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Un involontario errorePer un antipatico quanto involontario errore nel nu-mero di marzo 2009 di "Prevenzione Oggi", nell'am-bito dell'intervista al dott. Paolo Arpa, dell'OspedaleSan Gerardo di Monza, sul tema del prelievo e del tra-pianto di cornee, abbiamo pubblicato la foto della dot-toressa Clelia Moretti attribuendole il nome, nella

didascalia, della caposala signora MariaGrazia Colombo. Ce ne scusiamo

con le interessate e con ilettori. (L.C.)

NOTRE DAME DES FONTAINES(Nostra Signora Delle Fontane)

Incastonata nelle Alpi Marittime, tra il basso Piemonte, l’alta Liguria e la Fran-cia meridionale, si trova la cappella affrescata di Nostra Signora delle Fontane

(oggi Notre Dame des Fontaines) tanto amata dagli italiani altrettanto scono-ciuta ai francesi. Con suggestiva definizione degli studiosi è chiamata la “cap-

pella Sistina delle alpi Marittime. …L’antica cappella di Notre Dame desFontaines, le cui acque (sette sorgenti) sgorgano dalle oscurità delle rocce è

situata in un luogo ameno nascosto tra i boschi poco lontano da Briga.......”Questo luogo di culto, racchiude ancora oggi profondi misteri rispetto al-

l’origine, situato ai piedi del monte Bego (valle delle meraviglie), è un sito privi-legiato che sboccando sul corso del fiume Roja consente un legame con le

regioni costiere e al di là delle vette con le pianure del Piemonte, attraverso unadelle antiche vie del sale. La località è vicina ai segni ed ai graffiti rupestri dellaValle delle Meraviglie, simili ad altri ritrovati in Valle d’Aosta, in Val Camonica oin Valtellina. Così poco distante da Briga, risalendo la valle, si incontra la cap-pella “Sistina delle Alpi Marittime” che racchiude le opere pittoriche del Cana-vesio e di Giovanni Baleison, pittori erranti attivi tra Piemonte e Liguria. “Essifurono portatori di una inconfondibile varietà locale del tardo gotico, caratte-rizzata, sul piano culturale, dall’assimilazione di motivi transalpini, francesi e

nordici”. Al Canavesio ed al Baleison sono attribuiti gli affreschi di gran partedelle cappelle in quota del Piemonte e della Liguria, (Pigna, Triora, Taggiaetc…). Gli affreschi del ciclo della Passione raccontate nella cappella, dalCanavesio, non a caso, sono datate e firmate 12 ottobre 1492 anno della

scoperta dell’America. Altri affreschi in loco sono datati 1475-80.

In copertina sono rappresentate 4 scene della passione di Cristo:1ª in alto a sinistra L’AGONIA NEL GETSEMANI 2ª in alto a destra L’ARRESTO DI GESÙ3ª in basso a sinistra OLTRAGGI DAI SOLDATI DI PILATO4ª in basso a destra GESÙ DAVANTI AD ERODE

Intervista al Dott. Silvio Colagrande«Per un gioco pericoloso non vedevo piùPoi ho ricevuto il grande dono di don Gnocchi»

Il «miracolo» di don Carlo

Studenti in corsiaCronaca di una lezione particolare

I giovani e l’alcol

Ai giovani non piace l’acqua

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Mensile di cultura sanitaria del Consiglio RegionaleAIDO Lombardia - ONLUS

Anno XIX n. 172 - aprile 2009

Editore: Consiglio Regionale AIDO Lombardia - ONLUS 24125 Bergamo, Via Borgo Palazzo 90Tel. 035 235327 - fax 035 244345 [email protected]

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Direttore ResponsabileLeonio Callioni

Collaborazioni scientifiche:Dott. Gaetano Bianchi

Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Bergamo

Dott. Michele ColledanDirettore Chirurgia Generale III Direttore Centro Trapianti di fegato e di polmoni

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di Immunologia e Clinica dei Trapianti

Università Milano Bicocca

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NITp - Nord Italia Transplant

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Istituto Mediterraneo Trapianti e Terapie

di alta specializzazione - ISMeTT

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Professore di Chirurgia Università di Pittsburgh

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“Mario Negri” - Bergamo

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Yale University School of Medicine

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Professor of Medicine,

Director of Transplant Hepatology

Department of Internal Medicine

Section of Digestive Diseases

Redazione esternaLaura SpositoCristina Grande

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Finito di stampare prima decade maggio 2009

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Le informazioni contenute in questo periodicovengono trattate con liceità, correttezza e tra-sparenza conformemente al D.lgs. n. 196 del 30giugno 2003 “Codice in materia di protezionedei dati personali”.

Questo periodico è associato all’Unione Stampa Periodica Italiana

Il 30 novembre di sette anni fa, in udienzadal Papa Giovanni Paolo II, portammo lasupplica affinché don Carlo Gnocchi fosse

elevato all’onore degli altari. Ero presentenella mia veste di vice presidente nazionaledell’Aido insieme con altri amici dell’Associa-zione. Con noi presentarono la stessa istanza

gli Alpini che ebbero in don Carlo, nel corso della seconda guerra mondiale e poi nel do-poguerra, un fulgido esempio di solidarietà e dedizione al servizio dei sofferenti.Tutta la vita di don Carlo Gnocchi è un cammino di santità. Non pensò mai a se stesso,ma agli altri, soprattutto ai sofferenti e ai bisognosi. Partecipò alla campagna di Alba-nia e di Russia e visse la tragica ritirata da quelle steppe devastate e punteggiate di sol-dati morti. Assistette spiritualmente e fisicamente, curò e si prodigò in ogni modo perdecine di alpini feriti o morenti. Profondamente colpito dal dolore di tanti eroici com-pagni decise di dedicarsi in particolare ai bambini provati dal dolore. Infatti don Carloè universalmente conosciuto come il prete dei “mutilatini” anche se le sue iniziative,ormai diffuse in tutta Italia, hanno con il tempo occupato aree molto importanti in am-bito sociale e sanitario.Ma don Carlo è particolarmente caro a noi dell’Aido perché è stato il simbolo della do-nazione di organi, avendo egli intuito ben prima che la legge consentisse una regolarepratica del trapianto, quanto bene si potesse fare attraverso la donazione.Don Carlo morì il 28 febbraio del 1956, verso sera. Il suo gesto estremo, compendio per-fetto di una vita calata nell’amore per il prossimo, fu la donazione delle cornee che fu-rono trapiantate a due ragazzi non vedenti. Un gesto che tendeva ancora una volta, inragione della solidarietà, a rompere gli antichi tabù, a forzare le perplessità di chi an-cora non aveva piena fiducia nelle enormi potenzialità del trapianto di organi.Per queste ragioni abbiamo ritenuto nostro dovere, in vista della beatificazione di donCarlo, prevista per il prossimo 25 ottobre, dedicare alcune pagine a questo nuovo beato,a noi così vicino da averci sfiorato come esperienza umana. Siamo andati ad Inverigoe abbiamo intervistato uno dei due ragazzi che ebbero la cornea: quel Silvio Colagrandeche oggi, distinto signore di mezza età, dirige la struttura comasca. Ne è scaturito undialogo di una semplicità che coinvolge e affascina e che ci auguriamo possa permettereai lettori di avvicinarsi, per apprezzare ancor meglio, fino ad amarla, la figura di donCarlo. Nelle pagine che seguono l’intervista pubblichiamo poi un articolo ricavato da unlibro dedicato a Sperandio Aldeni, l’artigiano di Villa d’Adda che, colpito da una sca-rica elettrica di 15 mila volt, negli istanti che seguirono pregò disperatamente don Carloe si salvò. Il miracolo è stato riconosciuto dalla Chiesa ed è alla base della beatifica-zione di don Gnocchi. Il racconto è coinvolgente, drammatico e stupefacente allo stessotempo; sembra in alcuni passaggi un racconto di fantascienza e invece è la stupenda re-altà di una persona che deve la vita all’intercessione di don Carlo. Un’esperienza che tra-scende l’umano e che ci proietta nel soprannaturale, là dove solo la fede offre spazi dicomprensione.

Leonida Pozzi

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EditorialeUn numero particolarmente dedicato a don Carlo GnocchiDonò le cornee quando ancora la donazione era fuori dalle regole

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In copertina:«NOSTRA SIGNORADELLE SORGENTI»©

foto di Giuseppe Pellegrini - Mantova

“500 anni fa, il Canavesio componevamirabili scene mistiche, riconducibili alla pittura olandese o germanica.Lo sguardo si perde nel gioco di colori,luci e forme, vivendo l’armonia delleocre dense e dei grigi ardesia.Ma ogni scena ha un’energia profonda,ricca di simboli emotivi, consci ed inconsci, che ormai sfuggono alla vita di ogni giorno.Percependo l’emozione è ancora possibile leggere l’invisibile attraversoil visibile, riconoscendo così i segni di Dio.Sotto la cappella dedicata alla Vergine,sgorgano ancora acque profonde:Nostra Signora delle Sorgenti è l’invito a tornare alle origini, portatrici di vita”.

commento alla foto di Antonella Marradi - Mantova

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Nel prossimo mese di ottobredon Carlo Gnocchi sarà bea-tificato. Una gioia per tuttinoi e in particolare perl’AIDO che insieme con altri

aveva condiviso la richiesta di Beatifica-zione riconoscendo in don Gnocchi una fi-gura particolare, fondamentale nellosviluppo della cultura della donazione degliorgani, tessuti e cellule. Infatti, morendo donGnocchi donò le cornee, prima ancora che lalegge sancisse la possibilità di questo atto disolidarietà e amore. La chirurgia ormaiaveva raggiunto risultati confortanti e davala certezza che il trapianto fosse per tantil’unica possibilità di tornare a vedere con ipropri occhi. Uno dei riceventi le cornee didon Gnocchi è oggi direttore dell’Istitutofondato dal grande sacerdote (passato allastoria come il “prete dei mutilatini”) con sede

a Inverigo, in provincia di Como.L’équipe di “Prevenzione Oggi” ha incon-trato il dott. Silvio Colagrande per raccon-tare ai lettori, attraverso le sue parole, questogrande gesto d’amore di don Carlo Gnocchi.Ne scaturisce un racconto affascinante; ildott. Colagrande spiega con una semplicitàcoinvolgente le tappe della sua disavventurae l’incontro con don Carlo, la grande uma-nità e la totale dedizione del sacerdote allacausa dei ragazzi e delle ragazze sofferenti.Ancora una volta ne raccomandiamo la let-tura perché a nostro avviso svela il dispie-garsi della storia medica e sociale del nostrotempo attraverso la genuina e semplice di-sponibilità di questo stupendo sacerdote cheha voluto donare tutto di sé sia in vita chedopo la morte. Il dialogo è introdotto dalpresidente regionale e direttore editorialecav. Leonida Pozzi.

Intervista al Dott. Silvio Colagrande

«Per un gioco pericoloso non vedevo piùPoi ho ricevuto il grande dono di don Gnocchi»

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Conosciuta come “La Rotonda” per via della maestosacupola che sormonta il colonnato ionico, la villa fuedificata agli inizi dell’Ottocento dall’architetto LuigiGagnola. Acquistata nel 1949 da don Gnocchi, venneristrutturata per accogliere i mutilatini e il personale - in particolare le suore della Carità di Santa GiovannaAntida Thouret, poi rimaste a Inverigo per oltrecinquant’anni - necessario alla loro assistenza. Aimutilatini si aggiunsero subito alcuni piccoli “mulatti”.Con il passare degli anni, il Centro ha accolto dapprimabambini con esiti di poliomielite e successivamente - etuttora - minori con gravi disabilità neuropsicomotorie esensoriali.

I serviziCentro di riabilitazione per l’età evolutiva36 posti letto di degenza residenziale25 posti letto di degenza diurna 18 posti Centro Diurno per Disabili Attività di riabilitazione ambulatoriale e domiciliare Ambulatori decentrati a Barlassina, Como, Guanzate,Lentate sul Seveso

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Pozzi: La Beatificazione di donGnocchi per noi è importante per-ché con la figura di questo nuovo egrande Beato si apre l’era della do-nazione di cornee. La storia medicaracconta infatti di questa decisionedi don Gnocchi come momento ini-ziale della chirurgia ufficiale del tra-pianto di cornea. Forse ve ne sonostati altri. O meglio, sicuramentequalche trapianto prima della dona-zione di don Gnocchi c’è stato. Sem-bra, per citare un caso, che ilprelievo di cornea si stato effettuato,prima che al fondatore dell’Operadei Mutilatini, al suo falegname, cheè di Grumello del Monte, in pro-vincia di Bergamo. Di questo esisteperaltro un articolo di stampa. Lerisulta?Colagrande: Non ho notizia diun fatto del genere. Posso dire, peresperienza personale che ho saputodel primo trapianto proprio con ladonazione di don Gnocchi su di me.Pozzi: Racconti un po’ la sua vi-cenda.Colagrande: Ero un bambino:avevo appena finito la seconda ele-mentare e stavo iniziando la terza,nei primissimi anni ’50 e vivevo al-l’Aquila. Facevamo un gioco che al-lora era molto diffuso anche sescoprii presto quanto fosse perico-loso. Il gioco consisteva nel porre inun barattolo delle schegge di calceviva, molto usata per l’edilizia. Noisapevamo che mettendoci dell’ac-qua questa calce reagiva per cuischizzava in alto provocando il no-stro divertimento. C’era una fon-tana vicino a dove si erano messi imiei compagni e quella mattinamentre io mi avvicinavo a loro chegià stavano giocando, mi hannochiesto di portargli l’acqua. Inav-vertitamente e in modo impru-dente, mentre loro erano in cerchioattorno al barattolo, io ho versatol’acqua stando proprio sopra il ba-rattolo. La calce ha fatto subito rea-zione e mi ha preso in pieno viso.Sono stato curato per circa 8-10giorni all’ospedale de L’Aquila.

Però la situazione era sempre criticaperché il primario mi faceva curaresemplicemente con impacchi caldi;una scelta che ai miei suscitavamolte perplessità. Mio papà e miozio hanno deciso allora di consultareun giovane oculista delle vicinanzeche lavorava al Policlinico di Roma.

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L’oculista ha ritenuto che la curacui ero sottoposto non fosse efficacee ha consigliato di portarmi via dal-l’ospedale de L’Aquila per farmi cu-rare al Policlinico. Però il primarionon voleva saperne di lasciarmi an-dare e così mio papà mi ha preso inbraccio e mi ha portato via. Ricordobenissimo le ultime parole che que-sto primario ha pronunciato ad altavoce verso mio padre: “Portatelovia. Troverai un fesso che si caveràgli occhi per darglieli!”.Pozzi: Una affermazione parados-sale, che letta a distanza di decennisembra però addirittura profetica,nonostante non si immaginassecerto questo medico che lei avrebberiavuto la vista proprio con un tra-pianto…Colagrande: È vero e quasi in-credibile. Al Policlinico rimasi tre-quattro mesi, e venni sottoposto acure di tutt’altro genere: pomate,bendaggi con unguenti… ecc. Dopoquesto periodo di cure mi hannodetto: “Sull’occhio destro qualcosasi riacquisterà, però ci vuole moltotempo perché c’è ancora un pro-blema sul nervo ottico che è statolesionato. Dall’altro occhio non saràpiù possibile vedere”. Io allora eroin condizioni difficilissime: non riu-scivo nemmeno a tenere aperto gliocchi. La prospettiva di vedere al-meno qualcosa con l’occhio destro

mi dava un briciolo di speranza. In-fatti quando ho conosciuto donCarlo nel 1954 io cominciavo a ve-dere qualcosa, ma veramente poco.Leggere e scrivere non se ne par-lava assolutamente. Pozzi: Le prime forme di prelievoe trapianto di cornea risalgono alperiodo tra la fine del 1800 e i primidel 1900. Ma prima lei ha accennatoall’arrivo all’istituto fondato da donGnocchi. Come vi era arrivato?Colagrande: Un mio cugino,che frequentava l’Università aRoma, come volontario andava alCentro Don Gnocchi di via Mare-sciallo Caviglia, a registrare i testidi studio per i non vedenti. Infatti lìc’era una sezione per i non vedenti.Avevano molti libri scritti in braille,e studiavano con questo metodo,però alcuni di loro erano già iscrittiall’Università e non trovavano itesti degli esami. Considerate chestudiare in braille è molto faticosoe lungo. Questi volontari, con iprimi magnetofoni di allora regi-stravano la lettura dei testi che inon vedenti dovevano studiare. Al-lora mio cugino aveva pensato benedi far domanda a don Carlo di pren-dermi nel suo istituto. Siccome peròa Roma, nella sezione non vedenti,non c’erano più posti, mi hannomandato qui a Inverigo. Era l’otto-bre del 1954.Pozzi: Ma don Gnocchi quandoacquisì questa struttura di Inve-rigo?Colagrande: Nei primissimianni del suo impegno verso i muti-lativi, nel 1949. Lui si trovava adArosio, come Cappellano della Casadel Grande Invalido, subito dopo laguerra. Da lì aveva cominciato afare la visita alle famiglie degli al-pini caduti nella campagna di Rus-sia, come aveva loro promesso.Quindi aveva cominciato ad occu-parsi degli orfani. Alla casa di Aro-sio una mamma gli ha portato unragazzo mutilato dallo scoppio diuna bomba. Questo episodio gli hadato l’occasione di conoscere questo

tra di noi, senza bisogno di assun-zione di personale. Noi dovevamopartecipare alla vita di comunità;ognuno di noi doveva farsi carico diun altro ospite. Io, per esempio,avendo autonomia completa, do-vevo occuparmi di un focomelicoche era senza le braccia. Quando luiaveva bisogno di vestirsi, lavarsi,mangiare, andare in bagno, ecc. ve-niva da me. Non andava in cerca diqualcun altro.Pozzi: Ma com’era la sua vista?

Colagrande: Quando sono arri-vato qui vedevo leggermente dal-l’occhio destro: riuscivo ariconoscere una persona, ma non aleggere né a scrivere.Pozzi: Per quel motivo la sua fa-miglia ha scelto di mandarla qui?Colagrande: Per il fatto che iodovevo fare le scuole elementari, aRoma non c’era posto, sono statoaccolto a Inverigo a fare la terzaelementare come uditore. Nellaprimavera del 1955 si è liberato un

problema e si è messo subito inazione. Don Gnocchi aveva tentatodiverse strade prima di avere que-sta struttura di Inverigo. Avevacercato a Cassan Magnago, in pro-vincia di Varese. E anche qui vicino,a Bindella di Erba, presso VillaMamma Irma, aveva cominciato araccogliere un gruppo di ragazzinimutilati. Questo perché ad Arosio,nella casa dei grandi invalidi diguerra non si potevano tenere deibambini. Lì aveva fra l’altro avutola collaborazione di una pedagogi-sta svizzera. Questa casa alla finel’ha acquistata con l’aiuto di amicidai conti D’Adda Salvaterra DePange. All’origine, tra il 1813 e il1830 la Villa era stata edicata dal-l’Archiettetto Cagnola come sua re-sidenza di campagna.Pozzi: Questo era il primo nucleoformato da don Carlo?Colagrande: No. Il primissimoera stato formato alla casa di Cas-san Magnago. Poi quasi contempo-raneamente a questa è partita anchela struttura di Pessano, per le bam-bine. A quel tempo don Gnocchiaveva fondato un’associazione che sichiamava Pro Infanzia Mutilata. Eaveva quindi riunito alcune case quiin Lombardia e altre in Piemonte.Fra il 1948 e il 1952, quando definìe ottenne il riconoscimento con De-creto del Presidente della Repub-blica come Fondazione ProJuventute, le case erano già otto intutta Italia. Inverigo, Torino, Pes-sano, Parma, Passo dei Giovi (unacasa piccola, in montagna), Pozzo-latico di Firenze, Roma, Salerno.Pozzi: Per una persona che nonaveva niente e che si affidava allaProvvidenza, davvero un bel cam-mino.Colagrande: Per la verità que-sto senso di precarietà lo vivevamoanche noi, ma in termini positivi epartecipativi: “ognuno di voi nondeve pensare solo a se stesso maanche agli altri”, proponeva un mo-dello educativo veramente efficace.C’erano funzioni che assolvevamo

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posto a Roma e Don Carlo mi hafatto trasferire. Il caso singolareperò è stato questo: nel mese di ot-tobre, io ero appena arrivato da unaquindicina di giorni, don Carlo è ve-nuto qui. È uscito da un salone nelcortile interno, dove stavamo gio-cando. Mi sono accorto che arrivavae mi sono avvicinato un po’, mentregli altri che già lo conoscevano glisi sono fatti incontro. Don Carlo hapreso in braccio il primo che gli ècapitato davanti, il più piccolino, edè rimasto a guardarci tutti. Io misono sentito molto osservato, esono rimasto molto colpito dal suosorriso, luminoso e cristallino. Eramolto magro ma molto energico.Praticamente non ha parlato, nonha detto niente a nessuno. E’ rima-sto fra di noi solo pochi minuti.Qualche settimana dopo, qui c’eraun sacerdote diocesano che diri-geva, don Renato Pozzoli, che eraappena stato ordinato sacerdote maaveva frequentato La Rotonda

anche prima di essere ordinato sa-cerdote. Don Renato mi ha accom-pagnato a Milano nello studioprivato del prof. Galeazzi, in viaBoccaccio 45. Il prof. Galeazzi eraun uomo enorme, con un vocioneche impressionava. Mi ha visitato,poi l’ho sentito parlare con don Re-nato e diceva: “Guarda che non cisono molte possibilità. Dovrebbefare un trapianto di cornea. E’ unasituazione anche difficile - aveva ag-giunto - perché le scottature dacalce viva sono più complicate datrattare anche in caso di trapianto.Però potrebbe avere delle possibi-lità. In Italia non si può fare, il mioconsiglio è di andare a fare il tra-pianto in Svizzera”. La cosa è rima-sta così. In primavera ho cominciatoad imparare il braille. Poi verso lafine di luglio del ’55 il direttore diRoma, che era un altro sacerdotediocesano che aveva aiutato donCarlo già nei primissimi tempi, donPiero, mi chiamò per dirmi che sistava concretizzando la possibilitàche la Croce Rossa mi portasse inSvizzera a fare l’operazione. “Peròadesso scrivi a casa - mi disse - echiedi l’autorizzazione dei genitoriper fare il trapianto”. Le cose sta-vano procedendo così. A settembre,con un pullman eravamo saliti aMilano, in via Capecelatro, dove sistava per porre la prima pietra delnuovo centro che Don Carlo volevadedicare alla ricerca scientifica sullapoliomielite. Abbiamo assistito atutta la cerimonia e ricordo benis-simo la voce e le parole di donCarlo, alla presenza del Presidentedella Repubblica Gronchi.Poi a Roma ho rivisto Don Carlo: siera messo in fondo alla grande scaladel Centro dove tutti dovevano pas-sare per andare in refettorio all’oradi pranzo. Era a braccia conserte esi è fermato lì per vederci tutti pas-sargli davanti, in fila per due.Quando gli sono passato vicino misono accorto che era molto pallido,sofferente. Non aveva la stessa bril-lantezza del viso che gli conosce-P

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di musica mi diceva nulla. Arrivatiall’Oftalmico, sono stato affidatoalle cure degli infermieri (avevoanche un po’ di febbre, forse per ilviaggio). La sera mi stavano giàpreparando per l’operazione. Allorale cose erano molto più lunghe emetodiche. Ho sentito da una radioaccesa in una delle camere accantoche don Carlo era morto. Allora hocapito. Il 29 di febbraio di quel-l’anno, che era bisestile, mi hannooperato. Io ricordo solo che sonoentrato in sala operatoria con unfaro enorme; mi hanno addormen-tato e mi sono risvegliato la sera.Pozzi: L’Oftalmico che è poi il Fa-tebenefratelli.Colagrande: Allora era auto-nomo. Oggi fa parte del Fatebene-fratelli. Pozzi: Era un punto di riferi-mento di eccellenza per l’oculi-

stica. Colagrande: Sì. Era in viaCastelfidardo. Allora l’indi-rizzo era quello. Adesso

hanno aperto quella parteambulatoriale che fecerodopo un po’ di anni sulpiazzale PrincipessaClotilde.Pozzi: A chi è andatal’altra cornea donato da

don Carlo?Colagrande: Siccomenon avevano trovato unaltro caso possibile tra iragazzi o le ragazze dellaFondazione, il prof. Gale-azzi ha scelto Amabileche conosceva perché erain cura da lui. Lei haavuto poi un decorsomolto più semplice del

mio. Le procedureper il trapianto al-lora erano una cosapesantissima. Io

sono rimasto a lettoquasi quindici giorni, con

il salsicciotto di sabbia intorno eguai a muoversi, tutto bendato sututte e due gli occhi. C’era il timore

vamo. L’ho quasi sfiorato, ma nonmi ha detto assolutamente niente.Dieci giorni dopo don Piero Ge-melli mi chiama e mi dice: “Guardache il viaggio in Svizzera non si puòfare. Sono sorte delle complicazionie dobbiamo rinunciare. Ci saràun’altra possibilità; non lo soquando, però adesso studia con ilbraille e continua nel tuo impegno”.Avevo appena compiuto 11 anni e ipensieri che mi preoccupano veni-vano spesso dissolti dalla compa-gnia degli altri ragazzi e anche daiprofessori che animavano le loro le-zioni in maniera molto fantasiosa.A metà febbraio del 1956. DonPiero ci radunò tutti, ci dissedelle gravi condizioni di salutedi don Carlo, invitandoci apartecipare lunghi turni dipreghiera per invocare lasua guarigione. Improvvi-samente il 27 febbraio èvenuto a Roma il prof. Gale-azzi. Ha voluto visitare tuttii componenti della sezionenon vedenti; mi ha ritro-vato; mi ha riconosciuto.E mi ha segnato subito.Anzi, lui al momento nonmi ha detto niente; peròun’ora dopo le suoresono venute a prendermi,mi hanno preparato perpartire per Milano. Manessuno mi ha dettoniente. Mi hanno affidatoal maestro di musica perportarmi a Milano, ec’erano già i giornalistifuori dalla sede cheaspettavano notizie sudon Carlo; c’erano lesuore Salesiane inpianto. Ci hannofatto uscire da uncancelletto laterale,di notte, e abbiamofatto tutto il viaggioin treno. La mattina allastazione Centrale di Milano c’eranoancora i giornalisti e fotografi. Ionon capivo, e nemmeno il maestro

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che spostando l’occhio si spostassela cornea. L’infermiere stava tuttanotte al mio letto curando che ionon mi muovessi. Solo dopo tregiorni mi hanno fatto la prima me-dicazione. Mi hanno sbendato. Ilprof Galeazzi mi faceva vedere ledita e io le riconoscevo a distanza.Poi subito le gocce, nuovo bendag-gio e dopo tre giorni altra medica-zione. Solo dopo quindici giorni mihanno sbendato l’altro occhio. Dopoqueste due settimane, mentrel’Amabile era stata dimessa perchéil decorso post-operatorio era per-fettamente regolare, io avevo pro-blemi perché stava avvenendo unregresso. Allora il prof. Galeazzi miha tenuto in ospedale. Mi hanno cu-rato con diversi metodi, mi facevanoanche applicazioni di una tecnolo-gia che veniva definita “radar”. Unapparecchietto che mi veniva pas-sato davanti agli occhi dal prof. Ce-lotti, aiuto del prof. Galeazzi, concui poi ho avuto sempre un rap-porto molto affettuoso e a lungonegli anni perché il giovedì mi por-tava a casa sua a giocare con il figlioche aveva più o meno la mia età.Sono andato avanti fino alla fine digiugno-inizio di luglio. La cosa mi-gliorava un pochino ma il prof. Ga-leazzi, non essendo soddisfatto,

pensava di farmi un’altra opera-zione. In quell’epoca ogni tanto ve-niva a trovarmi don Renato, che allafine aveva chiesto al prof. Galeazzidi lasciarmi andare alla casa di Sa-lerno, al mare, con gli altri ragazzi.Il professore ci ha pensato per unasettimana, poi mi ha lasciato andare.Sono stato un mese a Salerno equando sono rientrato all’Oftalmicole condizioni dei miei occhi eranomigliorate. A ottobre così sonostato definitivamente dimesso. Sonoallora tornato a Inverigo per rifarela terza elementare. Nel contesto della mia vicenda ri-cordo che il maestro, un giovanis-simo senatore Forni che insegnavaqui, mi aveva scelto per fare lascuola media. Allora per entrarenelle medie bisognava fare unesame di ammissione. Però le mediesi trovavano a Roma e là sono tor-nato. Fu in quella circostanza chedon Piero, una sera che si era fer-mato, come suo solito, a chiacchie-rare con noi, mi disse: “Il rinvio deltuo viaggio in Svizzera con la CroceRossa è dovuto a don Carlo che erapassato di qui a Roma in quel set-tembre del ’55 e mi aveva detto disospendere tutto perché ci avrebbepensato lui…” Io so poi da una te-stimonianza del prof. Galeazzi - che

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aveva scritto alcuni suoi ricordi diquesta vicenda sul giornalino del-l’Oftalmico nel 1986 -, che quandodon Carlo l’ha chiamato alla Co-lumbus, gli ha detto di questa suaintenzione e gli ha indicato me, gliha detto che ero a Roma e mi haanche descritto fisicamente. Solo allora mi sono reso conto chedon Carlo aveva già fatto la suascelta per la donazione di cornee.Avevo sì capito il senso del gestoche lui faceva, ma non avevo la co-gnizione precisa di questa indica-zione così netta. Se posso tornare aiquindici giorni di ospedale dopol’intervento, ricordo anche alcunecose che mi emozionano ancoraoggi. Infatti avevo sempre avuto vi-cino mia mamma, che non vedevoda tanto tempo perché anche lei eragià ammalata. Poi venivano a tro-varmi delle personalità. Per esem-pio il card. Montini, alloraarcivescovo di Milano e poi PapaPaolo VI. Un’altra cosa che ho giàdetto anche in televisione, perché laconservo ancora: un regalo ano-nimo che non ho mai saputo da chisia arrivato, ma che manifesta ilsentimento di santità verso donCarlo. Una medaglietta, che portosempre al collo: vi è riprodotto ilvolto di Gesù Cristo e sul retro c’èla scritta: “Io sono la massima reli-quia di don Carlo Gnocchi. RendoGloria a Dio e onore alla scienza”. Da allora l’ho sempre conservataperché ho sempre avuto idea di donCarlo come di una persona assolu-tamente eccezionale, assolutamentefuori dalla norma. Poi ho avuto lagioia di poter vivere il tempo deigiochi con tutti i miei compagni, quia Inverigo. Ci divertivamo molto.Pozzi: Ma lei era a Roma a fare lescuole medie…Colagrande: Sì, sono rimasto aRoma per il tempo delle medie. Poidon Piero Gemelli mi ha assegnatouna borsa di studio e mi ha mandatoal centro appena sorto di Milano, inCapecelatro. Lì ho trovato fratel Fe-lice Proi, uno dei Fratelli delle

Scuole Cristiane, che dirigeva inquegli anni il Centro, che ha comin-ciato con me e con qualcun altro unesperimento didattico-educativo in-novativo. Ci faceva frequentare lescuole cittadine. Per cui io mi sonoiscritto in un liceo tecnico-lingui-stico, frequentando, in una zona diCorso Sempione. Ero al Centro S.Maria Nascente, facevo le attivitàdel Centro, però andavo a scuolafuori. Con questa modalità poi, nel-l’arco di due-tre anni siamo diven-tati centocinquanta; alla mattinapartivamo per frequentare le scuolemedie superiori e poi rientravamodopo le lezioni. Eravamo tutti moltoimpegnati e contenti del nostromodo di essere studenti. È stato unperiodo molto bello. Eravamo sem-pre impegnati in tantissime attivitàperché i Fratelli non ci lasciavanomai sull’ozio. La domenica si andavaa scuola al Gonzaga dagli altri Fra-telli; fratel Beniamino teneva i corsiper catechesi… Bisognava fare sem-

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pre delle cose in più, mai in meno.E poi i risultati scolastici erano im-portanti.Pozzi: Come proseguì dopo que-sta fase di studi?Colagrande: Quell’istituto chefrequentavo doveva avere un quintoanno propedeutico per passare al-l’università. Invece il Ministerodella Pubblica Istruzione ha ritar-dato ad approvare le normative perquesto anno e così io mi sono fattole magistrali privatamente perchécon quel titolo si poteva, all’Uni-versità Bocconi. Ho frequentato lafacoltà di Lingue che allora era unadelle facoltà più significative. Alcunianni dopo quel corso però è statochiuso e hanno tenuto solo Econo-mia e commercio. Avevo scelto ilcorso per la specializzazione in lin-gua inglese, con seconda lingua iltedesco. Alla fine ho dovuto sce-gliere: o insegnare o magari, fare iltraduttore. Non sapevo risolvermiperò a lasciare la Fondazione e rom-pere soprattutto quel legame affet-

tivo che si era costruito negli anni.Volevo anche esprimere un minimodi riconoscenza; una forma di resti-tuzione di quanto avevo avuto dadon Carlo e dalla sua opera. Allafine, dopo tante riflessioni, ho de-ciso di rimanere in Fondazione.Prima mi sono occupato, come edu-catore, dei ragazzi; poi sono statoassunto. Il presidente di allora,Mons. Ernesto Pisoni, mi portò quiin aiuto al sacerdote che dirigeva inquegli anni. Dopo un paio di annisono tornato a Milano per occu-parmi della riorganizzazione degliaspetti amministrativi, gestione ac-cettazione, gestione pazienti, ecc.Poi ho fatto esperienze di informa-tica (le primissime di allora…).Quindi ho fatto tutto il percorsodell’amministrazione e della ge-stione fine all’incarico di dirigere ilCentro di Inverigo.Pozzi: Nel suo ruolo di che cosa sioccupa in particolare?Colagrande: Dell’organizza-zione dei servizi e del loro sviluppo,

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di tutte le problematiche della ge-stione del Personale, della sicu-rezza, delle relazioni con gli entiterritoriali, con le associazioni divolontariato, di tutto l’insieme dellavita del Centro, sia in rapporto agliutenti che alle problematiche postedall’erogazione dei servizi. Bisognafar bene nel presente e preparare ilfuturo. Abbiamo predisposto unaCarta dei servizi che rende un po’l’idea della complessità dei nostriimpegni. Credo di poter dire cheabbiamo compiti complessi. Per-ché? Perché assistiamo sessantunobambini, in età evolutiva, che sof-frono di patologie multiple; questibambini in generale non hanno senon scarsissima autonomia. Tuttoil lavoro tra l’assistenza, l’educa-zione, la riabilitazione… sono tuttielementi concatenati che sono con-tenuti in un contesto che si chiamaPiano educativo riabilitativo inte-grato per dare loro delle opportu-nità nella fase di crescita arecuperare tutto quello che ancorapossono potenzialmente esprimere.Il lavoro, come si può intuire, ècomplesso. E anche gli operatoriche vi sono impegnati, devono con-tinuamente aggiornarsi, for-marsi… Abbiamo una situazionemedica che si colloca tra la neurop-sichiatria, la fisiatria, l’ortopedia, lapediatria… Pozzi: In tutto quanti ospitiavete?Colagrande: Di questi sessan-tuno in età evolutiva, trentasei sonoricoverati e venticinque in degenzadiurna. All’interno abbiamo poiquattro sezioni di scuola dell’infan-zia statale, dedicata esclusivamenteai nostri: per sedici alunni, ottomaestre. Accanto a tutto questo si èsviluppato, per l’handicap degliadulti, un centro diurno per disabilimedio-gravi. Si svolgono attività ditipo educativo, animativo, labora-tori, pittura, attività teatrali-cine-matografiche. Partecipano sempreal Concorso del cinema nuovo diGorgonzola. Stanno realizzando un

progetto che su chiama Amat-Deus.Ci sono di mezzo anche dei perso-naggi. Hanno appena fatto delle ri-prese con la presenza di gentefamosa che vuole rendersi utile informa del tutto gratuita. Abbiamoattività riabilitativa ambulatoriale ea domicilio abbastanza consistente.Abbiamo un ambulatorio a Inve-rigo, uno a Como e uno a Guanzate.Sommando tutti e tre i presìdi fac-ciamo circa centottanta trattamential giorno. . Nel distretto di Guan-zate abbiamo sviluppato tutto unservizio a domicilio, per cui fac-ciamo un po’ di rete fra la situa-zione ambulatoriale e il contestolimitrofo. Pozzi: Non avete anche casi di oli-gofrenia?Colagrande: Sì. Quando accen-navo a patologie multiple intendevoproprio comprendere anche questamalattia. Per dare un’idea dell’in-sieme posso dire che c’è un cin-

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quanta per cento dei nostri bambiniche sono cerebropatici; un altro cin-quanta per cento che fa parte diquelle gamme che rappresentanodeficit mentali, difficoltà di rela-zione, difficoltà dello sviluppo, dif-ficoltà psicomotorie in generale.Quelli che sono definiti più vicinialla patologia artistica sono dieci ododici, per i quali facciamo ancheun laboratorio di Teach, che è unametodica di lavoro tipica. Questibambini soffrono di tante cose in-sieme e l’assenza del linguaggiorende tutto più difficile, se non im-possibile. In questi casi godiamodell’apporto professionale di alcunelogopediste che si occupano dellacomunicazione aumentativa e alter-nativa.Pozzi: Un lavoro enorme, com-plesso, e spesso i risultati sembranon ci siano. Ci vuole coraggio,tanto coraggio. E tanto amore perquesti bambini.

Colagrande: È come dice lei.Anche per questo noi facciamo ognisforzo con le famiglie affinché man-tengano i loro rapporti affettivi coni bambini sistematicamente e incontinuazione. La famiglia deve es-serci accanto al nostro lavoro. Tan-t’è che, insistendo, sono riuscito afar costituire ai genitori una loroAssociazione e così sono diretta-mente coinvolti e partecipi alle no-stre programmazioni e alle nostreattività. Nel 2008 ho fatto i “focusgroup” con le famiglie, per capirecosa loro si aspettano da noi, pervedere cosa è possibile fare con lapartecipazione, la condivisione, uncoinvolgimento che faccia capire ilimiti della situazione in cui si tro-vano i bambini. In realtà papà emamma hanno sempre la speranzadi vederli guariti. È difficilissimoper loro accettare i limiti dei bam-bini. Per questo dobbiamo condivi-dere il progetto di aiuto ai bambinistessi. Pozzi: Caro direttore, da quantianni lei può vedere, e quindi riescemeglio a fare tanto bene a favore dichi soffre, grazie alla cornea di donCarlo?Colagrande: Ormai da cin-quantatré anni. Sul momento, erocosì contento, così desideroso difare, di vivere, che non ho apprez-zato fino in fondo il dono che avevoricevuto. Il tempo dell’università miha fatto crescere molto nella consa-pevolezza, nel desiderio di rimanerea lavorare in Fondazione per dareuna testimonianza quotidiana: è ilmio modo di mantenere quel le-game che mi ha accompagnato sem-pre. Pensi anche solo al fatto che lacornea non ha mai avuto un pro-blema. Sono tornato spesso dalprof. Celotti per salutarlo e nel1992 mi ha visitato l’ultima voltadicendomi che le cose erano comesubito dopo il trapianto.

Testi a cura di: Leonio CallioniHa collaborato: Leonida Pozzi

Foto di: Paolo Seminati

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La Beatificazione di don Carlo Gnocchi, di cui l’AIDO era stata patroci-nante insieme alla Fondazione Don Gnocchi e agli Alpini il 30 novem-bre 2002, a Roma, con una istanza presentata a Papa Giovanni Paolo II,è forte del miracolo di cui ha beneficiato il signor Sperandio Aldeni, diVilla d’Adda.

In queste pagine raccontiamo, utilizzando una parte di un libro scritto sulla vicenda,i momenti più significativi del gravissimo incidente che avrebbe dovuto causare lamorte immediata del sig. Aldeni, il quale invece ne uscì con danni lievi se rapportatialla scarica di 15 mila volt che lo investì durante il suo lavoro.Riteniamo però importante sottolineare quanto il signor Aldeni, già volontario nellastruttura di don Gnocchi e iscritto all’AIDO, abbia vissuto la sua vicenda in un con-testo di fede profonda, di amore per don Gnocchi e per il prossimo che si è tramutatopoi in un impegno ancora più grande e assiduo nella diffusione della cultura della do-nazione. Alcuni passaggi del racconto che segue illuminano sulla personalità parti-colarmente generosa e sensibile del signor Sperandio Aldeni. Ma quanto fatto a Villad’Adda (dove per esempio ha fondato il Gruppo dell’AIDO e la Sezione dell’AVISfacendosi promotore anche di molteplici iniziative di solidarietà); il suo servizio al-l’opera di don Gnocchi di Inverigo e tanto altro che fa parte della storia personale diSperandio Aldeni sono elementi che concorrono a comporre la figura di un uomo ec-cezionale, di statura morale fuori dal comune, un esempio non solo per noi dell’AIDO,ma per tutti coloro che affrontano con sincerità la riflessione sul senso di una vita fon-data sull’amore, sulla fede, sulla solidarietà.

È il 17 agosto 1979. Sperandio Aldeni, arti-giano ed elettricista, è al lavoro come tutte

le mattine. Quel giorno si trova ad Or-senigo, in provincia di Como, a pochipassi dallo stabilimento della Carto-tecnica. Intorno alle ore 16, Aldenientra nella cabina di trasformazione

da 15 mila volt per collegare l’inter-ruttore primario alla linea che arrivadall’Enel. Aldeni chiama GiuseppeCrotta, direttore della commessa, egli chiede di togliere la corrente. L’al-tro armeggia, poi torna indietro e av-

visa il tecnico: è tutto a posto.Aldeni può procedere:

toglie la barriera cheprotegge la linea intensione e prendeun tondino dirame per colle-garlo al gancio disostegno. Opera-

zione di routine, ef-fettuata chissàquante volte in pre-cedenza. È inpiedi, su un arma-dio di lamiera, che

contiene l’interrut-tore da 15 mila volt, ad

un paio di metri da terra:

Il «miracolo»di don Carlo

Dal volume “L’Ardimento. Raccontodella vita di don Carlo Gnocchi”(Stefano Zurlo, Rizzoli 2006)

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l’ambiente misura, ad occhio e croce, tre metri per quattro. Improvvisamentea una quindicina di centimetri dai suoi occhi vede un fulmine e sente un tuono.Il tuono che porta la morte, ma ormai è troppo tardi per tentare una qua-lunque fuga. La scarica lo investe in pieno: penetra dalle braccia, passa at-traverso il corpo, scende giù giù fino ai piedi. Poi, finalmente, lo abbandona.Il poveretto cade, picchia la fronte con violenza sui codoli della cella. Tremacome un grattacielo quando c’è il terremoto. E in effetti è quella la sensazioneche squassa il suo corpo: il terremoto. Violentissimo. Devastante. Aldeni siaccartoccia su se stesso e rimpicciolisce tanto quello schiaffo lo ha schiac-ciato. «Sentii una tremenda vibrazione in tutto il corpo - afferma nella rela-zione allegata agli atti del processo diocesano - con una forte attrazione versoil basso e un forte rumore come un terremoto, il mio corpo si è raggruppatoin 40 centimetri, come una molla compressa, la fronte ha picchiato sui codoliche avevo fra i piedi...» .Quindicimila volt nella carne. E tre visioni in rapidissima successione: iltuono, il fulmine, il terremoto. Il terremoto non vuole finire: lo sfortunatoelettricista continua a vibrare. Come una foglia. Piccola. Sempre più piccola.Come risucchiata da una forza interna invisibile. È rannicchiato su se stesso.Gli occhi chiusi, immersi nel buio più profondo. Eppure la mente continua agirare: «Rimasi lì credo qualche minuto, aspettando la morte, sempre con lamente lucida, mi ripetevo che avevo preso una scarica di 15 mila volt, ormaimi consideravo spacciato, la sedia elettrica per la pena capitale è 6 mila volt.Ripetevo dentro di me: “Adesso muoio, adesso muoio”».Passano i secondi. Scorrono i minuti. Un timidissimo istinto di sopravvi-venza fa capolino nella mente dell’uomo: prova ad aprire gli occhi. Ci riesce.Vede sangue ovunque. Però capisce che gli occhi funzionano. E si accorge disentire anche un nauseante odore di carne bruciata: la sua. Allora esegue il

30 novembre 2002: il cav. Leonida Pozzi, vice presidente nazionale Aido,con Giovanni Paolo II in occasione della supplica per la beatificazione di don Carlo Gnocchi.

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passo che ogni persona compie quando da morta torna alla vita: «Cominciaia gridare! Chiamavo il Signore, la Madonna, supplicai don Gnocchi di aiu-tarmi perché non sentivo più le gambe, pensai che sarei rimasto in carroz-zina per sempre come i suoi ragazzi che portavo in giro». Sì, perché Aldeninel tempo libero va ad Inverigo, alla Rotonda, il magniloquente edificio neo-classico firmato ai primi dell’Ottocento da Luigi Cagnola che ospita un cen-tro della Fondazione don Gnocchi: saluta il personale, prende i bambinihandicappati e li porta in gita, al ristorante, a giocare, o a casa sua a Villad’Adda, sulle rive del fiume immortalato nei Promessi sposi. No, lui non hamai conosciuto don Carlo ma a frequentare Inverigo è diventato un suo de-voto. «Erano scappati tutti convinti che fossi morto, cominciai a gridare: ”to-glietemi di qui”, loro non osavano entrare… io ripetevo ” il sezionatoreprimario, il sezionatore primario”, non si sono resi conto che era rimastochiuso il sezionatore primario che porta la corrente dell’Enel. Sisto e Fir-mino sono stati i primi ad avere il coraggio di entrare in cabina, si sono av-vicinati ma non sapevano come prendermi... perché continuavo a gridare daldolore, mi sembrava che la corrente non mi lasciasse più, il mio corpo con-tinuava a vibrare».Firmino è Fermino Brembilla e fa parte della squadra in azione a Orsenigo.Quando parte la scarica è in un cunicolo sotto la cabina: «Ero sotto con la miasolita pila, quando ad un certo punto ho sentito dei colpi strani: normalmenteuno ormai riconosce anche i rumori dei lavori, che si stanno eseguendo anchedagli altri. Non erano i soliti rumori». No, è il drago che sta per sputare lasua lingua di fuoco: «Il tempo di sentire questi rumori strani e nello stessoistante vidi un bagliore accecante - come un lampo - che illuminò tutta la ca-bina. Fu questione di frazioni di secondo. Subito sentii Aldeni che gridava eche saltava e sotto nel cunicolo tutto rimbombava in modo impressionante.Poi capii che era lo stesso Aldeni che si agitava tutto e gridava. Un po’ Al-deni gridava, un po’ pregava, un po’ non capivo. Non ricordo bene data l’emo-zione: certamente però ricordo bene che gridava per il dolore, ma anchepregava… Ricordo che Aldeni era sempre cosciente, si lamentava pregava.Diceva che stava morendo e ci scongiurava di aiutare la sua famiglia. Pregava

la Madonna e le affidava lasua famiglia…». Finalmente Brembilla si av-vicina ad Aldeni. Anzi no,non subito, lo choc è troppogrande pure per lui: «Mi civolle circa un minuto peruscire dal cunicolo in cui mitrovavo. Sentivo Aldeni gri-dare e non vedevo nessuno,allora preso da paura corsiall’aperto. Fuori c’erano glialtri. Allora rientrammo.Sentimmo che Aldeni gri-dava: ”Il sezionatore. Stac-cate l’interruttore”. Alloracapimmo che, probabil-mente, si erano sbagliati adaprire gli interruttori. Cor-sero a staccarli mentre io ri-masi lì con Sisto Locatelli e,forse, con Ferdinando Maz-

zoleni prendemmo Aldeni e lo portammo fuori. Ricordo che aveva un bucoin fronte perché, saltando per il dolore aveva picchiato la testa in uno dei co-doli, che erano predisposti. Colava sangue dalla fronte. Si vedevano dellebruciature sul petto, sullo stomaco». Ma questo è ancora niente: «Ma mi col-pivano di più i piedi, anche perché io tenevo le gambe e mentre lo portavamofuori, Aldeni era tutto raggrinzito e gridava.” Non sento più le gambe, nonho le gambe”. E si lamentava.. Allora, gli dissi, per confortarlo: “No guardache le gambe le hai ancora “ e dicendo così presi la scarpa per toglierla e mivenne via insieme la scarpa e la carne cui essa si era attaccata, mentre si sen-tiva un forte odore di carne bruciata, mentre non usciva neppure una gocciadi sangue. Ricordo bene ancora quell’odore di carne bruciata, senza che si ve-desse sgorgare sangue e quella carne che si era attaccata alle scarpe e la sen-sazione terribile mentre cercavo di staccare con le mie dita la carne del piededalla scarpa. Poi desistetti un poco inorridito»Sono tutti inorriditi quella mattina. Anche Sisto Locatelli, operaio specializ-zato in installazioni elettriche, che ha visto la scarica e poi non ha il corag-gio di guardare i piedi di Aldeni. «È partita una scarica… apparve unafiammata biancastra azzurrognola, seguita da un’esplosione dopo un attimo,nel quale nessuno si rende conto di quello che sta succedendo, ho visto il si-gnor Aldeni piegarsi su stesso, rannicchiarsi e cominciare ad urlare per ildolore… Quando ritornai presso Aldeni vedevo le mani bruciate, la pellenera, mentre invece non vidi la pancia e i piedi. Anche in lettiga non guardaii piedi, preoccupato com’ero di tenerli sollevati. Ricordo anche l’odore dicarne bruciata che si sentiva».Nell’équipe che quella mattina è a Orsenigo c’è anche Marzio Aldeni, figliodi Sperandio: «Mi affacciai alla cabina e vidi in alto sulla cabina mio padre chegridava per il dolore. Fu un istante e mi bastò: preso dal panico scappai, die-tro una pigna di cartoni e mi misi a piangere…». Marzio scappa, il padre loinvoca, ma lui resta lì, inebetito, dietro quegli imballaggi: «Ricordo ancoramio padre che si lamentava per il dolore e in bergamasco diceva: “O Signurguarda giò! Madonna! Don Gnocchi!”. Ricordo bene queste tre persone chemio padre invocava nel lamento: il Signore, la Madonna, don Carlo Gnoc-chi. Non erano frasi complete. Erano lamenti, erano invocazioni al Signore,alla Madonna e a don Carlo Gnocchi. Era comprensibile: mio padre era moltovicino alle opere di don Carlo Gnocchi». Finalmente, Marzio decide di rag-giungere il padre che continua a chiedere del figlio: «Lo vidi già avvolto nellacoperta sulla barella. Mio padre mi disse che andava all’ospedale, di aiutarela mamma, di prendermi cura dei miei fratelli. Non ricordo le parole precise,ovviamente. Diceva: ”aiuta la mamma, che i tuoi fratelli sono piccolini”». Certo, perché in quel momento c’è anche quel problema. Sperandio, classe1934, ha 45 anni e una famiglia: la moglie Amelia, i tre figli Marzio, Loretta,Alessio. Marzio è il più grande anche se non ha ancora compiuto nemmeno18 anni: «Ricordo che sembrava un saluto, un testamento, una raccomanda-zione da parte di chi non avrei più visto vivo. Non mi disse mai: ”Ci rive-diamo”».Aldeni arriva finalmente al Pronto Soccorso di Erba. Il suo cuore batte re-golarmente, è sempre cosciente, riesce a parlare e ricorda ancora oggi queimomenti: «La dottoressa diceva: “Non possiamo tenerlo qui. È troppo grave”.Allora, sentendo questa affermazione, mentre ella telefonava, le dissi: “Sedevo morire, toglietemi l’occhio sinistro”». Aldeni non parla a vanvera: fra lealtre cose è anche membro dell’Aido, l’Associazione Italiana Donatori Organi,e anzi ha fondato la sezione di Villa d’Adda. «Ricordo che la dottoressa al te-lefono, sentendomi, ripeteva ”Non capisce più niente”, mentre io le dicevoche sapevo bene cosa stavo dicendo, perché ero cosciente e le ripetevo che ero

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membro dell’Aido». Passano i minuti: Sperandio è sulla barella, Sisto gli tienele gambe sollevate, la dottoressa è sempre attaccata al telefono per trovargliun letto da qualche parte. Queste sono le prime cure date ad un uomo che haappena subito una scarica di 15 mila volt.In realtà è ormai evidente che Aldeni ce l’ha fatta: è vivo e sta molto megliodi quel che i dolori gli fanno pensare. Più tardi lo portano alla Clinica San Pie-tro di Ponte San Pietro che, peraltro, non è un ospedale specializzato. Qui ri-mane fino al 29 quando viene trasferito agli Ospedali Riuniti di Bergamo nelCentro Ustioni gravi, diretto da Mauro Serra, chirurgo e dermatologo. Serralo visita e lo trova in uno stato relativamente buono come confermerà ven-ticinque anni più tardi nel corso del processo diocesano: «Il signor Aldeni sitrovava in discrete condizioni generali, seppure con focolai di lesione estesie profondi. Ugualmente - prosegue nella sua riflessione Serra - presso la Cli-nica San Pietro il paziente era stato portato verosimilmente in condizionistabilizzate, altrimenti sarebbe stato trattenuto in unità di rianimazione, comedi solito avviene in casi simili, anche per accertamenti cardiologici: normal-mente il primo rischio e problema grave nelle esposizioni a correnti elettri-che elevate è di tipo cardiologico»; e infatti Serra sottolinea di «essere statocolpito dal fatto che il paziente al primo soccorso medico e trasporto in au-toambulanza si trovasse in condizioni cardiologiche e respiratorie discrete».Inspiegabile. «Tutto - è la conclusione di Serra - si è giocato in quei primi mo-menti; se è successo qualcosa che il buon Dio abbia dato una mano al signorAldeni, è stato nei primissimi momenti». Lui ne è sicuro. E già a Ponte San Pietro lo dice a chiare lettere a Marzio: «Saiche la corrente mi doveva uccidere? Sai che ho preso una corrente di 15 milavolt e che dovevo morire? Allora io sono un miracolato. Sono un miracolatodel don Carlo. Il Signore si attende ancora qualcosa da me». Alla fine gli ri-scontrano “solo” ustioni di 3° grado all’ipogastrio (addome) e alle piante deipiedi, di secondo grado alle mani. Nessun organo vitale è stato messo fuoriuso dal fulmine. Un caso più unico che raro?Aldeni migliora rapidamente. Si sottopone ad un autotrapianto di pelle, dallacoscia destra ai piedi e all’addome. Il 20 ottobre 1979 viene dimesso. Si ap-poggia ancora alle stampelle, ma poi butta via pure quelle. Dopo qualchetempo ritorna alla vita normale di prima. Alla sua famiglia. Ai suoi impiantielettrici. Senza alcuna conseguenza. A parte quelle cicatrici sulle mani, sul-l’addome e sotto i piedi. Il 23 dicembre 1979 è sulla tomba di don Carlo. Agli amici ha detto: «Io vadoa ringraziare don Carlo». Sulla strada del ritorno si ferma alla Rotonda di In-verigo. Nell’attimo in cui pensava di essere arrivato alla fine della sua esi-stenza, Aldeni aveva pensato proprio ai bambini di Inverigo e aveva invocatodon Carlo: «Come farò a tornare dai tuoi ragazzi?». Don Carlo l’ha accon-tentato. Rieccolo fra di loro. Il 7 aprile 1980 l’Inail lo dichiara clinicamenteguarito. Lo stesso anno Aldeni prende la patente C, quella per la guida degliautocarri.Ventiquattro anni più tardi, è il tribunale ecclesiastico ad interessarsi del fattoche la vox populi, almeno a Villa d’Adda, qualifica come miracolo. Vieneascoltato Sperandio, che gode di ottima salute, vengono sentiti i familiari, icolleghi presenti quel giorno a Orsenigo, i medici che l’hanno assistito. Poiviene data la parola a Aldo Pisani Ceretti, endocrinologo e perito del tribu-nale. Pisani Ceretti sottolinea l’assoluta «eccezionalità della sopravvivenzaimmediata all’evento folgorativo, che è rarissima in casi del genere». Ma c’èun altro aspetto che Pisani Ceretti nota e che è particolarmente suggestivo,persino intrigante: «La totale assenza di danni tessutali, dovuti alla scaricaelettrica. Ovverosia, anche in caso di non evento mortale, si sarebbero dovuti

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riscontrare dei segni di sofferenza di organi interni, attraversati dalla cor-rente. In modo particolare: muscoli con possibile miolisi e conseguente in-sufficienza renale, lesioni nervose centrali o periferiche (deficit neurologicicentrali, deficit neurologici spinali, deficit neurologici dei nervi periferici), le-sioni ossee con possibili fratture conseguenti alla scarica elettrica e la cata-ratta, che è frequente conseguenza di una scarica elettrica».La folgore è passata dentro il corpo dell’uomo, lo ha scaraventato a terra,come nei racconti biblici, poi se n’è andata senza lasciare traccia. Com’è statopossibile? Forse le cose sono andate diversamente? No: «La scarica elettricadi 15.000 volt ha attraversato tutto il corpo del signor Aldeni, come dimo-strano le cicatrici di entrata alle mani, all’addome, e le cicatrici di uscita aipiedi, senza lasciare tuttavia alcuna traccia di sé all’interno dell’organismo».Pisani Ceretti aggiunge anche un dettaglio, piccolo piccolo ma allo stessotempo straordinario: «Il fatto che il signor Aldeni si sostenne con le stam-pelle nei primi mesi dopo l’evento, non è dovuto a problemi neurologici, bensìal fatto del dolore provocato alle piante dei piedi a seguito del recente inne-sto di pelle. In altre parole: il dolore nella deambulazione era legato alla sen-sibilità della pianta del piede per il trapianto, non alle conseguenze dellafolgorazione».Quel fulmine terribile, alla lunga, ha fatto meno male di un graffio.E Gianfranco Magni, perito industriale, aggiunge: «La potenza in gioco èstata sicuramente pari o superiore alla potenza di un motore di un autocarroo, se si vuole, il motore di mezza Ferrari di Formula 1...Questo è l’unico caso,a mia conoscenza, di una persona sopravvissuta a una folgorazione diretta».Questi i fatti esaminati dal tribunale ecclesiastico nel 2004 e ora oggetto divalutazione in Vaticano da partedella Congregazione per le cause deisanti. Ciascuno, naturalmente, è li-bero di interpretarli come megliocrede. Va detto che Aldeni è uomoconcreto, pratico, semplice, dal 1998va in pensione ma rimane immersoin tante attività di volontariato. Nonama farsi pubblicità e nemmeno spe-culare sull’avvenimento che gli è ca-pitato. Anzi, il suo comportamentopuò in certo senso definirsi eroico:nel 1979, davanti all’ispettore del-l’Inail preferì addossarsi la respon-sabilità di quel che era successoinvece di “tradire” il compagno di la-voro che per una imperdonabile leg-gerezza l’aveva quasi speditoall’altro mondo. Ma anche di questonon si vanta e quasi gli pare normaleaver glissato sulla catena delle colpe.All’autore del libro ha confessato, inun italiano dal forte accento berga-masco, di avere ancora due desideri:«Voglio aprire a Villa d’Adda unastruttura polivalente, una casa delvolontariato e degli alpini, che dedi-cheremo a don Gnocchi. E poi vor-rei vedere don Carlo beato».P

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Sperandio Aldeni non vedràquesto giorno perché dueanni fa lasciò questo mondoper andare ad incontrare il “suo” don Carlo. Sicuramente lassù saranno felici insieme.

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Brusio indistinto e poi si-lenzio. La lezione comin-cia. Seduti in un’aula unatrentina di studenti del-l’ultimo anno dell’Istituto

Tecnico “Riva” di Sarnico, in provin-cia di Bergamo. Due parole di intro-duzione, poi la visione di un brevefilmato e l’uditorio che si fa ancora piùattento e partecipe. Che razza discuola anomala è mai questa? Consi-derata la notizia, passata in tutti i TG,della raffica dei cinque in condotta as-segnati in tutta Italia ai ragazzi dellesuperiori, verrebbe da dire che la do-manda è tutt’altro che inopportuna. Acosa attribuire dunque tanta disci-plina? La risposta è semplice e artico-

lata al tempo stesso, sicuramente nonbanale. Innanzitutto il luogo in cui citroviamo non è una comune aula sco-lastica, bensì la sala riunioni del re-parto di Anestesia e Rianimazione IIIdegli Ospedali Riuniti di Bergamo. Lamateria trattata non rientra nei pro-grammi ministeriali, ma attiene allavita e alla cultura sociale della dona-zione. In cattedra non si alternanoprofessori di italiano, matematica, sto-ria o geografia, ma medici rianimatorie infermieri del reparto di Terapia in-tensiva dell’Azienda Ospedaliera, re-sponsabili locali della ASL, dellaPolizia Stradale, del 118, dell’AIDOLombardia. In sostanza si tratta per iragazzi di un’esperienza unica e origi-

Studenti in corsiaCronaca di una lezione particolare

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nale: poter partecipare a una “le-zione… di vita”, una lezione pensataper lasciare un segno, si spera indele-bile, nel loro immaginario. “Lezione divita” è infatti il titolo, più che mai az-zeccato, del progetto di prevenzione,educazione e informazione per gli stu-denti delle classi quarte e quinte degliIstituti Superiori, inventato cinqueanni orsono dalla fervida fantasia deldott. Mariangelo Cossolini, Coordi-natore al prelievo e trapianto d’organidei Riuniti. “Tutto è partito - dice - daldesiderio di trasmettere ai giovani il mes-saggio educativo dell’importanza di do-nare gli organi, nel tentativo di far lorocomprendere, in una modalità il più pos-sibile coinvolgente, la straordinaria fun-zione sociale di questo nobile gesto. Inseguito, riflettendo sul fatto che finaliz-zare l’intervento solo alla donazione or-gani poteva essere riduttivo, ci si èorientati sull’offerta di un pacchetto for-mativo di più ampio respiro, capace di sti-molare una serena riflessione sul valoredella vita”. Ecco quindi l’idea di unpercorso che, partendo dalla preven-zione, si dipanasse per steps cronolo-gici successivi fino alla donazione equindi all’incontro diretto dei ragazzicon la Terapia intensiva e con i pro-fessionisti che quotidianamente si oc-cupano di vita e di morte. Con l’anno2008-2009 si è giunti così alla quintaedizione in un crescendo progressivodi richieste da parte delle scuole supe-riori di Bergamo e provincia. “L’inte-resse dimostrato dalle scuole - continua ildott. Cossolini - è enorme, così comel’apprezzamento - espresso nei questionaridi gradimento - dei 4000 ragazzi chehanno partecipato alle edizioni prece-denti” e che, aggiungiamo noi, alla finedel ciclo di quest’anno raggiunge-ranno la ragguardevole cifra di 5000.Il numero delle lezioni sia interne al-l’Ospedale sia “in plenaria”, ovvero di-rettamente presso le scuole, è infatticresciuto nel tempo, proprio in virtùdi un aumento delle richieste. Si è pas-sati perciò dalle 12-13 del 2004, con3-4 lezioni in esterno, alle 20 del ciclo2008-2009 con 6 lezioni in plenaria.Dove risiede dunque il segreto di

tutto questo successo, cresciuto espo-nenzialmente negli anni? Nell’avercercato, grazie alle indicazioni date dairagazzi, di correggere costantementeil tiro, di apportare dei piccoli ma si-gnificativi cambiamenti all’insegna diuna sempre maggiore vicinanza almondo giovanile e alle sue esigenze.Interattività, affondo nell’esperienza,grande spazio al confronto diretto conprofessionisti ospedalieri qualificatisono solo alcuni degli ingredienti chefanno di questa lezione multidisplipli-nare un innovativo strumento educa-tivo-formativo, di alto valore civicooltreché tecnico-scientifico. Per ca-pirlo meglio basta assistere a una delletante in programma. Quella del 19

Da sinistra: dr. Mariangelo Cossolini e dr. Ivano Riva

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febbraio scorso, che ha visto appuntoprotagonisti gli attentissimi studentidell’Istituto Tecnico “Riva” di Sarnico,è esemplificativa per tutte. Si partecon un breve filmato, realizzato gra-zie alla collaborazione di Bergamo TV,per introdurre i temi che saranno di-scussi. Dodici minuti di un gran belmix di musiche, immagini e contributivocali in cui, oltre agli interventi deiprofessionisti che poi si potranno in-contrare in carne ed ossa, scorrono letestimonianze dei giovani che hannogià partecipato al corso e che espri-mono la loro opinione sulla donazionedegli organi. L’argomento viene dun-que pienamente centrato, ora si trattasolo di declinarlo. Sotteso ai contributidei professionisti che si apprestano aparlare, c’è un invisibile fil rouge con-traddistinto da quattro parole-chiave:prevenzione, cura, morte, donazione.Il compito di introdurre la primaspetta sia alla dott.ssa Silvia Canini,della Direzione Sanitaria dei Riunitisia a Giambattista Rizzi, dell’Ufficioeducazione stradale della Polizia Lo-cale di Bergamo. L’intervento delladott.ssa Canini verte soprattutto sul-l’informazione. Vengono infatti illu-strati alcuni dati forniti dalle ASL checonsentono di inquadrare la situa-zione del consumo di alcol e droghenei giovani e il loro devastante effetto

combinato sulla guida. Poi però allacifre seguono i fatti. La dott.ssa chiedeai ragazzi la loro disponibilità a sotto-porsi a un finto test per la rilevazionedel tasso alcolemico, che suscita -dopo il primo imbarazzo - un certoentusiasmo. Il gioco è un brillanteespediente per far capire a tutti che untasso compreso fra 0.5 (il limite legale)e 0.9 è sufficiente a far aumentare di11 volte il rischio di un incidente stra-dale, con il risultato di mettere a re-pentaglio la propria vita e quella deglialtri. La parola passa quindi a Giam-battista Rizzi, il cui intervento è tuttoun susseguirsi di raccomandazioni persollecitare i giovani a rispettare lenormali regole di comportamento delcodice della strada, ad orientare benele scelte delle sicurezze passive (casco,cintura, ecc.), a prestare attenzione alproprio stile di guida e all’integrità delproprio stato psico-fisico, a valutarebene le conseguenze penali dei proprierrati comportamenti. Si intuiscequanto Rizzi porti tutta la sua espe-rienza nelle parole che pronuncia,quella di vigile - coinvolto in tanti si-nistri - ma anche quella di padre cheben conosce le intemperanze degli ar-dori giovanili, tanto che il suo mes-saggio suona davvero come unsincero e affettuoso richiamo alla re-sponsabilità personale contro tutte le

Dr.ssa Monica Girotto

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devianti logiche di gruppo. Dalla pre-venzione si passa così - a incidenteahimé avvenuto- alla cura, cioè allaspiegazione delle modalità operativedel 118, che ha il compito di stabiliz-zare in loco le funzioni vitali compro-messe dell’infortunato, per trasferirlosuccessivamente nella struttura piùidonea ad accoglierlo. A raccontaredel servizio - entrando nel merito delruolo chiave della centrale operativa edella fondamentale collaborazione deicittadini che attivano la chiamata - èMonica Girotto del 118 di Bergamo.L’attacco è di quelli che colpiscono. “Inun incidente - afferma con decisione -non si rischia di perdere la patente, ma lavita. Per non parlare della sopravvivenzacon esiti gravi che vi assicuro può davverotrasformarsi in un incubo. Pensateciquando vi trovate in condizioni di ri-schio!”. Poi la relazione prosegue conla spiegazione accurata delle informa-zioni da dare nel caso in cui si trovi sulluogo del sinistro “Calma, informa-zione e collaborazione - dice - sono i treelementi indispensabili per attivare unsoccorso veloce e qualificato”. L’unico,viene da dire, che può permettere difar arrivare la persona traumatizzataancora in vita in ospedale, dove ser-vono ulteriori cure e - nei casi di par-ticolare gravità - quelle intensive. Aquesto punto, prima di lasciare spazio

agli altri relatori della mattinata, vieneaccordato un breve intervallo. I ra-gazzi si ristorano con un veloce caffèe noi ne approfittiamo per raccoglierea caldo qualche impressione. “Ti èsembrato di apprendere qualcosa dinuovo?” - domando a un giovane dal-l’aria intimorita - “Sì - risponde timi-damente - tutto ciò che concerne ladonazione organi, di cui non ero infor-mato”. “Ti sei ritrovato in qualcuno deicomportamenti a rischio descritti?” - az-zardo - “Sì - risponde sinceramenteun biondino - non tanto nel bere, che nonmi piace, ma nel guidare ad alta velocità”.“Quale relatore ti ha colpito di più?”. “Ditutti ho apprezzato la chiarezza esposi-tiva - dice ancora il biondino - ma mi èsembrato che il vigile raccontasse espe-rienze più vicine al nostro vissuto”. Eproprio per entrare più preparati nelvivo di un’altra emozionante espe-rienza, quella della visita alla terapiaintensiva, ecco che a dettagliare lafunzione strategica del reparto ci pen-sano due professionisti, ognuno se-condo il proprio personale punto divista. Dal un lato quello dell’anestesi-sta-rianimatore, il dott. Ivano Riva,dall’altro quello dell’infermiere nellapersona di Nunzio Giubertoni. Con ilprimo si entra nel merito della speci-ficità delle cure “che - dice - sono defi-nite intensive perché non possono essere

Da sinistra: dott. Gianbattista Rizzi, dr. Mariangelo Cossolini, sig.a Ester Milani, cav. Leonida Pozzi

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erogate in un normale reparto di degenzae perché permettono, massimizzando losforzo, di sostenere le funzioni vitali delpaziente nella fase più critica e di assicu-rarne la sopravvivenza”. L’interventodel secondo è invece più focalizzatosulla non sempre facile gestione dellerelazioni con l’assistito, incapace di ri-spondere in maniera autonoma alleproprie necessità, ma anche con i fa-miliari e i colleghi. “Fino a poco tempofa i parenti del paziente - dice Giuber-toni - venivano recepiti come un ostacoloall’attività medica; oggi ci è chiaro invecequanto siano una risorsa preziosa nel-l’aiutare la persona traumatizzata a su-perare la malattia e a recuperare le suefunzioni”. L’esito? Una terapia inten-siva che finalmente ha aperto le porteai familiari dei degenti, consentendoloro di superare la barriera di vetrodietro cui venivano relegati. “Ma tuttoquesto impegno vale la pena?” - avevadetto prima il dott. Riva ai ragazzi - Agiudicare dalla percentuale dei pa-zienti (84,8%) che escono vivi dalla te-

rapia intensiva sembrerebbe propriodi sì. Tuttavia, a fronte di risultati cosìconfortanti, resta pur sempre un 15%di pazienti che non ce la fa nonostantele cure. E qui si innesta il contributodel dott. Mariangelo Cossolini a cui,come vero “motore” di questo corso,spetta il delicato compito di spiegarecome la morte, quando non evitabile,possa traghettare altre persone versola vita. Come? Attraverso la dona-zione dei propri organi. Ecco che al-lora il suo intervento si inoltra nelladefinizione delle caratteristiche deldonatore, nella spiegazione di cosa siala morte per lesione cerebrale, nellachiarificazione di quanto inoppugna-bili e garantisti siano gli accertamenticlinici e strumentali che documentanola totale e irreversibile perdita di tuttele funzioni cerebrali. “Bisogna sottoli-neare - dice per escludere ogni frain-tendimento - che tutte queste procedurenon sono finalizzate alla donazione degliorgani bensì ottemperano a una leggedello stato che le prevede sempre nei casi

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Infermiere Nunzio Giubertoni

di lesione cerebrale”. Dopo una rapidaesposizione delle rigorose modalità diassegnazione degli organi, un accennoai futuri traguardi della trapiantolo-gia e una dettagliata relazione sull’at-tività di prelievo e trapianto deiRiuniti, il messaggio si fa ancora piùchiaro “Come abbiamo visto, se la medi-cina oggi non è in grado di curare tutte lepatologie, è però spesso in grado di ridarenuova vita a chi è in attesa di un organo”.Ne sanno qualcosa sia il Cav. LeonidaPozzi, Presidente del Consiglio Re-gionale AIDO Lombardia sia il Si-gnor Angelo Bettani, trapiantatirispettivamente di fegato e cuore. Leloro testimonianze accorate sono latraduzione in termini di esperienzavissuta delle parole pronunciate po-c’anzi dal dott. Cossolini. Difficile riu-scire a riassumerle, tanto entrano nelvivo del dramma della malattia e dellastraordinaria rinascita operata dal tra-pianto! “A 62 anni, nel pieno delle miemolteplici attività come Presidente e con-sigliere nazionale di AIDO - dice Pozzi,dopo aver introdotto l’associazione ela sua opera di sensibilizzazione allacultura del dono - mi ritrovai all’im-provviso con una diagnosi di epatocarci-noma maligno e un verdetto di sei mesi divita. Dopo alcune titubanze, decisi di af-frontare il trapianto e mi misi in lista diattesa, non senza l’enorme dolore per chinel perdere la propria vita l’avrebbe rido-nata a me. Tre settimane di attesa conl’angoscia dei giorni che passavano e poifinalmente il dono di un fegato da unagiovane donna di Varese. Ero rinato! Daallora sono trascorsi dieci anni splendidi eintensi di cui ringrazio ogni giorno il Si-gnore e la mia donatrice”. Di simile te-nore le parole del Signor Bettani,affetto da una miocardiopatia dilata-tiva “Vedevo la morte ogni sera - ricorda- mi mancava il respiro, desideravo il tra-pianto ma nello stesso tempo pensavo chela mia vita era legata alla morte di un’al-tra persona. Poi, dopo essermi rasserenato,finalmente la svolt: arrivò il cuore idoneo.Mi risvegliai in terapia intensiva contanti tubi e dopo 40 giorni di degenzatornai a casa rinato. Cari ragazzi, con-servate la vostra salute come un dono pre-

ziosissimo”. E subito il Cav. Pozzi rin-calza la dose: “Ha detto bene il SignorBettani e io aggiungo anche: ‘Fate tesorodi tutte le conoscenze che avete acquisitooggi, parlatene con i vostri amici e i vostricari e poi decidete se donare o no. Non la-sciate questa importante decisione ai fa-miliari perché potrebbe arrivare in unmomento troppo doloroso, quando non si èsufficientemente lucidi per dire sì. Non ab-biate fretta, però. Prendetevi tutto il tempoche vi occorre, perché quello che avete sen-tito questa mattina necessita di essere rie-laborato e poi … siate protagonisti dellavostra scelta!”. Dopo le toccanti paroledei due trapiantati, che hanno infusocoraggio ai ragazzi, è giunto per loroil momento clou della giornata: la vi-sita alla terapia intensiva. Neanche iltempo di indossare i calzari di prote-zione e già si varca la soglia del lungocorridoio che dà sulla stanza dovegiacciono i malati. La trepidazione deiragazzi è palpabile così come il timoredi disturbare la privacy delle personericoverate. Le domande si affastellanol’una dietro l’altra e a poco a poco, su-perato il primo impatto, emergonoanche le curiosità: “Come è organiz-zato il reparto? A cosa serve quellastrumentazione? Che tipi di terapievengono effettuate?”. L’interesse perquesto luogo, ai più sconosciuto, è al-tissimo e addirittura qualcuno dei ra-gazzi abbozza la propria intenzione discegliere, termini gli studi superiori,una professione sanitaria. Alla fine siha proprio l’impressione, guardandoi volti tesi ma sereni dei giovani, cheper loro sia stata un’esperienza indi-menticabile, di quelle che ti fannopercepire in modo drammaticamentevero quanto l’esistenza sia un beneprezioso da non sprecare con com-portamenti errati. E così ci si saluta eognuno torna dove deve tornare. C’èchi prende il pullman per far rientro ascuola e chi , come noi, rincorre l’ul-timo treno utile per rincasare primadel tramonto. Ci accomuna però lastessa coscienza: quella di aver parte-cipato a un’autentica… lezione divita.

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Fino a un decennio fa si rite-neva, contrariamente che inaltri Paesi occidentali, chel’abuso di alcol da parte di gio-vani e giovanissimi, non ri-guardasse l’Italia. Gli ultimiavvenimenti però e recenti in-dagini epidemiologiche hannosmentito tale convincimento.La causa di morte più fre-quente nel nostro Paese per igiovani sotto i 35 anni è rap-presentata dagli incidenti stra-dali. Per larga parte di essi laguida in stato di ebbrezza as-sociata o meno ad uso di dro-ghe è una delle principaliconcause, accanto all’alta velo-cità, alla disattenzione per usodi telefoni cellulari durante laguida ecc.Cresce il consumo di alcolicisia sotto forma di birra, maanche di superalcolici, persino

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nelle fasce di età più giovani, nella prima adolescenza. Sono descritti casi diubriachezza di minorenni di 11 anni di età, senza distinzione di sesso. Nonsono più eccezionali i ricoveri per intossicazione acuta di alcol nei ProntoSoccorso ospedalieri, talora così severi da causare stato di coma.E’ in aumento l’atteggiamento di far uso di sostanze alcoliche, anche in modosmodato, soprattutto nel fine settimana o in occasione di festini per ricor-renze festive, compleanni. Si ritiene dai giovani che l’uso e l’abuso di alcolicilimitato ad occasioni speciali o una volta la settimana non sia dannoso alla sa-lute.Purtroppo l’ignoranza sui danni acuti e cronici dell’uso di vino ed alcolici ingenere è disarmante e non solo nei giovanissimi.Vanni A. scrive su una interessante sua pubblicazione (“Adolescenti tra di-pendenza e libertà” Ed. San Paolo) “ quanto prima un individuo inizia a bere,tanto più rischia di sviluppare problemi connessi con l’alcol negli anni suc-cessivi”. Questa verità deve far riflettere molto genitori ed educatori.Gli adolescenti, ed ancor più le ragazze, sono facilmente esposti a questi pe-ricoli in quanto non sono ancora “maturi” i processi enzimatici che favori-scono la metabolizzazione (digestione) delle sostanze alcoliche.Se un bicchiere di vino, meglio rosso, durante il pasto può essere gradevoleed anche in un certo senso utile per un soggetto adulto, l’introduzione abitu-dinaria di quantità superiori nel nostro organismo causano danni rilevanti anumerosi organi ed apparati del nostro corpo, e non solo, come dai più sicrede, al fegato e all’apparato digerente in genere. La quantità di alcol presente nelle varie tipologie di bevande viene misuratoin unità alcolica, che è pari a 12 g. di etanolo puro. Questa quantità corri-sponde ad un bicchiere di vino di 125 ml a 12°, ad un boccale di birra da 330ml (grosso modo una lattina del commercio), ad un bicchierino di superalco-lico a 40°. Una assunzione abitudinaria di 5 unità alcoliche o più, giornaliere,è sufficiente per causare lesioni non solo a carico dell’apparato digerente, fe-gato compreso, ma anche a livello del cervello e del muscolo cardiaco, cau-sando comparsa di disturbi più o meno severi fino allo scompenso permiocardiopatia dilatativa alcol-dipendente. Uno studio svedese di qualchetempo fa ha osservato che i disturbi cardiaci clinicamente osservati in chiabusa di alcolici hanno una frequenza del doppio rispetto ai disturbi epatici,quali la cirrosi. La prima manifestazione della miocardiopatia alcolica può es-sere la comparsa di aritmie cardiache anche severe, soprattutto in occasionedi ingestione di importanti quantità di bevande alcoliche in soggetti alcolisticronici. Si può verificare in questi soggetti un arresto cardiaco che, se nonprontamente trattato, porta alla morte.Negli alcolisti frequentemente si osserva ipertensione arteriosa, che può ul-teriormente aggravare la patologia cardiaca. Frequentemente si osservanoparestesie (alterata sensibilità cutanea) e persino sincopi; non dimenticandoche l’uso di bevande alcoliche in coloro già colpiti da cirrosi epatica clinica-mente manifesta può scatenare episodi di delirium tremes.Ma non solo chi abusa quotidianamente di alcol è esposto a questi rischi.Anche in soggetti “sani” una intossicazione acuta da etanolo riduce in modoimportante la capacità contrattile del muscolo cardiaco. Sono descritti epi-sodi di tachicardia parossistica importante in giovani che abusano di bevandealcoliche nel fine settimana: la cosiddetta “holiday heart syndrome”.La vera terapia in tali episodi è soprattutto la sospensione di qualsiasi formadi bevanda alcolica, anche di bassa gradazione.Oltre che il cuore e il fegato, anche il cervello è danneggiato sia in acuto chein cronico dall’alcol. I vari effetti sono, almeno in acuto, legati alla concentrazione di etanolo nel

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sangue. Per piccole dosi si osserva euforia e maggior senso di benessere. Poipuò subentrare sonnolenza e sedazione.Compaiono difficoltà a correttamente interpretare i segnali stradali, la pron-tezza dei riflessi si attutisce di fronte a situazioni non prevedibili. Possonoesservi difficoltà di coordinazione nei movimenti.Una ingestione di alcol smodata anche una sola volta, soprattutto nei gio-vani, altera lo stato psichico del soggetto, rendendolo più sicuro di sé, più di-sinibito, in modo tale da fargli compiere azioni riprovevoli, di competenzalegale e penale, come ultimamente riferito nella stampa nazionale.La prevenzione di quanto sopra descritto sta nel non bere bevande alcolicheoltre la unità di etanolo e solo durante il pasto. Anche le terapie delle variepatologie o eventi acuti non risultano efficaci se non si ha l’assoluta astinenzada bevande alcoliche. Nel caso delle miocardiopatie frequentemente già que-sta misura comportamentale permette un significativo miglioramento dellasintomatologia clinica. Se si è ecceduto, ma moderatamente, non mettersi alla guida di automobili oin situazioni di pericolo. Mai ubriacarsi tanto da perdere il controllo delleproprie facoltà mentali o da esporsi al rischio di una emergenza cardiaca.Certo che in molti episodi di cronaca ci si domanda ove siano i genitori diquesti sprovveduti ragazzi. Frequentemente i genitori sono gli ultimi ad ac-corgersi dei problemi di dipendenza da alcol, ma anche da droghe più o menopesanti e dal fumo stesso. Alcuni segnali potrebbero però allertare i genitori attenti alla educazione deiproprio figli, quali un peggioramento dell’andamento scolastico, ritardi pocogiustificati nel rientro a casa specie di sera, frequentazione di nuovi “amici”di cui poco si conosce, strane richieste di soldi o ammanco di soldi.Certo è attualmente più difficile per un genitore porre dei “paletti” compor-tamentali ai propri figli adolescenti, soprattutto se vanno contro le tendenzedel gruppo di appartenenza. Si dice che fare un figlio è facile, educarlo estre-mamente difficile, ma è l’impegno che ciascuno di noi ha assunto quando hadeciso di essere padre o madre.

Dott. Gaetano Bianchi

Il 23 aprile a Roma, l'Istituto superore di Sanità,

in collaborazione con ilMinistero del Welfare e

Organizzazione Mondialedella Sanità (Oms) ha

presentato i dati, raccolti negliultimi 10 anni, sul consumo di

alcol dei giovani. I risultatisono allarmanti: beve per

ubriacarsi (in media da 4 asei bicchieri per i maschi e 3per le femmine) il 64,8% dei

ragazzi e il 34% delle ragazze.Fra questi i minorenni (fra 11

e 18 anni) sono sempre dipiù (42% dei ragazzi e 21%

delle ragazze) e sono piùnumerosi rispetto ai ragazzipiù grandi (19-24 anni). Fra

questi ultimi, infatti, adubriacarsi sono il 19% dei

maschi e il 9% delle femmine.Dopo i 25 anni le percentuali

scendono al 7,5% dei maschie al 5,5% delle femmine.

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La possibilità di reperire be-vande in qualsiasi luogo ein qualsiasi momento, gra-zie alle macchinette distri-butrici dislocate in

qualsiasi luogo, anche a scuola e lenumerosissime pubblicità di be-vande di ogni tipo, dirette ai gio-vani, ha fatto aumentareenormemente il consumo di questiprodotti tra gli adolescenti con ef-fetti negativi sulle abitudini alimen-tari e la salute.

Effetti negativi del consumo di bevande dolci

sul peso e la saluteUna ricerca, pubblicata ad aprile diquest’anno su 4867 adolescenti tra i12 e i 18 anni coinvolti nel NationalHealth and Nutrition Examination,

uno studio di ricerca per valutare lasalute e lo stato nutrizionale neibambini e gli adolescenti negli StatiUniti, ha concluso che chi consumatroppe bevande dolci come bevandealla frutta, bevande sportive o be-vande dolci gassate ha un aumentodei livelli di acido urico nel sanguee una maggiore pressione arteriosasistolica che, con il tempo, possonocompromettere la salute.Un altro recentissimo studio delDipartimento di politica e gestionesanitaria della Columbia MailmanSchool of Public Health, che hapreso in considerazione 3098 bam-bini e adolescenti tra i 2 e i 19 annidi età ha confermato un apportomedio di energia equivalente a circa235 kcalorie al giorno per tutte leclassi di età, dovuto all’assunzione

di bevande dolci al posto dell’acquache, con il tempo, possono portarea sgraditi aumenti di peso.

Attenzione anche alle bevande light

Larga diffusione hanno tra i gio-vani, soprattutto tra le ragazze, pre-occupate per la linea, le bevandelight che impiegano dolcificanti alposto dello zucchero comune (sac-carosio), con lo scopo di ridurrele calorie.Anche se le be-vande a base didolcificanti acalo-rici hanno menocalorie, rispetto aquelle analoghecontenenti sacca-rosio, sembra che,comunque, il loroconsumo possaugualmente in-fluire sull’au-mento di peso, acausa di una mag-giore assunzionedi calorie, perchèconfonde la capa-cità dell’organi-smo di valutare laquantità di calorieassunte con ladieta. Il gusto dolce è as-sociato a un’altaconcentrazione dizuccheri e, quindi,di calorie. Quando aldolce non corrisponde un determi-nato apporto calorico, come nel casodei dolcificanti non calorici, il corpoumano reagisce con un aumentodell’appetito. Inoltre molti dolcificanti artificiali,come ciclammato, saccarina e aspar-tame hanno effetto cancerogeno e leautorità sanitarie consigliano pru-denza nell’assunzione di queste so-stanze. La legge stabilisce le dosi consen-tite per le quali i dolcificanti noncomportano danno per la salute ma

se l’uso di bevande con dolcificanti èsmoderato, le normative vigentinon possono garantire la salute.L’uso di dolcificanti artificiali è co-munque sconsigliato fino al 3° annodi età e durante la gravi-danza e l’allatta-mento.

Succhi, nettari e bevande

a base di fruttaSono bevande consu-mate soprattutto daibambini, molto spessocon la compiacenzadelle mamme che s’illu-dono di sostituire inquesto modo la razionedi frutta.I succhi non hanno lostesso valore nutrizio-nale della frutta checontiene sostanze comela fibra che nel succonon ci sono ma possonocomunque costituire unamerenda equilibrata.L’importante è saperscegliere quelli a base difrutta al 100% che sono isucchi di frutta e quelliche non contengono ad-ditivi. I nettari conten-gono una percentuale difrutta considerevolmentepiù bassa e le bevande abase di frutta comel’aranciata contengono

solo il 12% di frutta .

Gli Energy drinksSono bevande di recente introdu-zione molto diffuse tra i giovani.Queste bevande stimolanti, consu-mate per combattere la fatica e mi-gliorare le prestazioni fisiche,contengono caffeina e taurina, so-stanze riconosciute come attive di-rettamente od indirettamente sullaregolazione nervosa cardiovasco-lare sia nell’animale che nell’uomoe glucuronolattone, una sostanzastimolante che aiuta la concentra-

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zione e aumenta il benessere ma in-torno alla quale ci sono numerosepolemiche che riguardano i suoi po-tenziali effetti nocivi sulla salute.I giovani consumano bevande ener-getiche per non sentirsi stanchianche se dormono poco, per au-mentare l'energia in generale, peravere più concentrazione nello stu-dio, per guidare lun-ghi periodi ditempo, per rima-nere lucidianche seb e v o n oalcol oper ilt r a t t a -mento di unasbronza. Tra le bevandeenergetiche, in Italia è par-ticolarmente famosa la redbull. Un sondaggio tra glistudenti, condotto dal Di-partimento di Nutrizionee Dietetica dell’ East Ca-rolina University ha ri-levato che il 22% diragazzi che

consumavano red bull ha dichiaratodi aver mal di testa, il 19% ha di-chiarato di avere palpitazioni daconsumo di bevande energetiche.L’università di Bologna ha segna-lato un caso di una giovane gioca-trice di pallavolo che si è rivolta alDipartimento di Neuroscienze del-l’Università per la comparsa di ta-

chicardia posturale con episodidi perdita di coscienza

transitoria a causa dellaquale ha dovuto inter-rompere la sua pratica

sportiva. I ricercatorihanno scoperto che la pa-

ziente aveva iniziato a consu-mare una quantità

importante (4-5 lattineal giorno) di Red-Bull

una settimana primadella comparsa dellasintomatologia; allasospensione dellabevanda, tutti i sin-tomi sono regreditie i test ripetuti adun mese di distanzae riconfermatianche ad una visitadi controllo ad un

anno di distanza,sono risultati nega-tivi.

Gli integratori per lo sport

Molto diffusi sono tra igiovani anche gli integratori spor-tivi, energetici, idrosalini o finaliz-

zati all’integrazione di proteine,aminoacidi e derivati o altre so-

stanze nutrienti.I nutrizionisti sono, però

del parere che un’alimen-tazione equilibrata che

copra le esigenzeenergetiche e

nutrizionalil e g a t ea l l ’ a u -m e n t o

de l l ’ at t i -vità fisica sia

32

sufficiente e non abbia bisogno diessere supplementata.Gli integratori energetici possonoessere utili in caso di prestazioniatletiche di lunga durata come unagara ciclistica ma nelle normali at-tività sportive possono essere sosti-tuiti tranquillamente con spuntini abase di alimenti naturali ricchi dicarboidrati come grissini, crackerso fette biscottate con la marmellata.Per reintegrare l’acqua persa du-rante l’attività sportiva, l’AmericanCollege of Sport Medicine consi-glia di bere solo acqua durante l’im-pegno sportivo; 150 - 300 ml ogni15 - 20 minuti e utilizzare integra-tori di carboidrati o idrosalini solose l’attività dura oltre 60 - 90 mi-nuti, in relazione alla durata, all’in-tensità e alle condizioni ambientali,se tali da determinare una perditaidrica pari al 2% del peso corporeo.

Bere acquaLa pessima abitudine di introdurreliquidi calorici al posto dell’acqua èuno dei comportamenti alimentarisbagliati più diffusa tra i giovaniche, abituati ai gusti artificiali deiprodotti industriali che costitui-scono la loro dieta non sanno più di-stinguere e soddisfare i bisogni delproprio corpo. Bere bevande calo-riche quando si ha sete non soddi-sfa la sete che è il segnale che ilcorpo ha bisogno di acqua e non dienergia. Uno studio pubblicato adAprile di quest’anno sulla rivistascientifica Pediatrics da un istitutodi ricerca tedesco, ha coinvolto 32scuole elementari. In 17 scuole sonostate installate delle fontane e sonostate fatte delle lezioni sul consumodi acqua mente 15 scuole sono statestudiate come gruppi di controllo. Dopo l'intervento, il rischio di so-vrappeso è stato ridotto del 31% nelgruppo di scuole in cui si è fattaeducazione alimentare e si sono in-stallate le fontane e c’è stato un au-mento di consumo di acqua di circa220 ml al giorno.

Cristina Grande

Prevenzione

Og

gi

La donazionedegli organi

in Lombardiacon loroper far

fiorire la speranza

con loroper far

fiorire la speranzaCentri di prelievoprovincialiBergamo- A.O. Ospedali Riuniti diBergamo

Brescia- A.O. Spedali Civili Brescia

Como- A.O. S. Anna di Como

Cremona- A.O. Istituti Ospitalieri diCremona

Lecco- A.O. “A. Manzoni” di Lecco

Lodi- A.O. della Provincia di Lodi

Milano- Città di Milano: A. O. Ca’Granda Niguarda,Fatebenefratelli, Policlinico,Policlinico ICP, Ospedale L.Sacco, Ospedale S. Carlo,Istituto Besta, Istituto S.Raffaele

Mantova- A.O. “CarloPoma” di Mantova

Pavia- A.O. Policlinico “San Matteo”di Pavia

SondrioOspedale “Morelli” di Sondalo

Varese- A.O. “Macchi” di Varese

Centri di trapianto

Provincia di Bergamo- A.O. Ospedali Riuniti diBergamo: cuore, polmone edoppio polmone, emifegato,fegato, fegato/rene, pancreas,rene, doppio rene.

Provincia di Brescia- A.O. Spedali Civili Brescia:rene

Provincia di MilanoCittà di Milano: - Ospedale Ca’ GrandaNiguarda: cuore, polmone, dop-pio polmone, emifegato, fegato,pancreas/rene, rene.- Policlinico: polmone, doppiopolmone, emifegato, fegato,rene, intestino- Policlinico ICP: rene- Istituto Nazionale Tumori: emi-fegato, fegato - Istituto S. Raffaele: pancreas,isole, pancreas/rene, rene.

Provincia di Pavia- A.O. Policlinico “San Matteo”di Pavia: cuore, polmone, dop-pio polmone, rene.

Provincia di Varese- A.O. “Macchi” di Varese: rene

BergamoSezione 24125 - Via Borgo Palazzo, 90 Presidente: Leonio CallioniTel. 035.235326Fax [email protected]

Cremona Sezione 26100 - Via Aporti 28Presidente: Daniele ZanottiTel./Fax [email protected]

Lecco Sezione 23900 - C.so Martiri Liberazione, 85Presidente: Vincenzo RennaTel./Fax [email protected]

LodiSezione 26900 - Via C.Cavour, 73Presidente: Angelo RapelliTel./Fax [email protected]

Brescia Sezione 25128 - Via Monte Cengio, 20Presidente: Lino LovoTel./Fax 030.300108 [email protected]

Como Sezione 22100 - Via C.Battisti, 8Presidente: Mario Salvatore BoscoTel./Fax 031.279877 [email protected]

Aido Consiglio Regionale Lombardia Sede: 24125 Bergamo, Via Borgo Palazzo 90Presidente: Leonida Pozzi Tel. 035.235327 - Fax 035.244345 [email protected]

Aido Nazionale Sede: 00192 Roma, Via Cola di Rienzo, 243 Presidente: Vincenzo PassarelliTel. 06.97614975 - Fax 06.97614989 [email protected]

Brescia

Bergamo

Sondrio

Melegnano - Melzo

Monza - Brianza

LegnanoMilano

Lecco

ComoVarese

Pavia Lodi

Cremona Mantova

L’A

ido

Lo

mb

ard

ia

Mantova Sezione 46100 - Via Frutta, 1Presidente: Antonella Marradi Tel. 0376.223001Fax [email protected]

Legnano Sezione Pluricomunale20019 - Settimo Milanese (MI)Via Libertà, 33Presidente: Piero SaffirioTel./Fax [email protected]

Melegnano-MelzoSezione Pluricomunale20066 - Melzo (Mi)Via De Amicis, 7 Presidente: Felice RivaTel./Fax [email protected]

Monza-BrianzaSezione Pluricomunale 20052 - Monza (Mi)Via Solferino, 16 Presidente: Lucio D’AtriTel.039.3900853Fax [email protected]

MilanoSezione Pluricomunale20158 - Via Livigno 3 - Presidente: Maurizio SardellaTel./Fax [email protected]

Pavia Sezione Presso Policlinico Clinica Oculistica27100 - Piazzale Golgi, 2 Presidente: Luigi RiffaldiTel./Fax 0382.503738 [email protected]

Sondrio Sezione23100 - Piazzale Croce Rossa, 1Presidente: Franca BonviniTel./Fax [email protected]

Varese Sezione21100 - Via Cairoli, 14Presidente: Roberto BertinelliTel./Fax [email protected]