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ESERCIZI SPIRITUALI GUIDATI DA S. E. MONS. ARTURO AIELLO 10 – 13 MARZO 2013 FRATERNA DOMUS ROMA 1

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ESERCIZI SPIRITUALI

GUIDATI DA

S. E. MONS. ARTURO AIELLO

10 – 13 MARZO 2013

FRATERNA DOMUS

ROMA

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Domenica 10 marzo 2013 – Introduzione Pensando a questa nostra esperienza, da un mese mi è tornata l’esigenza di una formula di preghiera semplice, ma al tempo stesso paradigmatica, ed è il Padre Nostro. Noi scandiremo questi giorni con la preghiera di Gesù, utilizzando lo stesso testo sia nelle meditazioni sia nella Liturgia delle Ore, come lettura breve, sia a Messa come vangelo. Abbiamo due giorni pieni, notti comprese - state tranquilli, avremo anche tempo per dormire - per ritornare a questa preghiera cardine, principe, tipo di ogni preghiera cristiana. Nell’introduzione ho fatto riferimento al nostro essere qui a Roma in questi giorni, e ovviamente quando è stato programmato questo corso di Esercizi il Papa non aveva minimamente manifestato la volontà di chiudere il suo ministero, lasciando vacante la sede, e dunque preparando un Conclave, ma mi sembra una cosa bellissima, almeno la sento io così, che noi stiamo qui a pochissimi chilometri di distanza in linea d’aria dalla Cappella Sistina, dove domani comincerà il Conclave. Non avremmo potuto vivere meglio in comunione con quanto si andrà facendo nel segreto della Cappella Sistina. Non vedremo nessun video, casomai dovessero eleggere il Papa velocemente. Le previsioni dicono comunque che qualche giorno passerà, ma nell’uno e nell’altro caso ce ne stiamo qui sapendo che tutta la Chiesa, anche se sono direttamente interessati alcuni rappresentanti della Chiesa, tutta la Chiesa è in fermento, in fervore, in preghiera, e dunque quale occasione migliore per gli Esercizi spirituali?

Svisceriamo questa parola, la prendiamo con la stessa attenzione e delicatezza, percezione di preziosità, che accompagna il nostro gesto al momento della Comunione. È un frammento di parola, e nel frammento c’è tutta la Parola, tutta la forza. Questa vuole essere soltanto una introduzione, non entriamo per ora nel brano ma in ciò che ha occasionato l’insegnamento della preghiera del Padre Nostro. Gesù si trovava in un luogo a pregare. Anche noi siamo in un luogo a pregare, in un luogo di preghiera, in un tempo di preghiera. Gli Esercizi sono un luogo e un tempo. Come mi avrete sentito dire tante volte: una terra santa da calpestare a piedi nudi, “togliti i sandali”, come Dio dice a Mosè, al capitolo 3 del Libro dell’Esodo quando Mosè, attratto dal roveto, si avvicina. E anche noi ci siamo avvicinati un po’ per curiosità, un po’ per stanchezza. Gli Esercizi sono anche una esperienza di grande riposo, anche se non staremo qui a oziare. Ci si avvicina per tanti motivi, perché in precedenza si è fatta un’esperienza positiva, perché l’anno scorso ci siamo ricaricati, e quella carica è durata un po’ di tempo, perché ci troviamo in un momento difficile, in un momento di difficoltà familiare o parrocchiale o diocesana, o ecclesiale per la Chiesa intera, in un momento difficile, bello e difficile, e allora ci si avvicina al roveto, ci si ricorda di Dio. La preghiera è innanzi tutto questo: “Mi ricordo di Dio e gemo”, ma bisogna spogliarsi, bisogna lasciarsi alle spalle qualcosa, e quindi l’esercizio che vi propongo è una sorta di distacco da ciò che abbiamo lasciato appena qualche ora fa: la famiglia, la parrocchia, il lavoro, le persone, le situazioni insolute, i dolori, poi tutto ritornerà, tutto rientra nella preghiera. In questo momento Gesù si è allontanato dai Dodici, dalle folle, si ritira in un luogo a pregare. E Gesù sceglie questi luoghi. Penso anche alla geografia amplissima dei luoghi francescani, che non solo sono i luoghi dove c’è un tempio, un santuario, un’edicola dedicata a Francesco, ma mi riferisco alla geografia dei luoghi che Francesco ha visitato, che - magari oggi non lo sono più di tanto - erano perlopiù luoghi inaccessibili, luoghi molto solitari, pensate a La Verna. La preghiera ha bisogno che l’uomo si spogli delle sue sicurezze, di ciò che normalmente fa essere importanti:

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eccellenza, don, prof, e tutti i titoli che ci fanno sorridere e che non dicono nulla di noi, possono nasconderci, possono essere dei paraventi. Allora “togliti i sandali” nel brano di Esodo 3 significa: entra togliendoti il soprabito, togliendoti le scarpe, togliendoti le tue strutture mentali (cosa molto difficile) togliendoti ciò che ti preoccupa. Cosa ti preoccupa in questo momento? Don Pietro è preoccupato di quello che lo attende: la sua vita che cambia radicalmente, da parroco a vescovo. E altri fra noi, fra voi, sono preoccupati di altro: i figli non vanno d’accordo, il lavoro non tira, il gruppo… ecc. Sono cose importanti che fanno parte della vita, ne parleremo a proposito del pane, ma in questo momento cerco di distanziarmi, prendere le distanze e dico: questa cosa poi la riprenderò, questo diverbio, questo dolore poi dopodomani, mercoledì mattina tornando a casa lo riprenderò, ora ho bisogno di questo luogo solitario. Un luogo solitario è un luogo esterno ma è anche un luogo interiore. Siamo venuti qui per rientrare in noi stessi. Spero che tutti voi siate stati a Messa stamattina, e il momento di svolta nella storia del figlio minore (parabola del Padre misericordioso) è il momento in cui rientra in se stesso (Rientrato in se stesso disse: Quanti salariati in casa di mio padre…). L’esperienza ci dice che noi siamo sempre fuori di noi, ed è questa la fonte di tanti problemi personali, di coppia, di famiglie, sociali; estroversi nel senso negativo del termine, siamo fuori di noi, cioè non abitiamo nel luogo solitario che è al centro di noi stessi, del nostro cuore. Ecco, gli Esercizi sono questo, sono tornare a casa, tornare all’infanzia, tornare alle cose essenziali, tornare a Dio, rientrare in me. Evidentemente il figlio minore ha fatto tutti i guai che ha fatto, come noi ne abbiamo fatti tanti, perché era fuori di sé, estraniato, stranito, adesso comincia a capire, a capire quando rientra, rientra in casa. Ecco, questo è uno dei frutti degli Esercizi ma anche uno dei presupposti; è un frutto perché ci arriveremo, ma anche un presupposto, è una scelta, tant’è che abbiamo scelto tra tanti luoghi questo, che è un luogo solitario, potrete passeggiare, potrete ascoltare la natura, potrete riascoltare voi stessi, potete ascoltare la voce dei defunti - è così bello negli Esercizi questo - che non sentite da tanto tempo. E allora questo silenzio, questo luogo solitario, non ha un valore in se stesso, ma ha significato nella misura in cui mi pone in ascolto. In ascolto di Dio?, cioè della Sua Parola, ma anche in ascolto di me stesso. Forse il mio corpo mi sta dicendo delle cose, ma io non le sento per il chiasso che mi circonda. Forse il mio cuore mi sta dicendo delle cose, sta tentando di dirmi delle cose, ma non lo sento. “Non ti sento, non ti sento”, diceva la canzone di Lucio Dalla “Svegliati, cuore”. Non ti sento. E devi sentire il cuore, devi sentire il battito. Quindi ascoltare Dio, ascoltare me, le vicende che mi sono capitate. Com’è che sono finito così? Com’è che sono finito guardiano dei porci, mentre ero il figlio del re ed ero riverito e servito in un castello? Dove mi sono perso? Quindi in ascolto della nostra vita. E poi in ascolto degli altri, perché gli altri ci parlano, ma noi non li sentiamo. Ti parla tuo marito, ti parla tua moglie, ti parla tuo figlio, ti parlano i tuoi parrocchiani, ti parla il mondo, ti parlano i tuoi preti (lo vorrei dire per me nei confronti dei sacerdoti che mi sono affidati). Questo è molto bello, perché adesso che sono lontano, io mi avvicino e sento gli altri più di quanto non accada quando viviamo insieme. Quindi quelli che sono venuti da soli, senza il marito, la moglie, sentiranno di più il marito, la moglie, i figli, ecc., perché adesso il silenzio fa rimbombare tante parole, tanti silenzi. Vi dicevo: ascolto dei defunti. Anche questa è una cosa dolcissima, perché la vita forsennata che facciamo non ce li fa più sentire, magari il 2 novembre, e invece ci parlano, ci incoraggiano, ci rimproverano, ci dicono delle parole, hanno dei ricordi da far ritornare alla mente, al cuore. E quindi ascoltiamo anche loro. Infine ascoltiamo la natura. Questo nostro Corso, come anche gli altri nei due anni precedenti, avviene mentre sta scoppiando la primavera. Ma chi la sente la primavera? Io ho lasciato una mimosa meravigliosa, tutta d’oro, nel giardino dell’episcopio e mi son detto: “speriamo che quando torno non sia sfiorita”, perché quelli tra voi che mi conoscono lo sanno, ho un’attenzione, forse anche esorbitante, per le piante, perché la natura parla, perché gli

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uccelli domani mattina vi sveglieranno, perché “c’è un parto che sta avvenendo”, dice San Paolo nella Lettera ai Romani al capitolo 8. A proposito di parto, portiamo nella preghiera in questi giorni Miriam che è nata ieri. Miriam è la bambina di Dolores e Antonio, che erano qui due anni fa in preparazione al Matrimonio. L’anno scorso la prima gestazione è andata a monte, e adesso non sono venuti, contentissimi di non essere venuti, perché ieri è nata Miriam. Ho pensato, quando mi hanno telefonato: Ecco, questo è un buon inizio degli Esercizi, mi sono detto, perché bisogna ascoltare queste cose, perché c’è un magma nella natura inanimata, in quella animata, nella storia; c’è un magma nella Cappella Sistina, cioè si sta partorendo qualcosa e io devo ascoltarlo. Magari alcune di queste cose vi sembreranno poetiche, in realtà sono molto di più, sono la vita. Ascolta la vita. Sei in un luogo solitario a pregare perché la preghiera è un rientrare in questo grande respiro della vita, dal quale siamo usciti, non sappiamo come, non sappiamo perché, forse per fretta, forse per sbadataggine, e dove vogliamo tornare. Gesù si trovava in un luogo a pregare. E la preghiera – e chiudo – genera la preghiera. La preghiera è contagiosa. Il Padre Nostro nasce come desiderio, da parte dei discepoli, di imitare Gesù che fa questa cosa, un po’ misteriosa. Che dice? Con chi parla? Perché quando va via è sempre nervoso e quando torna è così tranquillo? Ricordo un componente della nostra diocesi che ha detto: ma che avete fatto a don Peppino negli scorsi Esercizi? E mi fece piacere, sapete, significava che il parroco era partito inavvicinabile ed era tornato … miracolo degli Esercizi! Non era certo opera mia. E questa cosa probabilmente i discepoli l’hanno vista anche in Gesù; a volte si innervosiva anche Gesù, poi si ritirava, scompariva e ricompariva rinato, rimesso in bella, pieno di energia, entusiasta. Che è successo? Allora è nata così questa pagina di vangelo. I discepoli che vedevano Gesù alzarsi presto la mattina, si sono messi d’accordo e hanno detto: “Adesso lo pediniamo”, e lo hanno raggiunto in questo luogo solitario, lo hanno guardato attraverso i cespugli per non disturbarlo, per non essere rimproverati, e vedevano che muoveva le labbra. Penso che sia andata così. Poi, quando Gesù ha chiuso, ha finito la sua preghiera e stava per andarsene, ecco che i discepoli sbucano fuori dal cespuglio e dicono: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”, cioè quello che fai tu lo vogliamo fare anche noi. Voi sapete perché oggi i giovani non pregano? Perché non preghiamo noi adulti, non pregate voi. La preghiera è contagiosa. La preghiera genera la preghiera. La santità genera la santità. Il fervore fa nascere il fervore, come in negativo la disattenzione genera disattenzione. Vedete che responsabilità abbiamo, non solo noi pastori ma anche voi genitori. Che ne sanno i figli della preghiera se non l’hanno mai vista? Questo è il dramma oggi delle nuove generazioni. Non ho mai visto uno pregare.Adesso facciamo la preghiera per la preghiera, che è: “Signore, insegnaci a pregare”, perché a pregare s’impara. Lo dico per quelli tra voi che dicono: Io non so pregare. Nessuno sa pregare, neanche chi ha fatto cinquant’anni di onorata professione può dire: Io so pregare. Allora lo chiediamo a Gesù: che ci insegni Lui, che ci dica Lui, che ci instradi in questi giorni, che ci dia il senso, il gusto, la gioia di spendere questo tempo senza pensare ad altro.

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Domenica 10 marzo, ore 21:15La Compieta, per chi non la conosca, è sigillare una giornata. Nel primo atto c’è una sorta di esame di coscienza della giornata per dire grazie, per chiedere scusa, per dire aiutami. Si fa così l’esame di coscienza. Innanzi tutto in positivo si riconoscono i doni ricevuti: grazie per avermi dato il coraggio di venire agli Esercizi, grazie di questo luogo, anche se non posso gustarlo appieno. Scusa per le disattenzioni, per i cali di tensione, per gli errori. Poi aiutami, che è una richiesta per qualche aspetto dove ci sentiamo più deboli, dubbiosi. Per l’esame di coscienza che faremo ora: aiutami, aiutami in questi giorni, aiutami a valorizzare appieno questo tempo, aiutami a cogliere questa grazia.

Gli Esercizi, tempo di preghiera, costituiscono anche una scuola di preghiera. E la Chiesa insegna a pregare da sempre con i salmi. Adesso pregheremo il salmo 90, il salmo della Domenica sera, per chi abbia consuetudine con la liturgia delle Ore. Il salmo 90 è quello che Satana cita a Gesù nelle tentazioni: Gettati giù, Egli manderà i suoi angeli perché il tuo piede non urti nel sasso. È un salmo di grande pace. Dice in sintesi che chi sta all’ombra del Signore dimora nella sua casa, chi è nella sua grazia non ha nulla da temere. Nella conclusione del vangelo di Marco, Gesù dice ai discepoli che compiranno prodigi, e anche se metteranno la mano nel luogo di serpenti velenosi non ne avranno danno, se berranno qualche veleno non ne avranno nocumento. La Chiesa ci insegna ad addormentarci con questo atto di fiducia.

Molto brevemente ci fermiamo ancora sulla domanda: Signore, insegnaci a pregare. Il nostro è un tempo difficile, non c’è bisogno di dimostrarlo, un tempo inquieto, un tempo nuvoloso, tenebroso, fuligginoso, di trasformazione. Un autore dice, giustamente, che in questi tempi bisogna ri-porre le domande. Questo che stiamo vivendo non può essere un tempo di risposte, perché nessuno le ascolterebbe. Nella Chiesa, e non solo, facciamo continuamente l’esperienza terribile di dare risposte inutili, preziosissime, ma che finiscono come le perle date ai porci. E allora è giusto che in un tempo di crisi si torni a domandare. Se volete domandare, domandatemi - dice il profeta Isaìa in un brano che forse ricorderete, vicino anche al “Custos, quid de nocte”, se volete domandare - dice il custode - alla sentinella domandate. Questo è un tempo per domandare e per porre domande più che per dare risposte, per tornare alle domande fondamentali della vita. Ecco, questa sera concludendo il nostro prologo, il nostro pronao degli Esercizi, ci chiediamo, continuando a chiedere a Gesù di insegnarci a pregare, come si prega. Cos’è la preghiera? È quell’esercizio che vorrei faceste con molta oculatezza, e vi chiedeste: chi è stato o chi sono stati i maestri di preghiera? È come se io chiedessi a Lella: chi è stata la tua maestra di pianoforte? Oppure chiedessi: chi è stato il tuo maestro di letteratura? O a Maria Rosaria: chi è stato fra tutti i docenti che hai incontrato, chi è stato il maestro che ti ha ispirato e ti ha guidato sulla tesi sul carteggio inedito? E noi subito diciamo: il mio maestro di pianoforte, il mio maestro di canto, il mio maestro di chitarra, il mio maestro di passione per le arti… E chi è il tuo maestro, e chi sono stati i tuoi maestri di preghiera? Allora, come succede sempre agli Esercizi, facciamo un po’ di cammino nel nostro passato individuando questi maestri, a partire dall’abc, perché la preghiera ha un suo alfabeto, e oggi manca l’alfabetizzazione della preghiera, come manca l’alfabetizzazione della fede. Noi vorremmo che la gente credesse, ma gli mancano proprio i rudimenti, allora dobbiamo avere la percezione che non si sa più nulla. Chi fra voi - e alcuni ci sono - ha esperienze catechistiche, si rende conto che la Salve Regina, per esempio, è top-secret, cioè è

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impossibile che un ragazzo conosca la Salve Regina, altri neanche l’Ave Maria. E non è certamente colpa dei ragazzi, dei bambini o degli adolescenti. Anche qui è mancato questo magistero della preghiera, cioè di chi con il sillabario della preghiera ha detto a un ragazzo, ma anche a un adolescente: guarda, si prega così, ci si mette in ginocchio, per esempio, oppure si assume questo atteggiamento. Ma perché?… Perché questa è una situazione che ti aiuta nella preghiera. Se spegni il telefonino, se spegni la radio, se spegni l‘IPad, se spegni…, se accendi una candela, se metti un sottofondo, se… In questi giorni la presenza di Felice ci rallegra, ci sostiene, perché un sottofondo aiuta. Anche in episcopio prego così (magari per qualcuno sarà un elemento di distrazione). Chi l’ha fatta con me quest’opera? Vi verranno incontro i genitori, soprattutto la mamma, prima maestra di preghiera, che ha accompagnato le manine per insegnare il segno della croce. Poi ci sono stati altri maestri che ci hanno accompagnato, pensate alla catechista per la Prima Comunione, pensate a un sacerdote, pensate a una persona che ci ha affascinati e, come per i discepoli, ci ha fatto venire voglia di pregare. E questa sera noi li andiamo a visitare passeggiando, in cappella, in camera, prima di addormentarci. E che cosa ti facevano vivere? E allora, e non vi sembri un esercizio solo romantico, se riuscite a fare mente locale delle preghiere, non quelle classiche, ma che facevano parte del rituale della sera, delle preghiere che somigliavano un po’ alle filastrocche, ma che pure avevano l’effetto di pacificazione perché un bambino ha difficoltà ad addormentarsi, a distaccarsi dalla realtà per entrare nella dimensione del sonno e dei sogni. Ci sono due cose difficili nella vita: nascere e morire. Ci sono due cose difficili nella giornata: svegliarsi e addormentarsi. Il parallelo non è casuale. Allora la preghiera di Compieta è una preghiera che la Chiesa indica come ultimo atto. Vi indicherò anche dei tracciati - si chiamano esercizi appunto - da fare anche per iscritto, non li verificherò come fanno gli insegnanti.Stasera faccio il grafico dei miei maestri di preghiera, non saranno stati tanti, due o tre persone al massimo, sperando che riusciate a individuarli, persone che adesso, vive o defunte, io ringrazio, magari facendo l’adorazione, pregando i salmi, creando quell’atmosfera, si crea un’atmosfera anche nella preghiera, che mi ha dato quell’imprinting di preghiera. E questo imprinting rimane per la vita. Ci fermiamo un attimo, poi completeremo la Compieta. Incominciate a pensarci: a chi devo dire grazie se so pregare, per quel poco che so pregare, a chi sono debitore? “Signore, insegnaci a pregare”, lo dovremmo dire anche ai preti, ai vescovi, alle suore, alle catechiste: diteci come si prega, ne abbiamo perso memoria.

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Lunedì 11 marzo 2013, ore 8:15Quando pregate dite “Padre”. Rientriamo, sia pure con una brevissima riflessione, nel nostro testo questa mattina, dopo aver sentito le parole del salmo 89, su cui vorrei che tornaste. Siamo di una fragilità estrema. Questa fragilità è la nostra condanna, ma anche la nostra risorsa. È una condanna, perché siamo veramente di passaggio, sottoposti a mille malattie, a scomparire da un momento all’altro, ma questa esperienza di debolezza, ecco, è una esperienza di forza se sentiamo che questi nostri giorni che sono pochi – insegnaci a contarli, ci ha detto il salmista – possono essere percepiti come un dono. La mattina ci svegliamo - le Lodi servono a celebrare il risveglio - e sentiamo che questa giornata è un grande dono; tanti sono morti stanotte, noi no. Non vogliamo godere sulle disgrazie degli altri, ma semplicemente percepire che ci è offerta quest’altra giornata. Il vangelo di due Domeniche fa ci presentava la piccola parabola del contadino che intercede per l’albero. Gesù intercede per noi e ha detto al Padre, allo stesso Padre cui noi adesso ci rivolgiamo con le parole di Gesù: Diamogli ancora un tempo, diamogli ancora un corso di Esercizi, chissà che non porti frutto! Quindi contare i giorni, carissimi amici, è una grande lezione di umiltà, ma anche un invito all’urgenza; se sono pochi questi giorni vorrei fare, prima che sia troppo tardi, ciò che è importante, ciò per cui mi sono stati dati, mentre ne ho sciupati già tanti. Ma veniamo al nostro testo. Quando pregate – dice Gesù – dite… Già vi dicevo ieri sera: allora la preghiera è fatta di parole? Certo, perché l’uomo ha bisogno di parlare e di ascoltare, e le parole poi sono importanti, sono ancora importanti nonostante quello che vi dicevo a conclusione della cena. Per noi le parole hanno ancora un significato, noi viviamo il silenzio negli Esercizi perché possiamo guardarle le parole, perché le parole non si ascoltano soltanto, si guardano. Mi viene in mente questo momento Nino D’Angelo - non è proprio un granché, ma tutto serve - in una canzone neo-melodica napoletana, dedicata al padre. Dice che il padre ascolta dalle labbra del figlio le parole che lui stesso gli ha insegnato, le ascolta con una meraviglia, con un’attenzione, come quando i bambini dicono le poesie a Natale, a Pasqua o nelle altre occasioni; i genitori sono attentissimi anche se la poesia la conoscono, perché le parole bisogna dirle ma anche sapere ascoltarle, perché una parola che è tua, ma che poi diventa del figlio, è una parola che sorge nuova, che risorge, come a primavera, è una parola già conosciuta ma al tempo stesso è una parola inedita, perché la dico con la mia voce, e in questa brevissima vita sono chiamato a dire delle parole, possibilmente parole che Gesù stesso ha posto sulle mie labbra. Quindi quando pregate, dite. E dite “Padre”. Noi potremmo fare tutto questo corso di Esercizi solo sulla parola “Padre”, ed è stata una delle tentazioni che mi è venuta pensando a questi Esercizi. Facciamo il Padre Nostro o ci fermiamo alla parola “padre”? Quando pregate dite “Padre”. Stamattina, in questa prima battuta prima di colazione, mi interessa soprattutto ciò che sta scritto dietro l’espressione: Quando pregate dite. Non dice: Quando pregate dite “aiuto”, quando pregate dite “sos”... Quando pregate dite “Padre”, perché la preghiera è una relazione.

La preghiera è una relazione. Di più: la fede è una relazione. Noi stiamo nell’Anno della fede, che ha pensato il Papa Benedetto, e certamente, quando lo ha indetto, aveva già in mente che sarebbe volato, sarebbe scomparso. Ci ha lasciati nell’Anno della fede e nella riscoperta della fede, che non è fatta da contenuti. Anche voi che diventate preti abbiatelo per certo: dimenticate tutto quello che avete studiato nei cinque anni di Teologia, perché la fede non è fatta di contenuti, la fede non

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è del Denzinger, la fede non è neanche nel Credo, che noi stiamo, nella nostra diocesi e immagino dovunque, snocciolando nei suoi articoli: Credo in Dio Padre… Credo nel Figlio incarnato, morto per me e risorto… Credo nello Spirito Santo… Credo nella Chiesa… Credo nella comunione dei santi… Credo nella risurrezione della carne. Sono cose importanti, ma che prendono senso nella misura in cui entrano come parole di una relazione tra me e Dio. Quindi Gesù, dicendo “quando pregate dite: Padre”, intende evocare quelle relazioni fondamentali che sono le relazioni della nascita. Noi nasciamo da una madre e da un padre e cresciamo nell’autocoscienza, per dirla con una parola difficile, che si sviluppa nel rapporto con queste figure. Così siamo cresciuti nell’autocoscienza della nostra individualità, della nostra persona, del nostro essere uomini, donne, perché avevamo davanti a noi dei genitori. Credo che sia Virgilio - pensate quanti anni fa! più di duemila anni fa! - a dire che nel bambino che sorride alla madre c’è un insorgere di relazione. Il bambino che sorride. Uno dei primi gesti di relazione, perché è stato preso in braccio, perché la madre o il padre ha detto delle parole, dei suoni, e allora il bambino ha sorriso e questo sorriso è la prima manifestazione dell’io ci sto, ma ci sto perché sto davanti a te, che sei mio padre, che sei mia madre. Quindi per l’uomo, sempre, non solo da bambino, l’infanzia diventa un paradigma della vita. L’uomo cresce nella misura delle sue relazioni. Un tema amplissimo e di grande interesse. Quali sono le mie relazioni oggi? Con chi mi relaziono? Quali sono le relazioni significative della mia vita? Le sto coltivando? Vi accorgerete in questi giorni di aver perso molte persone, che molte persone non le sentite da tempo, e nella misura in cui noi perdiamo delle persone - e non perché siano morte, parlo di persone vive, magari con i morti ci rapportiamo più facilmente, immediatamente - nella misura in cui queste persone scompaiono dal nostro orizzonte, dal nostro monitor, la nostra vita si rimpicciolisce, si accartoccia. Invece si apre, fiorisce, respira nella misura in cui queste relazioni sono abbondanti, gratificanti. E gratificanti non significa problematiche, sono qualitativamente rilevanti. Quindi io sono le mie relazioni, potremmo dire semplificando, io sono il frutto di relazioni passate, ma oggi sto crescendo o sto decrescendo? Spero vi sia chiaro che noi, oltre a progredire, regrediamo. Sto crescendo o regredendo nella misura in cui ho delle relazioni, le coltivo, a cui faccio attenzione con gesti, con parole, con silenzi, con doni, rendendo presente qualche assente. Ci sono delle assenze strategiche importanti o decrescono nella misura in cui invece taglio, sono pedante, non ho sensibilità, non colgo, non raccolgo, non lancio, non rilancio quel discorso. Le relazioni vanno portate nell’alveo della fede. Adesso nel rapporto col padre. Quando pregate dite: Padre. Ma io con questo Padre ci parlo? Ci discuto? Mi ci arrabbio? Ci sto bene? Ci sto male? Se io non dico più “padre”, ecco che la mia fede si accartoccia fino a morire. Muore così la fede, perché la fede può anche morire nelle persone e nelle comunità quando non si celebra più niente. Per quelli fra noi che hanno fatto l’Ufficio delle Letture, quella Prima Lettura, che ha letto Arnaldo, sempre in una maniera molto puntuale, nonostante fosse rauco (lo siamo tutti perché ieri abbiamo preso tanta umidità), quella Lettura sembra pedante, come tanti testi del Levitico, poi a leggerla con intelligenza significa che i riti vanno fatti nella liturgia ma anche nella vita: fai così, prendi le vesti, togli le vesti, lavati così, poi cosà, ecc. Mah, quante cose inutili! – dicono i giovani. Quante cose utilissime! – dicono i saggi. I riti fanno parte dell’amore, fanno parte della Liturgia. E allora nella misura in cui Aronne sarà ossequiente in tutte le indicazioni che ha ricevuto, allora si potrà celebrare la festa dell’espiazione, il Kippur. Ecco ci fermiamo qui per ora. Sono qui agli Esercizi per riprendere le fila della mia relazione con Dio, per accorgermi che da tanto tempo non parliamo, per riprendere il discorso, per dire nuovamente “Padre”.

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Lunedì 11 marzo 2013, ore 9:45 Dopo la riflessione di questa mattina, che in effetti è sintetizzabile con la semplice espressione: “La fede è una relazione tra noi e Dio attraverso Gesù”, e quindi, laddove non c’è relazione non c’è fede - espressione che potrebbe tagliare, credo al 70%, le finte o false credenze della nostra gente o, forse, di noi stessi - entriamo ancora più dentro alla parola “padre”. Quando pregate, dite: Padre. Nella seconda pagina trovate in sinossi, si dice in termini tecnici, cioè in maniera speculare, le due formule del Padre Nostro, così come ci viene da Matteo e da Luca. La formula che noi utilizziamo nella liturgia è quella più lunga, di Matteo. Ce ne sarebbe anche una terza nel vangelo di Marco, anche se non è indicata come Padre Nostro, ed è la preghiera di Gesù nell’Orto, ed una lunghissima, nel vangelo di Giovanni, al capitolo 17, che è la preghiera che Gesù rivolge al Padre per l’unità dei suoi. Comincio col dire che il Padre Nostro è una preghiera per iniziati. Sembra un termine buttato lì, in realtà è così, lo era all’inizio, nei primi secoli della Chiesa, dove il Padre Nostro non era la preghiera dei bambini, non era neppure la preghiera dei catecumeni, era rivelata ad un certo punto, quando si saggiavano le reali condizioni, la serietà delle motivazioni di coloro che si avviavano al Battesimo. Ci troviamo adesso invece all’esatto opposto, cioè il Padre Nostro è una preghiera eccessivamente usata, poco riparata, più detta che taciuta, e qui il “taciuto” non sta per “vietato ai minori di…”, ma “è così preziosa, che la riserviamo per i cristiani adulti”. Ovviamente è prassi, prassi poi che ha anche le sue controindicazioni; nel nostro caso, per esempio, dove il Padre Nostro è biascicato a più non posso, ma non dice nulla a nessuno, o a pochi parla. Quindi scegliere il Padre Nostro come testo degli Esercizi significa per noi rientrare nella dimensione dei catecumeni che debbono imparare a pregare, e adesso ricevono parola per parola, dalla bocca di Gesù, questa preghiera, come se non l’avessero mai ascoltata prima. È un mistero, è la preghiera degli apostoli, dicono alcuni, cioè neanche di tutti i discepoli, e infatti è agli apostoli che Gesù rivela questo segreto della sua preghiera, che dovrà essere poi struttura della preghiera dei discepoli, dei Dodici. La rivoluzione è nel termine “Padre”, così come è utilizzato. Io ho messo qui una serie di citazioni per coloro tra voi che volessero un po’ sfogliare la Bibbia, cosa non disdicevole ovviamente, per la meditazione e la preghiera, per dire che il termine “Padre” non è nuovo nel vocabolario biblico, lo troviamo tante volte nell’Antico Testamento. Vi ho messo qui alcune citazioni, se volete annotarle, ma annotatele solo se avete desiderio di cercarle. Per esempio, nel Libro del Deuteronomio al capitolo 32, versetto 6, è detto: Il Signore non è vostro padre? Non è quello che vi ha creati, che vi ha fatti, che vi ha sostenuto? A dire: forse che Colui che vi ha fatti non si prende cura di voi? Si è dimenticato di voi? Può una madre – dice Isaia – dimenticarsi del suo bambino, del frutto delle sue viscere? Anche se una madre dovesse dimenticarsi, io non ti dimenticherò mai… Una sorta di preghiera di confessione di figliolanza da parte di Israele. Sì, Signore, Tu sei nostro Padre, noi siamo come la creta, e Tu sei il vasaio, noi siamo tutti opera delle tue mani. Anche qui il termine “Padre” è utilizzato dal Profeta per indicare una dipendenza, speriamo anche per celebrarla. È diverso sentire una dipendenza, addirittura subirla, o celebrarla. Celebrarla implica l’assunzione positiva di una dipendenza, di cui vado fiero. Questa è la celebrazione della dipendenza, che qui, nel testo di Isaia, è ben espressa. Tu sei nostro Padre, noi siamo come la creta e Tu il vasaio che ci hai plasmati.

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Tra l’altro, nel testo degli Esercizi spirituali, come mi avete sentito ripetere altre volte, S. Ignazio dice che Dio non solo ci ha creati all’atto della nascita, e ancor prima all’atto della fondazione del mondo. Dice Paolo: Ci ha scelti da sempre per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità. E Ignazio aggiunge che Dio ci crea di continuo, cioè anche adesso Dio ci sta creando, perché il nostro cuore batte, perché i nostri polmoni si aprono, si chiudono, perché c’è il respiro, perché c’è l’ossigenazione del sangue, cioè tutto quello che i medici conoscono bene, i meccanismi, che sovraintendono alla sanità di un corpo, possono essere letti come: Dio mi dà la vita in questo istante. È Lui che mi ha plasmato. E quindi Lui sa di me. Badate che su ciascuno di questi testi voi potete fermarvi, io vi indicherei (sceglietevi il vostro tra questi testi vetero-testamentari): Geremia 31, 9: Io sono un Padre per Israele. E poi nei Profeti troviamo tante espressioni di grande tenerezza, per esempio: Io insegnavo a Israele a camminare, come fa un padre con un bambino, che non ha ancora raggiunto la stabilità, cioè questa paternità, nel testo di Geremia, indica non appartenenza nel senso del possesso, ma relazione, provvidenza, attenzione. Se sentissimo queste verità e le celebrassimo e fossero il respiro della nostra vita, probabilmente saremmo meno depressi di quanto lo siamo, e forse non ci preoccuperemmo neppure del cattivo tempo di questi giorni. Dio è Padre, e se ha pensato che dovremo fare questi due giorni sotto l’acqua, fiat, Lui sa. Io sono un Padre per Israele. Salmo 102, versetto 13: Come è la tenerezza di un padre verso il figlio, così è la tenerezza del Signore verso quelli che lo cercano. Come un padre ha pietà dei suoi figli - dice l’altra traduzione - così il Signore ha pietà di quanti lo temono. E infine il Libro dei Proverbi, testi meno conosciuti e ugualmente ricchi, capitolo 3, versetto 12: Il Signore riprende colui che ama, come fa un padre con il figlio prediletto . Qui abbiamo l’azione correttiva da parte di Dio. Dio ci corregge. Dio corregge il tiro nella nostra vita, ma questa correzione, dice un testo del Nuovo Testamento, sulle prime genera malcontento nel figlio. Nessun figlio è contento di essere corretto dal padre, ma poi, quando passa il tempo, questa correzione diventa motivo di gioia, perché ci accorgiamo che la correzione del padre ci ha evitato il peggio, ci ha evitato degli errori ulteriori. Quindi, nel testo dei Proverbi, questo amore, questo amore paterno, si rivela come correttivo, ma è una correzione che nasce dall’amore stesso. Potremmo dire: niente di nuovo, dal momento che già Geremia, già Isaia, già il Libro del Deuteronomio, già il Libro dei Proverbi…, e potrebbero esserci mille altre citazioni. Invece il Padre Nostro ha un suo aspetto rivoluzionario già nella parola “Padre”, dove il termine utilizzato da Gesù - e dicono gli esegeti che questo è uno dei termini certamente proveniente da Lui - non è un termine ebraico, ma è un termine, diremmo noi, dialettale, di una lingua che si chiamava “aramaico”, che era la lingua che Gesù ha parlato a casa. Di qui viene il termine Abbà. Uno dei titoli, dei tanti, che mi sono venuti in mente, da dare era anche: Abbà. Quindi, qui non è “padre” nel senso dei testi precedenti, ma è “Abbà”, che è il termine della relazione affettiva e affettuosa che il bambino utilizza nei confronti del padre. Per gli Ebrei il bambino, e anche il figlio cresciuto in casa, si rivolge al padre con il termine “abbà” finché è nelle mura domestiche, ma se lo incontra per strada gli deve dire: “signore”. “Abbà” è il termine delle mura domestiche, ma le stesse persone che si incontrano fuori delle mura domestiche utilizzeranno un altro vocabolario. Quindi il figlio saluterà il padre con un inchino profondo, chiamandolo “signore”, per strada, in piazza, nella sinagoga. A casa no, a casa si dice “abbà”. E che Gesù abbia utilizzato nel Padre nostro non il termine ebraico, corrispettivo di padre, ma il termine aramaico, corrispettivo di papà, significa molto: significa che questa relazione supera ogni aspetto socio-religioso, per così dire, e assurge a relazione primaria, direbbero i sociologi, cioè una relazione che si svolge con una forte connotazione affettiva. Questa è la differenza tra relazioni primarie e relazioni secondarie nel vocabolario della sociologia. Le relazioni con i colleghi

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di lavoro sono relazioni secondarie. La relazione con il parroco è primaria o secondaria? Qui dipende da te, dipende da lui. La relazione col vescovo è primaria o secondaria? Certamente la relazione padre-figlio, marito-moglie, fratello-sorella è una relazione primaria. Gesù sceglie il vocabolario della relazione primaria per rivolgersi al Padre. Quando vi rivolgete a Dio, quando volete pregarlo non dite: Signore… Sapete che c’è un ricco vocabolario di termini, coniati da Israele, per evitare il nome “Javhè”; Dio non si nomina per loro, e allora una serie: il Signore, il Santo, il Signore degli eserciti… Invece Gesù taglia tutti questi termini e stabilisce, getta un ponte di familiarità: digli Papà. Ecco, a partire da questo, la relazione, di cui abbiamo già detto stamattina, è dunque una relazione filiale, e la sua è una relazione paterna. Questo chiede un attraversamento della nostra memoria. Ieri sera vi invitavo - spero l’abbiate fatto - a fare memoria dei maestri e quest’oggi facciamo memoria dei padri. Chi è tuo padre, di chi sei figlio, figlia? È riduttivo, come ognuno di voi sa, andare a vedere (adesso non si scrive più) cosa dice il certificato di nascita. E invece questo percorso attraversa delle relazioni dolorose, dolorose e belle al tempo stesso, paradossalmente, che ci hanno formati. Anche noi abbiamo avuto dei padri. Com’è, com’era tuo padre? Vedete, per pregare il Padre Nostro non possiamo bypassare la nostra esperienza umana, perché la fede è dentro la vita, la fede attraversa la vita, la fede è nei crocevia della vita, della storia di una persona, e in questi crocevia c’è sempre un padre. Per molti di noi, immagino, a giudicare dai capelli più o meno al naturale, ma poi i volti esprimono la verità oltre al colore dei capelli, i nostri papà saranno già in cielo, ma come sono stati? Cosa ricordiamo? Un esercizio che vi invito a fare nell’oretta che seguirà a questa meditazione è: una foto di mio padre. Ovviamente il padre quando eravamo bambini, il padre negli anni in cui si sono formate le strutture portanti della nostra vita e dove la sua influenza, positiva o negativa, esaltante o deleteria, ha avuto i suoi effetti. “Padre” non è un termine astratto, non è una semplice parola, ma ci fa venir su dei ricordi, delle delusioni, memoria di momenti esaltanti, parole. Cosa diceva mio padre? Oppure i suoi silenzi… Dei padri normalmente ricordiamo più i silenzi che le parole. Poi, in seconda battuta, qualcuno che più di mio padre mi è stato padre. E se tu non fossi mio padre ugualmente ti amerei - dice un poeta del ‘900. Anche se tu non fossi mio padre, se fossi il padre di un altro. Pensate alla rivalutazione del padre nel testo del libro Cuore. Lì il padre ogni tanto scrive una lettera al figlio. Magari mio padre avesse scritto una lettera! Il padre che interviene: Guarda che ti sei comportato così…, un padre ideale, un padre educatore, un padre che si prende cura e che educa i sentimenti del figlio al di là delle classi sociali. Quindi il libro Cuore potrebbe essere letto alla luce della categoria “padre”. C’è anche la madre, ma - diciamo - è più defilata, e pure lei scrive le lettere. Immaginarsi le nostre mamme a scriverci una lettera, quando già a fare l’elenco della spesa facevano una gran fatica! La mia mi ha scritto qualche riga, che mia sorella mi manda ogni volta in fotocopia il giorno del mio compleanno. Il padre naturale, il padre che ci ha generati, il padre di cui siamo figli, e poi il padre o i padri, ce ne possono anche essere diversi, che hanno svolto nella loro azione un ruolo di grande sostegno nella nostra vita. Quando mi sento in difficoltà telefono a quest’uomo. Chi è?Gli Esercizi - magari qualcuno di voi lo starà pensando - sono anche una terapia di gruppo, perché molti di noi sono ancora astiosi nei confronti dei loro padri, e invece anche un padre violento, anche un padre padrone, anche un padre… in qualche maniera riassunto con la maturità di oggi, anche perché senza padri non possiamo essere padri a nostra volta. Adesso voi vedete questi giovani palermitani che leggono e dite: Questo tra un mese sarà un padre. Magari qualcuno di voi l’avrà pensato, e loro stessi si sentono impari rispetto a ciò che li attende. Ma certo non è il termine che fa padri, e vi dirò di più, non è neanche la grazia dell’Ordine in sé che rende padri. Rende padri in una maniera oggettiva, ma questo ognuno di voi sa che non basta, che poi c’è

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bisogno di tutto un lavoro interiore d’accoglienza, di forza, di dolcezza temperata, di accoglienza, di responsabilità, di lavoro, e di tutti quegli attributi che in qualche maniera riguardano il padre, ma anche il padre spirituale, riguardano il padre che mi ha generato e riguardano anche la paternità in senso ampio. Vorrei consegnarvi qualche scena facendo un po’ di revival letterario. Vado molto indietro, all’Iliade. La scena di Ettore e Andromaca me l’ha risvegliata un gruppo marmoreo in cui mi sono imbattuto, che avrei voluto comprare, ma non ho potuto, tra l’altro avrebbe fatto bella mostra nel giardino dell’episcopio, in uno di questi negozi all’aperto dove si comprano statue. Ho detto: Sono Ettore e Andromaca. Il rivenditore ha detto: Boh! E ancora di più, non l’avranno saputo i poveri cinesi che hanno scolpito notte e giorno quel gruppo marmoreo, c’era un guerriero con l’elmo, in fattura (diciamo) greca, poi c’è una donna con un bambino. Perché è importante quella scena? Ve la rievoco. Siamo in un momento difficile, i Troiani hanno avuto un momento di gloria, Achille è indispettito, perché quando ci si divide succede sempre così, anche per i bottini di guerra, ce l’ha con quelli che si sono presi le ragazze più belle, insomma non è andato a combattere e inutilmente il suo amico ha cercato di dissuaderlo, che invece va e muore, ed è ucciso da Ettore. Allora: Cantami, o diva, del Pelide Achille l’ira funesta… L’ira funesta! Achille sta su tutte le furie, perché gli hanno ucciso l’amico, e quindi si stanno per scontrare. Ettore ha già tutto pronto (lo spiego sempre per le suore filippine, e non solo, perché queste radici sono importanti per noi), Andromaca gli va incontro per dissuaderlo, anche se non lo dice, gli porta il bambino: Ma dove vai che Achille è infuriato? Achille vince sempre, dove vai? Il bambino si impressiona, non riconosce il padre, allora Ettore deve togliersi l’elmo per farsi riconoscere dal figlio. E quindi c’è questo dialogo, bellissimo, di trattativa familiare. Il padre deve andare o no a combattere? E adesso lo voglio tradurre in una maniera un po’ banale. Il padre deve andare o no al lavoro? O deve rimanere nel chiuso del convento familiare? Stiamo così bene tutti e tre, e questo bambino è la nostra gioia, questo bambino crescerà, questo bambino ci darà soddisfazioni; non vuoi pensare a te, pensa a lui: un bambino orfano, che ne sarà? Ettore non si lascia impietosire dalle parole, dal pianto di Andromaca, che vede bene che questo è l’ultimo incontro. Per Ettore è più importante la gloria, e qui non si tratta di una gloria fine a se stessa ma di un nome intemerato, di un nome che non sia polvere, perché questo diventi un motivo di forza per il figlio in futuro. E quindi alza questo bambino in cielo in segno di benedizione. Apro e chiudo parentesi: Il più bel libro sulla paternità si chiama “Il gesto di Ettore”, spero l’abbiate letto, perché ve l’ho già indicato in passato, “il gesto di Ettore”, di uno psicologo, credo, c’è un taglio psicologico molto bello e porta sulla copertina un uomo, un giovane padre con un bambino innalzato, come fece Ettore quel giorno. E che cosa dice Ettore? Dice: sì, è vero, anch’io penso d’andare a morire, ma un giorno quando incontreranno questo bambino diventato grande, gli diranno: Ah, questo è il figlio di Ettore, quello che non si fermò, quello che combatteva strenuamente! Ippolito Pindemonte traduce, sentendo il figlio riconosciuto nella memoria gloriosa del padre: E il cor materno nell’udirlo esulti. Siamo nell’Iliade, quindi lontanissimi, nell’antica Grecia, nella genialità di Omero. Allora abbiamo in questa scena, che vi ho rievocato, che probabilmente ha richiamato alcuni ricordi scolastici, l’immagine del padre che va via, che ha il coraggio di andar via per il bene del figlio, per il futuro glorioso di questa famiglia. E dunque è il padre che dà la vita, se l’espressione non vi sembra troppo cristiana, cioè il padre che dà la vita, che si offre, che non pensa a sé. Avrebbe questa scena molto da dire ai padri di oggi, ai padri che pensano a sé più che alla famiglia, più che ai figli, che s’innamorano della prima ucraina, badante del padre anziano, per essere molto concreti. L’altra scena viene dopo la morte di Ettore. Achille è così arrabbiato che fa trascinare il corpo di Ettore dietro un carro lungo tutta la cinta di mura e quindi vuole inveire anche contro il cadavere di colui che gli ha ucciso l’amico. L’Iliade è uno scontro di passioni, ci ricorda Baricco nella sua

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versione in prosa dell’Iliade. E allora esce Priamo, intercede perché gli sia restituito il figlio, almeno il corpo, il cadavere. E qui Priamo per addolcire il cuore di Achille gli ricorda: Anche tu hai un padre, anche tu hai un padre anziano. E allora Achille ricorda di essere un figlio e quindi concede a Priamo il corpo senza vita di Ettore. Nella prima scena abbiamo il padre che dà la vita, (Questa potrebbe essere anche una lezione fatta ai papà presenti, anche spirituali, perché no?), nella seconda è il padre che va alla trattativa con il nemico rinunciando al suo onore, rinunciando al suo prestigio, mettendo anche in forse la sua stessa incolumità andando nel campo nemico. La terza scena, sempre dall’antichità, quella che credo conosciamo tutti, riguarda invece Virgilio, e ci viene dall’Eneide. Enea fugge da Troia incendiata. C’è una consequenzialità, almeno nella mente dei poeti tra queste scene, tra questa storia, inventata quanto volete, ma così vera, così vera come nessuna storia vera lo è. Questa è l’arte dei poeti, inventare la realtà in una maniera più aderente di quanto non lo sia il verismo, la fotografia. Enea scappa da Troia, Troia è in fiamme, Troia sta per crollare, e allora ha due pesi con sé, ha il peso del figlio portato per mano, Ascanio, e ha il peso del padre, portato sulle spalle, Anchise. Vedete, questa è la foto più bella che la classicità ci ha consegnato su che cosa sia una civiltà. Adesso vi sembra che io stia slittando in un Corso non di Esercizi spirituali, ma il sapere è uno, l’uomo è uno solo. È l’immagine più potente di cosa sia una civiltà. Una civiltà, e qui è Enea, colui che collega, collegherà i fasti dell’antica Troia con la nuova storia, per noi antichissima, quella di Roma, porta per mano un figlio. Senza figli si è senza futuro. E qui non intendo figli generati. Alcuni di voi hanno figli e nipoti, altri sono sposati senza figli, e poi c’è l’ordinando vescovo e altri presbiteri, i già presbiteri, che non hanno figli, figli in senso carnale, ma sono pur sempre chiamati alla paternità, che è prendersi cura, è portare per mano qualcuno. Quindi il padre qui, in quest’altro gruppo marmoreo in grande movimento, è colui che fugge, ma non da solo, portandosi il futuro con sé, e il futuro è il figlio, che darà inizio alla Casa Giulia, figlio che andrà oltre me. Penso, per fare un’apertura pastorale, a quanto spazio (mi riferisco alla Chiesa palermitana, alla Chiesa sorrentina, alla Chiesa di Teano-Calvi, alla Chiesa di Capua, alla Chiesa di Ischia, alla Chiesa di Benevento, non so quali altre siano rappresentate) quanta attenzione fanno le nostre Chiese ai giovani o le nostre parrocchie. Se tu non hai un figlio, tu sei finito! Questo è il messaggio. Con tutti i problemi che i figli comportano, ma è il figlio a cui trasmetto un sapere, sperando che ci riesca. Tutto questo è possibile solo nella misura in cui io stesso, come giovane padre, sono legato a mio padre che è avanti negli anni. Enea porta sulle spalle un padre anziano, che potrebbe essere abbandonato, ormai non ha più futuro Anchise, ma deve essere portato, perché senza il padre non c’è futuro. Allora, vedete, il problema è sempre il futuro, e il futuro è il figlio, ma il futuro è anche il padre, di cui non mi sono liberato. Oggi tanti farebbero così, in una Troia in fiamme, in una cultura che va disgregandosi - siamo in questo atteggiamento di emergenza, di grande emergenza, di disorientamento generale - quello che sembrava essere saldo non lo è più, e allora dobbiamo scappare, ma cosa portiamo con noi?, che ti porti dietro? Ti devi portare certamente un figlio e, se vuoi avere futuro, ti devi portare anche il padre. Abbiamo tre generazioni in questo gruppo: il padre anziano, il figlio che diventerà padre rispetto alle due generazioni precedenti, il padre (diciamo) giovane, che porta, che sopporta, che è rallentato nella sua fuga da ciò che renderà preziosa la vita del figlio. Ecco, bisognerebbe riflettere di più, io lo faccio in una maniera un po’ pedante se volete, ma certamente mi sembra che tra tante cose che abbiamo studiato, per quelli fra noi che hanno fatto l’itinerario classico, credo diversi, ma anche per chi non abbia fatto quel percorso, la civiltà occidentale che sembra sempre più sgretolata, sempre più perdente, sempre più debole, come se fossimo gli ultimi dei mohikani, questa civiltà ha coniato dei simboli, e questo è un simbolo potentissimo: che cosa significa famiglia, che cosa significa civiltà, cosa significa padre. Ecco il motivo per cui l’ho evocato. Il padre è colui che è padre, ma è anche figlio. Giovanni Paolo in una poesia, una prosa poetica, lo dice ai preti, lo dice di

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se stesso, ma in realtà lo dice a tutti i preti, quando afferma: padre senza smettere di essere figlio. E spesso, e lo vedete, qui ci sono alcuni nonni che sono nel ruolo di Anchise, ci sono diversi che sono nel ruolo di Enea, c’è qualcuno appena o da poco uscito dal ruolo di Ascanio. Scrollarci dalle spalle i padri è la cosa più semplice, che ci fa scattare, ma a un certo punto non sappiamo più dove andare. Ecco, tutto questo fatelo convergere in “abbà, papà”. Questo Gesù lo sa. E ce lo insegna, cioè tu senza padre non andrai da nessuna parte, anche se il padre apparentemente ti limita, anche se il padre ti corregge, anche se il padre ti mette i paletti, anche se il padre a volte ti chiede di vivere certe situazioni dove ti sembra che lui non si interessi di te, non ci sia, guardi da un’altra parte. Allora, mentre diciamo abbà, poi scopriamo a nostra volta di essere figli ed essere padri. E come viviamo questa duplice relazione, quella di figlio e quella di padre? Quale privilegiamo? E forse stiamo lasciandoci dietro, in mezzo al crollo, il padre, tanto ugualmente sarebbe morto di Alzheimer, tanto, che fa?, ha già vissuto i suoi anni. Ricordate che l’anno scorso, percorrendo la storia di Giuseppe, noi ci siamo fermati sull’aspetto di Giuseppe che diceva: “Voi sarete liberati, però quando andrete via portate con voi le mie ossa”. E le ossa di Giuseppe, trasportate nel pellegrinaggio dell’esodo fino alla Terra Promessa, costituiscono questa memoria. E tu la memoria ce l’hai? Concludo con tre annotazioni: la prima è: essere figlio. Questa annotazione è così oggettiva che non bisogna spenderci più di un attimo, cioè tutti noi siamo figli, figli di Dio, figli di un padre, figli di più padri, è un dato, è un fatto dove non entra la mia libertà; la libertà entra nel secondo punto, quando la mia figliolanza, e quindi la mia relazione, silenziosa o celebrata, negata o affermata nei confronti del padre, diventa scelta, diventa assunta, è soggettivizzata. Che io abbia un padre è un dato di fatto, non sarei nato se non avessi avuto un padre, ma questo padre è anche mio padre? Qui c’è un lavoro da fare nei confronti del padre naturale o del padre che ci ha generati alla fede, come nei confronti del Padre celeste. Qui si tratta di mentalizzarla questa relazione, si tratta di sceglierla, si tratta di assumerla, si tratta di personalizzarla, e qui lo devo fare io, non lo può fare un altro. Spesso, purtroppo lo fa lo psicoterapeuta, a costo piuttosto alto, per farci riassumere certe relazioni. E quindi scoprirsi figlio, e dunque sentirsi figlio. Sono sullo stesso piano, fanno parte dello stesso secondo punto: essere figlio. Ohibò, sono un figlio! Sono ancora figlio! Anche se i miei genitori sono morti, anche se… sono un figlio. Allora a questa scoperta assunta subentra una coscienza: mi sento figlio, posso ridire abbà, posso ridire papà. La cosa più difficile è il terzo punto, ed è: vivere da figlio, perché non tutti i figli che si sentono figli vivono nei confronti del padre una relazione filiale. Vivere da figlio. Per esempio dicendo grazie! Per esempio assumendo qualche aspetto di mio padre. Per esempio eleggendo a padre colui che è già padre, perché l’elezione è questa assunzione di paternità e di figliolanza. Un padre non lo si sceglie, un padre sta lì, è dato. Quando eravamo bambini, lo fanno anche i vostri figli, guardavamo i genitori degli altri: quel papà lì, quella mamma là, più scattanti, che vengono sempre a prendere il figlio in auto (adesso lo fanno tutti), cioè il padre è dato, non te lo scegli, però il padre lo eleggi, e lo eleggi nel momento in cui il padre dato diventa un padre donato, diventa il padre al quale dico papà, a cui racconto delle cose, da cui ascolto dei racconti, la memoria, da cui ricevo una spinta. I padri hanno questo grande compito, anche il Padre celeste lo fa nei nostri confronti, ci spinge, ci dice – e chiudo – come ad Ettore: Sì, morire è una cosa terribile, ma se tu adesso vai a questo combattimento per questo bambino, per questo sogno, per questo futuro oltre il futuro, anche questa morte è meno morte. E questa è la spinta dei padri. E oggi, come ognuno di voi sa, di padri in giro ce ne sono pochi. Padri naturali tantissimi, padri che dicono: vai a combattere, esci dalla cinta delle mura, anche se devi affrontare, anche se devi pagare, anche se ti fai male, prova, sperimenta, ne vale la pena. Tutti i padri in ritirata - per non offendere nessuno, mi metto anch’io - tutti i padri che battono in ritirata, possibilmente senza pesi sulle spalle, senza bambini tra i piedi che fanno i mocciosi, perché poi: si

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salvi chi può! Adesso questo è il motto: si salvi chi può! No, perché qui se “si salvi chi può”, non si salva nessuno; se invece studiamo queste due dipendenze, queste due limitazioni, queste due fonti di problemi - perché il padre anziano fa problema, perché il figlio fa problema - camminiamo più lentamente ma verso una direzione, anziché correre verso il nulla. Tu sei figlio, ma ti senti figlio? Ma soprattutto - e qui siamo tutti peccatori - soprattutto vivi da figlio?, vivi nella riconoscenza? Ecco, io ho detto tante cose, voi sceglietevi soltanto il gruppo marmoreo, vi mettete a guardarlo e dite: ma che mi dice?, o uno dei testi che vi ho dati, o una parola detta così, solo di passaggio.

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Lunedì 11 marzo 2013, ore 12:15Canto: Padre mio

Il canto, che abbiamo fatto, è una modulazione del Padre Nostro, soprattutto della parola “Padre” nel ‘900, da parte di Charles de Focauld. L’atto di abbandono è una preghiera di confidenza infinita, si dice nel testo, da parte di quel credente nei confronti di Dio, ed è un testo che ha parlato già a diverse generazioni, una sorta di resa definitiva al Padre, qualsiasi cosa Egli scelga per il figlio (vi ricordo che la morte di Charles de Focauld è avvenuta da parte di un Touareg, le popolazioni che egli in qualche maniera serviva, mentre era in adorazione davanti a Gesù Eucaristia nella solitudine del deserto.

Quando pregate dite “Padre Nostro”.Questa preghiera, vi ripeto ancora una volta, non è una formula, ma è un modo, contiene degli atteggiamenti che i credenti in Gesù dovranno avere fino alla fine dei tempi.Ci siamo lasciati – e spero vi abbia parlato – con l’immagine di Enea con Ascanio, con Anchise. Pensavo, in questo tempo, che in Conclave si stanno discutendo le stesse cose; nessuno dirà: “Parliamo del Padre Nostro”, ma si sta scegliendo un padre. E come dovrà essere questo padre? - si saran chiesti nelle Congregazioni i cardinali, e adesso, nel momento solennissimo di esprimere dei voti - Dovrà essere un padre autoritario?, dovrà essere un padre che si scrolla di dosso il passato?, dovrà essere - e questa è la cosa più complessa e anche più ardua non solo per il prossimo, ma per i prossimi pontefici - dovrà essere un padre che sa tenere per mano un figlio in questo tempo, un figlio che si chiama “modernità”, che si chiama “post-modernità”, ma che comunque è un figlio? Queste sono le grandi sfide!, che, certo, riguardano il Papa, ma riguardano poi ogni vescovo, ogni presbitero, ogni laico, cioè: che vogliamo fare con questo bambino? Lo mandiamo al macero, perché fa la cacca, perché è sporco, perché dice le parolacce, o lo portiamo per mano? Grosse tensioni, grosse problematiche, grosse sfide, cui la Chiesa è chiamata in qualche maniera a rispondere. Dalla scelta di questo padre, dal volto, dal nome, dall’impostazione ne verrà se Anchise bisogna portarlo al macero, se il bambino bisogna tenerlo, o dire “noi non c’entriamo, sono fatti vostri, noi apparteniamo a un altro tempo, pur restando fedeli a Gesù”. Questo per dire che quello che, poveramente, stiamo facendo noi qui non è altro e non è così lontano, alieno, da ciò che a pochi chilometri di distanza si va facendo, si starà facendo, impastando nel Conclave: si impasta il pane quotidiano, che è il Papa per oggi, fino a domani, dice la traduzione.

Per cui, vi dicevo, non è una preghiera: impara il Padre Nostro, ma impara a pregare e a vivere, vivere da figlio, nelle tre relazioni che Gesù stabilisce, dà come criteri di una vita cristiana equilibrata, e dunque anche di una vita umana. Queste tre dimensioni sono: 1) stare davanti a Dio e starci in una certa maniera; 2) starci riconoscendo una relazione; 3) starci riconoscendo una paternità, e dunque una figliolanza; 4) starci celebrando una dipendenza. E potrei continuare a lungo. Quindi, il primo aspetto, il primo contenuto, il grosso contenuto del Padre Nostro è come stare davanti a Dio. E Gesù dice: “Stacci come un bambino davanti al suo papà”. Dice una delle monizioni del messale al momento del Padre Nostro: “con la fiducia e la semplicità dei figli”; ecco, con la fiducia e la semplicità dei figli. È importante anche guardare alle monizioni, credo che siano quattro, che il messale prevede. La classica:

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“Obbedienti alla Parola del Salvatore e formati al suo divino insegnamento osiamo dire…”. Osiamo perché queste parole, che stavano bene sulla bocca di Gesù, stanno bene anche sulle nostre?, sulle nostre labbra impure, direbbe la vocazione di Isaia. Osiamo dire… “Guidati dallo Spirito di Gesù e illuminati dalla sapienza del vangelo osiamo dire…”. Queste sono le monizioni che introducono il Padre Nostro. Quindi, un modo di stare davanti a Dio. Come ci si sta? In piedi, seduti, in ginocchio, stravaccati, giocando, dicendo “Abbà”? Un modo di stare con gli altri, ed è tutto riassunto in Nostro, Nostro, Nostro. Nostro Padre, nostro pane, rimetti a noi i nostri debiti. Non esiste la parola “io”, né l’aggettivo “mio” nel Padre Nostro. E quindi un modo di rapportarci agli altri.Sto dando adesso un taglio trasversale a tutto il Padre Nostro, poi torneranno nelle singole espressioni su queste dimensioni.E terzo: un modo di stare davanti al mondo.Questo innanzi tutto nell’espressione del pane: dacci oggi il nostro pane fino a domani, il nostro pane per il sostentamento di oggi, perché l’uomo ha bisogno di questo, e dunque non siamo schizzinosi, non siamo platonici, dei neo-platonici, nel dire: ma questa è l’anima, questo è il corpo? È il pane. E il pane è il mondo. Il pane sono le cose, sono le piante, sono la musica, la poesia, l’arte, le pietre, i fiumi, i laghi… il mondo. Come ci si sta davanti al mondo? Quindi, come vedete, in questa preghiera, in questa pagina di vangelo, che stiamo ascoltando e riascoltando e sillabando e masticando e ruminando e guardando, in questa pagina poi c’è tutto il vangelo.

1) Impara a stare davanti a Dio. 2) Impara a stare con gli altri, ritenendoli non estranei, ma fratelli. 3) Impara a stare davanti al mondo.

Qualcuno parla del Padre Nostro come di una preghiera espropriata, perché non parliamo di noi, non chiediamo per noi, chiediamo per tutti, anche per quelli che non chiedono, anche per quelli che non pregano, anche per quelli che non credono, perché il Padre è il Padre di tutti, non fa distinzione, accoglie chiunque, tutti vengono da Lui, e tutti a Lui devono tornare, anche i figli vostri, che a Messa non vanno più, che non frequentano, figli, nipoti: dove sono adesso in questa economia del Padre Nostro? Nella esposizione interna della preghiera, che ti fa rivolgere al Padre a nome di tutti gli uomini.Il Padre - dice Gesù, nel Discorso della montagna - fa sorgere il suo sole sui buoni, sui cattivi, sui giusti, sugli ingiusti; fa piovere non solo sul campo del pio israelita, ma anche sul campo del bestemmiatore, cioè Dio non rinnega la sua paternità, anche nei confronti di chi rinnega Dio come Padre, e non ha intenzione di stabilire alcuna relazione. Ma ecco che il Padre Nostro ci mette in collegamento con questi “lontani” - e forse lo siamo anche noi - facendo in modo che anche per essi ci sia il pane, ci sia il perdono, ci sia la liberazione dal Maligno. In questo senso non è assolutamente una preghiera personale, nel senso egoistico del termine, ma è sempre una preghiera comunitaria. E ancora, rispetto a quello che vi dicevo ieri sera, pregare è decentrarsi da Dio e ricentrarsi nelle relazioni.

E qui una piccola riflessione sulla fraternità, che affonda le radici nella paternità.Perché è Nostro? Perché è di tutti. E perché, dunque, da questo Nostro deriva la fraternità? Perché come è Padre per me, è Padre anche per gli altri e degli altri. Nelle nostre famiglie, ma anche nelle nostre chiese, nelle nostre parrocchie, nelle nostre diocesi, si difetta sempre su questo aspetto, quello della fraternità. Come in casa il figlio dice: “vuoi più bene a questo, a quello…”, così anche nella parrocchia, così anche nella diocesi, così anche nella Chiesa universale: non ci si riconosce fratelli. Abbiamo molta difficoltà anche nei presbitèri. Senza mezzi termini, dobbiamo ammetterlo, abbiamo tanta difficoltà a dire: quello è mio fratello.

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La Storia dell’umanità è attraversata dall’odio per il fratello. La Storia dell’umanità, secondo l’impostazione di Genesi, nasce addirittura con l’uccisione del fratello, da quando il fratello disse al fratello: andiamo nei campi. E quindi questa grande sfida della fraternità, conseguenza e anche frutto dell’educazione del Padre Nostro, diventa un tema degli Esercizi, un tema della vita spirituale.Come vivi la fraternità?, che significa con i tuoi fratelli e le tue sorelle, significa anche con i componenti della tua parrocchia, il tuo gruppo, la tua associazione, il tuo presbiterio, il tuo collegio episcopale, (tra un po’ per don Pietro.) Qui ci sono i tuoi fratelli e come li guardi? Come li vedi? Come riesci ad accettare le loro diversità? La via è una sola. Un uomo fa tutti gli sforzi per cercare di sorridere a una persona antipatica… Ma non tiene. Uno di questi autori americani durante il ‘900, inizio ‘900, parla di due cardinali, che appartenevano a due nazioni contendenti, e ad uno di essi il romanziere fa dire: “Adesso che incontro il mio confratello lo saluterò con un bel sorriso”. Poi s’incontrano nel corridoio, in Conclave, e non si salutano. C’è una sola via, una sola via di redenzione nella fraternità, ed è la paternità. Non ce ne sono altre. E qui la paternità con due vie di riflessione e poi di azione. La prima è che veniamo tutti da Lui, e quindi è impossibile che io faccia buon viso a cattivo gioco, per dirla in una maniera più prosaica, a questa persona, dal momento che scorre nelle nostre vene lo stesso sangue (anche se sappiamo che pure i fratelli si scannano, senza problemi, davanti ad una eredità, davanti a un problema di divisione di beni).Allora, o riconosciamo la stessa fonte, e dunque non sono fratello per convenienza, anche perché il fratello, come il padre, non l’ho scelto, ma questo fratello viene dalla stessa origine. Anche lui dice Padre Nostro.C’è una bella lettura, penso di S. Agostino, nel nostro Ufficio delle letture, dove Agostino dice, a proposito dei fratelli separati: “non sarete più nostri fratelli, finché non direte Padre Nostro”, cioè dite padre Nostro, e allora siamo fratelli! Dire: no, non siamo fratelli, è tutto un gioco, come Agostino sa fare, tra questi opposti, cioè dire Padre Nostro e sentirsi fratelli è tutt’uno. Altro è un pensiero romantico come in questo momento, altra poi è la concretezza.L’altra via, sempre legata alla fraternità, come espressione e concretizzazione e conseguenza della paternità, è guardare l’altro, così come il padre lo guarda. Io lo giudico, il Padre lo perdona. Io metto in evidenza gli aspetti negativi, il padre tira sempre fuori…: ah, ma guarda che sa anche parlare…, ma guarda che è un bravo artista, ma guarda…, e quindi i fratelli dei fratelli mettono in evidenza i difetti, il padre sta sempre a sottolineare i pregi, perché gli uni e gli altri hanno una lettura oggettiva, però la prospettiva è diversa.E quindi è bello pensarci qui, per esempio come una comunità anche piuttosto variegata, numerosa, che è collegata a tante altre persone, quindi Germana dice: Eh, Peppe non c’è, però c’è, ma adesso sono qui… E i bambini ci sono… E così anche voi, cioè è come se poi da questo cuore pulsasse una forza, un aspetto coinvolgente, che abbraccia molte più persone di quelle che siamo qui, perché ognuno di noi ha mille relazioni o alcune relazioni privilegiate, che lo strutturano, che fanno parte della sua vocazione, che si coniugano nella famiglia, nella comunità, e dunque queste persone immediatamente sono coinvolte in quello che stiamo facendo. Dalla nostra resistenza, dalla nostra preghiera ne va - non esagero - ne va anche della elezione del sommo pontefice in questa settimana, e non solo, ma anche dei vostri mariti, delle vostre mogli assenti, dei vostri amici, delle persone a voi legate, dei vostri parrocchiani, i quali in qualche maniera, mentre diciamo Nostro, sono chiamati in causa, non solo come impegno ma anche come dono, cioè ricevono, senza saperlo, una grazia, una grazia inattesa, insperata. Quando l’Innominato, che non s’aspettava un incontro così affettuoso col cardinal Federigo, dice: “No, mio buon cardinale, tante persone vi invocano, hanno bisogno, non possiamo perdere tempo

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con questo tizzone d’Inferno”, il cardinale dice: e qui è rielaborare la comunione dei santi, la grazia che si sparge misteriosamente tra i credenti. Il cardinale dice: No, magari queste persone sentiranno in questo momento, senza saperlo, una sorta di pace, una sorta di gioia, senza conoscerne la causa. S. Ignazio di Loyola negli Esercizi dice: La grazia sine causa è certamente la grazia che viene da Dio. Non perché ho ricevuto centomila euro, sta contento così! Ma perché sta contento? Sei contento perché qualcuno ha detto Padre Nostro, qualcuno a te collegato, e quella energia spirituale, dobbiamo credere che sia così, ti sta giungendo misteriosamente, ti sorregge, ti esalta, ti sostiene in questo momento, in questo intervento, in questa esperienza di dolore, in questo travaglio, che stai attraversando. I figli debbono imparare a condividere il Padre - questo è il Nostro - che sei nei cieli. Un autore del I secolo, si chiama Marcione, un credente dalle idee strane, un eretico, proprio a dispregio, dice: Padre nostro, che stai nei cieli, restaci. Sembrano cose del ‘900, e invece già sono state dette nel I secolo. Restaci. Ovviamente non si tratta dei cieli astronomici, ma qui da un lato si vuol celebrare la trascendenza di Dio. Salomone, all’atto in cui consacra il tempio di Gerusalemme, ha quell’espressione così bella: Ecco, i cieli dei cieli non possono contenerti, come potrà farlo questo tempio, che io ho costruito? La dimensione di inanità che si ha davanti a Dio, di estrema piccolezza davanti ad una enorme grandezza, si chiama trascendenza. Questa dimensione di trascendenza è espressa con l’immagine dei cieli. “Stai nei cieli” per dire non lontananza, ma grandezza. Seconda annotazione sui cieli. Questi cieli in alto sono anche i cieli dentro di noi. Allora questo Padre è in alto, per cui devo alzare le braccia, come gli Ebrei e come a volte facciamo, recitando il Padre Nostro, o debbo poggiare le mani sul cuore, sul petto, dicendo: Padre Nostro, che sei nei cieli…, perché ci sono delle profondità in me e in te, cioè sono quelle su cui ci affacciamo un po’ paurosi in questi giorni, che sono le profondità, i fondali del nostro cuore. Non sto parlando dell’inconscio, ma sto parlando di quei cieli che stanno in me. Non sono solo i cieli sopra Berlino o i cieli d’Irlanda della Mannoia, sono i cieli del microcosmo, è l’uomo. In ciascun uomo, tanto più se battezzato, noi riconosciamo presente la Trinità, allora anziché guardarmi intorno, cosa che ovviamente vi invito a fare, in contemporanea, in concomitanza con questo gesto, ci guardiamo anche dentro, perché ci sono delle bellezze ancora tutte da scoprire, nelle miniere del nostro cuore, dove Dio abita.Il Papa Benedetto, quando ha comunicato la sua decisione di rimettere al collegio cardinalizio il suo essere Papa, ha parlato di coscienza: Più volte mi sono interrogato con serietà, davanti alla mia coscienza. Dovremmo farlo anche noi, anch’io, anche voi. E qui si aprono dei fondali, dei panorami, delle profondità, ma anche delle urgenze. La coscienza è questo luogo più intimo, direbbe S. Agostino, l’intimità più intima di te stesso, la tua coscienza. Dice Agostino nelle Confessioni: “Io Ti cercavo fuori di me e Tu eri in me”. Ecco, questo Padre ti parla da dentro, ti parla dall’interno. Affacciati su questi cieli, chinati sul tuo cuore, interroga il tuo cuore, e te lo dirà. Per la verità, il testo dice: “interroga i tuoi vecchi e te lo diranno”, ma se Anchise è dentro di me, se io non ho abbandonato il padre, se lo porto sulle spalle, ma lo porto anche nel cuore, allora posso interrogarmi. Interroga i tuoi vecchi, e te lo diranno.Padre Nostro che sei nei cieli.

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Lunedì 11 marzo 2013, ore 16:00Il salmo 135 è un salmo aperto, d’altra parte questo si può dire di tutti i salmi. È aperto nel senso che aspetta d’essere completato con ricordi, con indicazioni, con date, con tappe, con mirabilia Dei operate nella nostra vita. Si parte dalla creazione con questo ritornello, che secondo alcuni è il riassunto di tutta la Bibbia: Eterna è la sua misericordia. Si passa poi alla storia di Israele, eletto, scelto, difeso, liberato, con l’abbattimento di re potenti, Og, re di Basan, Seon, re degli Amorrei. Questa è la storia d’Israele. Poi c’è la nostra storia, quindi eterna è la tua misericordia quando sono nato, eterna è la tua misericordia quando incontrai Mimmo, eterna è la tua misericordia quando nacque Rito… Si mettono le date, gli eventi, e si continua, è un salmo litanico, come spesso è litanica la preghiera, è un ripetere delle formule, che, come dicevo ieri, performano. Questo è già un esercizio che potete fare nel pomeriggio.

Questa notte, nottetempo, si sono aggiunti don Francesco (Meta), don Marco con i suoi amici, e adesso fra Nicola e fra Giuseppe, e la nostra famiglia dovrebbe essere al completo. Siamo questi, siamo questa carovana, che in giorni di pioggia si unisce nel cuore della Chiesa alla preghiera per il nuovo abbà. Spero abbiate imparato a memoria il salmo 130 e che col passare delle ore vi sentiate più dentro a questo testo. Ovviamente noi commenteremo solo l’espressione del Padre nostro. Ho voluto che si leggesse anche il prosieguo perché il Padre Nostro nella versione di Luca è inserito in quegli inviti alla fiducia: Chiedete e vi sarà dato, bussate e vi sarà aperto, a chi cerca trova. Se un figlio chiede un pesce non riceverà dal padre uno scorpione. I padri sanno dare cose buone ai loro figli. I padri nella carne tanto più il Padre celeste.

Riflettiamo un po’ insieme sulla prima vera richiesta del Padre Nostro che è: sia santificato il tuo nome. Finora è come se ci fossimo fermati solo sull’invocazione: quando pregate dite “Padre”. Vogliamo imparare quest’arte, perché pregare è aprire un varco in una situazione difficile, in una vita provata, in una giornata uggiosa. Ho pensato a una espressione di Ernest Bloch, un filosofo ateo del ‘900, molto vicino a espressioni di speranza cristiana, che dice: Pensare è oltrepassare. E allora se al verbo pensare sostituite pregare, pregare è oltrepassare. Padre, se possibile, passi da me questo calice. E Gesù, in quella versione che vi ho già detto essere il Padre Nostro nel vangelo di Marco, attraverso quella preghiera, in quell’esperienza drammatica, è aiutato a passare, ad aprire un varco in una situazione chiusa, come quella degli Ebrei davanti al Mar Rosso con alle spalle gli Egiziani che li inseguivano. Quando si presenta dopo questa esperienza ai discepoli, Gesù è trasformato, è deciso: Alzatevi, andiamo, colui che mi tradisce è vicino. È Gesù stesso che si consegna. Questo è frutto della preghiera. La preghiera è aprire un varco, è aprire una porta, aprire una via di fuga in una situazione, e tutta la nostra vita è così in qualche maniera, che sembra senza esito, senza uscita.

Cosa significa sia santificato il tuo nome?Significherà tante cose, noi vi dedichiamo solo questa meditazione, e quindi la preghiera che ne segue, certamente noi non aggiungiamo niente alla santità di Dio e alla bellezza del suo nome. Come sapete, si fa tanta insistenza sul nome da dire o da non dire nell’Antico Testamento, perché per i semiti il nome è più importante di quanto lo sia per noi. Per noi il nome è semplicemente indicativo. Braccio del microfono, microfono, libretto, acqua, bicchiere sono, nella nostra cultura, nella nostra percezione, delle cose, semplicemente dei termini, ma quando dico microfono intendo anche aderire a questa realtà? No, nella nostra percezione. Tant’è vero che poi

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nell’estremo di questa concezione c’è il nominalismo, cioè dove esistono solo i nomi. “Il nome della rosa”, di Umberto Eco, è un poema su questa visione, ovviamente pessimistica, cioè dietro i nomi non c’è niente, noi teniamo solo il nome della rosa. Esiste la rosa o è una convenzione? Noi abbiamo solo i nomi, i semplici nomi. Siamo proprio all’estremo opposto nella concezione del nome per gli Ebrei, e quindi per il mondo semitico in genere, cioè il nome è la persona, per cui possedere il nome è possedere la persona, entrare nella password di quella persona. Questo è il motivo per cui nell’Antico Testamento c’è anche un comandamento secondo cui non bisogna nominare il nome di Dio. Non è indicazione di lontananza, è semplicemente, in quella cultura, in quella cornice, non avere la presunzione di entrare nel mistero di Dio. Anche Gesù fa attenzione ai nomi. Quando cambia il nome a una persona vuole indicare che la persona è cambiata, non è più quella di prima. Oppure anche nell’Antico Testamento: Fino adesso ti chiamavi Abram, adesso ti chiamerai Abramo, perché è cambiato qualcosa. E invece nelle chiamate di Gesù il cambiare nome a Pietro significa indicare il fondamento della Chiesa. Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. Abbiamo una rocciosità, per così dire, se così si può dire, del nome nel mondo semitico e abbiamo una vacuità del nome nel mondo occidentale. E quindi, a partire da questa premessa sia santificato il tuo nome non è il nome ma è la persona, è la realtà stessa di Dio che sia riconosciuta tale, venerata, adorata, riconosciuta nella sua sovranità, nella sua santità. L’obiettivo degli Esercizi è questo, molto semplicemente, degli Esercizi spirituali in genere, di ogni esperienza spirituale autentica: riportare il nome di Dio al centro, riportare, riorganizzare la nostra vita a partire da Lui, visto che le cose, le pressioni, le debolezze, ma anche semplicemente gli impegni quotidiani spesso ci destabilizzano e ci portano a vivere come se Dio non ci fosse. Attenti, questo lo diciamo anche di noi, non vale solo per voi laici, vale anche per noi che pur stiamo sempre col nome di Dio sulla bocca nelle celebrazioni ma che, presi da tante cose, da tanti orpelli, aspetti secondari o anche da tante tensioni che pur si creano nella vita pastorale, ad un certo punto piano piano - e fate attenzione agli ordinandi presbiteri - anche un prete si trova alla deriva senza neanche rendersene conto. Eppure dice la Messa, eppure predica! Quindi non si tratta di una ripetizione del nome o di avere Dio sulle labbra, ma di qualcosa di più profondo. E allora Dio ha già la sua gloria, Dio ha già la sua primazia, ma questa gloria, quella primazia, quel primato c’è anche nella tua vita? Ecco, chiediamo che il Suo nome, cioè Dio nella Sua verità, realtà, trovi riscontro nella nostra povera esistenza, così sballottolata, così in preda a marosi, a tempeste, a pressioni, a passioni, a malanni.Sono andato a far visita a don Pasqualino. Don Pasqualino, parroco di Pietravairano, ha subito un secondo delicato intervento per la sostituzione di alcuni by-pass Domenica mattina, e mi ha detto, era appena uscito dalla terapia intensiva, mi ha comunicato l’estremo disagio di essere stato lì in terapia intensiva: Io per due giorni – ha detto – non sapevo più pregare. Questa cosa – attenti – riguarda tutti noi, cioè quando stiamo male non preghiamo. Ho detto: Stai tranquillo, la tua preghiera è stata la tua sofferenza, non c’è bisogno che tu “dica”. Non riusciva a dire niente. Questa cosa l’ho sentita tante volte, perché le malattie ci sconvolgono psicologicamente, fisicamente, non siamo più noi. Questo è il motivo per cui S. Ignazio dice che bisogna pregare quando uno sta bene; quando uno sta bene bisogna fare incetta di preghiera, fare riserva, mettere sott’olio, per i tempi difficili, energie spirituali, perché poi quando ci ammaliamo, oppure quando ti farai anziano (qualcuno di noi è già a un passo)… Devi pregare quando sei giovane, quando hai le forze, quando hai la lucidità. Quando sarò anziano dirò cinquemila Rosari! Non sappiamo se ci arriveremo. Li guardiamo bene i nostri anziani piagnucolosi - lo diventeremo anche noi - così concentrati su di sé, sulla loro malattia. Allora c’è un tempo per pregare, ed è il tempo in cui si sta bene, non rimandiamo a tempi che non verranno.

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Ho aperto questa parentesi quando ho parlato di tutte queste pressioni che noi riceviamo dall’esterno e che inesorabilmente ci portano lontano da Dio, anche se svolgo il ministero presbiterale, episcopale, o vivo in una comunità religiosa, per cui abbiamo bisogno continuamente di tornare, abbiamo bisogno continuamente di ricentrarci, perché il Suo nome sia invocato su di noi e sia santificato nella nostra vita. È già santo in sé, non sono io a santificare Dio, non lo canonizzo, ma certamente l’irruzione di Dio nella mia vita, riorganizzandola, diventa un modo per santificare il Suo nome. Quindi non è fare riferimento in negativo alle bestemmie, ecc. Ci sono delle bestemmie esistenziali molto ma molto più gravi delle bestemmie verbali. Quelli che bestemmiano lo faranno per abitudine, non hanno, tranne poche eccezioni, la volontà di offendere Dio, ma ci sono bestemmie esistenziali di gran lunga più gravi: sono quelle vite dove Dio è maledetto, sono quelle vite, sono quelle organizzazioni, avrebbe detto Giovanni Paolo II, quelle strutture di peccato dove non solo non c’è Dio, ma a volte lo si utilizza per altre finalità, e allora, ecco, questa è una vita che è una bestemmia. In positivo, una vita è benedizione quando è una vita dove gli altri vengono e da cui ripartono sempre risollevati, rilanciati nel bene, rimotivati nelle loro scelte fondamentali, guariti dalle loro ferite. Questa è una vita benedetta, è un vita in cui il Suo nome è santificato. Sia santificato il tuo nome nella Storia, sia santificato il tuo nome nella Chiesa – preghiamo non solo in questi giorni – sia santificato il tuo nome nelle culture, sia santificato il tuo nome nelle scuole - ci sono alcuni di voi che lavorano come docenti - sia santificato il tuo nome nella mia diocesi. Allora capite che da una invocazione, che sembra chiedere semplicemente un dono, si passa a un impegno che è l’impegno che io pongo perché questo avvenga, perché certamente una vita benedetta è un dono, ma è anche un impegno, è anche un’ascesi, è anche uno sforzo, è anche un tentativo di non sradicarsi da quelle scelte fondamentali. Voi direte, voi ordinandi, anche don Pietro il 1° maggio: “Sì, lo voglio, sì, lo voglio, sì, lo voglio… con l’aiuto di Dio lo voglio”, e in quel momento dite la verità. Anche noi l’abbiamo detta ed eravamo veri e sinceri, ma poi, poi interviene la routine - vale anche per voi sposi - Vuoi? Sììììì, io prendo te come mia sposa… e prometto di esserti fedele sempre nella gioia, nel dolore, nella salute e nella malattia, di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita. E poi nella vostra vita, come nella nostra, intervengono tante cose, tanti elementi: oggi è cattivo tempo, oggi non ne ho voglia… Si parte da piccole cose, e anche una vita, pastorale o matrimoniale, che sia partita con i migliori auspici, con le motivazioni più luminose, finisce pian piano, se uno non sta attento, nelle secche dell’aridità, ci si adagia. Ecco, una persona vi incontra: Questo è un vescovo?! Questo è un prete?! Questo è un cristiano?! Alla fine vi rendete conto che chi è di ostacolo di più, in assoluto, alla santificazione del nome di Dio, siamo noi.

Sembra che adesso io abbia appesantito un po’, c’eravamo lasciati con lo scivolo, il dondolo, l’altalena, al parco giochi per adulti facendo questa preghiera, sentendovi bambini, e poi adesso come vi stessi caricando sulle spalle un peso enorme. Chiediamo a questo Papà, a questo Abbà: fa’ che io mi converta, perché in me la tua grazia non sia vana. S. Paolo quando riassume, spesso lo fa nelle sue lettere, riassume la sua vita, dice: La grazia di Dio in me non è stata vana. Cioè ho ricevuto una grazia, grande quanto volete, ma l’ho colta, vi sono rimasto agganciato. Fidem servavi, dirà a Timoteo. E dunque questa grazia non è andata a vuoto. Allora nella vita di S. Paolo il Padre è stato santificato, perché la santificazione del nome implica una nostra santità. Se io porto il Suo nome, allora questo nome non è solo una bandiera, uno stendardo, che io porto, che è diverso da me e che non ha niente a che fare con me. Ma se io porto il Suo nome che è santo e che mi contagia, irrimediabilmente questo diventa santità nella mia vita laicale, consacrata, presbiterale. Santità.

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In questi giorni stiamo facendo un po’ di revival; stamattina abbiamo parlato di Enea, Ettore, Omero, Virgilio, tre categorie ritenute sante, sia pure in una percezione laica o sacrale, ed erano gli eroi, i poeti, i sacerdoti. Com’è che uno fa un gesto eroico? Come può accadere che noi, così attaccati alla vita, in un momento di emergenza mettiamo tra parentesi la nostra sicurezza per venire incontro alla sicurezza degli altri? È andare contro natura. Questo è l’eroismo. Allora, quando c’era un gesto eroico gli antichi parlavano di santità a loro modo, ma noi in qualche maniera siamo debitori del mondo classico, la fede cristiana ha trovato un bell’alveo di inculturazione nella classicità greco-latina. È come se gli eroi ricevessero una scintilla di Dio, impazzissero e non più attenti alla loro sicurezza, alla loro vita, mettono a repentaglio la loro esistenza, muoiono per il bene di una comunità. Mi viene in mente in questo momento, nella storiografia post-ventennio, Orazio Coclite che sul ponte teneva a bada un esercito intero, mentre gli altri si attrezzavano. Magari non sarà esistito, ma ha parlato alla mia infanzia, immagino anche alla vostra: uno che si dimentica di sé, questo è l’eroe, si dimentica di sé ed è proteso ad un bene comune, che spesso richiede il sacrificio della vita. Questo è un santo, dicevano gli antichi, ma anche i poeti. Perché i poeti partecipavano di una santità? Perché l’intuizione poetica chiede un’ascesi, chiede un avvicinarsi all’imponderabile, per dirlo con parole logore. Questa è la poesia. Esprimere in un verso un universo. E dunque questo non è possibile che lo faccia un plebeo, ma c’è bisogno di essere saliti su una scala, aver percorso un itinerario che permette di cogliere in due parole un aspetto altrimenti indescrivibile. I poeti sono santi. Lo sono sempre nel vocabolario classico anche i sacerdoti, perché vicini al mistero, perché sono coloro che fanno da ponte. Don Pietro, ogni tanto qualcuno tira fuori: “Ecce sacerdos magnus”, quando entra il vescovo, ed io mi faccio sempre piccolo piccolo. Però questa è la dimensione del pontifex: pontefice è uno che fa da ponte, che unisce, che fa passare Dio di qua e gli uomini di là. E questo appartiene all’azione sacerdotale, anche semplicemente nel vocabolario religioso, anche senza entrare dentro alle nostre mura di fede cristiana.Allora, vedete, queste tre categorie in qualche maniera dovrebbero entrare anche nella nostra ferialità. Per questo ve le ho citate, magari vi sareste tirati fuori: io non sono poetessa, io non sono un’eroina, e io non sono sacerdote. Ciascuno di noi vive queste dimensioni, ognuno di noi riesce a trovare una parola che gli altri non riescono a dire, una parola risolutiva, una parola chiave, una parola che apre un varco, ho detto prima. E tutti noi viviamo momenti di eroismo, o li abbiamo vissuti, e tutti noi partecipiamo al sacerdozio di Cristo, viviamo una sacerdotalità sia pure nel lavoro, sia pure del sacerdozio comune, come si dice in teologia, che riguarda il Battesimo. Tutto questo come si esprime nella nostra vita, come si esprime nella tua vita l’aspetto poetico, l’aspetto sacerdotale e l’aspetto eroico? In modo tale che la tua esistenza, pur provata, pur vessata, pur attraversata da tutte quelle limitazioni, di cui abbiamo detto sopra, diventa un capolavoro.Dice Gesù nel vangelo di Giovanni (capitolo 15): In questo è glorificato il Padre mio, che diventiate miei discepoli e portiate molto frutto. Quindi c’è un aspetto di fecondità, cari amici, nonni, genitori, fidanzati, (pochi) preti, religiosi, religiose, c’è una dimensione, che ci deve appartenere, che è la fecondità. Noi dobbiamo produrre. Questo verbo è stato violentato, come tanti verbi, è diventato il verbo della società dei consumi, ma produrre significa che all’atto in cui io lascerò il mondo, questo mondo dovrà essere un tantino, in maniera infinitesimale, migliore di come l’ho trovato. Purtroppo succede l’esatto contrario, e cioè noi lasciamo dietro di noi una scia per niente luminosa, per niente profumata, per niente edificante, e questo mondo va crollando, va accartocciandosi, va avvelenandosi attraverso tante presenze di uomini e donne che vi passano impunemente senza piantare un albero, senza porre un gesto d’amore, senza essere eroi,

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sacerdoti, senza aver svolto il motivo per cui sono stati creati. E qui mi piace richiamare il nostro grande S. Ignazio di Loyola che in Principio e Fondamento degli Esercizi Spirituali, espressione che molti di voi conoscono a memoria, dice che Dio ci ha creati per lodarlo, riverirlo e servirlo. Lode, riverenza e servizio. Per questo siamo stati chiamati. Stai lodando, stai riverendo, stai servendo? Come? Quanto? Potresti fare di più? Si potrebbe attraverso la tua vita santificare il nome di Dio? Se vi viene un’idea, mentre vi sto parlando e vi sto flagellando, di un “di più” possibile nella vostra esistenza, ecco quello è il nome di Dio santificato nella vostra vita. Alcuni per santificarsi hanno bisogno di sposarsi, non perché il marito o la moglie divengano elementi di santificazione, starete pensando, non in questo senso; altri per santificarsi e santificare sono chiamati, hanno bisogno di una comunità religiosa, di vivere il ministero presbiterale, di predicare, di celebrare i sacramenti, di servire la comunità, di edificare la Chiesa. L’importante è che la tua vita sia fruttuosa. In questo è glorificato il Padre mio, che diventiate miei discepoli e portiate molto frutto. In greco è polùs karpòs, da cui viene Policarpo. Molto frutto. E allora mi chiedo: sto portando molto frutto con i figli, con i nipoti, con il mio lavoro, con la mia classe, con la mia comunità religiosa, con la mia parrocchia? Sto producendo? E allora il nome di Dio è santificato nella tua vita. Bravo, vieni, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, riceverai molto. Tutto questo – e chiudo – non è automatico, non basta partire, non basta partire. Bisogna poi perseverare, mantenere la rotta, bisogna operare degli ulteriori cambiamenti, delle correzioni sulla rotta, bisogna continuamente verificarsi, autoverificarsi, confrontarsi. Spero vi sia venuta in mente la lettura breve della Compieta di Venerdì: Tu sei in mezzo a noi, Signore, e noi siamo chiamati con il tuo nome, non abbandonarci , Signore, Dio dell’Universo.Cosa significa “siamo chiamati con il tuo nome”? Siamo cristiani.La Vulgata, (S. Girolamo) aveva tradotto così: Il tuo nome è stato invocato sopra di noi. Nella nuova traduzione: noi siamo chiamati con il tuo nome, il tuo nome è stato invocato su di noi tutte le volte che siamo benedetti, ti benedica Dio Onnipotente Padre, Figlio e Spirito santo. Padre, mi dia una benedizione. Sì, tutte le benedizioni che vuoi, il nome è invocato su di te, ma poi tu sei chiamato con il Suo nome, cioè gli altri ti riconoscono con quel nome. E questo nome lo porti bene? Lo porti con eleganza, lo porti in maniera luminosa, lo porti in modo tale che gli altri vedendoti glorifichino il Padre che è nei cieli?L’ostacolo, purtroppo!, l’ostacolo alla fede perlopiù siamo noi.Ecco, in maniera riassuntiva: che il Tuo nome sia santificato nella mia vita, in me, ed attraverso di me. Dio voglia che in uno di voi, uno solo - siamo 114 - in uno, che sarebbe già una grande conquista, frutto dell’intercessione di tanti, meglio se due e tre, questa sera nasca il desiderio di fare qualcosa perché sia santificato il nome del Padre. Questo nome è già stato santificato nella vita di Gesù, lì è stato santificato certamente, poi Gesù negli apostoli, e poi eccoci a noi in questi Esercizi un po’ sguarniti, sguarniti di santi fondamentalmente. Cosa possiamo chiedere come auspicio per questo nuovo pontificato? che parli cinquanta lingue? che faccia gli auguri pure ai?… Che sia santo!, che sia santo!, perché noi di questo abbiamo estremo bisogno, perché un santo cambia una realtà, cambia un’intera società, un intero secolo. Qualcuno parla di una riorganizzazione dell’architettura del mondo, cioè entra un santo - e puoi essere tu - e si riorganizza l’architettura di quel secolo, di quella società, di quella parrocchia, di quella diocesi, di quella famiglia, di quel condominio.Domanda: Che ho fatto finora qui – rubo a S. Ignazio l’interrogativo – perché il Tuo nome sia santificato in me e negli altri? Ma poi quello che è più importante, perché a Dio il passato non interessa: che cosa farò perché sia santificato il Tuo nome in me e attraverso di me?

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Lunedì 11 marzo 2013, ore 18:30Omelia Rispetto a quello che abbiamo meditato oggi pomeriggio riserviamo a questa celebrazione l’invocazione: «Venga il tuo regno». Il Padre Nostro costituisce una sorta di spartiacque, diviso com’è nelle sue grandi sezioni. Tre di queste riguardano, per così dire, i diritti di Dio, e tre riguardano i diritti dell’uomo, anche se questi due aspetti non sono contrapposti. Ci troviamo quindi ancora nella prima fascia, nella prima fase del Padre Nostro, dove lo sguardo è ancora rivolto al cielo, a Dio, alla santificazione del Suo nome e all’avvento del Suo Regno. Come sapete, il Regno di Dio è stata la Passione di Gesù. È come se Gesù fosse stato attraversato da un fuoco divorante in tutti i suoi giorni, da una sorta di urgenza, di fretta, di voglia che il Regno si espandesse. D’altra parte, tutta la predicazione di Gesù senza il Regno di Dio non avrebbe significato. Stamattina vi ho citato un eretico del I secolo, ce n’è un altro che dice con una battuta terribile: Gesù si aspettava il Regno di Dio e invece nacque la Chiesa. La sua è una battuta amarissima che viene da una sponda ovviamente fortemente polemica. Certamente la Chiesa non rappresenta il Regno di Dio e qualche volta derive e identificazioni di questo tipo turbano anche la nostra mente. Il Regno di Dio è più grande, la Chiesa ne è solo un sacramento, è un segno perché la Chiesa vive nel mondo, nello spazio e nel tempo, attraversa la Storia come serva, non è la dominatrice né tantomeno è il Regno di Dio. Gesù non ha mai definito il Regno. E allora, quando diciamo “venga il tuo regno”, cosa intendiamo dire? Cosa chiediamo nel Padre Nostro e cosa Gesù ci fa chiedere? Potremmo esplicitare il Regno in tante maniere, ma forse la formula più semplice è questa: la persona di Gesù è il regno, che viene in semplicità, che è già in mezzo a noi. Questa celebrazione eucaristica ripresenta il Regno di Dio nella sua manifestazione nella pienezza dei tempi, ci mette a contatto, e allo stesso tempo ci fa fare un passo avanti verso l’avvento del Regno nella Storia, proprio qui, tra queste mura, come nella mura delle nostre chiese e delle nostre parrocchie. Il Regno di Dio quindi è Gesù, è una persona, non è un luogo, non è un castello; è Gesù che entra nella Storia, che entra nelle nostre storie (come dicevo a proposito di “sia santificato il tuo nome”), e le organizza in una maniera del tutto nuova, utilizzando spesso materiale della vita precedente facendone una nuova architettura. C’è un’espressione che non è riferita al Regno di Dio in maniera specifica, ma dice di quest’ansia di Gesù. Quando il Maestro afferma: Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e come vorrei che divampasse! È come se dicesse: sto qui, sono venuto per voi, ma questo fuoco fa fatica ad attecchire, è un fuoco che sembra morire, spegnersi. Gesù manifesta così, attraverso queste parole allegoriche, tutta la sua ansia e tutta la sua dedizione al regno: Sono venuto a portare il fuoco. Gesù non lo definisce, ma ne parla tante volte attraverso il linguaggio simbolico e allusivo delle parabole. Adesso metto l’accento su tre simboli che Gesù utilizza. Egli utilizza, per la verità, anche il banchetto, anche la festa, le lampade delle vergini stolte e quelle sagge. Tante parabole cominciano così: il Regno di Dio è simile al seminatore… Ma ci sono tre piccole parabole, tre piccoli gioielli, che esprimono del Regno alcune dimensioni importanti per noi che stiamo percorrendo il Padre Nostro.

La prima parabola è: il Regno dei Cieli è simile ad un granello di senapa. Quando si semina, si pianta il seme più piccolo ma esso poi diventa un albero e ospita gli uccelli del cielo, cioè il Regno di Dio, dunque Gesù, nella sua missione storica, ma anche Gesù oggi, in questo momento, interviene nella nostra Storia ma non lo fa in una maniera eclatante, non in modo da attirare l’attenzione. Spesso Gesù dice: Si dirà che il Regno è qui, è là, ma voi non andateci, come avviene

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per le apparizioni e per quegli eventi sensazionali, cui andiamo incontro sempre e troppo volentieri! Invece il Regno di Dio avviene, interviene, si presenta, accede nella Storia con una sorta di piccolezza. Le cose grandi avvengono sempre così, come accade per lo zigote: nessuno vi dà particolare importanza, eppure lì c’è il bambino, c’è l’uomo, la donna, il colore e il taglio degli occhi, il colore dei capelli, insomma il patrimonio genetico. È tutto lì, non è una cellula, un grumo di cellule, no, è un bambino! Quindi la parabola del granello di senapa dice del il regno e del suo stile dimesso. Anche il regno nella vostra vita, nella mia vita, nelle nostre storie è iniziato così, con la piccolezza di una parola, una frase, un’esperienza, un’ora di preghiera, un corso di Esercizi, un Campo scuola, si è insinuato in una maniera molto soft, e poi ha cominciato a radicarsi e a ramificare. Dice Gesù che questo granello diventa come un albero e gli uccelli vi nidificano, cioè questa cosa piccola poi diventa grande. Questo avviene nella Storia, e noi siamo ancora nei tempi della piccolezza, cioè il Regno di Dio è ancora, come visibilità, un granello di senapa. Non ci sono cose spettacolari, grandi adunate, grandi potenze, effetti speciali, c’è invece una quotidianità, il seme che incontra l’ovulo, e neanche la donna lo sa e poi il grembo incomincia a lievitare.

Nella seconda piccola parabola del Regno, quella del tesoro nascosto, Gesù dice: il Regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto in un campo, un uomo lo trova, va pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Qui è rappresentato l’aspetto gioioso del Regno, che agli occhi degli uomini e del mondo, come si diceva una volta, sembra chiederci chi sa quali prezzi esorbitanti; in realtà tutto è fatto con gioia perché sappiamo di compiere l’investimento più grande e più fortunato della nostra vita. E di questo aspetto gioioso, per esempio, dovremmo essere testimoni migliori. In questo regno sono già dentro, ne sono in qualche maniera interlocutore e poi promotore; il regno viene da sé, ma ha bisogno anche delle nostre vite, al contrario noi, voi laici e noi consacrati, ci presentiamo all’uomo sempre piuttosto scontrosi, tristi, mai luminosi, mai sorridenti, mai positivi e propositivi. Sempre reattive, mai proattive, si dice per quanto concerne le leadership. Immaginate quest’uomo, sia pure nato dalla fantasia di Gesù (Gesù doveva avere una fantasia fervida, per inventarsi tutte queste storie), e proiettatelo in questi tempi in cui sono calati i prezzi, ecc., ecc., mentre non solo vende, ma svende tutti i suoi averi, e tutti lo deridono: è pazzo, è uno stupido, non capisce niente, non vede gli indici, non si rende conto che sta facendo un malaffare, invece lui sa bene che sta facendo l’affare del secolo. Adesso questa gioia di vendere tutto, di disfarsi di tutto, di sacrificare per questa causa qualsiasi altro valore, qualsiasi altra relazione, qualsiasi altro bene, la gioia di vendere gli averi è sul nostro volto, è nelle nostre vite? Quando diciamo “venga il tuo regno” chiediamo allora anche di capire che questo regno è la nostra fortuna, che Tu, Gesù, sei la nostra fortuna e non la nostra rovina. Mia dolce rovina – dice padre Davide Turoldo in una sua poesia. Chiediamo dunque il dono della gioia. Nel primo caso, quello della parabola del granello di senapa, chiediamo il dono, uno sguardo che vada oltre le apparenze, che non si lasci scoraggiare. In questo caso, chiediamo la grazia di una gioia che si veda, si noti, che attraversi le nostre vite, i nostri gesti, le nostre scelte e che diventi un segno, una testimonianza. Alcuni, quelli alle mie spalle, anche le suore e altri, sono chiamati a essere testimoni di questa gioia, vendendo tutto e rinunciando a ogni altra realizzazione perché hanno trovato questo tesoro. Essi diventano come dei sacramenti viventi, come degli indicatori della storia, per testimoniare che il regno viene, dal momento che questi giovani - penso ai cinque palermitani - non sono degli stupidi, non appaiono sprovveduti, né vittime di qualche lavaggio di cervello o pronti a rifugiarsi in maniera fantozziana nel ruolo del presbitero perché non hanno altra chance.

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La terza parabola è ancora più piccola: un collezionista di perle preziose, trovata una perla di grande valore – dice Gesù – vende tutto quello che aveva collezionato, pur di averla. Qui, siccome ogni parabola evidenzia un aspetto del regno, è sottolineata la bellezza, cioè Gesù è bello, è bello il Regno di Dio, è bello ogni piccolo passo, in cui il passaggio del regno avanza e questo - capite bene - deve diventare anche uno stile nella vita del credente. Guardate un attimo questa chiesa, queste strutture nelle quali siamo ospitati: che cosa vi viene da dire? Un’esagerazione, uno spreco! Quel sacerdote, che sta nel quadro in fondo, don Francesco, ha ideato tutto questo, la chiesa non l’ha nemmeno mai vista. Perché ha messo su questo impero, questa cittadella? Che idea aveva? Qui ci sono dei marmi, c’è tanto verde, perché il Regno di Dio, che è prezioso, una volta intravisto, oltre la gioia, porta anche all’ascolto, alla scoperta della bellezza nelle cose, negli oggetti, nello stile di vita, nell’abbigliamento… comporta in colui che vi accede un riverbero di bellezza. Allora, laddove vedete il brutto, anche nelle nostre chiese, lì il Regno di Dio fa fatica a procedere, così come nelle nostre persone, e qui non si tratta di andare dall’estetista, beninteso, si tratta di una regalità. Il re ha una reggia, e una chiesa dovrebbe far pensare ad una reggia, allo stesso modo la vita di un credente è l’architettura umana delle nostre famiglie, delle nostre case e dovrebbe trasmettere questo senso di regalità, perché il brutto a casa del re non c’è, non lo troverete mai. Ho cercato alcune esplicitazioni perché l’invocazione del Regno non resti un po’ campata per aria, in domande del tipo ma questo Regno cos’è? cosa chiediamo? Potremmo anche dirlo con un’espressione del vangelo di Giovanni: io sono venuto – dice Gesù – perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza. Vorrei che ripensaste – in silenzio - mentre facciamo il pellegrinaggio di ritorno, a qualche momento della vostra vita, dove avete sperimentato una pienezza, un solo istante di pienezza, perché eravate in un momento di esaltazione estetica, per una lettura o un’opera d’arte o per una situazione che si è creata nella vostra vita. Quegli istanti sono come stelle nel cielo buio delle nostre esistenze, dove si avverte la percezione che la vita vi scorre dentro voi stessi e siete dentro il flusso della vita. Ecco, direi che quelle esperienze, piccole, puntuali, passeggere, sono un sacramento del Regno di Dio, perché il Regno di Dio è questa pienezza, vita che esplode, e che è senza limitazioni. I nostri defunti sono già in quella dimensione, noi ancora andiamo, claudicanti, alla ricerca di questo sentiero, ma Gesù dice: è già dentro voi, il Regno di Dio è in mezzo a voi, è in mezzo a noi, non si vede perché abbiamo bisogno di occhi nuovi, di occhi di pazienza, di occhi di gioia, di chi ha trovato e che non vuole farsi più scappare questa gioia. Ho trovato l’altro nel mio cuore - dice la sposa del Cantico - e non lo lascerò più. Vi auguro questa testardaggine, costi quel che costi. Fuori del Regno di Dio, fuori dello sguardo di Gesù non c’è felicità possibile. Nel suo sguardo, nel suo regno, nella sua casa, nella sua grazia, viceversa, anche una vita d’inferno diventa bellissima. Venga il tuo regno!

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Lunedì 11 marzo 2013, ore 21:15 Portiamo in dono al Signore, questa sera, le riflessioni di un’intera giornata, anzi anche quelle delle prime ore degli Esercizi di ieri pomeriggio e di ieri sera. Il Regno di Dio sta avanzando in questi momenti, e avanza anche grazie al nostro sì. Il Regno di Dio ha avuto un salto attraverso il sì di Maria: Eccomi, sono la serva del Signore. Maria consegnando le sue paure si affida, si consegna interamente. È quello che ciascuno di noi deve fare. Nel nostro piccolo gruppo di confronto presbiterale è venuto fuori dai giovani: Ho paura. È una paura salutare. Il vostro Cardinale me lo ricordò anche il giorno in cui mi comunicava la mia nomina a Vescovo. Parlò della paura di Maria. Quindi, nonostante le paure - ne abbiamo tutti, e tante, alcuni qui presenti hanno situazioni familiari o di coppia o di salute ai limiti della sopportazione - c’è una difficoltà oggettiva a dire sì. Eppure lo Spirito ci spinge: accetta, consegnati, rimettiti, perché attraverso il sì dell’uomo il Regno di Dio procede, il Regno di Dio avanza, s’avanza. Non avremo tempo per commentare quello che viene dopo il Padre Nostro, ma è interessante questa versione di Luca che si conclude con il chiedere lo Spirito Santo. Se voi che siete cattivi sapete dare le cose buone… quanto più il Padre vostro celeste non darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono? A dire che il dono dei doni è lo Spirito. Vi apparirò ripetitivo ma invochiamolo con forza in questo collegio cardinalizio. La Storia ci insegna che certe svolte sono avvenute per la disponibilità, l’intraprendenza, la chiaroveggenza, la profezia di alcune persone, per cui siamo qui a chiedere lo Spirito Santo, lo abbiamo invocato all’inizio, lo abbiamo invocato stamattina, continuamente dobbiamo dire: Vieni e scegli tu, scegli tu, ribalta le logiche, ribalta le cordate, taglia, sbaraglia i progetti umani. Nella elezione di Mattia, negli Atti degli Apostoli, si fa una preghiera, si dice: Mostraci colui che Tu hai scelto. E anche nell’orazione per il Papa nella Messa, non quella che abbiamo utilizzato per l’elezione, ma quella per il Papa felicemente regnante si dice: “Il Papa che tu hai scelto”, dice la Colletta. Invochiamo lo Spirito Santo, perché faccia affacciare alla loggia di S. Pietro il Pastore che guiderà la Chiesa nei prossimi anni, anche per una simpatia per il mondo, per la Storia. Quello che diciamo per il Conclave vale anche nel nostro piccolo per noi, cioè invochiamo lo Spirito che muova, che smuova, affinché si sciolgano le paure, si aprano le prospettive, si superino le divisioni. È come se Gesù dicesse: Ma come, non chiedete lo Spirito? Chiedete così poco, chiedete queste minuzie, mentre io ho un dono grande da darvi. Lo Spirito spinge, lo Spirito apre, lo Spirito rivoluziona, lo Spirito fa parlare anche i balbuzienti, lo Spirito scioglie ogni difficoltà e annoda relazioni, vincoli saldi.

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Martedì 12 marzo 2013, ore 8:15Questa mattina ci fermiamo su sia fatta la tua volontà come in cielo e così in terra. Una domanda, che non compare nel testo di Luca, ma in quello di Matteo, che è il testo liturgico del Padre Nostro, come dicevo.Chiediamo al Signore di vincere quella paura della Sua volontà, quasi che all’atto in cui la scopriamo ci siano sempre delle amarezze, dei prezzi alti da pagare. È questa la percezione popolare e diffusa della volontà di Dio. Abbiamo fatto la volontà di Dio? È una cosa difficile, una cosa dolorosa, ardua, al di sopra delle mie forze, che taglia le mie ali; al massimo diciamo che bisogna rassegnarsi alla volontà di Dio. Qui Gesù ci fa chiedere che sia fatta. Adesso che sia fatta per la Chiesa in questi giorni. Ora non abbiamo più né principe né capo né profeta né olocausto né sacrificio né oblazione né incenso, si legge nel Libro di Daniele e nel Cantico, che abbiamo utilizzato. Nei giorni in preparazione al Conclave ci sono stati due sentire diversi nel collegio cardinalizio, come avrete notato da quello che è potuto emergere dalla stampa. C’erano i cardinali europei, che dicevano: “Facciamo in fretta”, e c’erano quelli degli altri continenti: “Andiamo piano piano”. Chissà - forse è un pensiero malvagio - starsene un po’ in Italia a far un po’ di vacanza poteva essere distensivo per loro. Mi piace invece leggere l’urgenza che sentivano gli Europei: Diamo un Abbà alla Chiesa, visibile. Certo, Cristo rimane ed è Lui il Pastore, come ci ha detto il Papa Benedetto, nessun vuoto, eppure noi abbiamo bisogno di segni, e allora chiediamo con forza che sia fatta la volontà e si realizzi la volontà di Dio, oltre le volontà umane, come già dicevo a Compieta ieri sera.Gesù, come lo conosciamo dai vangeli, oltre che dal Regno di Dio è appassionato e attanagliato dal compiere la volontà del Padre. Mio cibo è fare la volontà del Padre. E quando la volontà del Padre diverge da quella degli uomini, fossero anche i suoi collaboratori più stretti, come accade a Cesarea di Filippo per Pietro, suo primo collaboratore, primo Papa, Gesù non disdegna e non ha difficoltà a chiamarlo satana: Allontanati da me, Satana, perché mi sei d’inciampo. È questo l’appellativo del primo Papa, perché la volontà, il volere, la visione umana, il vedere con gli occhi della carne di Pietro - Non ti accadrà mai, dice al Maestro che parla di Croce - lo fa divergere dalla volontà del Padre. Quindi la volontà del Padre va fatta sempre e comunque, costi quello che costi. E il testo che vi invito a leggere e che vi ho ampiamente citato in questi giorni, è il Padre Nostro di Luca nell’episodio dell’Orto, dell’agonia di Gesù nell’Orto: Abbà. Lasciati i suoi, poi lasciati anche i tre, Pietro, Giacomo e Giovanni, si allontana e si getta a terra, prostrato, deluso, impaurito, amareggiato. Gesù aderisce alla terra, tocca le zolle. Abbiamo l’uomo davanti a ciò che lo impaurisce, a qualsiasi prova, piccola o grande della vita: Abbà – pregava così – Abbà, se possibile, tutto è possibile a Te. Quindi un atto di fiducia e poi un atto di fede. Tu puoi tutto, tu puoi cambiare il tuo piano, a te nulla è impossibile. Nulla è impossibile a Dio, dice l’angelo a Maria. Poi una richiesta umanissima, che deve confortarci nei nostri momenti di difficoltà: Se possibile, allontana da me questo calice. Pensate che Gesù è arrivato a Gerusalemme facendo un lungo viaggio, proprio per bere quel calice, ma adesso che è in procinto di berlo è preso da un’angoscia mortale. Penso agli Ordinandi, che per cinque anni, sei anni, hanno desiderato di arrivare a questo momento e adesso che è qui, venite presi da una paura terribile. Succede lo stesso per il Matrimonio. Si desidera, si sogna di essere sposi, ma poi quando si segna una data sull’agenda del parroco, quando cominciano i grandi preparativi, ci sentiamo impari, non pronti, vorremmo ancora aspettare; magari, se potessero chiedere al loro cardinale arcivescovo, i seminaristi di Palermo

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direbbero: “Eminenza, aspettiamo un altro poco”, mentre l’anno scorso, ma già sei mesi fa, tre mesi fa, avevano voglia d’arrivare. Quando arrivano certe date, certe scadenze - che non siano quelle dell’IMU, beninteso - allora anche ciò che è desiderato e temuto. Abbà, tutto ti è possibile, se puoi allontana da me questo calice. Ma poi la preghiera del Padre Nostro nel vangelo di Marco si conclude: Non secondo la mia, ma secondo la tua volontà. È ripetuto più e più volte, per ore ed ore. E noi diciamo nel Padre Nostro “sia fatta la tua volontà” e ci inchiodiamo volontariamente a questa volontà, non conosciamo cosa ci riserva il futuro. Già in questi giorni accettare la volontà, per me almeno, di non poter godere di questo parco… Ci sono andato anche sotto la pioggia stamattina, perché amo questa oretta dove la natura si sveglia, per me è un rafforzativo di volontà enorme poter sentire gli uccelli, le piante che respirano, i merli che cantano, è un’esperienza formidabile di training, senza bisogno di voci suadenti di psicoterapeuti… Ebbene, avevo pensato, avevo immaginato questo Corso, questi cento che pascolano in questo parco… e invece chiusi dentro! Vedrete che andremo via e uscirà il sole! Questa è una volontà minima, di poco conto, rinunciare a ciò che uno ha progettato di bene, anche per altri costa, tanto più quando siamo davanti a scelte pesanti, a un distacco, a una morte. Ci sono qui molte persone vedove, Lilla è vedova giovanissima… Dire sì ancora una volta stamattina alla partenza dei vostri mariti com’è difficile!, come dire sì a una malattia, dire sì a un tracollo, dire sì a un sogno matrimoniale che si era progettato in una maniera luminosissima e che poi si è frantumato, com’è difficile, com’è difficile... Com’è difficile per Don Pietro dire sì a questo distacco dalla sua comunità di Vitulazio… Ma qual è questa volontà? Adesso più che dirla specificamente, non vi conosco bene tutti, conosco tantissimi di voi, dell’una e dell’altra sponda, dobbiamo dire che questa volontà di Dio è una volontà di bene, anche se ci appare sotto le forme di un orco, di una strega cattiva, di una donna bruttissima, di un uomo terribile. La volontà di Dio è una volontà di bene per me e per gli altri, e quando io la invoco, quando io dico “sia fatta la tua volontà” non mi sto crocifiggendo, ma sto facendo un atto di fede che non andrà perduto, che non mi deluderà. La volontà di Dio: facciamo l’uomo; la volontà di Dio: Dio disse: Sì, brillino le stelle, ci siano luminarie nel cielo di giorno e di notte. Dio disse e furono fatte le cose, cioè la volontà di Dio è il bene della creazione ed è il bene della redenzione. Ecco, possiamo dividere in due la Bibbia e tutte le due parti cominciano: In principio la terra era informe, lo Spirito aleggiava sulle acque… In principio era il Verbo e il Verbo era Dio e il verbo era presso Dio (Giovanni 1, il Prologo). In principio… In principio… Nell’uno e nell’altro inizio abbiamo una volontà di bene. È importante che lo comprendiamo; noi non sappiamo cosa sia bene per noi, Dio lo sa, per cui “sia fatta la tua volontà” è un atto di resa dopo una resistenza, come Bonhoeffer, un atto di resa, a dire: Io sì, penso che possa essere bene in questo, in quello, ecc. ma credo fermamente per me e per gli altri che quello che tu decidi per noi, anche se sulle prime accade, avviene, appare sotto le sembianze di un male è un bene, e quindi sia fatta la tua volontà, si compia in me, nei miei figli, in mio marito, in mia moglie, nei miei genitori, nei miei amici, nella mia parrocchia, nella mia Chiesa… Nella mia vita. Come sapete, da un punto di vista letterario, e me lo avete sentito ripetere tante volte, questo in una maniera mirabile è espresso nell’Addio ai monti di Lucia, nel testo dei Promessi Sposi, dove questa ragazza strappata in un primo momento al Matrimonio, alla realizzazione di un sogno, al suo amato, alla sua terra, a Dio: O monti, sorgenti dalle acque innalzati al cielo… fa dire allo scrittore credente che Dio mai turba la gioia dei suoi figli se non per prepararne loro una più grande e più certa. Questo è un grande atto di fede nella volontà di Dio. Siamo tutti bambini e non sappiamo quale sia l’ora di andare a dormire, l’ora di risvegliarci, l’ora di prendere l’olio di ricino, l’ora di fare merenda, di giocare, noi non lo sappiamo, però c’è chi più grande di noi decide queste cose, anche l’ora della nostra morte, anche l’ora della nostra nascita, l’ora del pianto, l’ora della gioia. La sera sopraggiunge il pianto, il mattino ecco la gioia. Quindi “sia fatta la tua volontà” non

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deve essere detto a denti stretti, a volte lo facciamo, ma in questo momento guardando il nostro futuro, rileggendo il nostro passato, dev’essere detto sapendo che la volontà di Dio è volontà di vita, non è mai volontà di morte, anche se passa attraverso la morte. Così per Gesù. Così per noi.Piccarda Donati, credo nel III canto del Paradiso, pungolata - perché Dio fa due pesi e due misure? Perché non vi ha messi tutti in alto? - risponde che la pace affonda le radici nella Sua volontà: In Sua voluntade è nostra pace. Se per Lui va bene così, va bene anche per noi, e il nostro stare tranquilli deriva dalla percezione di essere in Sua voluntade.Don Pietro, di qui a pochissimi giorni, sperimenterà tutta l’amarezza del calice dell’episcopato, sarà sostenuto dalla percezione che né l’episcopato né la diocesi di Ischia se l’è cercati, dunque “resto qui per Sua volontà”, e questo sarà una sorgente di pace. Quello che dico per lui lo dico per tutti voi. Una vita non scelta, svolte che accadono per fattori esterni, incidentali, diversi dalle nostre aspettative, dalle nostre volontà, poi, assunti in questa dimensione di fede, diventano esperienza di pace. Tu mi hai voluto qui e ora mi aiuti. Tu hai voluto questo per me e, non secondo la mia volontà, ma secondo la Tua si compia la mia vita.Ecco alcune note difficili, poi da concretizzarsi, che però sono fonte di pace. Chiediamo che in noi si compia la Sua volontà, perché fuori della volontà di Dio c’è morte, stranamente è così, e questa volontà di vita rigeneri. Guardavo il lauro, alcuni alberi di lauro in giro nel parco, e pensavo: se non ci sono i merli che mangiano questo seme di lauro e lo digeriscono, non nascerà un altro lauro. È inutile che tu pianti semi di lauro, ci pensano i merli. Questo è il ciclo della volontà nella natura, cioè come poi tutto torna al bene, anche la morte di questo frutto del lauro divorato dai merli, che stamattina cantavano contentissimi alle cinque e mezza, erano impazziti: Svegliatevi, via, giù dai letti, è primavera, viva la vita! Noi invece volevamo continuare a dormire le nostre morti…Sia fatta la Tua volontà come in cielo così in terra. Origene, un autore antico, dice che pregando così il credente chiede che la immediatezza, l’adesione senza ombre è possibile. Da parte nostra avvenga come succede in cielo, e qui nuovamente è una dimensione più che un luogo, dove ci sono gli angeli, pronti esecutori del Suo volere – dice il salmista. Dio dice e l’angelo parte, senza discutere. È la voglia che il cielo scenda sulla terra, perché la terra divenga come il cielo, divenga già cielo. Il nostro cielo oggi è la Sua volontà. E allora mi chiedo, e sono gli esercizi che vi affido:1) Sono nella volontà di Dio in questo momento?, perché qualcuno ancora tentenna, ha paura di lanciarsi, di mettersi in questa deriva, perché la volontà di Dio è una deriva, perché tu hai la mano sul timone e puoi fare quello che vuoi tu. No, basta, via il timone, via i remi. Una nave, una barca alla deriva, che nei termini nautici è un fallimento, ma nei termini spirituali è una conquista, quindi sono nella volontà di Dio? Sono pacificato rispetto a quello che è accaduto? So che ci vorrebbero giorni e giorni per questo esercizio, ma intanto ve lo affido.2) un momento in cui ho fatto difficoltà, memoria di un momento di lotta nei confronti della volontà di Dio? Può essere il momento presente, possono essere cose accadute mesi fa, anni fa, eventi che ancora sento come un’ingiustizia e che invece devo accogliere nel quadro di questa volontà di bene.

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Martedì 12 marzo 2013, ore 10:15Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Un pane amaro, dice la canzone che appartiene a una serie di testi che raccontano le partenze di intere famiglie, una migrazione verso gli Stati Uniti d’America, fine ‘800, inizio ‘900, con la constatazione che il pane che l’emigrante è andato a guadagnarsi sa di sale, lo diceva già Dante in una maniera molto più alta. Il Padre Nostro è una preghiera di grande equilibrio tra le esigenze di Dio e quelle dell’uomo, è come se all’uomo fossero affidate, per così dire, le esigenze di Dio e a Dio quelle dell’uomo. Lo dice anche Gesù: Cercate prima il Regno di Dio e la Sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù, vi sarà dato con abbondanza. A quale pane si riferisce? Innanzi tutto e soprattutto prima di ogni lettura spirituale al pane per il sostentamento dell’uomo. Nel Libro di Genesi la necessità del pane è legata al lavoro e al sudore della fronte, e a una sorta di in corrispondenza da parte della terra che farà penare l’uomo contadino. L’uomo ha bisogno di pane. La Bibbia utilizza i simboli vitali della cultura mediterranea: il grano e la vite. Un lirico greco dice: Non piantare nulla prima della vigna, prima della vite, proprio a sottolineare queste nostre radici mediterranee. E la Bibbia ha questo background, i problemi si pongono poi sul piano della inculturazione in ambienti, in regioni lontane, in culture dove il pane non è più l’elemento essenziale, ma lo è il riso. Cosa significa il pane per noi? Lo sappiamo immediatamente pur oggi che il pane è sopravanzato, sommerso da mille altri prodotti, e cosa può essere per un cinese il pane? Può essere un interrogativo che Matteo ed altri si ponevano in passato? Non è quello che ci interessa in questo momento.È bello questo equilibrio. Platone dice che la bellezza è il mettere insieme in una maniera equilibrata, in giuste proporzioni il finito e l’infinito. La bellezza è questo incontro dove in giuste proporzioni si incontrano l’infinito e il finito, perché l’arte, che è a servizio della bellezza, utilizza colore, utilizza note, utilizza marmo, utilizza la materialità, quella che utilizziamo anche noi, ma poi il problema è sulle proporzioni. Lo sapete bene voi che siete esperte in cucina. Tutti sanno prendere un prontuario, ma poi la vera arte culinaria sta nella proporzione, tanto sale, tanto zucchero, tanto di questo, tanto di quello, perché poi è diverso da 500 grammi, 300 grammi, 200 grammi, 30 grammi, così anche per la bellezza secondo Platone e per l’equilibrio cui la nostra fede fa sempre riferimento. La nostra non è una fede spiritualista. La nostra è una fede carnale, di incarnazione, e ben lo attesta la seconda parte del Padre Nostro, che adesso cominciamo, che si presenta all’apertura del sipario con questa richiesta: dacci il pane quotidiano. Noi ci fermiamo su “pane”, che è innanzi tutto riferimento alla materia, dimensione essenziale di noi, della vita, della composizione del nostro corpo. Significa corporalità, significa cibo, significa relazione, significa abbracci, significa sonno, significa mangiare, bere, e tutto questo non è secondario in una personalità equilibrata, anche in una personalità cristiana. Diffidate da impostazioni spirituali, anche che vi venissero da uomini di chiesa, dove la materialità è messa tra parentesi. Qui ci sono molti di voi che si dedicano a questo, diciamo tutti, ma in particolare penso ai medici, cioè quelli che lavorano sui mal di testa, sulla prostata, sui bisogni, sulle limitazioni, che a volte sembrano portarci un po’ giù, ma non è così. Caro cardo salutis, il cardine della saldezza è la carne (caro), dice un padre antico. E a volte questo lo dimentichiamo e cominciamo a intessere una spiritualità piuttosto aerea, che non guardi l’uomo nella sua fattualità, nei suoi bisogni, nei suoi sogni, nelle sue esigenze. L’uomo ha bisogno di pane per mangiare. E qui il pane, ed è bello che Gesù faccia riferimento a questo elemento che è il pane, è anche altro, cioè tutto ciò che aiuta, sostiene, valorizza, pacifica la tua umanità, e dunque ti permette di cercare il regno, di santificare il nome, cioè le richieste precedenti non sono contrapposte a queste che cominciano con la richiesta del

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pane ma sono tutt’uno. Quindi tendiamo, sia giovani che anziani, a una fede dove il cielo e la terra si incontrino. Questo ha un nome nella nostra fede: Incarnazione. Non posso non preoccuparmi della tua solitudine, non posso non preoccuparmi del fatto che tu sia vedova, non posso non preoccuparmi del fatto che tu non abbia ancora trovato un compagno, mi riferisco ai più giovani, non posso non preoccuparmi del tuo lavoro, che poi è orientato alla tua realizzazione ma anche al tuo sostegno di vita. E tutto questo Gesù lo riassume in una materialità simbolica perché il pane dice pane ma anche tante altre cose. Quindi innanzi tutto siamo richiamati alla nostra corporeità (il pane dice corpo). D’altra parte, nel vangelo di Matteo, quando Gesù annuncia l’esame finale della nostra vita non parla di interrogazioni filosofiche, teologiche, alte, astratte, ma neanche interroga sulla fede - hai avuto fede, non hai avuto fede, hai avuto speranza, non hai avuto speranza, sei stato un uomo colmo di speranza o disperato - quanto ai bisogni (ovviamente quelli degli altri) cui tu sei andato incontro: ho avuto fame e mi hai dato da mangiare, ho avuto sete e mi hai dato da bere, ero nudo e mi hai vestito, carcerato e sei venuto a visitarmi, pellegrino e mi hai ospitato. Tutte dimensioni molto concrete, a dire che la fede poi si verifica nelle opere. San Giacomo nella sua Lettera lo dice chiaramente. Nel 1500 abbiamo avuto perdite non indifferenti e dispute che ancora permangono, se basti la fede per salvarsi, se le opere abbiano una qualche incidenza. La fede cattolica dice: sì, hanno un’incidenza, perché la fede senza le opere è una fede muta (l’apostolo Giacomo, dice morta, cioè che non germoglia in primavera). Quindi qui si incrociano la causa di Dio e la causa dell’uomo. La causa di Dio e la causa dell’uomo in Gesù trovano il loro punto di coesione, d’incontro. Gesù è stato criticato per essere amante dei banchetti, perché mangiava con i peccatori, con i pubblicani: è un mangione e un beone, non è un asceta, non è un eremita, come il Battista. In noi queste due dimensioni hanno un equilibrio sempre instabile, sempre nuovamente da riorganizzare; in fondo nelle stagioni della nostra vita queste due dimensioni devono trovare una loro pacifica coesistenza, un’opera d’arte, come ho detto con la definizione della bellezza platonica. D’altra parte questa materia non è solo finalizzata a un non morire, ma diventa sacramento. Avrete fatto caso che le foto scelte per corredare il nostro libretto sono riferite al pane, e in particolare in questa foto di particolare bellezza, opera di Peppe 105, la bellezza non sta solo nell’indicazione del pane ma, per chi conosca la nostra cattedrale, è in questo crocifisso e nell’Addolorata, che si trovano in grande lontananza nella realtà, ma che poi in questa zoommata sul sacerdote appaiono piuttosto vicine. Qui è il Cristo che si offre, che si dona, si dona sulla croce, perché è pane per te, e quindi le foto che ricorrono qui sono perlopiù foto riguardanti il pane sulla patena, il calice, l’ostia indicata, ma non pensate ancora all’Eucaristia, pensate al pane, che poi diventa sacramento. Questo non lo dico solo dell’ostia, ma ogni realtà materiale in qualche maniera è attraversata da una luce, che la trasfigura, ogni realtà, ogni amore, ogni gesto, ogni briciola di pane, ogni bicchiere d’acqua o di vino è un rimando ad altro. Questa si chiama sacramentalità diffusa. Ricordo d’averlo spiegato vent’anni fa a un Campo scuola adulti, lì dove può darsi che qualcuno di voi possa essere stato presente. Sacramentalità diffusa, cioè io guardo questa magnolia, per esempio, che qui è un tantino malata in verità, ma poi penso alla vita che c’è nella terra, questa linfa che sale ai grandi fiori che verranno fuori tra non molto, vedo quello che non si vede e cioè lo scambio tra questa pianta e la terra, lo scambio tra la pianta e il passante, perché è produttrice di ossigeno, e mi dico: (qui entra l’aspetto della sacramentalità diffusa) nella misura in cui io sono radicato porterò frutto, sarò un elemento di gioia per il mondo; se questa magnolia fosse sradicata, immediatamente perderebbe vita e noi non avremmo i grandi fiori profumati che ben conoscete.Più a fondo: pane, pane nostro, pane quotidiano, (sugli aggettivi dirò alla fine) è un dono del cosmo, ma è anche un dono dell’uomo.

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Vorrei per un attimo portare la vostra attenzione su un binomio cui negli ultimi anni mi sembra essere diventato più sensibile, che è il binomio natura-cultura. Cosa entra nel pane? Entra il seme, entra la terra, entra l’acqua, entra la neve - Il pane sotto la neve, se non sbaglio, è un romanzo di Silone - entra la spiga, entra il Piccolo Principe, qui siamo già nella cultura, entra il mare dorato, biondo, e questo è tutta opera della natura, ma chi ha seminato? Chi in precedenza ha arato? Chi va a trebbiare? Chi macina questo grano rendendolo farina? Chi lo impasta? Chi lo mette nel forno? Chi, mentre noi dormiamo, svolge questa azione – dicono quelli del ramo – di panificazione? La panificazione è il passaggio, il fermentare della pasta, poi l’introduzione nel forno, e dunque – magari vi faccio venire un po’ di appetito – ecco quel profumo di pane che desta il nostro appetito, croccante, biondo, bello, fumante, odore di pane, odore di casa. In questa trasformazione dell’elemento naturale abbiamo l’azione dell’uomo, (penso al Piccolo Principe, che all’atto dell’addio alla volpe, dice: Alla fine che ci abbiamo guadagnato? E lei dice: Ho guadagnato il colore del grano) abbiamo un passaggio culturale importantissimo, perché il grano è biondo e viene agitato dolcemente dal vento; il Piccolo Principe è biondo, e dunque adesso si è creata un’associazione, una concordanza tra un evento naturale e l’incontro con una persona, per cui ogniqualvolta io vedrò il grano penserò a te, cioè il grano si è ulteriormente valorizzato, ha assunto un valore suppletivo. Non serve solo per il sostentamento, non è solo il contadino che semina (ovviamente questo gesto non si fa più), come nei nostri sussidiari delle scuole Elementari, ma c’è anche il ricordo di una persona. In questo momento noi abbiamo fatto un ulteriore passaggio dalla natura alla cultura, perché già la natura è intervenuta nella cultura contadina, adesso interviene nella cultura letteraria, nella cultura affettiva. In fondo è lo stesso pane, lo stesso grano, ma io posso guardarlo, posso ricordarmi una canzone, posso ricordarmi un testo, posso ricordare un romanzo, posso ricordare una storia, posso ricordarmi che ci siamo incontrati, ed era maggio, ed era giugno, e c’era la messe che splendeva. Allora il pane è questo incrocio meraviglioso di natura e cultura. Lo dico qui per il pane, ma riguarda anche altre cose. Tra l’altro i preti avranno sicuramente, immediatamente alzato le antenne perché sono molto sensibili a questo aspetto dal momento che noi nella Chiesa abbiamo un concetto di cultura di natura, scusate, che, forse, avrebbe bisogno di una correzione, ma andiamo in sedi che non riguardano noi, troppo alte. Quando diciamo legge naturale, che cosa intendiamo dire? che la natura è immutabile? No, la natura, anche quella umana, soprattutto quella umana in qualche maniera è l’incrocio di questi due fattori, queste due forze. Ciò che è fuori di me, il valore aggiuntivo che io pongo su un evento, su una pietra, su un diamante, su questo parco, che genera un di più, plus-valore, per dirla nei termini marxisti, un plusvalore che lascia la natura così com’è o la cambia anche nella sua realtà oggettiva? Io poveramente ritengo, sono portato a pensare che la cultura ci stia cambiando. Adesso possono esserci delle letture negative per questo che sto dicendo, come delle letture positive. Ci si chiede, per esempio, come mai dagli anni ’60 in poi gli italiani maschi siano aumentati di cinque centimetri. Non so se conoscete questa statistica. Che significa? Significa che è cambiata l’alimentazione. Noi dopo il latte, se bambini, avevamo ancora il latte e basta. Per noi, per quelli della mia età, gli omogeneizzati ancora non esistevano. Allora l’omogeneizzato ha cambiato l’alimentazione dell’infanzia, e ha cambiato anche la natura degli italiani al punto che adesso sono più alti. Non ho nessun complesso di inferiorità: Ah, se avessi preso gli omogeneizzati, sarei un cestita! No, è un dato di fatto. Probabilmente questo sarà nell’agenda del nuovo Papa, che stanno scegliendo i cardinali proprio in queste ore.

Il pane quotidiano, per dirla con Carlo Marx, è pane e rose. Il pane e le rose sono la cultura, cioè tutti avranno pane e rose, tutti potranno accedere ai mezzi della cultura, tutti potranno andare a scuola, tutti, anche le donne, potranno avere una stanza tutta per loro. E qui citiamo le capofila

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della cultura femminista: una stanza tutta per sé. Questo ha cambiato anche la natura. Volete che le donne che insegnano, che lavorano, siano le stesse che stavano a casa? No, no. E noi questo lo dobbiamo tenere presente. Apro di nuovo la parentesi pastorale perché non riguarda voi ma credo intrighi un po’ noi pastori. È un’esaltazione, quindi chiedo il pane come dono, ma chiedo anche il pane come impegno. San Paolo ha un’indicazione, da questo punto di vista, meravigliosa e lapidaria nelle sue Lettere: Chi non vuol lavorare, neppure mangi. Come ho detto altre volte, se questo lo applicate ai vostri figli, dovreste chiudere la cucina per molti figli di 18, 20, 25 anni, che fanno ancora i bambolotti e le bambole e che prendono lo stipendio da voi. Ad un certo punto bisogna, raggiunta una certa età, anche assumere un’autonomia. E il lavoro è una dimensione importante. È importante anche per l’equilibrio, per cui questo pane è anche frutto del mio lavoro. Lo chiedo a te perché non venga a mancarmi, ma mi impegnerò per trovarlo, mi impegnerò per seminarlo, mi impegnerò per guardare il mio campo, mi impegnerò per vedere quando lo stelo spiga, come dice un poeta del ‘900, mi impegnerò a trebbiare, mi impegnerò a macinare, mi impegnerò a impastare, mi impegnerò a infornare, mi impegnerò a condividere questo pane, fosse quello materiale, come quello della cultura. È un grande impegno per noi, perché anch’io mi sento in qualche maniera in questa dimensione, in questo ufficio, perché avrò il compito anche di trasmettere dei saperi. Trasmettere dei saperi con tutte le difficoltà dei vostri ragazzi, della scuola, dei Decreti delegati e quant’altro. Ma qui c’è l’uomo, e l’uomo è natura e cultura, e la cultura ha bisogno di sacerdoti della cultura, sacerdotesse della cultura, cioè che sull’altare sanno predicare, sanno appassionare, sanno indicare, sanno aprire degli sprazzi, degli orizzonti, per guadagnare significati, perché alla fine questa è la cultura, è un’aggiunta di significati, una realtà oggettiva. Questo è nuovamente il braccio di un microfono ma può diventare un mitra, oppure altro, se con la mia immaginazione rivesto questo braccio di ulteriori significati. Anche le esperienze che noi andiamo facendo in giro per queste Case non sono indifferenti né per noi, lo sapete bene, neanche per i luoghi che attraversiamo: questa Casa sarà ancora la stessa dopo che noi ce ne saremo andati? Non perché l’abbiamo distrutta, come nelle gite scolastiche… Questo parco sarà ancora così? Cambierà qualcosa? Questo luogo, come casa vostra, come le vostre chiese, si rivestirà di un ulteriore significato almeno per noi? Fraterna Domus per tutti voi, credo, forse tranne per Nicola che era presente al Corso di Esercizi questo autunno, non significava niente, poteva essere qualcosa da cercare col navigatore, adesso Fraterna Domus si intitola Padre Nostro. Vedete? Noi abbiamo unito una struttura a un messaggio. E questo non l’ho fatto solo io, lo state facendo anche voi. Se l’anno prossimo - sto scherzando, Pietro - ci trasferiamo tutti a Ischia per un Corso di esercizi, Pietro ci ospiterà, allora l’isola verde assumerà un ulteriore significato, perché noi siamo creatori, e non vi sembri esagerato, siamo creatori di significati. E tutto questo è scritto in “pane”. Quindi non si tratta solo di mangiare, masticare il pane, ma si tratta di scoprire una dimensione umana della materia che si trasfigura attraverso lo sguardo dell’uomo.

Il pane è legato al mangiare. Dacci oggi il nostro pane quotidiano è un riferimento a questa dimensione importante della vita che è il mangiare.Ovviamente non è il mangiare, l’assunzione del cibo, cosa che fanno anche gli animali, ma il mangiare sentendo i profumi, gustando i sapori, guardando gli altri, normalmente, tranne che agli Esercizi, ma anche qui avete applicato έπητέια (epiteia), non diciamo cosa significa, normalmente condividendo anche dei pareri, discutendo, parlando, dialogando, raccontandoci, riferendoci a un passato, preparando un futuro, ecco tutto questo è l’elemento del mangiare umano, che non è un’assunzione di proteine, di vitamine, ma è una scuola di umanità. Pensate a tutta la fatica che si fa con i bambini di scolarizzarli intorno alla mensa, perché vogliono alzarsi, non vogliono mangiare, vogliono mangiare quello che vogliono loro, cioè come la mensa diventa scuola di umanità. Allora

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questo pane che tu ci dai, che è nostro, lo vogliamo condividere insieme, perché un pane non può essere solo per me, ma è sempre un luogo di condivisione. Pensate alla moltiplicazione dei pani nel vangelo di Giovanni: “Qui c’è un ragazzo - dice Andrea - che ha pochi pani e qualche pesciolino, che ne facciamo?” - Portali qui - e dal poco condiviso nasce il tanto per molti. E sull’atto di comunione del mangiare pensiamo anche a come un’assunzione egoistica dei beni possa portare a una chiusura, a una lontananza dai reali bisogni degli altri. Qui valga per tutti l’episodio, sempre citato, non si sa quanto vero ma certamente emblematico, della imperatrice francese che vedendo e ascoltando folle tumultuanti sotto la reggia, chiede: “Perché questi protestano? Che problema c’è?” “Maestà, non hanno pane”. E l’imperatrice: “Allora mangino brioches”. E le brioches sono un di più. Questo episodio, ripeto, più o meno fondato, insegna come l’assunzione del pane in maniera egoistica possa portare addirittura ad una lontananza dalla realtà, perché una persona che si esprime in questa maniera non è cattiva ma è semplicemente estrapolata dal reale, dai concreti bisogni delle persone. “Dacci oggi il nostro pane quotidiano” è anche un invito a guardarci negli occhi, quello che stiamo facendo in questi giorni, accarezzarci con lo sguardo, portare i pesi gli uni degli altri; il fatto che stiamo qui ci lega a don Pietro che va a Ischia, ai giovani di Palermo che saranno ordinati, agli altri sacerdoti alle prese con mille difficoltà, a don Gianni che da Gaeta viene qui in un momento difficile, come per tanti di noi, e poi le storie che si conoscono che in qualche maniera vengono ad essere impastate.Quindi la richiesta del pane è un magistero del pane, come magistero di convivialità. È impossibile una felicità al singolare, tant’è che diciamo “pane nostro”, dacci il pane nostro, pane per noi, per tutti. E se non ce n’è, mi darò da fare per condividere quel poco che sono.Poveramente la conduzione degli Esercizi è il darsi in pasto, io la vivo sempre così, in una maniera da un mio punto di vista drammatica, e quindi dispendio di energie terribile, ma poi è come se ogni Corso, chiunque siano gli interlocutori - preti, laici, suore, seminaristi, ecc. - mi porta a imbandire una mensa che fondamentalmente è la mia vita, anche con le mie difficoltà, per dire: Ecco, io ho capito questo, ho presunzione d’aver capito questo, magari - l’ho detto chiaramente ai giovani palermitani ieri sera - voi andate più avanti, siate migliori di me, voi partite di qui, vi affido quello che ho imparato nella vita, nella vita spirituale, ma anche nella vita umana - le cose non sono disgiunte - a voi il compito di progredire. Il progresso è così, anche quello scientifico, si parte e si va avanti, si costruisce su quelle scoperte che nei secoli precedenti altri hanno fatto. Nessuno comincia daccapo. Quindi è bella anche questa convivialità della parola, che i sacerdoti conoscono bene, l’omelia, gli altri momenti di catechesi, dove il pane non diventa solo quello che diamo, ma diventa anche quello che siamo, perché non possiamo dare quello che non abbiamo. Nemo dat quod non habet. E quindi – e chiudo la dimensione dell’ospitalità - vi invito a dire: ma la mia vita è ospitale? È ospitale abbastanza? C’è molta gente che mi gira nel cuore? Che va e viene? Che bussa? Che prende? Che mi defrauda? Che mi deruba?, o sto dentro, chiuso nella mia cassaforte? Penso ad alcuni di voi che attraverso l’adozione, hanno vissuto e vivono una situazione difficile; penso a Maria e Nino, che allargando la mensa anche a Ronnie fanno una fatica non indifferente. La vita è così, se la vogliamo vivere a una certa altitudine, altrimenti ci chiudiamo e quindi ci vietiamo, ci nascondiamo, ci mangiamo il nostro panino croccante da soli, ma è così amaro.Ultima cosa: “quotidiano”, che è, lo sanno bene i preti, un unicum, dal punto di vista esegetico. Infatti non si sa come tradurre questo aggettivo. E sapete perché non si sa come tradurlo? Perché non esiste in tutta la Bibbia e in tutta la letteratura classica. Adesso cerco di ricordarmi: επιούσιος. Sapete che la Bibbia è scritta in ebraico, i 70 cardinali traduttori, secondo la leggenda, furono chiusi a chiave e non ne sarebbero usciti finché non avessero tradotto in greco l’originale ebraico.

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Quindi abbiamo anche una Bibbia greca, ovviamente il vangelo che stiamo leggendo è scritto in greco.Allora scompare questo aggettivo; si va a vedere dove capita per capirne il significato, non c’è mai, ma la cosa più strana è che non esiste neanche nella letteratura classica. Compare per la prima volta 500 anni dopo Cristo in una sorta di cronaca militare per dire l’approvvigionamento per una truppa. Quindi l’evangelista, orecchiando la preghiera di Gesù, crea, è il caso di dirlo, un neologismo, una nuova parola, che ritorna una seconda volta dopo cinquecento anni, e in un linguaggio militare (tra l’altro qui c’è un cappellano militare, due organici dell’Esercito, uno dell’Aeronautica e uno dell’Esercito, graduati, mica soldati semplici). Torna questo termine in un linguaggio militare, cioè ti sei occupato dell’approvvigionamento del tuo esercito per questo giorno? E dopo cinquecento anni torna questo aggettivo. La traduzione nuova dice: fino a domani. Il testo classico, che noi utilizziamo ancora nella liturgia, è “quotidiano”. Allora cosa significa? Significa che è inutile accumulare pani per l’eternità (pani uguale beni). C’è un pane che chiedo per il sostentamento fisico, psicologico, affettivo, lavorativo, ecc., ecc., che però tenga presente l’oggi, ma non posso assommare o chiedere pani per l’anno prossimo, per la prossima settimana, per la prossima Pasqua, perché poi dovrei rifare la domanda ogni giorno. Questo finalizzato a che cosa?

1. A non accumulare, e sapete bene che questa è una malattia che prende. Adesso metto da parte questo, non si sa mai, poi mi faccio vecchio, posso aver bisogno… No, no.

2. Non presumere del futuro, che non mi appartiene. Sul passato non ho influenza, ricordatevelo, è già fatto e sta lì, posso metterlo solo sotto la misericordia di Dio. Il futuro? Ma chi lo sa se… Io mi chiedo sempre, i miei seminaristi mi prendono in giro, ogni mattina quando mi sveglio: questo cancro da dove arriva? Lo dico sorridendo, perché è importante che io me lo dica, e vorrei che lo diceste anche voi: vediamo un po’ da dove arriva, può partire da su, da giù, la prostata, il Psa, ecc., perché bussa, bussa. Il futuro è nelle mani di Dio. Adesso non pensate: “questo mi crea apprensione”, no, lo faccio proprio come struttura. “Eh, il vescovo è necrofilo, pensa sempre alla morte!”. In realtà a me sembra che questo mi aiuti a godere anche della pioggia che sta scrosciando, tanto per cambiare, in abbondanza in questo momento, per dire: me la guardo ora perché non so se oggi pomeriggio avrò la possibilità di vederla più, cioè questa presenza della morte o del limite, o come si dice in termini filosofici, della finitudine, in fondo mi aiuta a vivere bene il presente, anche a goderne, anche a goderne, per cui la preghiera la faccio per adesso fino a stasera, per la fede fino a stasera. Ai giovani che si avviano all’Ordinazione: non chiedete la fedeltà al celibato fino alla fine dei tempi, chiedetela fino a stasera. Signore aiutami fino a stasera. Quando fate la preghiera voi coniugi: Stiamo insieme fino a stasera, non per altri cinquant’anni. Semplifica molto perché noi ci preoccupiamo di cose che non accadranno. Allora viviamo bene l’oggi: age quod agis, o carpe diem, a seconda delle letterature, ma dicono la stessa cosa, non sono un invito gaudente, ma sono attraversate da una grande sapienza. Ecco, vedete, tutta questa sapienza ce l’abbiamo nel “quotidiano”. Dammi il pane per oggi, la fede per oggi, la speranza per oggi, la pazienza per oggi, la fedeltà per oggi, la vittoria sulle tentazioni per oggi, perché Tu pensi a me e il mio futuro è nelle Tue mani.Io spero che usciate da questa tentazione, che è cominciata con lo strappa lacrime del migrante che vede arrivare la nave e non può accendere i fuochi pirotecnici e non può sentire gli zampognari, sentendo che il pane è amaro, e usciate invece pieni di pace. Ah, vedo questa pioggia, com’è bella! Può essere bella anche la pioggia.

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Martedì 12 marzo 2013, ore 12:30Solo qualche pennellata rispetto al pane e alla fame, perché come chiediamo il pane, così dobbiamo chiedere la fame, e come ci impegniamo per il pane, dobbiamo impegnarci per la fame. L’educazione alla fame. Come c’è un’educazione per il pane in tutte le sue variegate possibilità, simbologie, i suoi significati, così a ogni pane corrisponde una fame. Come educhiamo i nostri bambini, come educhiamo i nostri ragazzi, gli adolescenti, i nostri giovani, come ci educhiamo noi in questo cammino di pane e di fame? In una preghiera, che avete sentito tante volte, si dice: “Signore, dona il pane a chi ha fame, e la fame a chi ha il pane”, perché non sempre poi queste due cose si incontrano. Ci sono pani per persone anoressiche e ci sono fami che invece restano insoddisfatte, cioè senza pane. Un cammino di formazione, di autoformazione, di maturità è educare le proprie fami, come nella sessualità la fame dell’immagine, la fame del pane materiale, la fame del cibo, come l’amicizia, la fame dell’amicizia, la lontananza, la fame di Dio. Chi educa oggi ad avere il gusto delle cose spirituali? Chi educa i sentimenti? Chi educa il cuore? Che educa la mente? Sono tutte fami. L’uomo è un fascio di fami, di fame, e a ogni fame corrisponde un pane. E questo pane deve essere dato, ma con misura, perché la fame sia temporaneamente sospesa ma, al tempo stesso, possa risorgere, come certe potature, come abbiamo visto in questi giorni, c’erano gli operai che potavano gli ulivi (tra l’altro gli ulivi, quando fa cattivo tempo, sono bellissimi, lo sapete, perché si inargentano, girano le foglie). Perché si pota? Si pota per il frutto, e la potatura sembra un gesto di violenza, ma è per una gemmazione, per un frutto abbondante, perché la linfa non abbia a disperdersi. Quindi, come vedete, la stessa potatura, di cui siamo stati spettatori in questi giorni, è un’educazione alla fame. A volte ho l’impressione che noi adulti non ci sentiamo più in questo cammino di autoformazione. Questo non vale solo per i preti, vale anche per gli adulti in genere. Ad un certo punto uno pensa: Adesso devo pensare agli altri, ai figli, ai nipoti, alle generazioni. Quindi non si custodisce, non si guarda, non si cura, non mette insieme questa tensione, perché una tensione è un’attenzione, tra la fame e il pane. Allora chiediamo, in questo brevissimo Corso di Esercizi, di riprendere le redini della nostra vita. Ci sono degli aspetti dove allentare la presa, le redini, e ce ne sono altri invece da stringere, come quando si accorda uno strumento, per avere l’accordatura perfetta, perché c’è bisogno di una tensione. Uno strumento, che non sia in tensione con tutte le corde, risulterà scordato. Questo riguarda anche il nostro cuore, riguarda anche la nostra vita, riguarda anche la nostra vita di fede; a volte, a furia di essere così sconclusionati, perdiamo il gusto di Dio. Tanta gente oggi l’ha perso. Dio è una parola, non desta più alcuna rivoluzione, o semplicemente corrisponde a un concetto, la vita va altrove. È come se a queste persone, noi tutti, la Chiesa in particolare, dovessero con maternità, ma anche con competenza, far insorgere, rinsorgere il gusto di Dio, l’invocazione di Dio. Adesso pensate ai vostri figli che non vanno a Messa, i vostri nipoti non ne parliamo: ma come fanno? Hanno perso il gusto. È inutile dire: Andate a Messa, bisogna santificare le feste … Una cosa la si fa per piacere, non per dovere: per piacere. Allora bisogna far ritornare il piacere della celebrazione, la gioia di incontrarsi, un appuntamento con la comunità e con il Signore, intrigarsi: cosa mi dirà, cosa ha da dirmi oggi, che diranno le Letture, come risponderà a questo interrogativo che mi ha intrigato durante la settimana? Questo significa ridare il gusto, rieducare, rieducare al senso. Addirittura, oggi, si è perso anche il gusto della sessualità, tutto così immediato e a buon mercato, da non costituire più oggetto di desiderio. Ma per desiderare bisogna educare il desiderio, e bisogna, dice l’autore del Piccolo Principe, mettere anche un tempo tra la fontana e la

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sete: Non correre, vai piano piano, ti verrà più sete, berrai con maggiore desiderio, ti soddisferà di più quell’acqua. Penso alle fonti del Chiariglio, che don Maurizio conosce bene; se tu sali alle fonti del Chiariglio a Canneto, dopo un lungo cammino: Ah, com’è buona quell’acqua! Ma cos’è la bontà di quell’acqua? Non è anche il desiderio che è cresciuto nella salita? Ora ci chiediamo, ci interroghiamo se ci sono aspetti della nostra vita dove è calato il desiderio, dove non abbiamo più tensione, propensione, o – ci sono sempre due eccessi – c’è una tavola sovrabbondante in modo da far passare l’appetito o una fame a lungo non esaurita, da far perdere il senso. Bisogna fare distinzione tra i desideri indotti, legati al superfluo, e i desideri veri. Sul desiderare c’è tutto un cammino da fare, e c’è anche una letteratura sull’abc dei desideri, sul desiderare i desideri. Mi piace sempre citare l’introduzione del vangelo del Giovedì santo, dove la traduzione italiana dice: Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi. Il testo latino dice: Desiderium desideravi, ho desiderato il desiderio. È un desiderio forte, desidero ardentemente. Ho desiderato un desiderio. E allora per noi, e tanto più poi per gli alunni, per i ragazzi della parrocchia, per i Giovanissimi, per gli educatori, per i figli, per i nipoti, ecc., dobbiamo impegnarci a dire: attenti ai desideri prodotti artificialmente, soprattutto dalla industria della reclamistica, dove si induce il desiderio di un oggetto, si induce un bisogno. Invece attenzione ai desideri veri. Il riferimento qui è a Luca 10, che vi invito a leggere. Gesù va a casa di Lazzaro e succede che quest’ospite d’onore venga fatto oggetto di due diverse attenzioni. C’è l’attenzione di Marta e c’è l’attenzione di Maria. C’è l’attenzione di Marta che - Gesù mica arriva da solo, ha tutto il suo esercito dietro, arriva con i Dodici - deve allargare la mensa. Marta che è una brava cuoca si dà da fare secondo l’arte di cui è esperta, però a un certo punto travalica le forme e si lascia prendere eccessivamente dal bisogno materiale: “Prepariamo un buon ragù, prepariamo un cosciotto abbrustolito per questo esercito”, e reclama l’attenzione e la collaborazione della sorella Maria, che, dice l’evangelista, era tutta intenta, sedeva ai piedi di Gesù per ascoltarlo. Allora Marta a un certo punto si innervosisce, fa la sua apparizione in scena, quanto mai inopportuna, e fa una svolta, come sanno fare le donne, quando perdono la pazienza, e ormai non si rende conto più di quello che dice, che c’è Gesù, che potrebbe fare cattiva figura, va contro Maria, in realtà va contro Gesù, che sta facendo perdere tempo alla sua collaboratrice domestica: Non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Non ti curi? Poi c’è quel rimprovero, che adesso sentiamo rivolto a noi: Marta, Marta, tu ti agiti e ti preoccupi per molte cose, ma una sola è la cosa necessaria . Ti agiti e ti preoccupi. È un’agitazione che genera preoccupazione, preoccupazione che genera agitazione. Le persone agitate sono tante in giro; noi stessi, forse, apparteniamo a questa categoria. Agitate ed esagitate - dice Paolo VI in un suo discorso. Un mondo esagitato, inquieto, ma perché? Per dove? Dove stiamo correndo? Ma sono reali questi bisogni? E sono bisogni “sogni”?, o sono bisogni indotti? Allora l’importante è capire cosa è veramente importante. Marta, Marta, povera Marta! Bisogna agire sempre così con le donne, non bisogna mai dire: “Hai torto!”. Sarebbe la fine! Lo sanno bene i mariti… Tu hai ragione, hai ragione, tu ti stai dando da fare, ti stai sfiancando e sei sola, però… però. Quali sono le molte cose che mi agitano?, mi chiederò nella preghiera durante il pranzo e questo pomeriggio. Cosa mi preoccupa? Ovviamente preoccuparsi della salute di una persona cara è una cosa importante, non posso non preoccuparmi, ma preoccuparmi di un abito!Il Padre Nostro nel vangelo di Matteo è inserito nel Discorso della montagna, poi Gesù aggiunge: Guardate gli uccelli del cielo – qui ce ne sono tanti – guardate i gigli del campo, non mietono, non tessono, eppure neanche Salomone in tutto il suo fasto vestiva in maniera così elegante. Ora se Dio veste così i gigli del campo non si preoccuperà, forse, ancora di più per voi, gente di poca fede? Perché vi agitate per cosa mangeremo, cosa indosseremo? Il riferimento è sempre al mangiare e al vestire, ma riferito al futuro; non dice quello che serve all’oggi, da mettere oggi, no, ma “perché vi

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affannate dicendo cosa mangeremo, cosa indosseremo?”. Questo lo fanno i pagani. Ci sono persone - ne conoscete tante immagino, spero che non siate anche voi in questa categoria - che vanno a un pranzo, si alzano e dicono: “Ah, e stasera che mangiamo?”. Fermati un attimo! Passate da un bisogno all’altro, neanche il tempo di digerire, neanche il tempo di dedicarsi a cose più importanti! Quindi siamo anche noi tra questi che si preoccupano? E poi che sarà? Adesso questa crisi, sì, dobbiamo impegnarci, dobbiamo uscire da questo tunnel, prima o poi ne usciremo o i nostri figli ne usciranno, noi forse non lo vedremo, ma questo non può preoccuparci e agitarci. Attenti che la preoccupazione è un’occupazione previa, pre-occuparsi, e se uno è preoccupato non può occuparsi per le cose importanti. Se voi foste venuti agli Esercizi estremamente preoccupati e avete un’idea in mente che poi ritorna, ritorna, e non riuscite a portarla nella preghiera, allora non c’è spazio né per la preghiera né per la meditazione, né per lo sbracciarsi del vescovo. Non c’è spazio, siete già occupati. Invece se uno è vuoto, allora può occuparsi, può prendersi cura. Allora anche a me Gesù dice: Tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, una sola è la cosa necessaria . Ecco, questa è la sapienza di una vita: riuscire a capire cosa è necessario.Il Padre Nostro ci invita un po’ a vivere da mendicanti. Il mendicante non si preoccupa del futuro, non deposita in banca, non versa i contributi per la pensione. Adesso nessuno più la vedrà la pensione. Il mendicante vive alla giornata. Un parrocchiano di don Maurizio, a Mignano Montelungo, ha scritto un romanzo su un barbone. Bello! Tra l’altro è un barbone - spesso succede - che, da dirigente, a un certo punto cambia vita e finisce sulla strada per un incidente, per un’incomprensione, oppure per una scelta, cioè passa dalla stanza dei bottoni, per esempio, dove da mattino a sera sono preso da delirio di onnipotenza, ad una vita randagia, dove mi accorgo come il necessario sia veramente molto esiguo. Lo vediamo anche agli Esercizi, a meno che non siete venuti con la valigia, come una volta facevano le signore, che a ogni pranzo venivano con una mise diversa, non è il caso vostro, mi è successo qualche volta ai Campi scuola: a colazione erano vestite in una maniera, a pranzo in un’altra, a cena in un’altra ancora… Ma che si portano dietro? È arrivata con il TIR la signora? Ecco, vi accorgete come agli Esercizi ci rendiamo conto che tante cose non sono necessarie e la valigia può restringersi al minimo indispensabile. Forse è così anche nella vita, e forse ci stiamo infelicitando. Ecco perché – e chiudo – Gesù ci invita a dire: Dacci oggi il pane per oggi, il pane per ora, il pane che mi possa far arrivare al massimo fino a domani.Nel Libro dell’Esodo è raccontato che quando gli Ebrei chiedono a Dio il cibo, e protestano, e mormorano, Dio dà loro la manna, e tutti escono a raccogliere la manna, che è una sorta di resina che poi si cuoce, ma ci furono anche i furbi che ne raccolsero più del dovuto. Bisogna raccoglierne la razione di un giorno, solo il venerdì bisogna raccoglierne per due giorni, perché il sabato non si lavora, ma i furbi ci sono sempre, per cui alcuni ne raccolsero di più: ne faccio incetta così mi servirà anche per domani, dopodomani, se mi dovessi ammalare e non potessi uscire a raccoglierla. Ma i furbi trovarono la manna marcita. Pensate a quanti soldi dovrebbero marcire nelle banche, cioè tutto quello che sta lì e non serve, sta lì in deposito, è messo lì perché poi non si sa mai. La manna raccolta in sovrappiù non servì, i vermi se la mangiarono. Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, una sola è necessaria, Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta. Qualcuno dice che Gesù una risposta vera non la dà, ma qual è questa parte migliore? Dall’atteggiamento di Maria desumiamo che la parte migliore è l’ascolto, farsi discepoli, prendere dalla bocca stessa di Gesù la Parola che diventa cibo. Con questi sentimenti vi auguro buon appetito.

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Martedì 12 marzo 2013, ore 16:00Continuiamo sotto la pioggia battente, grazia abbondante, mentre noi magari siamo indispettiti (la terra, gli alberi, le piante dicono grazie per questa pioggia). Continuiamo il nostro itinerario sulla dolce preghiera del Padre Nostro. Rubo questa espressione, che S. Ambrogio utilizza per il Libro dei Salmi, il dolce Libro dei Salmi. Dolce perché? Perché vi troviamo una antropologia e una teologia. La teologia nelle prime tre richieste ed una antropologia nelle altre tre o quattro (a volte vengono messe insieme la terza e la quarta). Nella seconda parte è descritto l’uomo con le sue difficoltà. Questa mattina abbiamo guardato l’uomo con la sua fame, l’uomo bisognoso di pane, l’uomo che ha bisogno di tanti supporti per crescere, per vivere, per vivere bene. E ora veniamo a questa invocazione della remissione delle colpe. Nelle due versioni: Rimetti a noi i nostri debiti (quella di Matteo, nella nuova traduzione) perché anche noi abbiamo perdonato ai nostri debitori. La versione di Luca: Perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo. Quel “come”, che utilizziamo ancora nel Padre Nostro, effettivamente si propone per molte possibilità. Rimetti a noi i nostri debiti, perché anche noi… Oppure: Dal momento che anche noi li rimettiamo. Sono tutte possibili queste traduzioni. L’importante è mettere insieme i due aspetti: perdonare, anzi essere perdonati, e dunque perdonare. Perché metto prima essere perdonati? Perché innanzi tutto è così nel testo del Padre Nostro, e poi perché la prima esperienza che facciamo è quella d’essere stati perdonati, come la prima esperienza che facciamo nell’amore è quella d’essere amati. È l’essere amati che genera la possibilità di amare. Così è anche nella coniugazione del verbo perdonare. È impossibile amare senza perdonare. E l’esperienza del perdono è innanzi tutto un’esperienza che ci viene dall’alto. A proposito dell’amore, Giovanni nella sua Lettera dice: Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi, e ha mandato il Suo Figlio. L’imprinting dell’amore è l’amore ricevuto. Solo chi ha ricevuto l’amore può darlo. Il problema è quando si crea un cortocircuito in questo cerchio del ricevere il perdono o dare il perdono. Ma cerchiamo innanzi tutto i tratti di questa antropologia, che dicono innanzi tutto fragilità. Perché Gesù ci fa dire: “rimetti a noi i nostri debiti”? Perché ci troviamo in questa condizione sempre e comunque. È la condizione umana, non è la condizione di alcuni, non ci sono uomini santi e uomini peccatori. Ci sono degli uomini, che sono sempre peccatori, anche se sono santi. Anche i santi sono stati peccatori, anzi hanno avvertito un senso del peccato di gran lunga più grave, qualche volta anche ai limiti della patologia, di quanto non riusciamo ad avvertire noi. Direi che un metro, un termometro per il cammino spirituale di una persona è anche il senso del peccato che questa persona ha, cioè che tipo di coscienza ha del peccato e del peccare. Voi dite: che c’entra? C’entra perché è immediatamente collegato con l’idea di Dio, con l’esperienza di Dio. Già Paolo VI, tantissimi anni fa, come ogni profeta, vedeva già che il mondo, che ha perso il senso del peccato, è un mondo che ha perso il senso di Dio, cioè la percezione, l’autocoscienza del peccato è una espressione della coscienza della presenza di Dio e della Sua santità. Più questa percezione cala o addirittura scompare, più cala fino a scomparire il senso stesso del peccato. Molti dicono: Ma che ho fatto? Hanno ucciso delle persone? Non c’è alcun senso di colpa, almeno di colpa, non dico di peccato, che è qualcosa di molto più alto.Sembra appartenere alle varie possibilità, ai bottoni che un uomo può premere nel corso della sua esistenza. Allora è l’incontro con Dio che genera la coscienza del peccato. Questo è molto chiaro nel rinnegamento di Pietro, che si accorge di quello che ha fatto non tanto quando canta il gallo ma quando ricorda quello che Gesù gli aveva detto e lo sguardo che Gesù gli rivolge nella notte in

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cui è stato tradito (Allora Gesù, voltatosi, guardò Pietro). Quello sguardo fa scattare le lacrime, apre le cataratte delle lacrime e del dolore. Forse Pietro avrebbe potuto dire a se stesso innanzi tutto: “Ma in realtà io mi sono difeso, lì la serva mi ha interrogato, non volevo essere implicato anch’io nelle vicissitudine del mio Maestro, forse ho fatto bene”. Invece il fatto che Gesù lo guardi senza dir nulla è ricordargli e fargli fare l’esperienza di un Dio che va a morire per lui. Tu vai a morire per me e io che ho fatto? Io chi sono? Io sono un rinnegatore. Ecco le lacrime.Quindi preciso il primo punto.La visione dell’uomo che è dietro il Padre Nostro, di cui il Padre Nostro è portatore, vettore, è la visione di un uomo non onnipotente, ma di un uomo fragile. Questo, spero, vi consoli, e prepari anche la possibilità di confessarvi nelle prossime ore, perché se l’ideale di Gesù, fosse dell’uomo impeccabile, allora non avremmo avuto neanche il sacramento della Riconciliazione, neanche questa invocazione che fa parte della preghiera quotidiana, della preghiera-tipo. Quindi un’estrema fragilità dell’uomo. Io sono così, tu sei così, non al di là dei nostri ruoli, al di là dei nostri caratteri e c’è già un fragilità costitutiva. Quindi l’uomo sempre debitore. Origene, sempre un autore antico, dice che l’uomo non potrà trascorrere un’ora del giorno e della notte senza peccare. E l’Imitazione di Cristo incalza, nel Medio Evo, dicendo che anche le persone più giuste - questa è un’eco di un testo biblico - peccano sette volte al giorno. Il problema non è tanto nella fragilità, e quindi nella possibilità di incorrere nelle colpe, quanto da un punto di vista morale e spirituale accontentarsi, adagiarsi in questa condizione senza né chiedere perdono né cercare un riscatto, una tensione di bene dentro di sé. In fondo la Quaresima che stiamo vivendo è un grande sacramento di questo riscatto, certo è una preparazione alla Pasqua, ma è anche un tempo dove metterci allo specchio per guardarci nella nostra realtà (voi in Penisola sorrentina pensate ai Miserere che vanno e vengono, che s’intrecciano, che si preparano in più versioni). La nostra realtà è dire: Io sono un peccatore. Nel testo della Via Crucis che utilizzavamo, io lo facevo ripetere due volte e probabilmente lo fate ancora a proposito dell’incontro di Gesù con le donne: Signore, insegnami che sono un peccatore. Questa è una grande lezione ed è anche un grande punto d’arrivo – attenti – alto, non un punto di partenza, è un punto d’arrivo, in qualche maniera è un grande traguardo. Ricordo - faccio sorridere Patrizia - che Paolo, il figlio di Lilla, allora adolescente (adesso Paolo lavora), si veniva a confessare da me e poi andava a confessarsi anche da Patrizia, che come insegnante aveva questa sorta di accoglienza dei ragazzi. È importante che un ragazzo, tanto più noi, dica: “Io ho sbagliato”, perché questo è un miracolo oggi, è un miracolo. La coscienza del peccato è veramente, per dirla con un linguaggio nostro, dei preti, è un grande traguardo pastorale. Se la tua parrocchia maturasse, in questa Quaresima o nel corso del tuo ministero, una percezione del peccato, puoi sentirti soddisfatto. Ma la parrocchia ideale non è quella dove non si commettono peccati? No, non esiste una parrocchia così. Invece c’è questo passaggio dal male compiuto alla “coscienza del male compiuto”. Questo passaggio non è automatico. Quindi aiutiamo noi stessi e gli altri a passare in questa coscienza d’essere debitori verso Dio. E perché - si potrebbe chiedere - devo chiedere perdono? Perché io non sono l’autore di me, perché io sono stato fatto da un altro e quest’altro mi ha impresso delle regole di felicità. Tra l’altro il peccato non ha mai reso contento nessuno. Il male scontenta tutti, è il bene che fa contenti, per cui dietro questa richiesta, c’è una visione dell’uomo e una visione di Dio, c’è un’antropologia e c’è una teologia. La teologia è Dio misericordioso, l’antropologia è l’uomo debole. Dobbiamo fare in modo che questa debolezza dell’uomo e l’aspetto misericordioso di Dio s’incontrino, ed quello che ha cercato di dirci la parabola del padre misericordioso, appena l’altro ieri.

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Guardo Gesù per capire come Lui perdona. Secondo punto: rimetti a noi i nostri debiti. L’azione di Gesù è stata segnata dalla misericordia. È il tema, è il filo d’oro, il filo rosso che attraversa la Sua predicazione. Pensate anche quando nella sinagoga di Nazareth in una versione, in quella di Cafarnao in un’altra, Gesù comincia il suo ministero e dice il testo che leggiamo nella Messa Crismale: Lo Spirito del Signore è su di me, mi ha mandato ad annunziare ai poveri… E le azioni di questo servo indicate dal testo di Isaia sono: Non griderai, non alzerai la tua voce in piazza, non spegnerà un lucignolo la fiamma smorta, non spezzerà una canna incrinata. Sono normalmente cose che noi commentiamo. C’è una lettura che mette in parallelo queste parole di Isaia, poi riprese da Gesù, con una consuetudine da tribunale babilonese. Lello stamattina è andato in tribunale a fare il suo lavoro (piccola assenza, poi torna subito qui) a fare una prestazione professionale a Roma. Un annunciatore doveva girare per tutto il paese, dove questa persona abitava, dicendo: “Il re ha condannato a morte Lello!”, e portava due simboli, una lanterna e un bastone per due motivi. Il primo: pubblicizzare, in tempi dove la scrittura non esisteva e tantomeno Facebook, affiggere all’albo questa condanna. Quindi gridava. Non alzerà la sua voce… L’altro motivo era di cercare dei difensori, perché se io vado girando con la lanterna e col bastone dicendo: “Lello è condannato a morte, perché ha questi capi d’imputazione”, Don Pietro lo difende: Ma Lello ha fatto un’offerta alla parrocchia di Vitulazio cospicua, Lello mi aiuterà… Questa intercessione, se cospicua, annullava la condanna. Se questo annunciatore non trovava nessuno, doveva fare un sola cosa, andare davanti alla casa di Lello, spegnere la lanterna, e spezzare il bastone. Era il segno della condanna. È come se Gesù dicesse: io non vado gridando le tue colpe, le tue accuse, non spengo la lanterna, né spezzerò la canna, segno che non c’è più niente da fare. Quindi la misericordia, l’annuncio del padre misericordioso e del cuore misericordioso del padre, è al centro della predicazione di Gesù. E come la si evince più che dalle parole? Dalla indifferenza che Gesù manifesta nei confronti del passato delle persone. Questo ci aiuta poi a rivivere nel nostro piccolo, non certo con la santità del Maestro, la misericordia nei confronti degli altri, l’indifferenza nei confronti del passato delle persone. Per noi le persone sono così e così rimangono, non c’è possibilità d’appello, e invece Gesù chiama Zaccheo: “Scendi, mi devo fermare a casa tua”, e pranza con i pubblicani, ha contatti con le prostitute, va ad avvicinarsi a categorie di persone che nell’immaginario collettivo erano ormai perdute. Ecco, a queste persone Gesù dice, non tanto con le parole quanto col il suo atteggiamento: ciò che tu sei stato non mi tocca. Quindi primo aspetto: indifferenza di Gesù verso il passato.Secondo: tentativo di scusare la persona, sono molto concrete queste precisazioni, cercando un’attenuante, come fanno gli avvocati, cercando un’attenuante per ciò che hanno fatto. Sì, è vero, hanno peccato, li stanno crocifiggendo (adesso lo dico così, ma deve essere accaduto in frangenti drammatici), ma “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”, cioè un gesto deicida, ma c’è un’attenuante per cui tu puoi perdonare ed è la loro incoscienza, non hanno voluto fare quello che stanno compiendo. Quindi entrare nella vita dell’altro cercandovi un’attenuante, cercandovi dei motivi per cui scusarli. E terzo aspetto, collegato al primo, positivo: Gesù guarda al futuro di queste persone. E quindi guarda anche al mio futuro, al vostro futuro. Questo è importantissimo, noi non dobbiamo tirarci dietro tutti questi peccati della vita passata, perché si apre davanti a noi una nuova stagione di vita dove possiamo agire diversamente. Questo lo vedrete, se ricordo bene, chiaramente nel vangelo di Domenica prossima, dovrebbe essere quello della peccatrice perdonata (Giovanni 8), ovviamente la donna era lì, aveva fatto quello che aveva fatto, era stata colta in flagrante, cioè

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c’erano tutti i motivi per lapidarla, ma Gesù sospende il giudizio - Chi è senza peccato scagli la prima pietra - e questo porta le persone ad autointerrogarsi: Ma io sono senza peccato? Ma io non ho niente a che vedere con questa donna? Forse anch’io ho collaborato che cadesse in questa situazione. Se ne vanno ad uno ad uno, dice l’evangelista con acume, cominciando dai più anziani, perché più andiamo avanti negli anni peggio è, lo diciamo a nostra colpa, i nostri ragazzi sono migliori di noi, non fosse altro perché hanno avuto meno tempo per commettere errori. Cominciano ad andarsene i più anziani, poi alla fine vanno via pure i giovani, la piazza si spopola e resta solo questa donna che è avvolta in se stessa, accucciata, aspettandosi pietre che non arrivano. Donna, nessuno ti ha condannata? - Nessuno, Signore - Neanche io ti condanno. E, attenti, la soluzione è qui: Va’ e d’ora in poi… Questo è il vangelo di Domenica, se ricordo bene. Cosa significa “d’ora in poi”? Adesso a me il tuo passato non interessa, non è che non m’interessa, ma ritengo che tu non sia il tuo passato, ritengo che il tuo passato non dica tutto di te, e voglio scommettere su di te, scommetto su di te e sulla possibilità di riscatto. Immagino che le insegnanti lo facciano continuamente con i loro alunni: scommettono sulla possibilità di riscatto che può scattare in loro per fare uno sprint. Ecco: d’ora in poi. Quindi anche noi, puntando su ciò che possiamo diventare, poggiando la leva sulle nostre doti, su un aspetto positivo di noi, su una dimensione bella del nostro carattere, questo sguardo diverso genera spesso delle vere e proprie inversioni a U, che si chiamano in termini biblici: conversioni.Quindi: Tu sei più di ciò che sei in questo momento. Tu sei più di ciò che sei stata. Viktor Frankl - lo dico perché c’è uno psicoterapeuta qui - ha un’espressione molto bella: “Essere è essere stati”, legata alla sua esperienza drammatica nei campi di concentramento. Qui abbiamo una diversa concezione, cioè tu sei più di ciò che sei in questo momento, quindi non ti fotografo e tantomeno prendo il file del tuo passato. Tu sei più, tu non puoi identificarti con quei gesti, con ciò che hai fatto, tu puoi essere santo. Un Corso di esercizi si fa per questo, per riorganizzare le forze della persona orientandole negli aspetti positivi, perché in ognuno di noi ci sono degli aspetti negativi, degli aspetti positivi. Questo è il grande compito degli educatori: evocare, sottolineare, far emergere, trarre fuori il meglio delle persone. Questo Gesù lo fa e questo il perdono lo genera.La nostra vita si svolge tra due grandi perdoni, poi ce ne sono anche tanti altri in mezzo; c’è il perdono all’inizio, ed è il perdono di Gesù sulla Croce, io sono nato da quel perdono, perché c’ero anch’io con le mie colpe, non c’erano solo i contemporanei di Gesù e quelli prima di Lui, ma anche noi che saremmo venuti dopo. Poi si concluderà con un grande perdono, che è quello alla fine delle prove generali, cioè di questa nostra esistenza. Ricordo che anche Pessoa in “Ho pena delle stelle” si chiede se non ci possa essere un esito così, egli dice, come un grande perdono, che tolga la stanchezza dall’uomo; guarda le stelle e vi proietta la sua stanchezza di vivere. Non ci sarà così come un grande perdono? Sì, ci sarà. Quindi la mia esistenza è tra questi, è inclusa tra questi due grandi perdoni, di mezzo c’è il sacramento della Riconciliazione, ma c’è. E veniamo alla seconda parte della meditazione, c’è la possibilità a mia volta di trasmettere ad altri questo bene che ho ricevuto, questo sprint che ho ricevuto dal confessore, dall’educatore, dal genitore, dall’insegnante, dal padre spirituale: non guardare indietro, lascia stare, dimentica quanto di negativo hai commesso, “tu hai gettato nel mare i nostri peccati”, ci ha detto un testo di Isaia qualche giorno fa nella liturgia della Parola. Quello che io ho ricevuto non posso non offrirlo agli altri. Tu, perdonato, non puoi non perdonare.Gesù, per descrivere questa situazione impari, parla del servo cui era stato condonato un grande debito, che aveva mosso a compassione il cuore del padrone, e che poi, uscito fuori, strangola un altro per quattro centesimi che gli doveva. A dire: Ma io ti ho perdonato tutto questo, e non dovevi anche tu, tra l’altro per una cifra misera, infima, perdonare al tuo debitore? In positivo è: “sei perdonato, perdona”, avendo questo stesso sguardo di Gesù, e cioè non tenendo conto in una

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maniera determinante del passato di una persona, cercando di scusarla. Io non mi stanco di dire che se certi peccati, se in certi baratri non siamo caduti, è perché siamo stati in qualche maniera preservati. Sono certo per me; a volte certe dinamiche familiari, certi asti, certe condizioni nelle quali ci si trova, diventano occasioni prossime di peccato, come diciamo nell’Atto di dolore.Concludo dicendovi che questo è anche un percorso che la psicologia e la psicoterapia portano avanti con i loro strumenti, e che si chiama guarigione della memoria, e si chiama così anche per noi: Guarigione della memoria. Della nostra?, della memoria che noi abbiamo di noi stessi? E guarigione della memoria poi nei confronti degli altri. In questo momento mi interessa l’aspetto terapeutico che la preghiera di Gesù e la prassi del sacramento della Riconciliazione ha su di noi, ha per noi. Significa prendere coscienza della nostra storia, prendere coscienza delle persone che ci hanno offeso, che si sono avvicinate a noi con un interesse nascosto, che ci hanno feriti, che ci hanno violentati, che ci hanno fatto del male, e chiamarle – questo è un lungo percorso – chiamarle, come davanti a un tribunale, non per condannarle ma per assolverle, chiamarle e dire: va bene, puoi andare, non porto rancore. Spesso queste cose succedono nei confronti dei genitori, rimangono degli asti a distanza di anni nei confronti dei coniugi, nei confronti di persone, no?, che non hanno svolto bene il loro compito, o addirittura hanno approfittato della nostra innocenza e del loro ruolo per ferirci, per graffiarci, per offenderci. Pace, come si diceva da bambini, pace, facciamo pace; magari sono defunti, e ancora abbiamo questo astio, questo dolore. Perché si chiama guarigione della memoria? Perché capite che è una ferita che ancora sanguina, perché queste persone, benché scomparse dal nostro orizzonte o addirittura dall’orizzonte della terra, della storia, è come se fossero ancora a infiggerci lo stesso male. Quindi siamo noi che glielo permettiamo, cioè il perdono è una grande rivoluzione, pur con tutte le sue difficoltà, è un gesto che ribalta, che chiude, che mi libera, non sono io che libero un altro dicendogli “ti perdono”, ma mi libera perché sutura, ovviamente cicatrizza ciò che a distanza di anni ancora sanguina. E questo agli Esercizi diventa un po’ più facile, perché il silenzio, perché queste persone tornano, vengono dalle tombe, a volte vengono anche nei sogni, no? Vorrei fare uno studio, ma non abbiamo le possibilità, né gli strumenti, uno studio sui sogni che si fanno agli Esercizi, che sono sempre molto strani. Non parlo dei sogni cattivi, a cui state pensando voi, no, cioè queste persone, magari è una vita che non compaiono nel sogno o mentre preghi, allora vengono. Com’è che si aprono queste tombe? Perché io adesso sono particolarmente recettivo, sono in auscultazione, forse prima venivano lo stesso, ma io non le vedevo, adesso invece sì, vengono e si siedono sul bordo del letto, vengono e vengono in camera, vengono e bussano, vengono e mi ricordano, vengono e chiedono perdono, vengono perché non bisogna lasciare troppe cose in sospeso. Ti perdono, vai, stai tranquillo. Questo fa bene a me. Quando questo non accade dopo cinquant’anni è come se si fosse appena reduci da quella ferita. La guarigione della memoria riguarda anche noi stessi. Non solo perdonare gli altri, ma perdonarci. Chi, confessore o psicoterapeuta o medico, sta a contatto con l’uomo, sa bene chi è il grande ostacolo alla pace, perché poi quando tutti mi hanno perdonato, Dio compreso, rimane ancora un accusatore. Come dice il Libro dell’Apocalisse: chi è il demonio che accusa i nostri fratelli giorno e notte? Sono io, sono io, cioè io sono il pubblico ministero di me stesso, e mentre gli altri mi hanno perdonato, e innanzi tutto Dio, io continuo a rigirarmi nel mio rimorso, dicendo: “questo non lo devo fare”. Ma chi pensi di essere? Bisognerebbe dire con una battuta a una di queste persone, che poi siamo tutti noi: ma chi pensi di essere? Probabilmente hai di te un’immagine troppo gonfiata, pensavi di essere diverso dagli altri, non lo sei, sei debole, sei soggetto a tante sollecitazioni, e quindi sei tu che devi dare il perdono a te stesso, basta, adesso si ricomincia, basta con tutti questi pianti sul latte versato, dato che il latte non torna nella bottiglia.

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Vi invito a fare un esame di coscienza in vista della possibilità, potete utilizzarla o meno, di celebrare il sacramento della Riconciliazione, vi invito a chiamare qualcuno per questo esercizio di guarigione, chiamare qualcuno cui manca il vostro perdono, vivo o defunto che sia. Vi invito a toccare la piaga del perdono che non è ancora arrivato da voi stessi nei confronti della vostra storia, da noi stessi nei confronti della nostra storia.

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Martedì 12 marzo 2013, ore 18:30 Omelia Siamo immersi, carissimi, in questo fiume di grazia, di cui ci ha parlato il profeta Ezechiele. Un fiume esce dal lato destro dell’altare, il tempio di Gerusalemme, e diventa un fiume non più guadabile, un fiume sulle cui sponde crescono alberi fruttiferi, che risultano anche medicamentosi. Questo fiume nasce dal Costato di Cristo. Nostra gloria è la Croce di Cristo. Abbiamo iniziato così questa celebrazione, ed è dalla croce che nasce questo fiume, che raggiunge tutti gli angoli della terra e tutti gli angoli della Storia, tutti i secoli, tutti gli anni, tutti i giorni, tutte le ore. Un fiume, di cui in questi giorni stiamo facendo esperienza, mi riferisco al flusso della Parola ma anche alla sacramentalità dell’acqua, che scende abbondante, a volte con acini di grandine. Mi son chiesto se questa preghiera (non esaudita) di una giornata di sole, prepari come frutti di questi giorni cose grandi. Voglio sperarlo insieme con voi. Abbiamo ripetuto: “Dio è per noi rifugio e fortezza”, nel salmo responsoriale, e questo ci introduce nel tema, nella scansione della preghiera di Gesù: non ci indurre in tentazione, che è senz’altro per il verbo, e per il modo in cui il verbo è tradotto, una espressione a rischio. Può Dio indurre in tentazione le persone? Può Dio essere all’origine di una prova? Domande alle quali non ci sono risposte, ma preferiamo di buon grado ritenere che Dio non sia all’origine, e allora diventa chiarificatore, chiarificatrice una traduzione diversa: non ci abbandonare alla tentazione o nella tentazione. E anche questa invocazione ci dà la possibilità di entrare nel mistero della nostra vita, che è un mistero di prova. La tentazione non è un incidente, non è un accidente della vita, ma la scandisce e la rafforza. La tentazione non significa di per sé caduta, ma certamente significa prova, significa tensione, significa attenzione, ed è ciò che ci struttura nella nostra esistenza, è il luogo dove esercitare la nostra libertà, perché se non ci fosse tentazione, noi saremmo naturalmente predisposti al bene, che non avrebbe alcun valore. Il bene, messo in forse con la possibilità di scegliere il male, ci rende grandi, e rende grande il bene che riusciamo a fare. Se non ci fossero mille ostacoli, anche se non ci fossero stati in questi giorni mille ostacoli per venire, per lasciare gli impegni, e poi la pioggia e poi il freddo e poi “non possiamo passeggiare”, e quindi siamo un po’ costretti nelle stanze, nella sala, probabilmente non sarebbe venuto fuori un prodotto forte che, come ho detto all’inizio di questa riflessione, oso sperare insieme con voi. Quindi la tentazione non è un evento straordinario, ma appartiene all’ordinarietà della vita. Lo dice, in una maniera lapidaria, l’autore dell’Imitazione di Cristo, testo medioevale, che ha formato generazioni e generazioni di monaci, di credenti, di consacrati: vita hominis militia est, cioè la vita dell’uomo è una lotta, è un combattimento. Un combattimento contro lo Spirito del male? L’ultima invocazione è: liberaci dal maligno. Una lotta contro noi stessi? Una lotta contro le avversità? Una lotta contro le prove? Una lotta nelle e contro le tentazioni.Gesù stesso ha accettato d’essere tentato, non solo, come ci dicono i Padri antichi, in una maniera pedagogica, ma perché la tentazione ha accompagnato anche la Sua esistenza terrena. E ne ha fatto menzione la Parola di Dio nella Prima Domenica di Quaresima: Se sei il Figlio di Dio, se è questa la tua identità, fa’ che questi sassi divengano pane. Se sei il Figlio di Dio puoi avere tutti questi possedimenti, questi beni della terra se mi adorerai. Se sei il Figlio di Dio buttati giù. E qui abbiamo le tre piste di tentazione, che caratterizzano la nostra esistenza, perché sono tentazioni nella relazione col mondo, i pani, i sassi; tentazioni nella relazione con gli altri, ma anche tentazioni nella relazione con Dio. La tentazione nei confronti delle cose è la manomissione, il non rispetto.

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Gesù avrebbe potuto trasformare i sassi in pane, ma non sarebbe stato rispettoso dei sassi, che hanno una loro identità, una loro consistenza, un loro peso specifico. I sassi restano sassi e i pani restano pani, perché non di solo pane…, e quindi anche questo rapporto con il cibo, di cui abbiamo già parlato a proposito dell’invocazione “dacci il pane per ogni giorno”, una tentazione nei confronti del cibo, che ne fa un evento centrale e non strumentale della vita.Poi nei confronti degli altri costituiscono, queste tentazioni, la parte preponderante delle nostre prove. Gli altri da sottomettere, gli altri da asservire, gli altri non riconosciuti nella loro identità, nel loro ministero, nella loro peculiarità, gli altri che possono diventare sudditi, e non fratelli, e quindi è misconoscere la possibilità di stabilire un’amicizia, una relazione paritaria.E poi c’è la tentazione nei confronti di Dio: “gettati giù”, ed è la tentazione del miracolismo. Dostojevski più volte torna su questo tema della tentazione di Cristo, anche nella leggenda del Grande Inquisitore, che spero ricordiate, dove, davanti ad un inquisitore, compare Gesù stesso. Alla fine l’Inquisitore rimprovera a Gesù il suo essere dimesso: non è così che si conquista il mondo, bisogna avere potere, bisogna utilizzare gli effetti speciali, il miracolismo; è come se l’Inquisitore volesse correggere, come ha tentato di fare Pietro concretamente a Cesarea di Filippo la missione di Gesù. Alla fine questa leggenda, diciamo racconto dentro il romanzo, si conclude con: vattene, lasciaci fare il nostro lavoro. È l’impalcatura religiosa, che esclude Dio stesso, perché importuno, perché fuori dei nostri programmi pastorali.Non ci abbandonare nella tentazione. La tentazione non è solo la tentazione sessuale, la tentazione dei bisogni, ma anche la tentazione della fede, pensare che - e questo succede soprattutto quando si va avanti negli anni – sia tutto una montatura. La tentazione davanti a una prova concreta, la tentazione davanti a una persona che manca, la tentazione davanti a una diagnosi infausta: Ma Dio dov’è? Ma Dio che fa? Ma perché?Non ci abbandonare nella tentazione!Ed è importante questo “nella tentazione” – e concludo – perché la tentazione non deve e non può essere evitata. Per il motivo che ho detto sopra, perché è nella tentazione che si cresce figlio. Se ti prepari a servire il Signore, preparati alla prova, dice un testo sapienziale, assunto da San Benedetto nel prologo della sua Regola. Ma anche perché la tentazione bisogna attraversarla. Questo verbo è importantissimo: bisogna attraversare, bisogna attraversare i deserti, bisogna attraversare crisi, bisogna attraversare le passioni. Faccio riferimento a quei Movimenti, ieri molto presenti, che volevano la soppressione di questi aspetti: la soppressione delle tentazioni e la soppressione delle passioni. Senza passioni non si va da nessuna parte, neanche nella vita della Chiesa. C’è tanta passionalità anche in questo Corso di Esercizi. Allora la tentazione, come la passione, non va evitata, aggirata, così non la attraverso, come si fa a volte per le navi, cui viene annunciata una tempesta, per cui cambiano un po’ la rotta, così non attraversiamo questa zona, che è interessata a un movimento strano, potremmo non farcela. No, invece, bisogna entrarci dentro. Devi entrare dentro le passioni, lo so che è un po’ equivoco quello che sto dicendo, ma parlo a degli adulti, e quindi mi intenderete nel senso equilibrato del termine, cioè ci devi passare, guai ad aggirarla, guai, peggio ancora, a sopprimerla, perché poi le passioni sono come le talpe, fanno i loro cunicoli sotterranei, ti perforano, come il formaggio, se tu pensi di tenerle così costipate da qualche parte. No, Tu non ci abbandonare, stai con noi, stai con noi, Padre, nella tentazione, perché con la Tua presenza non saremo destabilizzati, potremo fare riferimento a Te. Aiutaci ad attraversare questi deserti, aiutaci ad attraversare questi momenti. Emergere da una tentazione, da una crisi in un periodo difficile è una vittoria, ma è anche un’assunzione di valore, un’assunzione di forza (qui c’è Giovanni, che ha navigato, e immagino anche altri) e una nave può essere anche fragilissima, una nave, che abbia attraversato molte tempeste, ne porterà i segni, ma

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sarà senza dubbio forte, perché la tempesta ha messo a dura prova, ha temprato, come si dice per i metalli, quella nave, ha temprato lo scafo, l’ha reso più forte. E allora questo è l’effetto positivo della tentazione. Quindi non chiediamo di esserne liberati, chiediamo di poter sempre alzare lo sguardo per dire: Tu sei con me. Dio è per noi rifugio e fortezza.

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Mercoledì 13 marzo 2013, ore 7:45 OmeliaSolo qualche parola per sigillare questo nostro cammino e il vero sigillo lo pone il Signore con i Santi Misteri che stiamo celebrando. Innanzi tutto auguri a Rosaria per il suo compleanno, a Patrizia per il suo onomastico. È bello quando queste ricorrenze cadono all’interno degli Esercizi, costituiscono un dono nel dono.Il Padre Nostro, che ci è stato riconsegnato e che vogliamo riscoprire ancora nei giorni a venire, a partire dalle sollecitazioni ricevute qui, si conclude con: liberaci dal male.La traduzione letterale farebbe dire: strappaci dal male, quasi che siamo un terreno conteso, quasi un gesto violento da parte del Padre attraverso la Sua grazia, attraverso il Suo Figlio Gesù, per strapparci dalle grinfie del male, del maligno, del male fuori di noi, ma anche del male che è dentro di noi. Strappa il male che è dentro di noi. Ricreaci. Ridonaci speranza. E qui ritorna il tema della lotta, già espresso nella invocazione: non ci lasciare soli nel bel mezzo della tentazione, della lotta che è costitutiva della nostra vita. Il padre del monachesimo, Antonio abate, Antonio il grande, dice che nessuno progredisce nella vita spirituale senza tentazioni, senza prove. Quindi il maligno non sta come una forza che si contrapponga a Dio e gli sia pari - questa visione non ci appartiene – ma come un regno già vinto, una forza già debellata dalla Croce, dalla Pasqua. Noi siamo reduci da una vittoria, perché continuamente veniamo sconfitti, ma si tratta di una sconfitta parziale, lontana dal centro, dove è già stato firmato un trattato di pace, ed è un trattato di pace a nostro favore.Dice Paolo, con altra espressione, che il testo della nostra condanna è stato affisso alla Croce, cioè siamo già liberi, eppure chiediamo di essere liberati da tante sollecitazioni, che ci vengono dagli altri, che ci vengono dall’esterno, che ci vengono dal maligno, che ci vengono dal male dentro di noiLa parola del profeta, che abbiamo ascoltato, che io avevo citato nel corso di qualche meditazione in questi giorni, ci è di grande consolazione. Sion ha detto: il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato. Si dimentica una donna del suo bambino? E qui dobbiamo chiedere la grazia di non essere presi dal panico, perché è il panico che gioca a favore del maligno, è il panico nella tentazione, è il panico nella difficoltà, è il panico che ci prende nella prova, perché sono perduto, non ce la faccio, sto per cadere, sta per crollare tutto, questa prova non riesco a portarla, ci fa perdere di vista il Signore che è accanto a noi per combattere con noi, e che ha già vinto per noi.Può forse una donna dimenticarsi del suo bambino?Vi ho guardato in questi giorni, e, anche umanamente, vi ho visto desiderosi solo di uno sguardo. Forse siamo venuti qui solo per guardarci, soprattutto per essere guardati dal Padre, perché essere guardati coincide con un diritto a esserci, un diritto a esistere. I figli chiedono lo sguardo del padre, lo sguardo dei genitori, quasi come una sorta di conferma, non solo delle loro azioni, di una conferma più radicale che essi non sanno tematizzare, ma che si tematizza da adulti, che è la conferma: tu puoi starci, puoi mangiare alla mensa della vita, puoi addormentarti, puoi svegliarti, puoi usufruire del mondo. Uno sguardo che ci ridia dignità, che ci ridà dignità, ed è quello che abbiamo sperimentato. Siamo venuti qui fondamentalmente per questo, e credo che il Signore abbia agito ben al di là di quello che io riesco a vedere, a intuire. E con questo sguardo vogliamo affrontare la vita, le difficoltà, vogliamo andare incontro a questa Pasqua imminente (ho visto che

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Lilla raccoglieva un rametto di ulivo, forse per portarlo alla benedizione della Domenica delle Palme). Le domande in questi giorni sono tante. La prima: ma vale la pena spendere tutti questi soldi per un’esperienza del genere? E mi sono detto: Parigi vale più di una messa, ma trasformiamo, catapultiamo i termini, diciamo che una messa vale ben Parigi. Ecco, il budget di questi giorni si aggira sui ventimila euro, ma questi soldi si possono utilizzare in una maniera diversa? Questo, e di questo sono convinto, è il modo più intelligente per utilizzarli. Sempre più – e lancio nuovamente la palla ai Presbiteri – un’esperienza del genere, piccola, breve, intensa, di full-immersion, vale più di un anno di catechesi, fatta in parrocchia con le difficoltà oggettive, che io vedo, e che non dipendono certamente dai parroci, dipendono dalle sollecitazioni, cui i ragazzi, i giovani, gli adulti sono sottoposti; quello che abbiamo detto la scorsa settimana, dieci giorni fa o un mese fa, è del tutto dimenticato, e quindi manca il collegamento, manca il nesso. Probabilmente le esperienze pastorali in futuro saranno così, cioè saranno più brevi ed intense, saranno limitate nel tempo ma molto dense, sode, per incidere e per far fronte a messaggi che ci raggiungono da ogni parte e che dicono altro, dicono che noi siamo dimenticati, dicono che siamo nell’assurdo, dicono che Colui che ci ha generati neanche si ricorda il nostro nome, dicono che siamo perduti. E allora c’è bisogno di raccogliere il messaggio della fede che è anche un messaggio di grande speranza umana, è un messaggio di ottimismo, è un messaggio per dire: verrà il sole? Lo abbiamo guadagnato per altri.La seconda riflessione di questi giorni rispetto agli altri anni: no all’assalto ai forni, l’ho pensato durante il pranzo e la cena. Ricordate quegli assembramenti intorno al tavolo dove si servivano i supplementi? È un’esperienza che è venuta fuori diversamente da come l’avevo progettata. Più vado avanti nel il tempo, e anche questa riflessione la condivido con voi poveramente, e più mi rendo conto che è poi il Signore che fa, e quindi no alla Via Crucis che avevo pensato, no al Rosario da dire alla grotta, no alla preghiera itinerante lungo il parco. Sia fatta la tua volontà! Noi prepariamo delle cose, poi il Signore viene e fa disordine nel nostro ordine, ma il suo disordine è più ordinato dei nostri programmi; questo, al di là di proteste che possono nascere, significa e chiede molto di più: che siamo ubbidienti, siamo ubbidienti, cioè la vita viene fuori, si manifesta, si dipana davanti a noi in una maniera del tutto inaspettata rispetto a come l’avevamo programmata, ma la vita non ci appartiene, siamo noi che apparteniamo alla vita, dunque a Dio. E allora, man mano che passa il tempo, diventiamo sempre più remissivi, sempre più duttili, attenti, non è un atteggiamento passivo questo, tutt’altro, è un atteggiamento di grande attività, perché mi lascio fare, mi lascio plasmare dal vasaio che forgia la mia vita, che decide diversamente. E come lo decide? Lo decide attraverso gli eventi della vita, attraverso i suggerimenti della Parola, e poi nel concreto è la vita, sono gli altri, sono i figli, sono le malattie, sono i temporali, sono le tempeste, sono i deserti d’attraversare mentre volevo passeggiare in un giardino fiorito… ma questo è per domani. Sapete che “paradiso” è un termine non nostro ma piuttosto di tradizioni orientali, dove è sinonimo di giardino. Oggi sarai con me in Paradiso, dice Gesù al buon ladrone, ma è un termine non proprio della Bibbia, viene dalle culture vicine e significa giardino fiorito, con le fontane, così come noi immaginiamo il parco di una reggia. Ecco, quello è il Paradiso, quello è domani, adesso invece c’è il deserto, adesso c’è il lavoro, adesso c’è l’IMU, adesso c’è il marito esaurito, adesso c’è il figlio che recalcitra, adesso c’è la difficoltà. E allora davanti a questa vita che si presenta sempre con paludamenti diversi, da come li avevamo disegnati e sognati, potrebbe nascere una sorta di astio, e invece diciamo: Ok, amen.Il Padre Nostro noi lo concludiamo con “amen”, anche se nel testo non c’è, siamo abituati a concludere così le nostre preghiere, cioè: avvenga così, amen. E noi dobbiamo dire continuamente “amen” alla nostra vita, alle disavventure, agli eventi, alle crisi, e in quest’Eucaristia diciamo amen a quest’esperienza.

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Grazie, perché il Signore fa cose grandi, grazie anche a Felice, che ci ha aiutati, grazie a Pasquale, che ha fatto il tassista con il pulmino delle suore, e grazie a tutti voi, che in maniera diversa, ciascuno con il suo dono, il suo silenzio, con il suo sguardo, con la sua sensibilità, la sua fede, ha reso importante questo momento. Poi verranno i frutti, poi verrà primavera, poi sarà Pasqua!

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Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.

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