questi anni hanno sotto-scritto l’atto olografo per la donazione gratuita di organi, tessuti e cellule post-mortem. Il trapianto a volte è l’unica strada che rimane da percorrere ad un amma-lato per risolvere il problema della sopravvivenza. Persone trapiantate vivonoanche nel nostro paese di Grassobbio e sono i testimoni di questo atto d’amore. Lariacquistata salute e serenità migliora la qualità della loro evita e quella della lorofamiglia. Nella storia del nostro laborioso paese è questo il concreto insegnamen-to che lasciano in eredità i tredici donatori di cornee, una donatrice di cuore tredonatori multi-organi. Vorremmo lasciare alle nuove generazioni di questo mil-lennio il messaggio di solidarietà che ha radici bergamasche e si è diffuso ora intutta Italia. Iscrivetevi!”.In queste poche parole affidate al dépliant illustrativo dell’ampio programma dimanifestazioni collegate alla celebrazione dei trent’anni di vita del Gruppo Aido diGrassobbio, il presidente rag. Everardo Cividini ha sintetizzato la storia e l’opera-to dell’Associazione nel paese dell’hinterland cittadino: entusiasmo, capacità didonarsi a un ideale, concretezza. E i risultati sono arrivati in termini qualitativi equantitativi.Come detto, intenso e molto interessante il programma delle manifestazioni, ini-ziate venerdì 14 ottobre e concluse domenica 16. Venerdì è stata proposta unaserata medico scientifica, in collaborazione con l’Avis comunale Grassobbio, su duetemi: “Il coordinamento dell’attività di prelievo e trapianto di organi”, relatore ildottor Mariangelo Cossolini, coordinatore dei prelievi e trapianti di organi dellaprovincia di Bergamo, USD Ospedali Riuniti di Bergamo; e “Cellule staminali: lucie ombre”, relatore dottor Alessandro Rimbaldi, responsabile del trapianto dimidollo USC Ematologia Ospedali Riuniti di Bergamo. Ha coordinato il cav.Leonida Pozzi, presidente Aido regionale Lombardia.Sabato 15 serata di musica, canto e poesia “Orizzonti del cuore”, Rosantico in con-certo.La domenica, Giornata celebrativa del 30.mo di fondazione, corteo, Santa Messa,deposizione di fiori ai monumenti ai Caduti di tutte le guerre, degli Alpini e delleAssociazioni Avis e Aido. Conclusione del corteo presso Palazzo Belli con inter-venti delle autorità civili e religiose.Nella sua relazione il presidente Everardo Cividini ha fatto un po’ la storia delGruppo partendo però dall’origine nella Sezione Avis fondata dal neo cav. RenatoDonadoni. Il Gruppo Aido è stato fondato nel 1975, con 51 iscritti. Dal 1979 esi-ste il Gruppo ciclistico Aido. Dal 1985 si stampa il calendario distribuito a tutta lacomunità. Altre iniziative brevemente citate: le Giornate del Donatore con Avis eGoccia d’oro, al teatro tenda; il Palio delle contrade; gli interventi nelle scuole; icorsi di primo soccorso con Avis e Gruppo Giovani e il sostegno del GruppoAlpini. E poi ancora, la partecipazione ai giochi del 1° Maggio, la condivisione conalcune attività della Combattenti e Reduci, il sostegno all’Aido regionale e nazio-nale con le Giornate del Donatore, la partecipazione alle camminate... Veramenteun grande libro della presenza, della sensibilizzazione e della diffusione del mes-saggio della solidarietà.Il presidente Cividini ha ricordato il contributo dato dall’Amministrazione comu-nale, dalla Parrocchia, e dalle Suore.

Notizie dalle SezioniGrassobbio

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È anche grazie al Gruppo Aido e ai tanti dirigenti che vi lavorano che la comunitàdi Grassobbio si distingue per operosità, generosità, solidarietà.

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Serata di informazione e sostegnoSabato 17 dicembre si è svolta, organizzata dal gruppo Aido di Valmadrera (Lecco)la “Cena di Natale”, tradizionale manifestazione che da anni accoglie, in una viva-ce serata, ospiti importanti e soci generosi che, festeggiando il Natale, aiutanoanche l’Associazione permettendole di continuare nella sua opera di sensibilizza-zione. Anche quest’anno sono intervenuti per l’Ospedale di Lecco il prof. CristianoMartini, Presidente del NITp e neruorianimatore, il prof. Riccardo Massei, riani-matore e il dott. Sergio Invernizzi, urologo. Erano presenti inoltre il dott. MarioAnghileri, sindaco del Comune di Valmadrera e l’on. Antonio Rusconi, Assessorealla Cultura. Ognuno di loro ha portato il proprio saluto; i tre medici hanno fattoil punto della situazione dei prelievi nel Lecchese, sempre in posizione di eccellen-za, a cui si aggiungerà a breve l’autorizzazione a iniziare i trapianti di rene. Questadecisione è il giusto corollario alla lunga storia dei prelievi che ha sempre vistol’Ospedale di Lecco con il prof. Francesco Locatelli prima e con Martini e Masseipoi, operare con tenacia, competenza e capacità organizzativa. Il risultato dellaserata ha permesso al Gruppo di Valmadrera di aiutare la Sezione Provinciale ver-sando alla stessa una parte del ricavato.

Il bilancio dell’anno 2005Si è chiuso un 2005 ricco di eventi per l’Aido di Montichiari, una tra le associazionipiù attive sul territorio monteclarense. “Mantenendo sempre come fine quello difare e promuovere solidarietà - afferma il presidente Carlo Sbrini - abbiamo sapu-to dar vita a spettacoli di grande livello. Penso, per esempio, ai due concerti di ini-zio anno, con il jazz brillante di Lino Franceschetti e del suo trio, e le fisarmoni-che dell’orchestra Sinequanon, entrambi svoltisi al Teatro Bonoris”. Nell’ambitodella rassegna musicale ‘Note sotto le stelle’, organizzata in collaborazione con laScuola d’archi Pellegrino da Montechiaro e patrocinata dal Comune, durante l’e-state vi è stato modo anche di apprezzare talenti puramente ‘nostrani’, nella bellacornice del cortile di Piazza Teatro: da tempo, infatti, l’Aido, accanto a nomi pre-stigiosi della musica classica, abbina quelli di giovani emergenti bresciani e man-tovani, in un connubio che si rivela di anno in anno sempre più piacevole e gradi-to, come dimostra la massiccia presenza del pubblico ai vari concerti. Rimanendoin tema, non si può non citare anche la straordinaria esibizione del violinista sta-tunitense Brad Repp che, assieme al chitarrista salodiano Luca Lucini, ha delizia-to tutti nel concerto del 2 luglio scorso, seguito dal Gala lirico sotto le stelle ospi-tato nel parco del ristorante Corte Francesco e dall’esibizione del pianistaCristiano Burato al Teatro Bonoris. Ma non di solo musica si è caratterizzato illavoro dell’Aido nell’anno appena trascorso: ricordiamo le borse di studio CristianTonoli e Francesco Rodella, quest’ultima tenutasi nello scorso mese di dicembrein collaborazione con il neonato gruppo studi biomedici, con il quale, durante l’an-no, si è dato un notevole impulso alla ricerca scientifica sul nostro territorio. Unospazio importante è stato riservato anche allo sport, con il consueto torneo orga-nizzato dalla squadra Volley Montichiari che ha visto la sponsorizzazionedell’Aido. “Più di così - afferma Sbrini - probabilmente non si poteva fare. Il lavo-ro complessivo è stato sicuramente notevole e credo che i cittadini abbiano potu-to apprezzarlo. Ora ci attende un 2006 altrettanto impegnativo, nel quale conti-nueremo, fedeli al nostro obiettivo di diffondere gli ideali della donazione di orga-ni, a offrire spettacoli ed eventi di grande livello”.

Federico Migliorati

Valmadrera

Montichiari

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irenze: nata la rete europeadelle regioni per la salute

Susanna Cressati

E’ nata il 28 novembre u.s. a Firenze la prima Rete europea tra Regioni per laSalute (European Regions Healthy Network). A Villa Montalto si è tenuto unmeeting dal titolo: ‘European Regions from local policies to cooperation, partner-ship and network” con la partecipazione di numerose Regioni e la presenza diqualificate strutture della Commissione Ue. Erano presenti l’assessore regionaleper il diritto alla salute Enrico Rossi, i responsabili della Direzione regionaleSanco (“Salute e tutela dei consumatori”) della Commissione europea,dell’Organizzazione Toscana Trapianti, della Rete Obesità, della ScuolaSuperiore Sant’Anna di Pisa, dell’Agenzia Regionale di Sanità della Toscana e ipartner del progetto Hyper-Genes (Toscana-Vallonia), un progetto integrato diricerca di cui la Toscana è coordinatrice, del valore di 25 milioni di euro e presen-tato il 9 novembre scorso alla valutazione della Commissione Ue.E’ prevista prima della fine dei lavori la firma del primo protocollo di intesa traRegioni (in linguaggio europeo: Memorandum of Understanding) per l’avvio dellaRete e lo sviluppo, in stretta relazione con le strutture europee, delle attività inter-regionali sui 5 temi principali già individuati: trapianti, obesità, e-health, mobilitàdei ricercatori, cure primarie. Le Regioni firmatarie sono:Toscana, Umbria,Aquitania (Francia), East Midlands (Gran Bretagna), Saxen Anhalt (Germania),Drama Kavala Xanthi (Grecia), Andalusia (Spagna), Vallonia (Belgio),Malopolska (Polonia). Stanno decidendo per l’adesione Svezia Centrale (Svezia),Salisburgo (Austria), Varna (Bulgaria).“Con questo processo di integrazione dal basso - spiega l’assessore EnricoRossi - stiamo lavorando perché quella sanità per tutti che costituisce il nostromodello e il nostro obiettivo quotidiano costituisca in tutta Europa un diffuso einalienabile diritto di cittadinanza e insieme un fattore concreto di sviluppo”.Proprio un anno fa, durante il workshop su un possibile modello europeo per itrapianti d’organo organizzato dalla Toscana alla fine di novembre 2004 aBruxelles, l’assessore Enrico Rossi propose alle Regioni convenute di agire diret-tamente per favorire la piena partecipazione di quei soggetti - Regioni e Autoritàlocali - che sempre più direttamente possiedono e governano gli strumenti e lerisorse nella formazione delle politiche e nella definizione delle strategie del set-tore della salute. C’è voluto un anno di lavoro e una lunga serie di incontri perpermettere alle prime Regioni che hanno aderito alla proposta di sottoscrivere ilprotocollo di intesa. In questo documento i partner si impegnano alla costruzionedi una Rete europea per rendere la salute e l’assistenza oggetto di cooperazioneattiva, tra i partner e nei confronti della Commissione Europea. Ci sono già alcunitemi candidati a diventare il campo di attività del network fin dal suo inizio: ilprimo tema riguarda la costruzione di un modello europeo di donazioni e trapian-ti per avere più organi, di migliore qualità e un percorso per i trapianti che rendasicuri tutti i cittadini europei. Il secondo tema riguarda il fenomeno dell’obesità allabase di un numero crescente di patologie specie nelle giovani e giovanissimegenerazioni. Quindi il tema della ricerca e della condivisione delle risorse(umane, metodologiche, strumentali) per avere centri di ricerca europei in gradodi sviluppare eccellenza sul tema della salute e di competere con Stati Uniti,Giappone, India e Cina nel trasferimento di conoscenze all’assistenza e alleimprese. E, ancora, il tema delle cure primarie, mirato a spostare l’asse dellasanità dai centri ospedalieri ad una piena copertura dei territori, specie quelli piùdisagiati. Infine il tema, che incrocia tutti gli altri, della tecnologia informativa asupporto della salute per tutti, l’e-health, la frontiera per una salute sostenibile edistribuita, uno degli strumenti più potenti per trasmettere informazione e cono-scenza anche a chi entra oggi nel sistema di welfare europeo e trova, comeprimo problema, quello delle differenze di lingua e di culture.La Conferenza di Firenze, oltre ad approvare il Memorandum, si propone anchel’approvazione dei documenti tecnico-organizzativi sulla struttura del network esulle modalità con cui lavoreranno i primi gruppi tematici. Si è discussa anchel’opportunità di costituire un Comitato di Indirizzo politico da riunire una volta l’an-no in una delle Regioni del network. Il prossimo meeting generale è previsto aMalaga a maggio 2006 durante l’annuale incontro europeo sull’e-health organiz-zato dall’Andalusia.

rancia: primo trapianto parziale di faccia

Ha 38 anni la prima paziente al mondo su cui è stato effettuato un trapianto delviso, sia pure parziale: l’intervento è avvenuto in Francia ad Amiens e ad operareè stata l’equipe del professore Jean-Michel Dubernard di Lione, già maestro deitrapianti di mano che hanno innovato radicalmente qualche anno fa questa bran-ca della chirurgia. La paziente di questo intervento, una prima mondiale assoluta“ad alti rischi medici e psicologici” (prioritario quello del rigetto da ambo i punti di

vista) era stata sfigurata dai morsi di un cane.Ha partecipato all’intervento anche il team del professor Bernard Devauchelle,specialista di chirurgia maxillofacciale al centro ospedaliero universitario (CHU) diAmiens. Con la squadra del professor Dubernard c’era Marco Lanzetta, chirurgodell’ospedale San Gerardo di Monza che già in passato ha lavorato ai trapianti dimano a Lione. L’intervento è avvenuto fra domenica e lunedì sera, dunque duegiorni fa. Secondo informazioni rivelate dal settimanale Le Point in edicola doma-ni, si è trattato di un trapianto del triangolo formato da naso e bocca: il prelievo di“pelle, tessuti sottocutanei, piccoli muscoli del visto ed elementi arteriali e venosi”è stato effettuato su un donatore deceduto, “in stato di morte cerebrale”, all’ospe-dale Salengro di Lille, domenica scorsa. In seguito - scrive Le Point - tutto è suc-cesso rapidamente perché il trapianto doveva avvenire nel giro di 24 ore.Il professor Dubernard da parte sua non ha confermato ufficialmente, ma lo hafatto indirettamente dicendo a Le Point che farà una conferenza stampa con tuttal’equipe e con il consenso della paziente.

rapianto di faccia: un interventoche inquieta e fa riflettere

Sergio Benvenuto

I media hanno dato vasto spazio al trapianto di faccia su una donna di 38 anni,operata da un’équipe medica di Lione. Questa impresa ci inquieta perché il voltoper noi è un’entità anche metafisica: qualcosa a metà strada tra l’anima e il vesti-to. Pensiamo che la nostra anima sia la nostra vera identità che non muta; l’abi-to, all’inverso, possiamo cambiarlo a nostro piacimento, è mera parvenza.Pensiamo che la faccia partecipi della nostra anima - di cui sarebbe lo specchiopiù o meno fedele - ma un po’ anche del vestito: certo non cambiamo faccia ognigiorno, eppure essa è anche un nostro prodotto artificiale. La modifichiamorasandoci e imbellettandoci, cambiando capigliatura e occhiali, abbronzandoci omettendo ombretto, mascara od orecchini, ecc. E come un vestito col tempo silogora, analogamente la nostra faccia, ahimé, si modifica con gli anni: cosa c’è incomune tra una faccia di uno a sei anni e dello stesso a 60 anni? D’altra parte siamo convinti che la faccia riveli la nostra anima: non crediamo cheuno “con una faccia da scemo”, per esempio, possa essere in realtà geniale (e diuna donna brutta e sgraziata, ad esempio, pensiamo anche che abbia un’animabrutta?). La nostra faccia ha una doppia faccia, se mi si permette il bisticcio: unafaccia volta verso l’Essere (anima) l’altra volta verso l’Apparenza (abiti).Nel film “Face/Off” di John Woo, John Travolta è il poliziotto buono e NicholasCage è il gangster cattivo: il guaio è che, a un certo punto, si scambiano le lorofacce.Travolta, che ora ha il volto di Cage, viene preso per il gangster; e Cage,che ora ha il volto di Travolta, viene preso per il poliziotto. Ora, è notevole che ilpubblico passi sopra alla differenza di sembianze: tifa per il buon poliziotto siaquando è impersonato da Travolta che quando è impersonato da Cage. Morale:la faccia non conta, è un’illusione, al fondo importa solo la nostra anima. Maappunto, questo non è vero: in realtà la nostra faccia (così come i nostri abiti)riflette, “tradisce” quello che siamo; ma, in un senso più profondo... la nostra stes-sa anima è come una faccia-vestito.Il pensiero e l’arte moderni hanno rivoltato a fondo queste distinzioni. ConPirandello o Brecht vediamo che in realtà “l’abito fa il monaco”. L’abito che sce-gliamo parla di noi, ci denuncia, altrettanto se non più della nostra faccia: dacome uno si veste diagnostichiamo anche il suo essere dentro. Ma anche l’inver-so è vero: ormai manipoliamo la nostra anima quasi come la nostra faccia.In effetti, possiamo dire che l’anima di un bambino è la stessa di quando poi saràanziano? Il cambiamento riguarda solo la faccia e non anche l’anima? E poi, sempre più trucchiamo la nostra anima: trangugiando antidepressivi eansiolitici, eccitandola con musiche e alcool, con tabacco o canapa indiana,massaggiandola con psicoterapie o meditazione, ecc. La psicofarmacopea di cuisiamo sempre più ghiotti non è una sorta di cosmesi dell’anima? L’indispensabileespresso della mattina non è come una rasatura psichica? Alcuni uomini riesco-no a corteggiare una donna solo se sono alticci: in questo caso il vino non ècome avere i baffi o un tatuaggio? Come dice il filosofo De Carolis, dobbiamoconsiderare la vita “nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”: sempre più lanostra anima risulta una sorta di faccia che siamo tentati di modificare a nostropiacimento. Non contenti di rimodellare il nostro corpo attraverso gli abiti, noncontenti, con trucchi e acconciature, di adeguare il nostro volto all’ideale di facciache perseguiamo, oggi, più che mai, cerchiamo di rimodellare anche la nostraanima. E forse per questo il trapianto di una faccia in Francia ci ha dato angosciae inquietudine: è il senso della nostra identità stabile, profonda, inalienabile chesta andando in pezzi.In un mondo in cui la tecnologia tratterà sempre più come macchine le nostrestesse anime, che cosa sarà del nostro sogno di avere, malgrado tutto, un’ani-ma? Per saperne di più: Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Cnr,Roma, tel. 06/49932205, e-mail: [email protected]

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