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Ariccia, 2-5 aprile 2017 Esercizi Spirituali guidati da S. E. Mons. Arturo Aiello L’ARTE DELLA VITA Introduzione Innanzitutto benvenuti, bentornati! Vorrei dare qualche indicazione per l’utilizzo dello strumento che sono gli Esercizi spirituali. Chiedo scusa ai tanti fra voi che sono veterani, ma è sempre importante guardare le istruzioni per l’uso, cosa che facciamo ogniqualvolta ci viene consegnata una nuova medicina, un nuovo strumento, prima di un viaggio… A volte mi prende compassione per le hostess che, ad ogni decollo, devono ripetere continuamente come si allacciano e si slacciano le cinture di sicurezza. Mi metto nei loro panni, chiedendomi quanta pazienza debbano avere, e, in qualche maniera, sono qui nella stessa funzione a rispiegarvi come negli Esercizi si allacciano e si slacciano le cinture di sicurezza per il decollo, l’atterraggio, i momenti di vuoto d’aria – e ce ne saranno – e le turbolenze. E non mi riferisco alla pioggia che i contadini stavano invocando e che invece noi speravamo non dovesse essere esaudita proprio in questi giorni, poiché di certo l’invocazione dei contadini è più importante della nostra a godere del lago tutto azzurro. Dunque, stiamo per decollare e il nostro viaggio dura due giorni pieni, con un tempo (queste ore fino a domattina), dove si danno le istruzioni per vivere quest’esperienza al meglio. In sala avete trovato la stessa immagine che è presente sul libretto-guida degli Esercizi di quest’anno. L’ho scelta perché, da un lato, rappresenta l’immensità del lago, dall’altro, la disponibilità a rispondere alla chiamata che sono gli Esercizi. Ciascuno di voi può dire: “Mi hai chiamato, ecco, sono qui”. Ci sono tante chiamate nella vita e poi ci sono delle chiamate nelle chiamate. Penso a quelle fondamentali. Alcuni di voi, pochi, sono alla ricerca della chiamata fondamentale, il 90% ha già imbroccato la sua strada, alcuni anche da anni o da decenni. Tuttavia, in queste chiamate si pongono altre chiamate e gli Esercizi sono una di queste, cioè siamo chiamati a vivere un’esperienza spirituale, che è tale – non mi stanco mai di ripeterlo – non perché attiene solo allo Spirito, perché riguarda l’intera persona, anche il nostro corpo e il nostro benessere spirituale, ma soprattutto

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Ariccia, 2-5 aprile 2017Esercizi Spirituali guidati da S. E. Mons. Arturo Aiello

L’ARTE DELLA VITAIntroduzioneInnanzitutto benvenuti, bentornati! Vorrei dare qualche indicazione per l’utilizzo dello strumento che sono gli Esercizi spirituali.Chiedo scusa ai tanti fra voi che sono veterani, ma è sempre importante guardare le istruzioni per l’uso, cosa che facciamo ogniqualvolta ci viene consegnata una nuova medicina, un nuovo strumento, prima di un viaggio… A volte mi prende compassione per le hostess che, ad ogni decollo, devono ripetere continuamente come si allacciano e si slacciano le cinture di sicurezza. Mi metto nei loro panni, chiedendomi quanta pazienza debbano avere, e, in qualche maniera, sono qui nella stessa funzione a rispiegarvi come negli Esercizi si allacciano e si slacciano le cinture di sicurezza per il decollo, l’atterraggio, i momenti di vuoto d’aria – e ce ne saranno – e le turbolenze. E non mi riferisco alla pioggia che i contadini stavano invocando e che invece noi speravamo non dovesse essere esaudita proprio in questi giorni, poiché di certo l’invocazione dei contadini è più importante della nostra a godere del lago tutto azzurro. Dunque, stiamo per decollare e il nostro viaggio dura due giorni pieni, con un tempo (queste ore fino a domattina), dove si danno le istruzioni per vivere quest’esperienza al meglio. In sala avete trovato la stessa immagine che è presente sul libretto-guida degli Esercizi di quest’anno. L’ho scelta perché, da un lato, rappresenta l’immensità del lago, dall’altro, la disponibilità a rispondere alla chiamata che sono gli Esercizi. Ciascuno di voi può dire: “Mi hai chiamato, ecco, sono qui”. Ci sono tante chiamate nella vita e poi ci sono delle chiamate nelle chiamate. Penso a quelle fondamentali. Alcuni di voi, pochi, sono alla ricerca della chiamata fondamentale, il 90% ha già imbroccato la sua strada, alcuni anche da anni o da decenni. Tuttavia, in queste chiamate si pongono altre chiamate e gli Esercizi sono una di queste, cioè siamo chiamati a vivere un’esperienza spirituale, che è tale – non mi stanco mai di ripeterlo – non perché attiene solo allo Spirito, perché riguarda l’intera persona, anche il nostro corpo e il nostro benessere spirituale, ma soprattutto perché avviene nello Spirito Santo, cioè è un’esperienza dove lo Spirito Santo è l’orizzonte, la cupola sotto la quale ci rifugiamo, è Colui che guida e sollecita, fa sgorgare le lacrime, le associazioni, ci fa pregare in una o in un’altra direzione. Questo riguarda tutti, anche me che sono la voce parlante in questi giorni, spero non il Grillo parlante, che pure nel copione di Pinocchio ha una valenza spirituale.Si tratta di una sorta di immersione, come abbiamo detto gli altri anni facendo riferimento al lago (che è il motivo per cui veniamo qui), dove scendiamo e ci immergiamo. Mi ha interessato il primo capitolo del libro In altre parole, di Jhumpa Lahiri, un’autrice di madrelingua bengalese, che ha deciso di adottare la Lingua

italiana. Nel primo capitolo parla proprio di questo lago, che ha circumnavigato, è stata un po’ lungo la sponda e poi un bel giorno ha deciso – e si riferisce alla Lingua italiana, mentre io ora intendo lo Spirito Santo – di lanciarsi a bracciate verso il centro del lago, ovviamente correndo il rischio di annegare. È facile restare sempre sulla spiaggia, facendo la circumnavigazione o mantenendosi ad un metro dalla sponda. La paura, che sempre accompagna gli inizi, invece, è: “E se annego?, e se non sono all’altezza?”. Lo penso in particolare per quelli fra voi (pochi, per la verità, ma è bello che ci siano) che per la prima volta vivono gli Esercizi spirituali. Incrocio gli sguardi di queste persone vergini, che in qualche maniera sono più fortunate. Non perché gli altri abbiano perso la verginità degli Esercizi, ma perché la prima volta è sempre la prima volta, cioè ha un suo fascino.Ecco, allora mi lancio nell’attraversamento del lago, sapendo che non colerò a picco, perché lo Spirito Santo mi guiderà, al di là del tema che ho scelto circa venti giorni fa per il nostro itinerario. Oscar, una delle due mascotte del nostro gruppo, ha 25 anni, è un seminarista della mia Diocesi, ed è un po’ dubbioso: “Com’è possibile fare gli Esercizi in tante persone?”. Spero, ed è una sfida che vi lancio, e che non faccio per convincerlo, che Oscar esca da questa esperienza dicendo: “È possibile stare anche in centodieci e fare un’esperienza di silenzio e di preghiera, pur essendo in tanti. Ciascuno di voi – e concludo con le istruzioni per l’uso – deve sentirsi come da solo, anche quei coniugi che hanno chiesto l’opzione “camera doppia”. Silenzio. “Silenzio” è una parola che ci fa sempre più paura, che facciamo fatica a vivere, ma che è essenziale per il nostro benessere fisico, psichico e spirituale. Allora vi invito caldamente a tagliare sulle parole, sui commenti, sugli aspetti secondari, e anche sull’uso dei telefonini, e su tutto quanto possa disturbare gli altri. Il motivo, Oscar, per cui il vescovo sceglie questa Casa per un megacorso, è che è l’unica in Italia che può permettersi di ospitare un Corso di Esercizi così numeroso, senza che vi sia disturbo reciproco, ovviamente con l’impegno delle persone, perché è disposta in orizzontale e non in verticale; il fatto che le ali, gli appartamenti, le stanze siano dislocate in una maniera così larga è un aiuto, poi sono un aiuto il lago e inoltre il parco. Questa Casa è fatta in modo che, se anche dovesse piovere ininterrottamente per tutti e due giorni, abbiamo gli spazi per fermarci, metterci in poltrona nel megasalotto, sostare in una o in un’altra cappella.Fatti questi avvertimenti, dunque, entriamo nel vivo, e lo facciamo con un segno di Croce, perché è il segno distintivo del cristiano. Tutte le cose importanti cominciano nel nome della Trinità e sotto il segno della Croce, con la quale siamo stati salvati. Ecco perché il segno di croce è il vero ingresso.Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.Invochiamo lo Spirito:Vieni, vieni Spirito d’Amore…“Insegnaci a pregare”: per alcuni quest’espressione suona come incoraggiamento, per altri potrebbe sembrare un ritorno in prima elementare. Dopo tanti anni, ancora debbo dire, come i discepoli a Gesù: “Maestro,

insegnaci a pregare”? E la risposta è: “Sì”. Nell’arte della preghiera occorre sempre mettersi il colletto, il nastro, come si faceva un tempo, e andare in prima elementare con l’abbecedario. Questa considerazione consola chi dovesse dire di non saper pregare. Ecco, sarai condotto per mano nei rudimenti della preghiera, perché dobbiamo tornare a dire le cose essenziali. Pensate che anche nelle nostre chiese, nelle nostre parrocchie, noi diamo tante cose per scontate. Potrei fare il Corso degli Esercizi – un giorno lo farò – sul segno della Croce, ma non perché le persone che vengono agli Esercizi non sappiano segnarsi, piuttosto per quello che significa, senza contare che oggi anche il segno della Croce sta diventando un elemento a rischio di scomparsa.Riceverete, come gli altri anni, un libretto, che è una sorta di vademecum, cioè di accompagnatore, dove è già tracciato, almeno in linea di massima, il cammino che faremo, ma – attenti – lo ricordo per i novizi, è importante avere un quaderno e una penna con cui annotare qualcosa, altrimenti rischiamo di non ritrovare nulla. Oscar conserva ancora il primo quaderno degli Esercizi, quando aveva diciassette anni, tenuti ad Avezzano, dove continuo a predicare il Corso di orientamento vocazionale. A volte, tornare a questi quaderni è una fonte di consolazione, perché diciamo: “Ma questa cosa, l’ho scritta io?, questa riflessione, questa preghiera, sono opera mia? Perciò vi invito caldamente ad avere un taccuino, un’agenda, un quaderno, qualcosa su cui annotare le vostre riflessioni.Adesso le due mascotte, e cioè Chiara ed Oscar, distribuiranno adagio adagio i libretti.Il bambino, che trovate in prima pagina, si chiama Andrea, qui ci sono i suoi genitori, che saranno contenti di trovarlo raffigurato nel libretto degli Esercizi. Andrea è un bambino di otto anni, bellissimo, e dalle intuizioni profonde. Alla fine dell’ultima Ordinazione presbiterale è venuto ad abbracciarmi in sacrestia. Prima delle Ceneri è salito da solo in episcopio, ha bussato e mi ha detto che aveva fatto il suo fioretto. L’anno scorso, alla veglia pasquale, ad un certo punto non l’ho più visto e, quando siamo tornati in sacrestia, l’ho trovato che dormiva come un uccellino su un divano nella sacrestia della cattedrale. Il 19 marzo scorso ho concluso la visita pastorale per la forania di Teano e c’era anche lui. Alla fine della Messa ho consegnato delle lettere ai parroci chiamandoli per nome, e poi, quando, al canto finale, stavamo tornando in sacrestia, mi è venuto dietro e mi ha detto: “Perché non avete detto anche don Andrea?”. Beh, Andrea – ho risposto –, ci vogliono ancora venti anni e più, piano piano! L’immagine che ritrae Andrea è una foto scattata prima dell’Ordinazione, mentre dicevamo Vespro nel salone dell’episcopio. L’accostamento è quello di un bambino e di un anziano, Peppino, un diacono permanente, che sarà contento quando saprà che lo abbiamo immortalato nel libretto degli Esercizi. Mi sono detto – spero che questo non vi intristisca, a me ha dato molta grinta —: “Questo è l’ultimo anno!”. Ma perché me lo sono detto? Il cardinale Martini mi diceva sempre: “Non ho ancora trovato l’ỏργήK”, riferendosi ad una cosa che doveva dire, a come dirla. Per me l’ỏργήK, cioè una sorta di spinta, di ispirazione, mi è venuta dicendo: “Se tu dovessi consegnare delle parole conclusive, riassuntive della vita e della vita spirituale, cosa diresti?”. Ve lo dico perché è quello che mi ha ispirato, spero non vi intristisca, anche perché le cose non bisogna mai ripeterle a dismisura, perché si finisce poi con il perderne il gusto. Allora mi sono posto nell’atteggiamento

dell’anziano che vuole dire qualcosa al bambino, prima che sia troppo tardi. Chiedetevelo anche voi, in questi giorni: “Se dovessi dire qualcosa a mio figlio, a mia figlia, ad una persona cara prima di partire, cioè se gli dovessi comunicare che cosa veramente conta, che cosa sia la vita, cosa direi?”. Ecco, cosa direi? È quello che mi ha spinto, e poi mi ha fatto scegliere (come tema di questi giorni) i verbi dell’istituzione dell’Eucaristia, tra l’altro si tratta di un’intuizione di Nouwen. L’atteggiamento che vorrò avere e che mi entusiasma è quello di Peppino, che cerca, per esempio, di insegnare ad Andrea come si dice Vespro. Quindi il titolo è: L’arte della vita. Se mi chiedeste: “Ma che hai capito in sessantadue anni di vita, in trentotto anni di presbiterato, in undici anni di episcopato?”. È importante, a volte, fare sintesi, altrimenti ci disperdiamo in tante cose anche belle, ma certamente non centrali. Allora l’arte della vita. Andrea è il nostro ispiratore, a partire dalla foto: questo bambino sei tu, anche se alcuni di voi, magari, avranno anche qualche anno più di me; sei tu, a cui un prete, un diacono, un vescovo, un uomo, un credente cerca di spiegare quanto ha capito. Magari vi sembrerà presuntuoso quello che voglio fare, ma mi sono gasato, perché è importante gasarsi per una cosa del genere. L’impiego emotivo per condurre un’esperienza come questa ha bisogno di mille e mille energie, quindi, se si arriva piuttosto smorti, dopo due ore si scappa. Ecco, allora il vescovo, attraverso questo cammino degli Esercizi, consegna una sorta di affido, di testamento. È un cammino di soli due giorni: vi sembrerà di duecento anni, e per qualcuno di due minuti, a seconda della prospettiva da cui lo guardate.Infine diamo uno sguardo a quest’antica preghiera, antica per me, nel senso che l’ho redatta, credo, una trentina di anni fa, per dei seminaristi a cui dovevo predicare gli Esercizi. Forse era la prima volta che guidavo gli Esercizi per un gruppo di seminaristi, e pensai a cosa chiedere all’inizio, per cui si tratta di una preghiera di ingresso. Alcuni di voi la conoscono, qualcuno addirittura, spero, a memoria, ma l’ho inserita qui perché la possiate ripetere. La ripeteremo insieme, ma poi, più e più volte, a dire: “Sto qui, perché?”. “Mi hai chiamato”. È anche il primo verso della preghiera. Se però non apriamo le mani, come mostra l’immagine che è presente in copertina davanti al lago, non ci arriva niente. Se mi metto sotto la pioggia e non apro le mani, non mi rimane nel palmo neanche una goccia. Il gesto delle mani aperte, quindi, è un gesto di apertura, ma è anche il desiderio di contenere qualcosa. Attenti, contenere qualcosa, non tutto! È impossibile. E non perché sia io la voce parlante, ma perché il mistero è enorme. Allora, se mi arrivano una stilla, il petalo di una margherita, una goccia d’acqua, una parola… è già tantissimo!Proviamo a ripetere insieme la preghiera adagio adagio.PREGHIERA D’INGRESSO

Signore, mi hai chiamato: Eccomi!Depongo ai tuoi piedi la mia vita, i miei problemi,le mie gioie, il mio lavoro, le persone e le cose a me care.Rendimi libero di inseguirti e di ascoltarti senza paura.Padre santo, fonte di ogni bene, origine di ogni cosa,crea in me un cuore nuovo perché ti possa sentire vivo

pronunciando con amore il tuo nome: “Abbà!Cristo Gesù, Salvatore del mondo, come Maria fammi sedere ai tuoi piedi per ascoltare la Parola,lo so, mi agito per molte cose inutili,dammi di capire le cose vere, quelle che non passano mai, aiutami a scegliere la parte migliore.Spirito Santo, animatore di preghiera,suggeriscimi le parole sante,rivelami il senso delle Scritture perché scopra la presenza del Cristo che passa nella mia storia.Madre santa, Vergine dell’ascolto,veglia su di me in questi giorni di preghiera perché possa maturare una piena adesione alla volontà del Padre. AMENVi lascio mezzora su questa preghiera, potete stare qui, andare fuori se non piove, l’importante è fare tutto in silenzio. Se qualcuno di voi in questi giorni la impara a memoria, ha fatto un ottimo investimento, ovviamente di minima, eh, però è bene tornare ad imparare delle cose a memoria. Per adesso, non ci occorre uno sforzo mnemonico, piuttosto ci serve entrare dentro la vocazione degli Esercizi, che qui è espressa con una prima strofa, indirizzata a Dio, senza differenziazione; la seconda è rivolta al Padre, la terza al Figlio, la quarta allo Spirito Santo, ed infine c’è la richiesta di intercessione a Maria.

***

1° giorno VESPRIGesù fa Corsi di Esercizi ben più affollati, come vedete, 5000 uomini, senza contare le donne e i bambini. Ci fermiamo sulla prima parte, tra l’altro nella hall ho visto che il depliant che reclamizza la Casa porta questa citazione: “Venite in un luogo in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’”. Innanzitutto, mi interessa la prima espressione: Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù. Non vorrei che ci fossimo riuniti intorno al sottoscritto. Lo dico in particolare per quelli che sono più affezionati, lo zoccolo duro. Noi siamo riuniti attorno a Gesù, cioè Gesù è il centro d’attrazione, siamo venuti qui per Lui. Questo brano è da collocare nel momento in cui gli apostoli hanno fatto una prima esperienza missionaria, quindi si sono un po’ misurati con la difficoltà e anche la gioia del ministero e tornano da Gesù, come i frati da Francesco per “il capitolo delle stuoie”, per raccontargli quello che Dio ha fatto attraverso di loro nelle varie parti d’Europa.Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù. Questo mi dà la possibilità di dirvi che, oltre la cappella principale, dove svolgeremo le celebrazioni, le lodi mattutine e la Messa, ci sono altri luoghi di adorazione, altre due o tre cappelle, forse quattro, in giro per la Casa, dove c’è Gesù Eucaristia, dove fermarci. Noi siamo riuniti per Lui, nel Suo nome. E questa riunione, che è anche la nostra, per i discepoli è un motivo per raccontarsi. Gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato. Adesso ci chiediamo: Gesù non lo sapeva già? Ognuno di voi sa quanto sia importante dire le cose, dirsi, raccontarsi per oggettivarsi. Chi non si racconta non sa mai cosa stia vivendo veramente. La difficoltà all’interno delle coppie è un’assenza della parola, una caduta della parola. “Non abbiamo più niente da dirci” è l’espressione con la quale si decreta la fine di una relazione. Dirci qualcosa, anche per azzuffarci, è meglio del silenzio. E quindi anche noi abbiamo da raccontare a Gesù, ma capite che è un modo per guardarci allo specchio. I discepoli parlano insieme, cercano di occupare il primo posto, non nel senso del posto d’onore, ma del posto più vicino a Gesù per attirare la sua attenzione. Forse sentono anche un senso di gelosia quando Gesù presta più attenzione ad uno che ad un altro, che è anche la gelosia nelle nostre relazioni, e anche nella relazione con il Maestro. Gli raccontarono, gli riferirono tutto quello che avevano fatto ed insegnato, perché avevano anche operato dei prodigi. Forse ne abbiamo fatti anche noi, cioè il Signore attraverso di noi. Potremmo chiederci, per esempio chiedere a Salvatore che l’anno scorso era qui: Che è successo in questo anno, Salvatore? Che si dice a Palermo? Non per fare quattro chiacchiere, fare salotto, ma per dire: dall’anno scorso, quando eravamo qui, a quest’anno sono passati 365 giorni, che è successo di importante nella nostra vita? Qui l’importante non è l’eclatante, anche un incontro, anche una parola, anche un dolore (su questo ci fermeremo a lungo nel secondo giorno), un evento che ci ha cambiati, provati. Quindi non raccontano solo per sapere se hanno operato bene.

Mi faceva tanta tenerezza don Domenico (ma a volte lo fanno anche i miei giovani preti) defunto per un cancro a 33 anni, quando veniva in Canonica e mi raccontava per filo e per segno che cosa aveva detto nell’omelia, ed io mi sorbivo le sue omelie; lui lo faceva non perché s’aspettasse un giudizio da parte mia, ma perché gli sembrava d’aver trovato delle belle intuizioni. È bello, no?, dirci quello che abbiamo detto ad altri, ma anche quello che è accaduto. Lo diciamo a Gesù. Dillo a Gesù! Se dovessi trovare uno slogan per queste prime ore, sarebbe: Dillo a Gesù, e non su facebook, non su whatsapp. E poi c’è un quadro che chiarisce la pesantezza della vita di questi discepoli, espresso nel versetto: Infatti era molta la folla che andava e veniva e non avevano neanche più il tempo di mangiare, cioè sta succedendo qualcosa che attira le folle, come accadrà anche per il ritiro, visitato dai 5000 e più; sta succedendo qualcosa di talmente eccitante, interessante, che i discepoli non hanno più tempo per sé. Sulle prime sembrerebbe una descrizione positiva, no?, almeno per noi che siamo partiti nella nostra adolescenza dicendo che l’amore è andare sempre verso gli altri, che non bisogna conservare nulla per sé, ma questa cosa è relativamente vera. San Carlo Borromeo in una omelia, in una lettera, che i sacerdoti, i diaconi, le suore, e chi recita l’Ufficio ricorderà (è proprio il giorno della memoria) raccomanda ai suoi preti, da vescovo di Milano, di conservare qualcosa per sé, cioè di non darsi totalmente. Ma questo vale in tutti gli ambiti di vita, tanto più in quello familiare, in cui la stragrande maggioranza di voi vive, dove rispondere continuamente a delle sollecitazioni, a dei bisogni dei figli, dei nipoti, del lavoro porta a mettere da parte anche i bisogni fondamentali. Dice il testo: La gente che andava e veniva, quindi c’è un andirivieni, non avevano più neanche il tempo di mangiare. Chiedetevi: ma io l’ultima volta che ho mangiato, quand’è stato? E non mi riferisco al pranzo di mezzogiorno ma all’ultima volta in cui mi sono dedicato del tempo, quando è stato? Questo è il pericolo delle coppie, il pericolo dei preti, il pericolo del Vescovo che vi sta parlando, delle suore, cioè, qualsiasi sia il nostro stato di vita, è come se entrassimo in una routine, dove ci sembra che quello che ci viene chiesto continuamente, le richieste pressanti che ci giungono da parte degli altri siano così importanti da mettere tra parentesi i nostri bisogni. Il fatto che Gesù progetti per loro, ma anche per noi ha progettato questi due giorni, non potete immaginare quale grazia vi apporterà; il fatto che Lui progetti un Ritiro dice che questa vita vorticosa lo preoccupa. Gesù è preoccupato della vita forsennata, vorticosa, super impegnata degli apostoli. Non avevano più neanche il tempo di mangiare. Faccio qualche domanda, per esempio: L’ultima volta che hai letto un libro per intero? L’ultima volta che ti sei seduto in poltrona, hai messo un sottofondo, hai acceso una candela, e ti sei fermato su un salmo? Quand’è l’ultima volta che hai recitato un Rosario adagio adagio, e non correndo? Io stesso nell’ultimo cenacolo fatto con i preti, ad un certo punto ho dovuto interrompere il Rosario, dicendo: Scusate, ma dove state correndo? Fermatevi! Siamo qui per riposarci, perché poi uno cercava di alzare un po’ più la voce… a volte – sembra strano – la competizione entra anche nella preghiera, o comunque siamo presi dalla smania di macinare delle Ave Maria, e invece la vita vera scorre lentamente. Ed Egli disse loro: Venite in disparte in un luogo solitario e riposatevi un po’.

Questi sono gli Esercizi! Venite in disparte, cioè fuori dalla calca, fuori dal vostro ambiente abituale (i più giovani avranno notato che nella preghiera di ingresso ho sostituito “studio” con “lavoro”, perché c’era studio prima, ma poi ho pensato che tanti di voi non fossero chiamati a lasciare lo studio, ma il lavoro) Quindi: in disparte, messo a parte, messo su un binario preferenziale, se volete. Siamo privilegiati, eh!, privilegiatissimi per stare qui, anche se qualcuno di voi ha il batticuore: oh, ce la farò a stare due giorni in silenzio? Privilegiati. Un valore esorbitante in un luogo solitario, e qui non ci sono case intorno, ci sono gli alberi, domattina canteranno i merli, c’è il lago, perché, quando eravate fidanzati, cercavate un luogo appartato, più tranquillo, lontano dalla città, dai rumori. È così anche nella vita spirituale, si cerca un luogo solitario. E poi dice: Riposatevi un po’. E quindi, mi raccomando, non correte, non correte in questi giorni. Fate piccoli passi. Accorgetevi delle piccole cose. Riposatevi. Riposatevi, perché siamo tutti a rischio d’infarto, seguendo certi ritmi. Gemma dice sì, “e perché sto anche al Comune”, quindi m’immagino. Stacca il telefonino, Gemma, non ti preoccupare anche se ti chiama il Sindaco. Riposatevi un po’. È un diritto. Tra l’altro, e ve l’ho detto tante volte, adesso l’industria del riposo è diventata ancora più forsennata dell’industria del lavoro, cioè, se ti vuoi stancare, partecipa ad un tour turistico. Se ti vuoi stancare, vai a fare una vacanza organizzata. Sali e scendi e vai e corri… ma questi sono lavori forzati, non è una vacanza. Riposatevi un po’. E se c’è un luogo – vi lascio quest’immagine e concludo – dove riposare è il petto di Gesù, cioè reclinare, come Giovanni, il capo sul petto del Maestro, e dire: Mi addormento qui, chiudo gli occhi (anche sui tradimenti di Giuda abbiamo meditato in lungo e in largo negli anni scorsi, nelle edizioni passate, perché questo è anche un Corso di Esercizi che ci allena alla Pasqua). Mi fermo un attimo, e ciascuno di voi, ma poi continueremo la meditazione durante la cena, dica: Ho ricevuto un invito da parte di Gesù, l’offerta di due giorni in una Casa di Esercizi a cinque stelle, con vista sul lago, dal 2 al 5 di aprile. Grazie Gesù, grazie che hai avuto pietà di me, grazie che mi hai tirato fuori dalla calca, grazie perché sono qui. Mi hai chiamato: eccomi!

OmeliaPotrei anche non dire nulla, e stare in silenzio per qualche momento, con il pericolo che possiamo addormentarci, dal momento che, l’anno scorso, proprio su questo Vangelo ci siamo fermati tutti e tre giorni, e quindi stamattina nell’ascoltarlo, per quelli fra voi che hanno già partecipato all’Eucaristia, abbiamo ritrovato tante suggestioni, tante emozioni, tanti scavi, fatti lo scorso anno nell’itinerario degli Esercizi. In qualche maniera, l’averlo risentito ci pone in continuità con quello che vivremo, perché il mistero è uno solo, perché, anche se ci sembra di avere vissuto un anno e di esserci allontanati da quella grazia con cui uscimmo lo scorso anno per andare incontro alla Pasqua, alla luce di questo Vangelo è passato solo un attimo. Davanti a Te un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo, a dire che Gesù ci riguarda (non che non ci abbia guardato nel corso di questo anno), con la stessa intensità con cui l’anno scorso ci ha fatto piangere con il suo pianto. Pongo solo qualche sottolineatura per ricordarvi cose che già conoscete, ma che possano aiutarci ad entrare in questa notte che è ancora di decollo. La prima è: Era ammalato un certo Lazzaro, un certo Lazzaro di Betania. Il pericolo, sapete, è proprio di restare un “certo” Lazzaro. Io non vorrei essere un “certo” vescovo di Teano-Calvi, un “certo” Arturo Aiello, un certo. E tu non vorresti essere – spero – un certo prete, e tu, una certa donna, cioè una donna qualsiasi. Un certo Lazzaro. Il mondo è pieno di queste mezze figure, di questi capolavori restati a metà, cantieri aperti e mai chiusi. Siamo agli Esercizi proprio per riprendere i lavori, per riportare lucentezza laddove è entrata opacità, e l’opacità appartiene a questo certo Lazzaro, cioè a uno qualsiasi. Direbbe l’evangelista Marco a proposito del giovane ricco: Un tale gli corse incontro. La vita è proprio lo sforzo, piccolo da parte nostra, ma grande da parte di Dio, di tirarci fuori dalla pietra, di scolpirci a tutto tondo, perché non restiamo dei “tali”, un certo Lazzaro, una certa Maria, una certa Gemma, un certo Francesco. La seconda sottolineatura è l’invocazione che le donne rivolgono a Gesù e su cui l’anno scorso ci siamo fermati a lungo alle porte degli Esercizi: Signore, colui che tu ami è malato. Da tanti anni mi torna questa preghiera, certo valida anche per me, sono malato anch’io, ma valida per tante persone che vorrei presentare a Gesù. Gli Esercizi sono affollati da questo punto di vista, perché in mente ci tornano tante persone, tanti figli diversi, tante situazioni strane, tante relazioni solo abbozzate, tante promesse non mantenute. Forse anche le nostre dell’anno scorso. Signore, colui che tu ami è malato dicono Marta e Maria nel telegramma inviato dalla Giudea alla Galilea, dove Gesù si trattiene per paura, per stare in un luogo più riparato, dove gli intrighi sono meno numerosi. E allora anche questa può essere una preghiera da fare in questi giorni, ripetendo il nome dei nostri figli, dei nostri nipoti, degli amici, e per i preti, dei parrocchiani. Persone che sappiamo in difficoltà e che presentiamo senza aggiungere nulla, senza chiedere espressamente, perché Dio sa più di noi di questa litania di nomi, di questo elenco di malati, che aspettano qualcuno che agiti le acque per loro, come abbiamo letto qualche giorno fa per lo storpio della piscina Betzaetà.

Siamo qui, siamo privilegiati, ma non siamo da soli. Non mi riferisco a quelli presenti qui con noi, ma ai tanti che raggiungiamo: il nostro cuore è un crocevia, il mio cuore è un crocevia, il cuore di questi sacerdoti è un crocevia di nomi, di storie, di vicende. Quante persone da ricordare e da presentare! Ricordati, come diremo nella preghiera eucaristica, ricordati, ricordati di Lazzaro, di colui che tu ami, e, se lo ami, guarirà. La terza sottolineatura riguarda ancora noi: Il Maestro è qui e ti chiama viene detto a Maria e anche a me (con alcuni di voi, almeno due, in novembre, qui, in un Corso di Esercizi per soli sacerdoti – ce ne erano più di settanta – ci ha colpito l’espressione: Ricordati, c’è Gesù!). E adesso: Il Maestro è qui e ti chiama. Qualche volta ho trovato la stessa espressione incisa fuori la cappella di una casa di suore, a dire: “Gesù è qui, ti chiama”, ma questo non significa automaticamente che tu ci andrai o che risponderai. Mi hai chiamato? Eccomi!, diceva la prima frase trovata entrando in sala. Allora il Maestro è qui, si è stabilito per te in questi tre giorni ad Ariccia, nella Casa del Divin Maestro, e ti chiama, e tu non fare orecchie da mercante, avvicinati, ascoltalo, e fatti guarire. E del fatto che Lui ti ami è segno il suo pianto.Questo Vangelo è bellissimo, ma tutto il Vangelo è bello, e lo è in modo del tutto speciale per la tramatura e l’ordito di umanità che lo percorre e che vi abbonda. Colui che tu ami è malato: sono presenti l’umanità delle due sorelle e quella di Lazzaro, l’umanità di Gesù che ama con un cuore umano, l’umanità che piange. Quando eravamo bambini e ci dicevano, per farci stare buoni, che Gesù piangeva, noi facevamo i bravi, vero? Adesso i bambini non si smuovono più di tanto. È consolante non solo sentire ma vedere che Gesù si commuove, piange davanti ad una lapide, piange la morte, e, come dicemmo l’anno scorso, piange ogni morte. È venuto per questo. Lo scorso anno ci lasciammo con l’imperativo: Lazzaro, vieni fuori!, gridato con amore, ma anche con la potenza di Dio, che vuole far nascere questo bambino dal grembo della morte, che vuole che questa tomba partorisca. E ci dicemmo: Vieni fuori dalla situazione di morte nella quale sei entrato, vieni fuori dalla tua freddezza, così vicina alla freddezza dei cadaveri. Vieni fuori dalla tua indifferenza, dalla tua mediocrità, dal tuo peccato. Detto a me e a voi. Ecco, anche in questi giorni siamo un po’ in sala parto. Gesù è l’ostetrico che tira fuori dalla tomba il bambino che si chiama Lazzaro, e che tra un po’ di mesi farà partorire le due mamme che sono con noi, che ci hanno portato a far vedere, anche se non li vediamo, i loro bambini, per dire: pregate per loro. Il Signore ci aiuti a rigenerarci. Lui lo vuole. Ma tu lo vuoi? vuoi cambiare? vuoi vivere? vuoi risorgere? vuoi essere felice? Potrei continuare a lungo, perché so, per esperienza, che le persone (io stesso) che entrano in una dinamica di morte, vi si siedono, vi si accomodano e non vogliono essere schiodate dalla loro morte. Ecco, io non vorrei essere “un tale”, non so voi. Non vorrei essere un certo Lazzaro, voglio essere Lazzaro. Voglio essere Arturo. E tu?***

2 giorno - LodiMan mano che li scorriamo teniamo presente che i Salmi sono testi da cui prendere una perla, una parola da approfondire, da ripetere. Per esempio, del salmo 5, che abbiamo pregato, mi ha colpito, perché un po’ ci introduce nel tema di questa mattina: “Signore, tu benedici il giusto – è l’ultimo verso – come scudo lo copre la tua benevolenza”(ma questo lo vedremo nel corso della mattinata) Siamo ancora nel vangelo introduttivo, perché poi ci fermeremo sulla parte in grassetto e sui verbi in particolare: “prese, pronunziò la benedizione, spezzò e li dava”. Il lago, davanti al quale abbiamo pregato con alcuni di voi per l’Ufficio delle Letture, ci aiuta a fare una composizione di luogo su quello che accadde, e cioè Gesù e i suoi discepoli si imbarcano per raggiungere una sponda più solitaria del lago. È importante questo particolare, perché la gente che ha capito, che ha fiuto, mentre loro fanno la traversata, quindi correndo via terra, circumnavigando il lago, si fanno trovare sul posto. Ovviamente, ci sarà stato un servizio di spionaggio, sarà trapelata qualche notizia, o semplicemente hanno visto dove puntava la prua delle barche. Questo particolare fa emergere la fame di queste folle, non tanto di pane, come poi accadrà a fine giornata, ma di accoglienza, di Parola, di luce, di senso. Intanto i discepoli, andando per la via dritta, dovrebbero in teoria arrivare prima, e invece no, quando sbarcano ci sono già le folle che hanno fatto a piedi il tragitto – vi lascio questa immagine –, correndo. Uno dei primi versi del Cantico dei Cantici è: “Alzati, corriamo!”. Io ieri vi chiedevo di andare piano piano, non è in contrapposizione, questa è una corsa del cuore, che arriva sempre primo, dell’amore, che arriva sempre primo, come ci ricorderà il vangelo ricordando Giovanni e Pietro che, il mattino di Pasqua, corrono al sepolcro. Correvano tutti e due insieme, ma il discepolo amato arrivò per primo. Voi pensate: perché era più giovane, andava in palestra, l’altro aveva qualche problema al cuore, un po’ di affanno. In realtà, non si tratta di età della vita, ma del cuore: arrivare prima, tagliare prima il traguardo è proprio dell’amore. Qui sono le folle affamate, assetate, desiderose, (pensate che questo desiderio è anche nelle folle di oggi) che non sanno dove andare, a volte sbagliano strada. È la fame, la sete, la voglia di stare con Gesù. Ma perché questi sono privilegiati e hanno un Ritiro tutto per loro? Vogliamo venire anche noi! Pensate se stamattina, svegliandoci, non so, i preti avessero trovato sul piazzale tutti i parrocchiani, in particolare quelli di grosse parrocchie, come quella di Ciro, che è appena arrivato da Napoli o i palermitani. Noi avremmo avuto un senso di ripulsa e invece Gesù ha una reazione diversa, ed è quello che stamattina mi preme dirvi a Lodi, e che poi ci introduce nel pieno del nostro cammino. Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, cioè Gesù capisce che la ricerca di Lui deriva dal disorientamento: sono pecore disperse, affannate, martoriate, senza guida. E oggi le pecore senza pastore sono tantissime, non sanno dove andare, vanno a svenarsi in tanti luoghi, da cui tornano ancora più affamate e assetate. E allora alcuni si sono chiesti: “Ma questo sguardo (che è quello che vorrei noi sentissimo su di noi, frutto di questa prima, breve meditazione), questa

compassione di Gesù, da dove nasce?”. Quindi sono io stanco, senza guida, che sono andato girovagando, zigzagando da una all’altra esperienza, da una all’altra stagione. Siamo così diversi, anche collocati in stagioni della vita e in stati di vita così diversi, però una cosa ci accomuna: la stanchezza. Siamo stanchi. La gente è stanca. Allora questo sguardo adesso lo sento su di me, sono io che mi sono fatto trovare non invitato a questo Ritiro, sono io che mi sono fatto avanti, che ho corso per farmi trovare, farmi vedere. In questi giorni da parte mia nei vostri confronti, oltre al servizio della Parola, ci sono anche tante piccole attenzioni, delicatezze, tenerezze, i confetti, per esempio, vorrei che fossero i confetti di Gesù. Anziché trovare la pila dell’acqua santa, uno trova un confetto. Con tanti di voi, fatta eccezione per i preti, ovviamente per quelli che lo vorranno, io non potrò avere un incontro personale, però il mio sguardo su di voi, l’incrociarci anche stamattina presto nei viali, nel parco, è in qualche maniera sacramento dello sguardo di Gesù su di voi e su di me, cioè Gesù ti guarda così, ti guarda e non ti giudica. Questa cosa che il Papa Francesco ci sta dicendo in tante maniere, attraverso il Giubileo straordinario della Misericordia, fa così fatica ad entrare (e poi stamattina diremo perché.) Innanzitutto dicevo: da dove nasce lo sguardo? Nasce da Dio, perché Gesù è il Figlio di Dio incarnato, e Dio guarda così il mondo, guarda così l’Universo, guarda così la Storia. Può forse una donna dimenticarsi del suo bambino? (profeta Isaia). Anche se una donna si dimenticasse del suo bambino, del frutto del suo grembo, io non ti dimenticherò mai. Quindi la prima fonte della misericordia – e questa è unica di Gesù –, della compassione con cui Egli guarda le folle, quasi dedicando uno sguardo personalizzato a ciascuno, è la sua divinità, il suo essere Dio. Ma c’è una seconda fonte di compassione che invece ci riguarda ed è proprio la solitudine. Venite in un luogo in disparte e riposatevi un po’. La frequentazione col silenzio, con la preghiera, con l’assenza di parole, fuori dalla folla, dal chiasso, è una fontana di compassione. Allora, mentre non possiamo imitare Gesù nella prima fonte, perché nessuno di noi è Dio, solo Lui, nella seconda siamo chiamati in causa perché, se ci giudichiamo continuamente, è a causa di quel ringhiare, dei rumori che noi sentivamo stamattina nel silenzio, non so, delle moto a grande velocità, delle auto, il rumore della città, che è lontana, ma che pure in qualche maniera ci raggiunge, adesso capite che uno che è al volante, nel bel mezzo del traffico, beh, insomma, tanta pazienza con ce l’ha. E perché non ce l’ha? Perché deve arrivare al lavoro, ha degli appuntamenti, si è svegliato tardi, si presenta una giornata difficile, cioè nel chiasso diventiamo aggressivi, nel silenzio, stranamente, diventiamo compassionevoli. È questo il messaggio che mi stava a cuore di trasmettervi stamattina. E dico: da dove nasce?, perché i discepoli si sono innervositi? Il vangelo non lo esprime, lo immagino io, e invece Gesù accoglie, sorride, è benevolo, non manda via: non siete stati invitati, avete il biglietto?, avete l’invito? Questo è un posto per pochi intimi, andate via (detto dalle guardie svizzere, dal servizio di sicurezza, dai carabinieri, dai buttafuori.) No, niente di tutto questo. Ecco, come se Gesù stesso si convertisse a trasformare una giornata, che aveva progettato in un modo, perché si aprisse ad un’altra maniera di viverla. Attenti che se non entriamo in questa dimensione, saremo sempre ipernervosi, perché le giornate ci vengono incontro in una maniera diversa da come noi ce l’aspettiamo.

I genitori di Andrea, che stanno continuamente a sbrigare i loro avventori nella salumeria, Giovanni Mastellone, che è il direttore di un grande supermercato… capite che una persona (come tutti noi) all’atto in cui apre gli sportelli, tira su la saracinesca, apre il negozio, il supermercato o l’ufficio o la parrocchia, è invasa, e allora rischia il giudizio: ma che vogliono queste persone? vengono a togliermi la pace! Se invece abitiamo, frequentiamo il silenzio, allora entra questa compassione.Concludo con il detto di un padre del deserto, una di queste piccole frasi dense. Un giovane monaco chiede ad un padre anziano: “Quand’è che io sarò diventato veramente monaco, cioè maturo, un uomo spirituale?” E il monaco anziano risponde: “Quando tu avrai compassione di tutti e di tutto. Anche di una pietra”. Si può avere compassione di una pietra? Si può avere compassione di un gattino che si è perso? Di un uccellino che è caduto dal nido? Magari su questo siamo più sensibili (non voi, gli altri) che non su “I dolori del Giovane Werther”, sui dolori delle persone. Quando riuscirai ad avere uno sguardo compassionevole per tutti (e questo lo capiamo, ma poi, addirittura, per tutto) allora tu sarai veramente un monaco. Sarai veramente un uomo spirituale.Chiediamo questo sguardo, ma soprattutto sentiamolo su di noi, cioè sentiamo che stamattina (non so se ci siamo svegliati nervosi, tranquilli, indispettiti, se con qualche malanno, ogni mattina chiamiamo le nostre malattie che bussano) Gesù ci guarda e ha compassione di noi, ci guarda con benevolenza, ci accarezza con lo sguardo. E in seconda istanza (chiederemo questa grazia anche nel tempo dopo colazione) chiediamo questo sguardo per noi nei confronti degli altri.

Meditazione del mattinoTu sei preso, tu sei l’amato

Canto: Nessuno mai…Il sottotitolo di questo canto dice: “Per un amico che parte”, dice, diceva, sono canti degli anni ’80, quando – questo i preti dovrebbero saperlo – la scuola milanese imperava – ed erano begli anni, eh – imperava anche sul piano musicale, liturgico, erano gli anni del cardinale Martini. A volte poi le persone trainano, finiscono con il trainare anche altre dimensioni. Il canto è stato probabilmente composto, a partire dal sottotitolo, da Sequeri, Pier Angelo Sequeri per uno che va via dalla comunità, che si allontana, va a lavorare all’estero. Oggi sono tanti i nostri giovani che partono: come vivranno questa lontananza?, come gestiranno la nostalgia?, come riusciranno a superare le difficoltà dell’essere trapiantati altrove?, e qui Sequeri dà una linea importante, che poi è il tema di questa giornata. Proviamo a cantarlo insieme. Canto Nessuno mai… Vangelo di Marco 6, 30-44Ecco entriamo adesso nel vivo. Tutto quello che abbiamo vissuto finora erano manovre di decollo, come ho detto ieri, adesso siamo a livello di crociera, ad altezza di crociera, e quindi compare, scompare sul display in cima al tuo posto, il segnale tenere le cinture allacciate, è possibile andare in bagno, qualcuno si alza per sgranchirsi le gambe, cioè ci troviamo, non so, ad ottomila, a diecimila metri d’altitudine, sugli aerei parlano di piedi, e quindi siamo in orbita, con più o meno difficoltà. Tenete presente che rispetterò gli orari al secondo, ovviamente non possiamo, visto che siamo 108, credo, benvenuti anche ai due presbiteri di Napoli, con cui abbiamo chiuso, come si dice, il numero, quindi siamo tutti, si possono chiudere i portelloni e procedere nel viaggio, per ovvi motivi sarò tassativo, almeno per quanto mi riguarda, anche se nessuno di voi dovesse presentarsi io comincio la meditazione puntuale. Adesso abbiamo qui la scena. Grazie ad Alfonso che, come negli altri Corsi, mi fa una ricerca video di immagini, tra cui scelgo alcune per il cammino degli Esercizi. Questo è il vangelo di riferimento, può essere questo o quello della moltiplicazione dei pani. Quando in tutti e quattro gli evangelisti viene riportato un brano, c’è la certezza scientifico-matematica che quell’episodio sia veramente accaduto e non sia una meditazione, una rielaborazione dell’evangelista. Come? Potete tener presente, sempre legate al pane, le parole dell’istituzione. Quindi diciamo che questo è l’orizzonte, e qui abbiamo anche un orizzonte ampio: ci sono tante persone in questa valle, anche dei bambini, vari stadi di vita, tutti bisognosi di mangiare più che il pane ciò che il pane significa, cioè conferma di vita, affetto, attestazione, ed è su questo che meditiamo stamattina, attestazione che tu abbia in te nonostante tutto un nucleo di bontà irrinunciabile, irresistibile e inossidabile. Ecco, vorrei lavorare, dunque, su tutto quello che trovate nel libretto con il fondo azzurrino, sono parole-sintesi dell’autore, che vi ho citato ieri, Henri Nouwen(1932-1996) nel libro “Sentirsi amati”. Come vi ho detto anche gli altri anni, questo sacerdote olandese, trapiantato negli Stati Uniti, che ha scritto in una Lingua non sua, che ha insegnato per tanti anni ad Harvard, quindi nelle

più prestigiose università statunitensi, è stato autore di tantissimi titoli, tutti libretti, questo mi ha sempre colpito, sono stato un tifoso dagli inizi anni ’80 di questo autore, libretti molto sintetici, quasi a dire che non bisogna scrivere una summa teologica insomma, per dire qualcosa di sensato, molto stringati sulla vita spirituale. Questo è quello che lui ha voluto dire, alcuni addirittura lo hanno messo in pendant con Thomas Merton, un altro grande autore, monaco trappista, autore di tante opere nella prima parte del ‘900. Dunque, tutto quello che trovate nel libretto sono piccole sintesi, piccoli stralci, non ho messo il nome dell’autore, ma si tratta di questo sacerdote, poi passato, come alcuni di voi già sapranno, dal prestigio delle università, un tipo molto inquieto, al servizio dei portatori di handicap in case dove vivono insieme degli operatori con persone fortemente limitate, seguendo un ideale, un carisma, che è di Jean Vanier. Quindi pensate ad uno che passa dall’università più prestigiosa a stare ventiquattro ore su ventiquattro con un portatore di handicap grave. È morto in quegli anni poi, fine anni ‘90(1996). Dunque, vorrei rispondere, vi sembrerà un po’ presuntuoso, ma è solo per attirare la vostra attenzione, alla domanda: “Io chi sono? Chi sei tu? Chi siamo noi?”, e poi: “dove risiede il fondamento della tua serenità? Dove si poggia? Su quale pietra si poggia l’edificio della tua vita?”. Mettete questi interrogativi sempre nell’orizzonte di “L’arte della vita”, che stiamo cercando di spiegare ad Andrea, che tra tutti è il più attento, anche se non c’è. Nella foto è così preso dal foglio che ha tra le mani che è come se avesse davanti il segreto della felicità. Il piccolo Andrea, otto anni, vuole capire, come tutti i bambini e i suoi genitori qui presenti, e tutti noi, genitori, educatori di figli, di nipoti, di parrocchiani, ci poniamo, così come mi sono posto io, nell’atto di dire in poche parole ad un figlio su come essere felice, come affrontare le difficoltà, come superare le crisi, come vivere il dolore, come procedere tra le mille vicende della vita, le più strane, le più contraddittorie, mantenendo una propria dirittura, e quando parlo di “dirittura” non penso innanzi tutto alla dirittura morale, ma ad una dirittura, cioè alla possibilità di stare in piedi. A questo devono tendere i nostri sforzi, ma prima che per gli altri, questo vale per noi, e quindi, mentre apprendiamo la sintesi della vita, che, umilmente, il sottoscritto vorrebbe sollecitare per voi, e quindi cosa dire agli altri, in realtà lo applichiamo innanzi tutto a noi stessi, a dire: ma tu, a settanta anni, ad ottanta anni, a cinquant’anni, a trent’anni, a vent’anni, a ventiquattro anni, (andiamo dai ventiquattro in su, se qualcuno di voi fosse più giovane lo dica, in modo tale che solleviamo Chiara dal dramma d’essere la più piccola tra noi) all’età che hai e che vorresti nascondere, almeno alcuni, beh, che hai capito della vita? qual è il succo della vita? qual è la cosa che è importante che tu sappia e che è drammatico che tu ignori? Ecco, questa l’ambientazione. Vedete che nel brano, brano orizzonte, quello che don Leonardo ci ha letto, ad un certo punto, quando Gesù ha compassione (e questo tema continuate a portarvelo dietro nella preghiera, nella riflessione) si fa sera, comincia ad abbuiare, e tutta questa gente dove la mandiamo? Chi darà loro da mangiare e chi si preoccuperà? È bello parlare, dicono i discepoli a Gesù, è bello fare prediche, ma qua adesso c’è un problema concreto, un problema d’accoglienza di quelli che bussano, per cui i discepoli sollecitano Gesù a chiudere la predica, in modo tale che ognuno provveda a se stesso, ed è il tentativo che anche noi a volte facciamo di dire: va be’, questo non è un problema mio,

lasciamolo ad ognuno, ciascuno per sé e Dio per tutti, quindi congedali, in modo che andando per le campagne, i villaggi vicini, possano comprarsi da mangiare, cioè ognuno provveda per sé. E Gesù dice: «Voi stessi date loro da mangiare», cioè preoccupatevene voi. E quindi Gesù tende ad accorciare la distanza, loro la vogliono allungare il più possibile, guardare le folle con il cannocchiale, con il telescopio, invece Gesù avvicina ai discepoli le folle, e queste folle sono i nostri figli, i nostri nipoti, le persone che si riferiscono a noi in qualche maniera, quindi anche a me, dicendo: “Adesso dai loro da mangiare, vediamo che sai fare”, che non è una sfida, eh, ma è un modo per dire: In te c’è una, oggi si direbbe, energia, che, allargata, può ospitare tutte queste persone. E quindi i genitori danno da mangiare ai figli, ai nipoti, agli amici dei figli che bussano a casa, i parroci danno da mangiare ai parrocchiani, il vescovo a quelli della sua diocesi, e non solo (Mons. Cece non gradì molto, già ve l’ho detto altre volte, che nel saluto iniziale, undici anni fa, alla mia diocesi attuale io dissi che ero stato ordinato per tutta la Chiesa, con un particolare mandato per la Chiesa di Teano – Calvi. Da buon dogmatico arricciò il naso). «Voi stessi date loro da mangiare», e gli dissero: «Dobbiamo andare noi a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?», cioè abbiamo capito bene? ma sei pazzo? Ti stai chiedendo che cosa? Ma Egli replicò loro: «Quanti pani avete? Andate a vedere». Allora ciascuno di noi vada un po’ a vedere nella sua bisaccia cosa c’è. Che c’è nella tua bisaccia? Che c’è nel tuo cuore? Quanta forza ancora hai? Alcuni di voi stanno trascinando da anni delle situazioni, oggettivamente, impossibili, eppure ce la fanno, ma se noi andiamo a vedere le nostre forze, le idee che ci rimangono, gli affetti che ci rimangono, la grinta che ci rimane del vivere e nel vivere, dobbiamo constatare che veramente siamo in emergenza. E accertatisi, riferirono: «Cinque pani e due pesci». Questa è un’emergenza, come facciamo?, si chiedono le nazioni europee, come facciamo ad ospitare tutta questa gente che arriva? Come facciamo? Abbiamo solo questo campo, questa struttura, questo budget economico. Capite che adesso siamo interpellati su qualcosa di più profondo del nostro conto bancario, sugli spazi della nostra casa, dei nostri paesi, delle nostre città, su quante persone possiamo ancora accogliere, e quante invece dobbiamo rimandare a casa propria, perché qui abbiamo solo cinque pani e due pesci. La sfida della vita consiste nell’andare oltre i propri limiti. Ovviamente, è possibile andare oltre i propri limiti, all’atto in cui li si conosce e li si accetta, cioè se io ho la percezione chiara, e ce l’ho, che non basto a tutti voi, ecco, questa percezione è la base della possibilità di trasmettervi, ovviamente attingendo a piene mani alla Parola di Dio, con la sapienza della Chiesa, un’attrezzatura, un viatico, cioè qualcosa che vi aiuti a camminare nella vita. Siamo ancora nell’introduzione, girate pagina e trovate il primo verbo: «Prese», perché dice il testo: «Presi i cinque pani e i due pesci», e nel racconto dell’istituzione dell’Eucaristia, quindi nell’Ultima Cena, Gesù prese il pane. Adesso ci fermiamo su questo particolare, zumiamo sulle mani di Gesù, che affondano in questo pane o, nella scena della moltiplicazione, nella cesta vuota, che i discepoli gli portano, al fondo della quale c’è questo residuo di energia: cinque pani e due pesci. «Prese».

Ecco la prima risposta, nella elaborazione o nella rielaborazione di un’identità: io sono preso, tu sei preso. A dare forza a questo verbo ci sono i tre versetti del vangelo di Marco, che trovate qui, prima della scena del Battesimo, che campeggia sulla vostra pagina 4, in cui si racconta in maniera stringata di questo evento della vita di Gesù. I misteri della vita di Gesù sono importanti per Lui, ma sono importanti anche per noi. «In quei giorni Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, uscendo dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E si sentì una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto”». Questi tre versetti sono di una importanza fondamentale nella vicenda di Gesù di Nazaret, ma anche nella nostra vicenda umana (Non so, Leonardo e forse qualche altro, quando eravamo in Terra Santa, nel 2008 forse, mi avranno sentito commentare questo brano. Non so, Raffaele, tutti e due i Raffaele mi avranno sentito commentare questo brano ad Avezzano. Oscar otto anni fa ha scoperto questa cosa e poi insomma, facendo una scorribanda con il mio sguardo, incrocio gli occhi di tanti di voi, che su questo brano hanno visto impigliarsi l’attenzione). Che succede sulle rive del Giordano?, dove anche noi, quando facciamo il pellegrinaggio in Terra Santa, ci fermiamo rivivendo questo mistero della vita del Signore, così importante che, quando nel Libro degli Atti bisogna scegliere il sostituto di Giuda, che sarà Mattia, si dice che dev’essere uno che sia stato presente nella vita del Signore, dal Battesimo al Giordano fino all’Ascensione. Quindi diventa un elemento inclusivo, si dice in termini tecnici, cioè una sorta di cornice che delimita quello che bisogna sapere di Gesù. Per esempio, non si parla della nascita, non si parla di Natale, di Betlemme, dei Magi, della vita a Nazaret, no, queste cose poi, questo interesse è successivo, ma a coloro che debbono scegliere, occupare, restaurare il collegio apostolico, che adesso è monco di un elemento, è essenziale sapere che l’altro sappia che è dal Battesimo all’Ascensione, attraverso la Morte e la Risurrezione. Perché è importante il Battesimo? Perché qui per la prima volta Gesù ha chiara percezione della sua vocazione. Non è questo il luogo, stiamo dentro anche ad una questione che riguarda la cristologia, ma questo vale solo per gli esperti, sulla coscienza che Gesù ha avuto di sé come Messia. Una coscienza da sempre? una coscienza progressiva? Una coscienza che ha avuto dei momenti fondanti, luminosi, costitutivi?, cioè tu, quand’è che hai capito di te? Quand’è che hai capito la vita? Può succedere a vent’anni, a trent’anni, a cinquant’anni, a ottant’anni, nell’ultimo istante della vita. L’importante è capire che ci sono dei momenti luminosi. Dicono i filosofi: l’insight, mah, cito questa cosa solo per chi abbia avuto una qualche consuetudine. L’insight è una comprensione istantanea di tutto, non del particolare. L’insight è il momento in cui, un momento bellissimo, entusiasmante, in cui hai chiaro il senso del tutto. Chi abbia studiato, lo sa che cos’è l’insight, anche se non conosce questo termine, perché uno legge tanti libri, si prepara per un esame universitario e va a sedersi davanti al docente con la mente piuttosto nebulosa, come il cielo di oggi. (Godetevi il lago stamattina perché oggi pomeriggio ci sarà qualche rovescio, almeno così dicono le previsioni del tempo). Ognuno deve aver fatto questa esperienza, e cioè sono arrivato davanti al docente, avevo studiato, ma non avevo capito quasi niente, no, però mi siedo, comincio a dire, magari se è

bravo e se non vuole mettermi in difficoltà, come qualche volta succedeva e succede, se mi fa la domanda giusta, se mi dà qualche piccolo colpo di timone, io ecco, in un attimo capisco tutto. A questo dovrebbero servire gli esami. Questo lo dico per chi fra voi abbia qualche responsabilità di docenza, cioè gli esami non servono a vedere se quello ha capito, se ha studiato tutto, è facile per un docente mettere in difficoltà l’alunno, perché dovrebbe saperne più di lui, e invece gli esami dovrebbero servire a far capire all’altro che ha capito. Sembra un gioco di parole. Dovrebbero servire, dico gli esami per dire un incontro, anche il nostro, eh, anche questo nostro discorrere, qui, richiamando delle esperienze, deve farti dire: eureka!, ho trovato, ho capito, sì, ce l’avevo dentro, ma non era chiaro, mi dicevo che forse poteva essere, ma adesso che me lo dici, sorrido dicendo: “è proprio così, grazie, eureka, eureka, ho trovato”. Bene. Torniamo al brano. Quindi Gesù delle percezioni le ha già, perché non è un bambino, all’atto in cui, forse, discepolo di Giovanni, forse novizio alla scuola di questo maestro così esigente si prepara a vivere questo rito, che non è un sacramento, lo diventerà con Lui, ma è un rito di purificazione, un rito penitenziale. Quindi ha delle avvisaglie di sé, come noi di noi; Gesù le aveva già un po’raccolte, però non era sicuro, ma adesso, qui, sulle rive del Giordano, all’atto in cui, come nella foto, l’acqua del Giordano gli scorre sul capo bagnandogli il volto e i vestiti e la tunica, , Lui sente una voce. Dice il brano di Marco: “E si sentì una voce dal cielo”, ma chi la sente? Quello che è importante per noi è capire che innanzi tutto questa voce è per Gesù, infatti è a Lui che si rivolge: «Tu sei il mio Figlio prediletto». Non sei un novizio qualsiasi, non sei un figlio qualsiasi, non sei una creatura qualsiasi, non sei uno dei tanti, sei l’Unico, insostituibile oggetto del mio amore. «Figlio mio prediletto». Potreste fermarvi solo su questo, oggi e domani, e quindi lasciarmi, non venire più, e starvene in camera, andare in cappella, non presentarvi ai pasti, nessuno lo noterà, e mettervi davanti a questo mistero della vita di Gesù, che ci riguarda, e sentire che il Padre dice al Figlio: Tu sei. Tu sei. E Tu sei, anzi Tu, anche semplicemente come pronome, Tu a me ricorderai, a me, proprio a me, dice Salinas, proprio a me, sì a me, a te, Tu, adesso, se si oscurasse la sala e un occhio di bue, accecasse uno di voi, uno solo, una sola, gli altri scomparirebbero, e quella luce, che vi giunge e vi esalta e vi isola e vi illumina, è la voce del Padre. Così è accaduto a Gesù, non ha più visto il Battista, non ha più visto gli amici, quelli con cui si era preparato a questo esame, ha gli occhi chiusi (qui nell’immagine tratta dal film il nostro Gesù è a occhi chiusi, perché alcune cose si vedono solo ad occhi chiusi. “L’essenziale è invisibile agli occhi”). E qui, in questa sala oscurata, in questo fascio di luce, che viene a depositarsi su di te, tu senti questo pronome: TU TU. E chi lo dice? Dio. Il Padre. TU. E se mi dice “tu”, allora io – è questo il fulcro su cui dovreste meditare –, ho diritto d’essere al mondo qualsiasi cosa io pensi di me e gli altri ritengano di me. Cosa dicono i miei preti di me? Tu sei un attore. Lo dicono. Tu sei un ammaliatore, sei uno che soggioga i giovani mandandoli in Seminario, (per esempio.) E non lo dicono mica come lode, eh!, oppure: tu sei uno che fa le prediche lunghe, sei un fallito, non sai fare il vescovo. Adesso, vedete, queste cose mi raggiungono, ovviamente mi fanno soffrire, è diverso quando uno ti fa un complimento. L’importante, sapete, è capire che quello

che pensano i miei preti di me, chiedo scusa ad Alfonso che è l’unico, anzi anche Enzo, che sono gli unici rappresentanti del mio Presbiterio qui, non mi interessa. E quello che adesso dico di me, ognuno di voi lo deve dire di sé, perché se tu dipendi da quello che pensano gli altri, è finita! Non c’è più possibilità che tu sia felice. Se poi a quello che dicono gli altri aggiungiamo anche il nostro: “ma ti accorgi che sei uno sfigato?, ma vedi che nessuno ti sente?, ma ti rendi conto che ti stai illudendo? Hai visto che fine hanno fatto i tuoi figli? Che fine hanno fatto i tuoi nipoti? Ma hai visto…”. Allora, carissimi, qui o ci iniettiamo qualcosa o ci ubriachiamo o ci suicidiamo. Adesso io drammatizzo sempre, ma è così. Perché la gente si droga? Si ubriaca? Si butta di qua e di là? perché? A causa di questi giudizi, che sono pesanti a reggersi, soprattutto quando uno non abbia sviluppato una coscienza di sé così salda, così adamantina, così inossidabile, da far fronte a qualsiasi disgrazia, a qualsiasi dolore, a qualsiasi avanzamento dell’età, a qualsiasi malattia, a qualsiasi ruga. Ecco perché io partivo con l’interrogativo: ma tu chi sei? Chi sei? Sr Maria, la madre generale delle Ancelle, sta vivendo, presumibilmente, gli ultimi mesi della sua reggenza come madre generale. Adesso se l’importanza della sua vita dipenderà dal ruolo che lei ha svolto o da quello che pensano le suore di lei, all’atto in cui smette di essere la madre generale, o anche oggi, sentendosi bersagliata dalle suore, (immagino, sono miei pensieri) andrà in crisi, dirà: “Non sono più nessuno, nessuno più mi telefona… “Se Gemma smette di essere vicesindaco di Teano, (lei dice: speriamo!) che succederà? Che succederà? Se avviene una disgrazia, se ti diagnosticano un cancro, (è successo a Nunzia, che è qui, e ad altri) vedete che stiamo toccando un tema molto importante, cioè dove risiede la mia identità, ovviamente, è un tema scottantissimo, difficile anche da sviscerare, scottantissimo, non scontatissimo, indispensabile per equipaggiarsi nella vita, cioè io vorrei dire ad Andrea, (non si dice questo ad un bambino di otto anni): Andrea, non è importante quello che pensano i tuoi amichetti. Adesso ad un bambino non si può dire, però lo si può dire ad un adolescente, ma anche l’adolescente non ci ascolterà, lo si può dire ad un giovane ancora ancora, lo si può dire ad un adulto, lo si può dire ad un anziano. Sono le nostre variegate stagioni di vita. «Tu sei il Figlio mio prediletto», cioè non un figlio qualsiasi, il Figlio. Non un figlio amato al pari di tutti gli altri, ma l’Amato, che dice una sorta di esclusività.Vedete, carissimi, lo so che sto sfondando una porta aperta, ma l’esperienza pastorale mi dice che questa cosa non è chiara, al punto che basta un granellino di polvere e noi andiamo in crisi e si inceppa tutto. Basta che il marito ti dica una parola amara, basta che il figlio… basta che una giornata il tuo negozio non vada bene (qui c’è anche un imprenditore di articoli di arte sacra) per esempio: quanto abbiamo guadagnato oggi? Niente. Ah, sto andando a rotoli! Da che cosa dipende la tua consistenza? Quindi a questi attentati continui, cui è soggetta la nostra identità più vera, si aggiungono anche gli auto-attentati, cioè ai tentativi di omicidio si aggiungono anche i tanti tentativi suicidi, dove noi diciamo guardandoci allo specchio: Ma a chi la vuoi dare ad intendere? Vedi che hai commesso questo peccato?, vedi che non resisti alla tentazione?, vedi che non sei paziente? che non ce la fai? Vedi che

questo ruolo è più grande delle tue possibilità? Vedi che quell’altro riesce meglio? Come ha fatto Marisa, (adesso ho incrociato il suo sguardo) a superare le chemio? Marisa, da si metteva in treno, andava a Milano, faceva la chemio e se ne tornava in treno da sola. Come ha fatto? Come hai fatto, Marisa? A noi basta che ci svegliamo con un mal di testa e mandiamo tutti a quel paese. Allora capite che qui gli attentati vengono dall’esterno, ma anche da dentro, perché una voce mi dice: sei sbagliato, sei una frana. Un’espressione emblematica dice che noi siamo gli oppositori di noi stessi: lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo! Me l’aspettavo! Lo sapevo che sarebbe andata a finire così. Me l’aspettavo che ero una mezza cartuccia. L’ho sempre saputo. Anche alle elementari, anche quando stavo all’asilo, anche quando ero piccolo. E qui tutta un’anamnesi sbagliata di me, di me sbagliato, che viene a certificarmi che quello che mi sta succedendo era proprio quello che doveva succedermi, di negativo ovviamente, perché io sono uno sfigatissimo, e gli altri, quelli di successo, gli eroi, i divi, quelli che risplendono nella loro professione, quel prete lì, quel vescovo là, quel padre di famiglia, quella sì che era una matrona romana, che mostrava i suoi gioielli. Altro che gioielli!Allora, carissimi, questa cosa è importantissima. Ho incrociato gli occhi di Katia, che è venuta da Londra per stare qui. E, Katia, queste cose tu me le hai già sentite dire ad Avezzano, e c’era anche questo, quell’altro, e c’era anche chi poi ha affrontato un calvario, e come lo ha affrontato? Passione e morte? Come, se non con questa coscienza d’essere l’amata? Voglio dire che senza questo equipaggiamento, carissimi, non uscite neanche dal banchetto dove state, perché crollerete, crolleremo. Allora dice Nouwen: “Ogni volta che ti senti urtato, offeso o rifiutato, devi osare dirti questo: “Questi sentimenti, per quanto forti siano, non mi dicono la verità su me stesso. La verità, anche se non posso afferrarla bene adesso, è che io sono il figlio scelto di Dio, prezioso agli occhi di Dio, chiamato Amato da tutta l’eternità e tenuto al sicuro in un infinito abbraccio”. “E se Dio è con noi, è con me, chi sarà contro di me?”.Ecco, su questo dobbiamo meditare, e allora adesso vi offro una piccola oasi, qui c’è Maurizio, che è maestro di violino, al Conservatorio di Salerno, che adesso, a luci abbassate, ci suona la Danza dei Beati di Gluck, tratta da Orfeo ed Euridice. Ve la ricordate la storia? Orfeo non resiste alla mancanza di Euridice, e quindi comincia il suo viaggio nell’Ade e finalmente vi approda, e, ohibò, assiste alla Danza dei Beati. Avevo chiesto a Felice: “Trovami la danza del Beato Angelico,” purtroppo l’immagine era troppo piccola, per cui non possiamo proiettarla, ma quello che è importante per voi è capire che Orfeo pensa che Euridice sia infelice o no?, e quindi c’è in qualche maniera, ovviamente parliamo della mitologia greca, non informata al cristianesimo, ma con una sua intuizione, l’intuizione è questa: ma forse di là stanno meglio? Forse non hanno nostalgia? Infatti nella mitologia si passava lo Stige per dimenticare, ovviamente immagine pagana, l’immagine cristiana è che alle persone defunte non manca niente, perché hanno tutto, anche noi che siamo ancora di qua. Per noi loro sono inaccessibili, almeno ai sensi, per loro noi siamo accessibilissimi, quindi non hanno perso niente, anzi hanno guadagnato, quelli che erano già morti prima di loro: Dio, il Padre, il Figlio, lo Spirito, Maria, i Santi di cui erano devoti, allora la scena che dovete immaginare, e

dobbiamo ascoltare questo brano ad occhi chiusi, visto che non abbiamo trovato la scena da proiettare, è Orfeo che entra in questa sala meravigliosa e assiste alla Danza dei Beati. Il Beato Angelico, con tutti i cerchi di angeli che danzano, e Orfeo è come se dicessero: noi abbiamo tutto, non abbiamo bisogno di nulla, abbiamo Dio, abbiamo il passato il presente e il futuro, abbiamo tutto, voi avete una parte, un segmento, una goccia, noi abbiamo tutto l’Oceano.Ecco, ascoltiamo, potete anche chiudere gli occhi, se non vi addormentate, ascoltiamo questo brano e poi andiamo alla nostra preghiera personale.La Danza degli Spiriti Beati dall’Orfeo ed EuridiceChristoph Willibald Gluck(1714-1787)Grazie a Maurizio, e, se siete stati attenti all’orditura del brano, qualcuno di voi sarà rimasto deluso dalla parte intermedia, potrebbe dire: ma tu non ci avevi promesso la Danza dei Beati? Sì, ma poi c’è anche la richiesta di Orfeo, è la parte in minore, quindi la prima parte… e questa è la danza dei beati, tutto tranquillo, poi, quando scende in minore, è Orfeo che dice: ma io voglio Euridice, e quindi è la preghiera struggente, la parte umana dell’orditura, che chiede alla divinità degli inferi di restituire questa moglie bellissima, rapita nel fiore degli anni e di cui Orfeo ha estrema nostalgia, ma poi il brano torna in maggiore, perché l’attenzione viene di nuovo rivolta a questa danza perfetta, che non ha nostalgie. Magari qualcuno di voi, rispetto ai defunti, dirà: se non ha nostalgia di me, vi addolorate. Invece dovreste rallegrarvi, e noi non avremo nostalgia, la nostalgia è qui, è del tempo, è del limite, ma il figlio amato intuisce che verrà un giorno in cui non avrà nostalgia di niente e di nessuno, perché avrà tutto. “Beato – dice Agostino – chi ama l’amico in te e il nemico per te”, perché non perderà mai nessuna persona cara. È sempre in questa linea del sentirsi gli amati. Ecco, adesso andiamo a meditare, sono le undici meno cinque, fino alle dodici, quindi un’ora e cinque. Cercate di personalizzare: ma perché io sto male? Perché una parola mi ferisce ed io resto addolorato per tanto tempo? Capite che qui stiamo toccando il tema fondamentale della vita che è il sentirsi amati. Tutti i mali nascono di qui. Tanti di voi, tanti di noi hanno vissuto una vita disagiata perché non si sono sentiti abbastanza amati o per nulla amati. Vuoi che sia così, vuoi che non abbiano visto l’amore degli altri, ma adesso, a prescindere da quello che gli altri sentono per me, che mi valorizzino o meno, che mi stimino o meno, non è il tuo profilo face-book che dice di te, ma questa parola: Tu sei l’amato. E quindi se Gesù prende da questa cesta questo pane che sono io, mi ha preso, e prendendomi mi ha scelto e mi ha scelto tra tanti altri pani, perché la notte in cui siamo stati generati, la notte in cui siamo stati generati potevano nascere migliaia di altre persone, sono nato io, ve lo ricordate o no? Non ce lo ricordiamo, però la scienza ce lo ha detto, che quella notte ci stavano in giro migliaia di possibilità, gli spermatozoi erano tanti, ma perché ha vinto quello? Perché ha perforato l’ovulo quello e non un altro? Perché è nato un maschio e non una femmina? Oggi è problematico anche fare queste differenze. Perché sono nato io e non gli altri cento o centomila possibilità? E

qui l’interrogativo è: il caso o la necessità? E la risposta è: la necessità, perché tu dovevi nascere, perché tu sei l’amato. Attenti, carissimi, che questa cosa è vera da sempre. Il problema è che noi vi accediamo in un tempo purtroppo tardi, “tardi ti ho conosciuto, tardi ti ho amato” dice Agostino nelle Confessioni. Magari qualcuno di voi vi accede stamattina. Non è mai troppo tardi. E anche quelli fra noi che queste cose se le sono sentite ripetere da anni, poi concretamente basta una telefonata, un commento, uno sguardo una telefonata che non riceviamo, basta che tuo marito non si ricordi il giorno dell’anniversario di matrimonio, che il figlio neanche si ricordi e tu precipiti, perché dipendi dal consenso, perché io dipendo dal consenso, invece la mia identità inossidabile, ripeto, risiede nel fatto che io sono il figlio amato, che sono stato scelto tra mille, non fosse stato che all’atto della concezione, perché c’erano effettivamente tanti bambini che bussavano quella sera, quella notte alla porta. Bastava che quella sera mia mamma avesse detto “ho mal di testa”, bastava che andassero a letto in tempi diversi e io non sarei mai nato, ma Dio aveva detto sì prima di loro. E questa cosa, sapete, è un motivo fortissimo di serenità, di bontà, di positività della vita. Allora, la sento questa cosa? Allora in questa ora mi ripeterò, magari fino all’ossessione: Tu hai diritto di vivere, non sei uno che sciupa l’aria, non sei uno che mangia pane a sbafo, tu sei stai seduto alla mensa della vita, hai tutto il diritto e non stai in un posto qualsiasi, stai nel posto d’onore, perché Dio in Gesù ti dice: Tu sei il mio figlio amato, prediletto, scelto. Tu e non un altro. Tu e nessun altro. Tu sei depositario di una parte di Dio, che nessun’altra persona in tutta la Storia dell’umanità avrà, sei depositario di una stilla di luce, tu e tu solo, e guai a te, mi verrebbe da dire, concludendo, se sciupi questa possibilità, questa identità.Ci vediamo alle dodici ed un quarto. Buona gioia!***

Meditazione-aperitivoChi siamo? Chi ci ricorda la nostra identità?

Canto - Eppure tu sei quiSpero abbiate scritto il vostro nome. A questo serviva il riquadro sulla copertina, spero abbiate colto, e non tanto come un gesto di proprietà, (normalmente quando scriviamo il nome diciamo: nessuno lo tocchi, è mio) ma, nella linea di quello che stiamo dicendo, come una scoperta di sé, ad un livello più profondo degli altri piani sui quali normalmente ci giochiamo. E quali sono questi piani? Tante volte negli anni, da parroco e da vescovo, me li avete sentiti elencare. Innanzi tutto il piano fisico (questo vale soprattutto per i più giovani, noi, più avanti negli anni, siamo già stati abbondantemente percossi dalla vita) e quindi giocarsi sull’aspetto, sulla forza, sul corpo, pensate anche a tutta l’attenzione, in parte sana e in parte malata, che c’è sull’aspetto fisico. Penso al moltiplicarsi delle palestre, delle diete, che hanno sì un’importanza, ma rischiano di enfatizzare una dimensione di noi che non è neanche quella del corpo, ma dell’appariscenza del corpo, il corpo è un’altra cosa, è una realtà più profonda e più sacra, dove bisogna essere allettanti, scattanti, aitanti, ammirati, ammirevoli, e in fondo tutto il mercato della moda si impernia su questo livello, quindi sul piano delle prestazioni. Ad una coppia (proprio ieri, l’altro ieri, ohibò, che cosa si va a dire al vescovo!), giovane, che vive una situazione un po’ anomala, di calo del desiderio, la prima cosa che mi sono sentito di dire (non so se Raffaele da psicoterapeuta e sessuologo concorderà): ma voi di questa cosa, di questa temporanea impotenza (prima facevamo delle acrobazie) riuscite a sorriderne? Che sembra una domanda sciocca, sembra, almeno dal mio punto di vista, altrimenti questo diventa un dramma, diventa il dramma centrale che offusca tanti altri aspetti positivi della vita, è chiaro che bisogna lavorare in qualche maniera per risolverlo, ma capite che se io sorrido di una cosa (non sono riuscito, non riesco come una volta, beh, questo riguarda anche gli anziani, no?, non ho più l’esuberanza d’un tempo) significa che ritengo questa dimensione importante ma non essenziale. E quindi innanzi tutto il livello fisico, poi il livello psichico, e qui tutti impegnati a sciorinare, forse io per primo, eh, il nostro sapere, quello che abbiamo letto, approfondito, scoperto, e il piano delle nostre doti. Specchio, specchio delle mie brame, chi è il più saggio, perché nel primo caso chi è il più bello di tutto il reame, chi è il più saggio, chi è il più attrezzato, chi è quello che sa vendersi meglio sul piano delle doti. Ovviamente anche questo è un principio di infelicità, all’atto in cui ci dovessimo giocare tutto su questo piano, perché il confronto, l’aspetto competitivo pone sempre altri, qualcuno più bravo, più attrezzato, più intelligente, più creativo, più veloce nelle connessioni, di quanto non accada a noi. Le doti sono importanti, ma non sono l’aspetto più importante di noi. E poi con il passare degli anni posso essere messo in pensione, essere posto su un binario morto della vita, della vita produttiva, e quindi senza il mio ruolo, che farò? Chi sarò? Non sono più nessuno (questo ce lo dicevamo, per esempio, con qualcuno di voi ad un

Campo adulti trent’anni fa, mi sembra a Campo di Giove). Se la memoria non mi difetta, perché è chiaro che andando avanti anche la memoria comincia a calare: non ho più la memoria di un tempo, non riesco più a fare quelle citazioni, a volte ricordo un quadro ma mi sfugge l’autore, per cui c’è bisogno di un metafisico oltre il fisico, di un metapsichico oltre le doti, ed è proprio questo piano, su cui vi ho invitati a riflettere, e che, se accolto definitivamente nella vostra vita, diventa un luogo di grande pace. Adesso sembra una formuletta, no? Io sono amato, io sono l’amato, sono il prediletto, sono stato prescelto tra tanti. Il problema è mantenere questo piano identitario al centro della nostra attenzione. Questo è il vero problema. Ed è su questo che brevemente ci diciamo qualcosa, perché, già ve lo anticipavo nella prima parte, i messaggi che ci giungono sono di altra natura. Mi sono ricordato di questo proverbio napoletano che ci dicevano quando eravamo bambini: “pure ‘e pullece teneno ‘a tosse”, che è un proverbio terribile, eh! se voi riflettete su quello che volevano dire i nostri insegnanti o i nostri genitori. “Pure ‘e pulce teneno ‘a tosse” significa che sei una pulce, è inutile che tossisci per farti vedere, per dire che… cioè non hai diritto a tossire. E questi sono i messaggi che ci vengono dal mondo. Sei una nullità, non ti illudere, è inutile che vai dal parrucchiere, che vai dall’estetista, in palestra, sei una nullità e resti una nullità. E zero più zero più zero più zero uguale zero. Ecco allora la fatica, e ognuno di voi la conosce questa fatica, che è la fatica del vivere, di tenersi a galla, mentre tanti tentano di tirarci giù. Allora dice Nouwen: bisogna smascherare il mondo con i suoi messaggi. A dire: questa cosa non è vera. Non sono una pulce, posso anche avere la tosse, posso anche parlare, posso anche dire la mia. E qui non si tratta di doti, sapete, eh, questa cosa di essere l’amato non dipende da noi, questo è bello, cioè non è una cosa che io mi conquisto e poi me la difendo, è innata, ed è, se volete, legata alla vita, e l’ho già detto a proposito della corsa degli spermatozoi in quella notte, ma poi è legata al Battesimo, il Battesimo, una realtà così misconosciuta, poco tematizzata nella nostra vita cristiana. Il Battesimo significa che tu quel giorno sei diventato figlio, e il figlio, anche se è prodigo, resta figlio, e gli va dato l’anello, gli va messo l’anello al dito, anche se ne ha fatto di tutti i colori, a dire che c’è un piano identitario, dicevo stamattina inossidabile, inattaccabile anche rispetto al male, ad un fallimento, ad una malattia, anche rispetto a: nessuno mi ha votato, anche rispetto a: nessuno mi guarda, anche rispetto a: nessuno mi ama. Questa positività non dipende da noi. Questo è il bello, cioè non te la conquisti. Le altre cose cerchiamo di conquistarle, essere brillanti, attirare l’attenzione, mantenere delle relazioni, ma qui è una cosa del tutto gratuita che ti precede, che è prima che nascessi. Dice il catechismo, prima lezione: Io sono con voi, (per quelle tra voi che sono catechiste,) il mio nome è scritto in cielo, e l’ha scritto il Padre mio. Quando Santa Teresa di Gesù Bambino guardando il firmamento vedeva una T mettendo insieme delle stelle, diceva: “quello è il mio nome!”, magari qualcuno avrebbe detto: ecco una bambina presuntuosa, megalomane. In realtà la piccola Teresa vedeva bene che lì c’era il suo nome, scritto prima che i suoi genitori, adesso santificati, canonizzati, scegliessero per lei questo nome, prima che entrasse nel Carmelo, prima che…

Tu sei figlio anche se sei depravato, anche se sei fallito, anche se hai attentato alla paternità. Sei figlio e per questo ti accolgo. Ho fatto un’esperienza la scorsa settimana. Ve la racconto non per dirvi “sono bravo”, ma per dire qualcosa ai preti. Ho portato con me, altrimenti non mi sarei districato, Salvatore Iaccarino, che conosce il francese, e mi sono presentato a Bruxelles alle sei del pomeriggio alla porta di Andrea ed Annarita, che per voi di Teano sono un certo Andrea e una certa Annarita, ma per quelli di Piano Andrea Branca e sua moglie. E perché ci sono andato, io che odio viaggiare, che non amo prendere aerei, che in un aeroporto mi perdo come “‘o zampugnaro ’nnammurato, che veniva da un paesetto dell’avellinese, e nce cammenava comm a nu stunato?”, diceva la canzone. Perché sei andato a Bruxelles? Anche Andrea ha avuto un problema di cancro, proprio poco dopo che si era trasferito con moglie e cinque figli in un paese straniero, ovviamente per lavoro. E allora ho detto a Salvatore: perché siamo venuti qui? Sono venuto qui perché i due coniugi, e poi di riflesso i loro figli, i loro cinque figli, possano dire: mio padre si è spostato, mio padre, che non ama viaggiare, si è spostato da Teano a Bruxelles, per venire a bussare alla porta di casa e a dire: Buonasera! Stavano per svenire. Certe cose bisognerebbe prepararle, voi dite, altrimenti può anche venire un infarto, ma questo è il senso della figliolanza, no? E quindi lo dico a voi preti. I vostri figli dovete andare a cercarli anche all’estero, dovunque siano, perché questo diventa sacramento di una cosa più importante, i nostri sono piccoli tentativi, balbettamenti, per far sentire un altro importante, e quelli non stavano nei panni in quei due giorni che sono stato lì. Mio padre è vecchio: è venuto qui a casa, all’estero. Ecco, adesso dico di loro due, che andrebbero veramente messi sugli altari per tante difficoltà che hanno affrontato, come tanti altri figli, in giro per il mondo, ma lo dico in margine alla nostra figliolanza, il nostro essere presi, poi speriamo di essere presi anche noi. Io mi auguro che voi siate presi da quello che stiamo dicendo, per esempio. Presi, compresi, attratti, affascinati. È una realtà che niente può mutare, niente, cioè noi il giorno della morte saremo accolti come figli prediletti e non perché siamo stati i primi della classe, e non perché siamo stati bravi, e non perché abbiamo detto le preghiere, e non… ma perché tu sei figlio, sei il figlio. Allora la prima scuola, la prima lezione, una volta che abbiamo scoperto questo, è completamente smascherato il mondo che dice: tu questa cosa non ce l’hai, allora non sei buono. Ma tu non hai comprato l’ultimo… ah, sei arretrato. Ma tu non sai connetterti ad Internet, come me, allora sei in un altro mondo, sei dell’età della pietra, sei un immigrato. Quindi, attenti, dobbiamo faticare contro un esercito che viene a dirci continuamente, attraverso notizie, attraverso i canali delle varie trasmissioni, che tu non vali niente, ma dove vai? Ma chi sei? Sei un povero Fantozzi, sei un fantozziano. E se vai in vacanza la nuvoletta sta proprio sul tuo albergo. Fantozzi è l’emblema del perdente, e per questo ci è molto simpatico. E tanti di noi hanno questa dimensione fantozziana.Secondo aspetto, su cui poi lavorerete, lavoreremo nel dopo pranzo, è scritto nel vangelo di Luca. Chiedo a Sr Lucia, visto che è un episodio femminile, l’ascoltiamo da una voce femminile. Dal vangelo di Luca (1, 39-48)

È scritta in questo vangelo una grande verità, sia nel quadro della Visitazione che è alle mie spalle, sia in quello che avete stampato sul vostro libretto, che è più recente, fine ‘800. A proposito di quadri, qui c’è Pasquale Russo, che è un pittore che vi fa un quadro del ‘700, e se voi andate da un antiquario glielo vendete per autentico, e allora è un falsario? No, è bravissimo. Tanti quadri di Pasquale, esposti da un antiquario x y, sono risultati autentici. Mi ricordo questa cosa: quando la Sovraintendenza venne a fare la catalogazione nella mia basilica catalogò anche un quadro di Pasquale. Per dire quanto ne capissero, o anche l’arte di Pasquale di essere un copista d’eccezione. Se volete un quadro di maniera settecentesca rivolgetevi a lui. Piccolo spot pubblicitario.Tanti brani noi li abbiamo ascoltati tante volte che non li capiamo più. Maria va a fare la visita, Elisabetta è anziana, ha bisogno di un aiuto, in realtà queste due donne erano due donne disorientate. La prima, Maria, che rimane incinta non si sa come, e vai a dirglielo a Giuseppe, e diglielo ai genitori che è lo Spirito Santo, l’angelo, e diglielo alle amiche… Immaginate le amiche che staranno dicendo sul conto di Maria, alle sue spalle! Quindi è una donna in difficoltà, perché visitata da Dio in una maniera strana, inusitata, e resa incinta, ma a chi lo dico che solo “la potenza dell’Altissimo stenderà la sua ombra su di te”? A chi lo racconto? Qui nel quadro, fine ‘800, sembra che Elisabetta scenda come Wanda Osiris dalle scale di una reggia, ma in realtà potete immaginare; poi tutti gli artisti hanno cercato di ambientare le cose secondo la loro immaginazione, è una donna che certo è contenta di essere incinta, ma ha un marito che sembra un ebete, che è tornato da Gerusalemme, che manco parla e non si sa come sia riuscito, visto che avevano tentato per decenni e decenni, e adesso che lei ha alle spalle la menopausa che manco si ricorda più. Quindi due donne disorientate, due donne in balia. Ma che ci fa questo vecchio con l’Alzheimer incalzante? Quindi due età, due donne in due stagioni diverse, entrambe visitate da Dio, e quindi scelte, prescelte, ma il mondo non lo dice, il mondo non lo sa. E allora queste due donne si incontrano, come ci stiamo incontrando noi qui ad Ariccia, e veniamo ognuno dal suo peso, dalla sua fatica, dalla sua delusione, e ci incontriamo come gli amati, e nessuno lo sa, ma noi lo sappiamo, e alcuni da poche ore, da qualche ora, per cui, vedete, questo incontro è la possibilità di stringerci, come dice questo abbraccio. Zaccaria, nel quadro dietro alle mie spalle, non sa cosa dire, cosa guardare, cosa sta succedendo. Sta succedendo che due donne amate si incontrano, e questo incontro è decisivo per ciascuna di esse, perché dalla bocca dell’altra scoprono chi sono. Sapete, questa è la Chiesa. La Chiesa è questo abbraccio di persone che si riconoscono, che in un mondo ostile fanno società, comunità, si toccano, si raccontano, si leggono la grazia l’una nella vita dell’altra.«Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!» grida Elisabetta, ma che ne sa Elisabetta, che ne sa Maria? «Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo», e forse nel grembo di queste due nostre esercitanti, che hanno portato, senza che i padri paolini se ne accorgessero, due esercitanti che non pagano.

Maria fa danzare, e non è Maria, ma è il figlio che porta nel grembo da poco tempo che fa danzare Giovanni nel grembo di Elisabetta, che è più grande di lui di sei mesi, e quindi, se ci fosse stata l’ecografia, Elisabetta già saprebbe che è un maschio, ma se l’aspetta così, perché l’angelo ha detto così. E allora capite che o ci incontriamo o questa identità viene immediatamente offuscata, o ci tocchiamo o ci abbracciamo o facciamo lega tra gli amati, o quello che abbiamo ricevuto va irrimediabilmente perduto, perché sommerso da mille altri messaggi, da mille altre immagini, mille altre sensazioni interne, esterne, che dicono altro, che dicono: “Maria sei un’illusa, non nascondere il tuo peccato” e che dicono ad Elisabetta: sarà una maternità isterica. A furia di dirlo, ti si sta gonfiando il ventre, ma è pieno di vuoto. E Maria ed Elisabetta compongono un canto. Il vangelo dice che lo compone Maria, ma a me piace pensare che sia un canto a due voci, dicendosi le cose grandi che Dio ha fatto, sta facendo e farà.Nouwen scrive: “Devi continuare a cercare persone e luoghi dove la tua verità è detta, e dove ti si ricorda la tua più profonda identità, cioè l’essere scelto” , prescelto, amato. Persone e luoghi, perché ci sono persone che ci graffiano l’anima, ci raschiano questa identità regale, che ci umiliano, ma anche luoghi nei quali ci sentiamo dispersi, luoghi dove questa appartenenza, questa identità di figli è negata, e il mondo è questo? Il mondo nel quale noi ci troviamo, viviamo, dobbiamo vivere. E allora ecco che comincia una sorta di archeologia. È questo l’esercizio che vi affido, cioè andando a guardare: ma chi, chi mi ha riconosciuto? Chi mi ha fatto partorire? Chi, con l’arte maieutica, mi ha tirato fuori questa identità, mentre per altri io sarei stato un fallito? (penso a te, Oscar. Se avessimo ascoltato i tuoi formatori, saresti altrove, perché a volte neanche i formatori leggono giusto). E ciascuno di voi, se fosse rimasto preda di questo o quello, di questo o quel fallimento, di questa o quella scivolata, caduta, chi di noi non è caduto? Chi di noi non ha avuto una scivolata nella vita? Nessuno. Chi è senza peccato, scagli la prima pietra. Ma quell’errore che io ho commesso, che tu hai commesso, cosa diceva di noi? Tutto o un momento di disattenzione?, e il nostro futuro sarebbe stato inficiato per sempre, inquinato: ah, quello è quello che ero una volta, invece io sono altro. E allora questa ricerca affannosa e bellissima di persone che ci ricordano chi siamo. Ci sono delle persone che ci tolgono la vita, e voi ne conoscete tante, persone, stando con le quali anche mezzora, ti succhiano milioni di energie, fanno seccare anche le sorgenti eterne delle Alpi, persone dalle quali stare lontani per quanto è possibile. E ce ne sono altre invece, incontrando le quali, anche senza dirci nessuna parola, (noi perlopiù in questi giorni ci incontreremo con lo sguardo, e guardatevi, guardatevi) incontrando le quali immediatamente sentiamo che il bambino è ancora vivo, non è morto, che la speranza non è finita, che le misericordie del Signore non sono finite, dice il Libro delle Lamentazioni. Persone che innescano una serie di reazioni positive a catena, alcuni, persone frenanti il bene, altri, persone esaltanti il bene che è in noi. Per alcuni siamo già morti, per altri siamo appena bambini. E lo vorrei dire in particolare ai preti qui presenti, che sono continuamente soggetti a questa lapidazione. Noi siamo lapidati oggi, perché una debolezza, una frase fuori posto, e ti fotografano, ti mettono su facebook, metti il mostro in prima pagina. Siamo fatti oggetto di una persecuzione. Difendetevi, difendetevi! E

non legalmente (qui c’è anche un avvocato) non legalmente, ma difendetevi, cioè difendete quest’identità d’essere i prescelti. Non lasciate che gli altri vi portino via la grazia. Ci sono persone, incontrando le quali, la grazia del presbiterato è valorizzata, esaltata, lanciata, potenziata, acclamata, e incontri dai quali usciamo a brandelli. E quello che dico ai preti lo dico ovviamente a tutti, lo dico alle suore, lo dico a voi sposati, voi che siete ancora in cerca d’autore. Ecco, siamo qui per cantare insieme il Magnificat. Siamo qui insieme per dirci: ma allora non è tutto perduto, no, siamo qui per non gettare le perle ai porci. Loro non possono capire, non sanno, ed io cammino, incedo su questo tappeto (dopo la meditazione me ne sono andato nel viale dei misteri del Rosario, e ci sono delle zone dove il muschio è cresciuto come un tappeto, più soffice di un tappeto persiano. Provatela quest’esperienza, camminate adagio adagio e dite: questo tappeto è stato ricamato per me. Non so se siete mai stati in un laboratorio di tappeti, un tappeto è fatto di milioni e milioni di nodi e richiede tantissimo tempo). E Dio ha fatto un tappeto per me stamattina, per te, con questo muschio, perché tu possa calpestarlo, un tappeto fiorito con le margherite, perché tu sei re, perché sei l’amato, sei prescelto. Ecco celebriamo questa identità durante il pranzo, ma soprattutto dopo pranzo, cercate di dire: ma chi mi aiuta? Quale persona deve essere al primo posto nella mia vita?, perché questo mi dice chi sono veramente e chi devo evitare, e quali luoghi sono pieni di energia, mi rimescolano il sangue, mi rifanno nuovo, e quali invece da rifuggire, perché sono luoghi che mi uccidono, che mi fanno dimenticare che io ho una corona, un diadema, sono un principe, una principessa, un re, una regina. Amati da Dio e scelto o scelta da sempre. Ecco faremo questo elenco, questo viaggio nella nostra vita: se non avessi avuto quella persona, mi sarei perso; se non avessi avuto quell’insegnante ad incoraggiarmi, sarei rimasto con la mia dislessia; se non avessi avuto quella persona, sarei stato un fallito, un depravato, perché mi fotografava e mi rimandava in una maniera ossessiva, omicida, un’immagine di me non vera. Buon appetito!

Meditazione pomeridianaIo sono benedetto e benedicoA volte un’immagine può aiutare, predisporre alla preghiera, alla riflessione, alla meditazione, crea tanti interrogativi. Queste mani cosa aspettano?, cosa chiedono?, cosa impetrano?, cosa raccontano?. Nelle mani ci sono tanti eventi scritti, man mano le nostre mani diventano esclusive. L’arte, in particolare della danza, è molto legata alle mani che sanno raccontare, e guardando queste mani guardo le mie mani. Sono le mani dell’amato? Sono le mani di un uomo fallito? Di una donna maledetta? Di chi vive nell’amarezza, perché ci accadono tante cose negative? CantoCi introduciamo così: Amici miei venite qui, cantate insieme a me…Innanzi tutto, spero, siate svegli. È un po’ difficile a quest’ora parlare, e ancor più forse anche ascoltare. La prima cosa che dico è ancora in coda con il “prese, scelse, elesse”, e mentre nella nostra esperienza “prendere, scegliere” è esclusivo, nella grandezza di Dio “prendere” è inclusivo. Questo lo diciamo perché quello che stiamo meditando, e non solo con la mente ma speriamo con il cuore, non vi sembri una sorta di auto-esaltazione della serie “chi ti credi di essere”, perché nella nostra esperienza, se uno è scelto, mille altri sono bocciati, rigettati, se uno fa il primo, tutti quelli che partecipano sono perdenti.Dice Paolo – facendo riferimento alle Olimpiadi –, Paolo spesso ha delle espressioni, legate allo sport, alle Olimpiadi della Grecia, della Magna Grecia: Molti corrono ma uno solo ottiene il premio, correte anche voi, ma, mentre nelle scelte umane essere prescelti significa che altri resteranno nell’ombra, torneranno nel nulla, “torneranno — direbbe il poeta — nell’ossario di tutti quelli che non hanno nessun motivo per vivere e morire”, quando Dio sceglie uno, sceglie tutti, perché la dinamica di Dio è inclusiva. Pensate a Genesi 12, dove Dio sceglie Abramo, e gli altri potrebbero dire: “Perché hai scelto lui, perché hai scelto proprio lui. Anche tu fai preferenze?”. Ma la scelta di Abramo è in vista di un popolo, e la scelta stessa di Israele non è fine a se stessa, ma è per il bene dell’intera umanità. Qualcuno dice che la struttura mentale del Papa Francesco è questa, qualcuno dà come chiave interpretativa del magistero di Francesco l’aspetto inclusivo contrapposto al modo comune che noi abbiamo di ragionare, anche da un punto di vista morale, che è l’aspetto esclusivo: se non fai questo, allora non sei dei nostri, non appartieni. È come se il Papa dicesse: “e perché no”, che è un’espressione molto equivoca, soprattutto sul piano morale, “e perché no”. Ecco, quando Dio ti sceglie, e ti ha scelto, se voi ricevete questo messaggio è rivolto proprio a voi, c’è un indirizzo chiaro e c’è un mittente ancora più chiaro. Il mittente è Dio e l’indirizzo è il tuo indirizzo. Una stella, dice Erri De Luca nel “Nome di Maria”, che si è inchinata alla mia porta. Ecco, quando Dio opera questa scelta, quando ti dice “tu sei l’amata, tu sei l’amato, tu sei il prediletto, il figlio prediletto”, lo dice veramente a te, e quindi non ti illudi, non stiamo dispensando nuvole e illusioni, e questa cosa

non esclude gli altri, perché se Abramo non avesse ricevuto quella chiamata, nell’economia, almeno dei testi dell’Antico Testamento, noi non avremmo avuto un popolo, un Messia, e non avremmo avuto l’apertura universale che si ha il giorno di Pentecoste. Quindi, tranquilli, se tu sei l’amato, lo è anche tuo figlio, se tu sei l’amata, lo è anche il bambino che porti in grembo, se tu sei l’amato, se c’è un’oggettiva –lo dicevo stamattina – inossidabile identità regale, questa cosa riguarda anche tutte le persone che ami di più, tutte le persone. E veniamo al secondo verbo, che ci terrà insieme questo pomeriggio fino a Messa, ed è: prese il pane e rese grazie (siamo a pagina 6 del nostro libretto). Che significa “rese grazie”? Prese il pane e pronunziò la benedizione, dice qualche testo, per cui il secondo verbo è: rendere grazie, benedire, perché se tu sei l’eletto, se tu sei l’amato, tu sei l’amato che continuamente riceve una parola di bene da parte di Dio e questa parola di bene è come se sostentasse, sostenesse questa identità che il mondo fa di tutto per strapparti di dosso. Forse i sacerdoti, i presbiteri ricorderanno quel brano, credo, del Libro di Giosuè dove Dio dice: Toglietegli quelle vesti immonde e rivestitelo di gloria, cioè toglietegli questi abiti strappati, che poi è la stessa immagine nella parabola del Padre misericordioso, il figlio torna nudo dalle feste del mondo e il padre lo riveste innanzi tutto con il suo mantello, nelle immagini di Rembrandt, ma poi lo riveste con la tunica, con l’anello. E l’anello non è l’elemento ornamentale. L’anello è come il libretto degli assegni, perché l’anello ha il sigillo e quindi rimettergli l’anello significa ridargli la firma, ridargli la password, in modo tale che possa fare delle operazioni sul patrimonio, lui che lo ha gettato ai porci. E allora come coltivare la dimensione dell’essere l’amato? Lo abbiamo detto: attraverso le persone, i luoghi che ci ricordano questa identità, e adesso diciamo: attraverso la benedizione. Vedete, noi purtroppo, lo dico anche ai preti, stiamo perdendo questo filone sacramentale, si diceva nella teologia classica, appunto un sacramentale, non un sacramento, perché equivochiamo la benedizione con un augurio. È questa la difficoltà sapete, lo dico ai preti ma lo dico a tutti gli altri, perché di auguri se ne fanno tanti, facebook ne è pieno, adesso è impossibile che tu dimentichi un compleanno, scrivi una frase uguale per tutti, la mandi in giro a tutti i numeri, ed è Buon Natale, Buona Pasqua, buono quello che vuoi tu, ma ognuno di noi, che scrive una frase del genere, sa bene di scrivere delle parole. Allora il problema del benedire è pensare che la benedizione equivalga ad un buon augurio. È di buon augurio, e allora facciamo pure questo, non so, tagliamo la pastiera la sera dopo la veglia pasquale, sciogliamo il fioretto, facciamo questo, facciamo quell’altro, è di buon augurio. E allora abbiamo svuotato la benedizione pensando che sia un augurio. No, no, la benedizione fa quello che dice. Forse su questo la Chiesa ortodossa – qui c’è anche una rappresentante – è stata più attenta di noi, più attenta di noi alle benedizioni dei monaci, dei vescovi, alla benedizione delle icone, cioè la benedizione non è solo flatus vocis, ma è formativa, si dice con un termine più impegnativo: “performativa”, da cui viene performance, cioè cambia in qualche maniera la realtà, libera da possibili negatività la persona su cui la benedizione è pronunziata.

“Il Signore ti benedica e ti protegga, rivolga su di te il suo sguardo e ti doni la sua pace”. Ricordate? La benedizione con cui iniziamo ogni anno liturgico. La benedizione dal Libro dei Numeri. Cos’è un augurio? È buon anno? Speriamo che vada bene? Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere? No, è molto di più. “Benedire” è dire sì al fatto che tu sia l’amato, cioè è richiamare questa identità, è riportarla alla luce, come queste mani che abbiamo dinnanzi e che ci chiedono, ma forse anche ci benedicono (Felice, prima che cominciassimo, aveva tirato fuori delle variazioni sul tema delle mani, le mani di De Crescenzo). Le mani che sanno impastare, sanno tradire, benedire, tutto un testo sulle mani. Quello che fanno le mani. Quello che operano le mani. Le mani benedicono e benedicendo danno una stabile sicurezza in tempi di grande insicurezza, come i nostri. Danno stabile benessere. Attenti eh, “benessere” non significa “non ti ammalerai”, è una cosa più profonda della malattia. Raccontano una reale appartenenza di me a me stesso, perché la maledizione, invece, mi fraziona. Quando diciamo: questo è un soggetto bipolare, che è il massimo della patologia, ma tutti in qualche maniera siamo un po’ frazionati. E sapete cosa ci fraziona? La percezione d’essere sbagliati, che siamo sfortunati, sfigati, che nulla ci vada bene, che su noi e sui nostri figli, chissà forse ci sarà qualche malocchio, qualche flusso negativo. Per capire la benedizione dobbiamo per un attimo far riferimento alla benedizione dei patriarchi nell’Antico Testamento. Abramo che benedice il figlio Isacco. Isacco che benedice Giacobbe. Ve la ricordate la storia? È un rubare la benedizione. Forse nessun esempio come quello che è moralmente negativo, illecito da un punto di vista formale, morale, dice della potenza della benedizione, perché Giacobbe, che ha sempre cercato di fare le scarpe al fratello fin dal seno materno, cercando di nascere prima, tenendogli il calcagno mentre era partorito, quando bisticciavano insieme nel grembo della madre. Giacobbe è furbo, e, ovviamente con la collaborazione di sua madre, si finge Esaù, e che fa? Si ruba la benedizione. E uno dice: è sbagliato, ora annulliamo… No, no, non si può più annullare, quel che è detto è detto. Vedete, proprio qui, in un episodio che ci fa sempre problema: come è possibile rubare una benedizione? Proprio qui si dice della forza della benedizione, che era la benedizione del primogenito, al secondo, sì, si poteva dare qualcosina, ma era il primogenito quello che manteneva la fila, la storia, la promessa. E dunque adesso che Giacobbe si è messo le pelli, perché lui non aveva peli, mentre Esaù era ispido, e si è messo gli abiti del fratello e l’odore del fratello, perché il padre non ci vede più, è vecchio, ma adesso che è stato benedetto con una frode, questa benedizione, ohimè, non può più rientrare. Ecco, questa è la forza della benedizione. Quando arriva Esaù è troppo tardi, è già stato benedetto il fratello, tutta l’eredità, non materiale ma spirituale, di benedizione del Signore, poiché quello ha detto la formula valida, pazienza, mi dispiace per te, Esaù, ma tuo fratello è stato più furbo, si è rubata una benedizione. Allora, se questo è vero, come è vero, dovremmo essere più attenti a farci benedire, a farci benedire più spesso. Forse noi stessi che benediciamo non facciamo più tanta attenzione alla forza della benedizione, e la benedizione può essere anche un affluente – questo lo dico per i preti in codice –del sacramento. Prese il pane e lo benedisse.

E sento che questa benedizione va in profondità, va ad alimentare questo lumicino, che rischia di spegnersi, della mia identità di amato, perché la benedizione non è per il successo, non è per: “guariamo questa malattia, risolviamo questo problema”, ma “teniamo viva questa coscienza”. Vedete, io mi sono convinto di una cosa, visto che sto facendo il testamento in questi giorni, mi sono convinto che noi dobbiamo resistere fino al giorno della morte. È così, resistere fino al giorno della morte, sapete perché? Se noi resisteremo fino al giorno della morte, un attimo prima, appena caduto il velo, ci renderemo conto che le cose per cui ci siamo preoccupati, peccati compresi, erano sciocchezze agli occhi di Dio, cade il velo, ed io che ho pensato di aver sbagliato tutto, io che ho pensato d’essere uno sgorbio della natura, io che ho pensato di essere l’ultimo, ricevo un applauso a scena aperta dagli angeli e dai santi, e mi dirò: ma come sono stato stupido a non vivere con maggiore gioia. Non so se riesco a dirvi questa cosa. Per me è importante. E per questo bisogna cercare di aiutare le persone a resistere: stringi i denti anche se hai il cancro, stringi i denti, non ricorrere all’eutanasia, pur con tutto il rispetto che dobbiamo avere nei confronti di chi viva dei dolori terribili, che non gli danno tregua, attento che è un attimo, tra due minuti è quasi giorno, è quasi casa, è quasi amore. Due minuti, resisti, non ti suicidare. E quindi capite che la benedizione va a riattivare, come un farmaco che richiami un altro farmaco, va a riattivare questa coscienza di ciò che io sono in profondità, oltre tutte le fotografie, oltre tutte le dicerie, oltre tutti i pettegolezzi, oltre tutti i miei fallimenti personali. E l’identità è che tu sei figlio e il padre il figlio non lo abbandona. “Non abbandonerai nel sepolcro il tuo consacrato” (salmo 15). In questa bontà primordiale c’è la mia fecondità, non in quello che faccio, non in quello che so fare, non in ciò che dimenticherò prima o poi, magari io che parlo a dismisura, un giorno non saprò spiccicare parola, ma questa cosa, vedete, che pure mi angoscia umanamente, non è importante, perché non sono importanti le tue doti. L’importante è che tu sia figlio. E allora leggiamo un attimo questo vangelo delle tentazioni adesso da questo versante.Lo legge don Fabrizio. Dal Vangelo di Matteo (4, 1-11)Abbiamo meditato tante volte questo vangelo, anche alla Prima Domenica di Quaresima di quest’anno, però adesso vedete, possiamo insieme – queste cose io mentre le dico a voi le dico a me – rileggere il brano alla luce non “se tu sei figlio di Dio, se tu sei l’amato”, a dire che Satana non ha chiara percezione, vuole mettere alla prova, vuole capire se questo Rabbì sia uno qualsiasi o avvertire in qualche passaggio il Messia. Allora sostituite a: “se sei il Figlio di Dio” ogni volta “se sei l’amato”. Se sei l’amato di’ che questi sassi diventino pane, cioè se tu sei l’amato, se sei il benedetto, allora soddisfa i tuoi bisogni, no? Hai fame? Mangia. Hai sete? Bevi. Non ci sono i pani, puoi trasformare i sassi in pane, attenti, e Gesù non trasforma i sassi in pane, però poi, come dice il nostro vangelo, orizzonte di questi giorni, moltiplica i pani per gli altri, per i bisogni degli altri. Allora se sei l’amato, goditi la vita, rispondi a tutti i tuoi bisogni. Seconda tentazione: lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio, come salire sulla cupola di San Pietro (la cupola di san Pietro è visibilissima, quando non ci sono le nubi su Roma, da qui) e quindi lo

depone sulla cupola e gli fa vedere tutta Roma e gli dice: “Se sei Figlio di Dio, se sei l’Amato gettati giù, così in Piazza san Pietro ti acclameranno”, ma l’Amato non è quello che va in cerca del successo a buon mercato, non scenderà dalla Croce, anche se glielo chiedono, anche se lo tentano. Allora capite come queste tentazioni si pongano, a seconda di come le guardiamo, da un punto di vista del diavolo, sotto la luce della maledizione, e dal punto di vista di Gesù, sotto la luce della benedizione. Se sei l’amato, allora mangia; se sei l’amato, buttati giù, come dice il salmo 90, verranno gli angeli e ti porteranno, in modo tale che tu non abbia neanche a farti un graffio. Ma l’amato non è quello vincente, a cui viene data la Coppa dei Campioni, che prende la medaglia d’oro alle Olimpiadi. Spesso l’amato è l’ultimo agli occhi degli uomini. E, infine, se sei l’amato prenditi tutte le ricchezze possibili. Tutte queste cose saranno tue se tu mi adorerai. E quindi la tentazione del possesso. Quindi la tentazione del piacere, adesso non intendete il piacere sessuale, cioè la corrispondenza immediata ai bisogni, la tentazione del successo. Se facciamo questa cosa, la nostra diocesi andrà in prima linea, riceverà una benemerenza dalla Santa Sede, vincerà il Concorso Veritas, si diceva una volta, quando eravamo aspiranti, entrerà nella Hit-parade delle diocesi italiane. Non è qui l’identità dell’amato, non è nel successo, è nella fecondità, e spesso la fecondità è laddove non c’è successo. E terzo la tentazione del possesso. Piacere, successo, possesso. Se ci fate caso, sono le cose a cui i nostri figli innocenti, non è colpa loro, è colpa nostra, fanno più caso, perché se ad un ragazzo, un ragazzino, anche delle scuole medie o addirittura delle elementari, non regaliamo l’ultimo (qui ci sono i Mastellone che queste cose le vendono) l’ultimissimo prodotto dell’Iphone, quello insomma può andare in crisi, dobbiamo portarlo dallo psicologo, avrà bisogno di un sostegno: Ma come? I miei amici hanno l’orologio-computer, tutto racchiuso in un orologio, io invece ho ancora questo aggeggio così grosso, che è blasfemo, orrendo. Questo sentono i nostri ragazzi. Andate a dire loro “tu sei l’amato”, vi manderanno a quel paese, se sono educati. E se io non posseggo queste cose, mi sento maledetto, scartato, che figura ci faccio con i miei amici, se vengo scartato a questo tour di ballerini per una trasmissione televisiva? Eppure tu sei qui. Noi concluderemo questa meditazione ripetendo: Eppure tu sei qui. Ma qui dove? Dove? Qui dove sembri non esserci. Qui dove non di solo pane vive l’uomo. Qui dove non tentare il Signore Dio tuo. Qui dove il possesso non è la cosa più importante, perché un re è re anche senza corona e senza scorta, come dice la canzone di Marinella. “Un re senza corona e senza scorta bussò tre volte un giorno alla tua porta”. Qui dove? Eppure tu sei qui, qui nell’Eucaristia, ma chi lo vede? Qui in questa ostia, come rivivremo stasera nella celebrazione. Qui in questa comunità di isterici, che si sono riuniti sui Colli romani, e non per mangiare la porchetta, per bere vino o per raccontarsi le novelle, come nel Decamerone, ma qui in mezzo a questo popolo… Qui. Eppure tu sei qui, cioè qui nella debolezza, qui dove giace una benedizione che non si vede, qui in questo piccolo gruppo, in questo piccolo gregge, in cui rischiano di diventare sempre di più le nostre parrocchie, qui nella parte di me più fragile, qui nella parte di me meno di successo, qui nella parte di me segmentata. Eppure tu sei qui. E invece la maledizione dice: Dio non è qui nelle cose grandi, non è nel vento forte, non è nel terremoto, non è

nel fuoco. Ricordate l’esperienza del profeta che cerca Dio, e poi lo trova nel soffio leggero, lo trova in un silenzio profondo d’ascolto.E concludo veramente dicendo: qui e adesso, non ieri, non domani, non in un altro luogo. Questa cosa mi sembra essere un altro elemento di disagio oggi dei giovani. E voi dite: ma parli a noi, noi non siamo giovani, tranne qualcuno. I giovani, perché sono disperati? Allora dico così: perché pensano sempre di trovarsi nel posto sbagliato. Il motivo della disperazione dei giovani è questo. Io sto qui adesso a fare gli Esercizi, potrebbe dire qualcuno dei pochi giovani presenti, e intanto in questa città c’è un raduno internazionale, questo summit degli otto, dei dieci dei dodici, dei quindici più potenti del mondo. Io sto qui – potrebbero dire i preti – intanto si decide una cosa importante nella mia diocesi, e io non ci sono. Questo è il motivo anche della connessione, che è una grande illusione, almeno a mio parere. Essere contemporaneamente in più posti, in modo tale da sapere dove andare perché lì c’è Miss Universo, perché lì passa un flusso, perché lì c’è una costellazione che si incrocia, e allora bisogna fare questo viaggio di 18 ore di aereo per trovarsi il giorno del proprio compleanno (cosa che succede) proprio lì, perché lì… e cari miei, come si fa? Come si fa a dire: eppure tu sei qui? E giustamente dice “eppure”, nel senso che non si direbbe che tu sia qui in Gesù di Nazaret, qui nel figlio del falegname, qui nel Crocifisso, qui nel rigettato dai capi, qui in questa umanità ferita, per cui la benedizione, questo è il tema, la benedizione è sentire che mi trovo nel posto giusto, perché è la benedizione che ti pone nel posto giusto, non sei tu che lo scegli, nella vocazione giusta. Anche se mio marito è pedante, è diventato impossibile, anche se mia moglie è isterica, eppure tu sei qui, anche se mi sembra d’essere un prete fallito. Potrei continuare a lungo, eh, guardandovi ed evocando situazioni della vostra vita, dove continuamente rischiamo di non vivere nel presente benedetto, ma nel passato rimpianto, nel futuro, attesa chissà di che cosa, “magari dell’anno che verrà”, diceva Lucio Dalla. Quindi senza rimpianti e senza se, io sono benedetto, e io vi benedico, e noi trascorreremo tutto questo pomeriggio, e poi anche la Messa di stasera, riscoprendo la forza della benedizione che dice: stai proprio nel posto giusto, è il giorno migliore della tua vita, è il tuo giorno fortunato adesso. Ma io ho commesso degli errori, ma io ho fatto dei peccati, ma forse domani… No, adesso, qui la benedizione mi raggiunge, hic et nunc, qui e adesso, e mi dice: “sei al meglio”, anche se mi sento depresso, anche se non riesco ad arrivare a fine mese, anche se non sono apprezzato, anche se…, però sei benedetto, sei benedetto. Benedetto all’atto della nascita, benedetto nel Battesimo, benedetto nel giorno del matrimonio, come coppia, benedetto ogniqualvolta hai partorito, benedetto il giorno della tua Ordinazione. Com’è difficile sentire che quella parola è vera, e com’è difficile ricordarlo a certi preti in crisi, che dicono: “no, ho sbagliato tutto, non era vero, non era vero niente”. Ma come? ti ho sentito io agli Esercizi, eri tu, ma tu adesso quella parola non la senti più vera, cioè non ti senti più benedetto.Ecco, chiediamo la benedizione d’entrare nella gioia d’esserci, perché la benedizione è sì a quello che sei nel profondo, non a quello che appari. Quando diciamo un’altra delle parole che utilizziamo, ma che è molto importante, la diciamo così come un augurio: “Grazie di esserci”, che è un’espressione profondissima, cioè emerge dalla tua vita una forza, una benedizione, una potenza che mi esalta. Stare con te è meglio che andare alle

Maldive, stare qui agli Esercizi è meglio che andarsi a fare un giro alle Bahamas, stare qui sotto il tuo sguardo – questa è la benedizione –, altrove c’è solo amarezza, la maledizione è segnata dall’amarezza. E Nouwen dice che non esiste interstizio, non esiste una zona franca tra la benedizione e la maledizione, ma sono territori contigui, per cui devi scegliere: ora sto qui, poi vedo un po’, se buttarmi a destra e a sinistra. No, o sei nella benedizione o sei nella maledizione. Immagino che Raffaele (magari domani ti chiedo anche un piccolo intervento su un tema specifico) come d’altra parte i preti, per altro versante, continuamente debbano combattere contro la percezione di maledizione che la gente si porta addosso, un odore di maledizione, che è un odore di morte. E queste persone poi il bene non lo vedono e non lo godono, non lo godono, perché sono dentro… Eppure tu sei qui. Concludiamo così.L’interrogativo che ti rimando è: come ti senti? Che non è la domanda che fanno i medici. Come ti senti? Ti senti benedetto o maledetto? Sei sotto la maledizione o sotto la benedizione? E mentre passeggiate cercate di sentire che la benedizione vi raggiunge anche attraverso gli alberi, sul lago, attraverso le forsythie, questa fontana gialla, questo cespuglio che è in più parti del parco, sugli alberi, attraverso gli uccelli, attraverso lo sguardo degli altri, perché poi chi è benedetto benedice senza saperlo, chi è benedetto purifica l’aria di un ambiente, chi è maledetto la inquina, porta un odore di morte.Eppure tu sei qui.

VesproContinuiamo la nostra riflessione sulla benedizione a partire da questo brano, che abbiamo ascoltato, di accesso difficoltoso da parte dei bambini, di un gruppo di bambini nei confronti di Gesù: un comportamento opposto quello dei discepoli e quello del Maestro. Perché i discepoli ne intralciano l’accesso? Perché i bambini nel mondo semita non hanno alcuna rilevanza, sono considerati alla stregua di uomini incompleti, se non di bestie. Senza contare le donne e i bambini – la dice lunga questa conta, anche per quanto concerne i racconti delle moltiplicazioni dei pani – nel senso che non fanno numero. Si dice a Napoli: “non fanno numero nella smorfia”, cioè non hanno importanza, rilevanza. Quindi è questo il motivo: i bambini possono sporcare, disturbare. Un Rabbì ha a che fare al massimo con i discepoli, non ha consuetudine con i bambini. Maria Concetta e quanti fra voi, suore comprese, avete dimestichezza e familiarità con i bambini, avete un motivo in più di benedizione, perché i bambini ci benedicono, sono l’aspetto positivo di noi, hanno il senso dello stupore, hanno un senso innato di positività della vita, e quindi chi fra voi abbia figli ancora bambini, ce ne sono tra voi, si senta privilegiato. E non solo, Gesù li accarezza, ma dice il brano che, alla fine, ponendo le mani su di loro, li benedice. Gesù benedice il bambino che è in me, che permette all’anziano di non invecchiare, all’adulto di non inasprirsi. Gesù benedice il bambino che ritorna a vivere negli Esercizi spirituali, il bambino che eravamo e che in qualche maniera ancora sopravvive dentro ciascuno di noi. Nei testi che abbiamo pregato, in particolare il salmo 10, “quando sono scosse le fondamenta, il giusto che cosa può fare?”, ed è un momento di sconvolgimento dentro e fuori l’orante, che si chiede: ma c’è ancora speranza? Cosa si può fare in tempo di terremoto, maremoto? (E noi ci troviamo in questa condizione di stravolgimento, anche del senso delle cose) La risposta è questa, anche se sembra non essere risposta: “Ma il Signore nel tempio santo”, cioè anche in tempo di sconvolgimento, anche in tempo di crisi “ti benedica il Signore da Sion” (dice il salmo 127). Ma il Signore nel tempio santo, cioè Lui rimane lì, Lui è immutabile nella Sua volontà di bene, benché l’Etna sia in eruzione (da Caltagirone, dove predicavo gli Esercizi al clero di Ragusa, guardavo l’Etna fumante, nonostante la neve: è una contraddizione che fosse coperto di neve e poi avesse il fuoco dentro). Ma il Signore nel tempio santo. E poi il Cantico di Efesini è un inno di benedizione: “Benedetto sia Dio, / Padre del Signore nostro Gesù Cristo, / che ci ha benedetti / con ogni benedizione”. Vedete, c’è una ridondanza del termine e del verbo, del termine “benedizione” e del verbo “benedire”. “In lui (in Cristo) ci ha scelti / prima della creazione del mondo, / per trovarci, al suo cospetto, / santi e immacolati nell’amore”. Questo è essere amati. Siamo stati scelti prima della creazione del mondo, prima del peccato, prima. E questa scelta di Dio, “in lui ci ha scelti”, questa predestinazione, è un termine, che solo da un po’ di tempo, da un po’ di decenni, torna nel nostro linguaggio, perché sembrava appannaggio delle Chiese della Riforma; questa predestinazione di bene è la benedizione di Dio. Siamo ancora a chiederci, e andiamo a pagina 8, come conservare viva la benedizione su di noi. Con noi, su di noi, in noi sono state dette delle cose potenti, e la risposta è nella preghiera. Vedete stiamo qui, e gli Esercizi sono

null’altro che una preghiera prolungata, ovviamente un tipo di esperienza che si può fare una volta all’anno, due al massimo. Ma perché siamo qui? e perché preghiamo? Non preghiamo per chiedere, il Padre vostro già sa ciò di cui avete bisogno, ma preghiamo per riagganciare la nostra vita al fulcro di fuoco che è la benedizione di Dio su di noi, conseguenza del suo averci scelti. Quindi si prega per questo, si va a messa per questo, si entra nella preghiera per accedere a questo tesoro, a questa stanza del cuore, a questo castello interiore, dove qualcuno mi dice: non temere. Non temere! Quello che è successo non stravolge i nostri rapporti, quello che hai fatto, che gli altri dicono, che tu stesso ritieni di te non interferisce rispetto al bene che io ti voglio. Lo dice Nouwen (nel brano che vi ho messo a pie’ pagina) dell’immagine, che ha avuto successo nel ‘900, di Gesù in preghiera, molto bella, anche così semplicemente aiuta la preghiera. Gesù è concentrato, ha gli occhi chiusi, le mani giunte. Sono importanti gli atteggiamenti del corpo per entrare nella preghiera. Non sembra dire delle cose, ma piuttosto concentrarsi sul nucleo più interiore di sé, dove il Padre lo aspetta. Gesù, prima di un momento importante, o per ricaricarsi, entra in questa dimensione che noi chiamiamo preghiera e che fa parte del vocabolario universale dell’esperienza religiosa. Nouwen, che è stato un maestro negli Stati Uniti, tanti andavano ai suoi Corsi, tanti si affollavano alle conferenze che lui teneva in ogni parte degli Stati Uniti, era un conferenziere brillante, dice: Io ho scritto molto sulla preghiera, ma poi sempre più mi rendo conto che “sebbene io abbia la tendenza a dire molte cose a Dio, il vero “lavoro” della preghiera è di farsi silenziosa e ascoltare la voce che dice cose buone di me”. Quindi ci mettiamo in preghiera per ascoltare questa voce, che è la voce di Dio, che dice cose buone di me. La mattina, in modo tale che io abbia grinta per affrontare la giornata, la sera, perché non vada a letto con troppi rimorsi, troppi rimpianti, mi metto in ascolto di questa voce, che mi pacifica e mi dice cose buone di me. Mi benedice. “Sono così sgomento di essere maledetto, di sentire che non sono buono – è un’espressione che in napoletano significa certe cose – non sono buono, o non sono abbastanza buono, che sono quasi subito tentato di iniziare a parlare”. Vedete, anche utilizzare troppe parole potrebbe essere un modo di evadere nella preghiera. E allora vorrei che stasera, magari dopo la messa, prima della messa, voi facciate questa esperienza, per alcuni di voi è una cosa scontata, e cioè di mettervi in una delle cappelle disseminate in questa Casa senza dire niente. E attenti: allora il Rosario non bisogna dirlo? No, perché il Rosario stesso è un ritmo, è un motivo, il Rosario, soprattutto se lo dici lentamente, diventa un ritmo. Quindi, vedete, le parole nella preghiera, anche un salmo, servono più ad entrare in una dimensione, in un ritmo, non per ciò che si dice, tant’è che nel Rosario non bisogna – ricordatelo – fare attenzione alle Ave Maria, altrimenti vi inceppate, né pensare al mistero, per esempio adesso penso al mistero, poi per sto pregando… Ah, diventa uno stress il Rosario così! Capisco alcuni che non riescono ad utilizzare questo strumento, perché pensano che sia un fatto intellettivo, e quindi: mi distraggo, oppure: che devo pensare? all’Ave Maria, alle parole, devo pensare all’angelo che annuncia, a Elisabetta? No, non devi pensare a niente, devi entrare in questa terra, in questo sacrario. Quindi, sia che tu utilizzi delle parole, sia che tu stia in silenzio, nell’uno e nell’altro caso non è importante quello che dici. E

Nouwen afferma: “A volte mi sembra che sto perdendo tempo”, perché noi abbiamo anche questa mania che una cosa deve essere produttiva. Se non mi sento entusiasmato, se non mi vengono le visioni, allora non ho pregato. Ma chi l’ha detto? La preghiera è anche annoiarsi. Lo sapete bene voi che siete sposati da cinquant’anni. Ma non vi annoiate insieme? Ma questo è l’amore, sapersi annoiare, perché, se io non mi annoio e provo disagio, significa che non voglio bene a questa persona. Per questo motivo ho pensato all’ immagine di un’isola: guardatela, guardiamola insieme. Questa è l’isola di Innisfree, un’isola su un lago, e si trova in Irlanda. Tutte le isole sono belle perché dicono di un posto segreto, cui approdare. La nostra infanzia è stata anche animata da Robinson Crusoe, quindi un’isola richiama tante cose. Questa è proprio l’isola, che si chiama Innisfree, cui Yeats, un poeta irlandese, ha dedicato una poesia, che poi è stata musicata da Branduardi. Allora ho chiesto a Katia che viene da Londra, sperando di non averla messa in tensione e di non aver creato tensione al suo bambino, di leggerci l’originale inglese, anche se non lo capiamo, per partire da dove sono nate poi le note di Branduardi e questa libera traduzione che a me, spero anche a voi adesso, contagiandovi, dà il senso della preghiera. Ascoltiamo prima il testo nella lingua originale.Immaginatevi quest’isola, guardatela, mentre voi con una barchetta, remate piano piano, le acque del lago normalmente sono tranquille, e approdate a questa isola, l’isola sul lago.The Lake Isle of InnisfreeW. B. Yeats, 1865 - 1939 I will arise and go now, and go to Innisfree,And a small cabin build there, of clay and wattles made:Nine bean-rows will I have there, a hive for the honey-bee;And live alone in the bee-loud glade.And I shall have some peace there, for peace comes dropping slow,Dropping from the veils of the morning to where the cricket sings;There midnight’s all a glimmer, and noon a purple glow,And evening full of the linnet’s wings.I will arise and go now, for always night and dayI hear lake water lapping with low sounds by the shore;While I stand on the roadway, or on the pavements grey,I hear it in the deep heart’s core.Adesso ascoltiamo Branduardi.Innisfree, l’isola sul lagoEd ecco ora mi alzerò, a Innisfree andrò, Là una casa costruirò, d'argilla e canne io la farò;

là io avrò nove filari ed un alveare, perché le api facciano miele. E là da solo io vivrò, io vivrò nella radura dove ronzano le api. E là io pace avrò: lentamente, goccia a goccia, viene dai veli del mattino fino a dove il grillo canta; mezzanotte là è un balenio, porpora è mezzogiorno e la sera è un volo di uccelli. Ed ecco ora mi alzerò, perché sempre notte e giorno posso sentire l'acqua del lago accarezzare la riva piano; mentre in mezzo ad una strada io sto, sui marciapiedi grigi, nel profondo del cuore questo io sento.Cos’è Innisfree? Un sogno? Un’evasione? Adesso affidiamo a Felice il compito di continuare sul tema, perché questa poesia musicata mi entusiasmò tanti anni fa e quindi ho pensato, l’ho tirata fuori dal bagaglio della memoria, a proposito della preghiera, di cui avrei dovuto dirvi qui stasera. Innanzi tutto, la musica larga, che Branduardi ha utilizzato, si presta tanto ad una danza, magari, se avessimo avuto qui una ballerina, le avremmo affidato questo tema, ognuno di voi lo immagini. Ed ecco ora mi alzerò, a Innisfree andrò. Innisfree, nella mente del poeta irlandese, è certo questa isola che vedete qui riprodotta, ma capite bene che è molto di più di questo, è l’isola introiettata, è l’isola che sì ha un nome, una collocazione geografica, è al centro di un lago, ma s’arricchisce di tanti altri significati, si addiziona di valore all’atto in cui il poeta sogna o progetta d’andarvi, rifugiandosi, ritirandosi come un eremita lì. Là una casa costruirò, d’argilla – semplice quindi – e canne io la farò. Non un palazzo, non nel cemento armato, nulla che intralci la bellezza selvaggia di Innisfree, e poi pianterà “nove filari” per coltivare l’uva. Dice un poeta greco: “Mai piantare nulla prima della vite”. Ricordate chi fra voi abbia fatto studi classici, mai piantare nulla prima della vite. Quindi questi nove filari ed un alveare, perché le api facciano miele, nel senso che alla bellezza di quest’isola, all’aspetto selvaggio, e anche libero, si unisce un cibo vergine, il miele delle api. Nelle antiche piramidi d’Egitto sono stati trovati dei cristalli di miele, depositati all’atto in cui il Faraone era stato messo lì con tutta la sua attrezzatura. E là da solo io vivrò, io vivrò nella radura dove ronzano le api. Una sorta di scelta monastica, laica. E là io pace avrò. Evidentemente in questo momento, come poi si chiarisce alla fine della composizione, il poeta Yeats la pace non ce l’ha, e allora la cercherà ad Innisfree, dove approderà. Forse anziano? O forse già da oggi nella sua giovinezza. Lentamente goccia a goccia, / viene dai veli del mattino, che cosa? La pace. La pace che scorre come le gocce del miele, lentamente, la pace non arriva come una mareggiata, ma come questo baciarsi sulla sponda della piccola isola delle acque del lago. Lentamente, goccia a goccia, come sta accadendo a noi in queste ore. Viene dai veli del mattino, dalle brume del mattino, qui ci sono riferimenti ai tempi, fino a dove il grillo canta, fino a sera. Quindi dai “veli del mattino”,

come veli di sposa, le brume mattutine, che s’impigliano negli alberi di Innisfree fino a sera quando canta il grillo, quando la cicala fa le consegne al grillo per la notte. Mezzanotte là è un balenio. E immaginate, siamo in Irlanda, quindi la giornata è lunghissima e c’è ancora luce a mezzanotte. Porpora è mezzogiorno / e la sera un volo di uccelli: Li vedete questi uccelli che volano? Sono i pensieri del poeta.Ed ecco ora mi alzerò, perché sempre notte e giorno, / posso sentire l’acqua del lago accarezzare la riva piano”. Sono versi molto evocativi. Mentre li scrive Yeats, e mentre li canta Branduardi, noi vediamo questa scena, che è una scena di grande pace, dove il tempo si è fermato, non ci sono ansie da prestazione, non ci sono voci esterne che vengano ad infrangere questo silenzio grande che avvolge ogni cosa. Ma ecco che la conclusione è come se ci togliesse, ma non è così, l’idillio che il poeta ha creato, perché dice: mentre in mezzo ad una strada io sto, magari affollata, sui marciapiedi grigi (questo “grigi” la dice lunga), nel profondo del cuore questo io sento. C’è una canzone italiana che somiglia molto a questo contrasto, ed è “Poster”, dove si è alla stazione ad aspettare il treno e fa freddo e lui si alza il bavero, e poi si ferma davanti ad un manifesto, che parla di un viaggio, ed allora comincia ad andarsene lontano, è la stessa dinamica. E allora mi chiedo: questa Innisfree, cos’è? Un’evasione o è la verità?, cioè che cosa sono veri, i marciapiedi grigi?, la strada in mezzo alla quale io sto, piena di traffico, di rumori, di clamori, o questa isola che ho vagheggiato nella poesia? La mia risposta è che è più vera l’isola del marciapiede grigio, che appartiene alle idee chiare e distinte, ma l’isola è ciò che permette ad Yeats di rimanere al suo posto.Allora, se Innisfree è la preghiera, perché Innisfree è la preghiera, è questa isola dove approdare quando sto in mezzo ad una strada affollata? Quando ho la testa piena di problemi? Quando il marciapiede è grigio e impoetico, ho la possibilità di trascendermi, immaginando anzi visitando quest’isola, e piantandoli questi nove filari, e sistemandolo questo alveare, sentendolo questo ronzio delle api, e gustando del miele che esse producono, e vedendo questo volo d’uccelli la sera e questa porpora a mezzogiorno e questo velo di sposa, bruma del mattino.Ecco, carissimi, o ci decidiamo ad andare di tanto in tanto ad Innisfree o sul marciapiede grigio ci suicidiamo, se qualcuno non viene con l’auto e ci trancia (quando stavamo per prendere il casello di Caianello un’auto ci ha tagliato la strada. Io mi sono innervosito, beh, cominciamo bene, e invece il santo Fabrizio, perché è santo quel prete, senza battere ciglio, senza neanche perdere la pazienza, ha detto: Eccellenza, ci hanno chiesto scusa). E andarmene lontano. Ripeto, sia la canzone che la lirica sono illusioni di poeti, illusioni di persone, che si astraggono e che quindi non sono dentro alla Storia, non aiutano il progresso dell’umanità. In realtà o hai la tua Innisfree o sei finito, e tu ogni tanto, proprio nel mezzo del combattimento, nel mezzo delle maledizioni, nel mezzo della precarietà più volgare, più prosaica, fai questo viaggio, mettendoti in ascolto, chiudendo i boccaporti, prendendo la barchetta, che sembra un guscio di noce, per approdare ad Innisfree, terra della verità di te, dove riacquisti pace, poi per starci in mezzo alla strada, nella

stazione di Poster, sui marciapiedi grigi, perché non si può stare a lungo su un marciapiede grigio, senza diventare grigi. Ecco Innisfree è l’isola della preghiera. È la preghiera che ti isola, portandoti alla verità di te.Riascoltiamo Branduardi e concludiamo.Katia, ce la rileggi?The Lake Isle of InnisfreeW. B. Yeats, 1865 - 1939 I will arise and go now, and go to Innisfree,And a small cabin build there, of clay and wattles made:Nine bean-rows will I have there, a hive for the honey-bee;And live alone in the bee-loud glade.And I shall have some peace there, for peace comes dropping slow,Dropping from the veils of the morning to where the cricket sings;There midnight’s all a glimmer, and noon a purple glow,And evening full of the linnet’s wings.I will arise and go now, for always night and dayI hear lake water lapping with low sounds by the shore;While I stand on the roadway, or on the pavements grey,I hear it in the deep heart’s core.Tra venti minuti possiamo trovarci nella sala da pranzo. Uscendo, nel cestino dei cioccolatini, troverete, se avete fame, una piccola corona del Rosario. E poi, dopo cena o dopo la messa trovate il tempo per stare fermi in una cappella e approdare ad Innisfree. Ancora di più questo lo faremo nella celebrazione eucaristica. Buon appetito!***

Omelia Facciamo una sosta, stasera, a Cana di Galilea, per vedere come Gesù benedica una famiglia in difficoltà. Tante famiglie sono ferite – ce lo ricorda Papa Francesco e ce lo attesta la nostra esperienza pastorale – e, quando non giungono ad una vera e propria rottura, tante coppie vivono con difficoltà la loro convivenza, il loro restare insieme, non avvertendo più la gioia e la coscienza della benedizione ricevuta il giorno della celebrazione del sacramento nuziale. Innanzitutto, questo è un brano sabbatico, un brano del settimo giorno, del giorno del riposo, perché, a partire dall’indicazione che il Battista dà di Gesù come Agnello di Dio sono trascorsi sette giorni, e quindi è il giorno nuziale per eccellenza, il giorno della risurrezione, il giorno in cui le donne cercano l’Amato e non lo trovano perché è risorto, il giorno in cui Maria Maddalena, come ascolteremo nell’Ottava di Pasqua, cerca il suo Signore tra le lacrime. Lei lo cerca nella morte, ma Egli l’attende nella vita. C’è uno sposalizio, e lo sposalizio è di per sé una benedizione, una benedizione naturale, che il Creatore ha legato all’abbraccio, all’attrazione, alla gioia di vivere insieme di un uomo e una donna. Si tratta di una benedizione intrinseca all’amore: E Dio vide che tutto quello che aveva fatto era cosa molto buona, e di una benedizione ulteriore, esterna, che rafforza la natura ferita. È questo il senso del sacramento del matrimonio, che diventa, come ognuno di voi sa, sacramento del racconto per eccellenza, la storia d’amore più importante, più grande mai vissuta, che è la storia di Cristo e della Chiesa. Una storia ancora in atto dopo duemila anni, un matrimonio ancora in piedi, celebrato nel sangue, sul letto della Croce, nel venerdì di passione, una passione intesa come sofferenza e come passione amorosa. Questa festa nuziale è il simbolo, dunque, di tutti quegli amori, di tutte quelle relazioni che iniziano con le migliori prospettive e aspettative. Basta aver vissuto un po’ di anni di ministero, anche pochi, per vedere giovani prima fioriti nel fidanzamento poi sfioriti nel matrimonio. Che è successo? come può accadere questo? Un nemico ha fatto questo, dice Gesù nella parabola del grano e della zizzania. Non era così nella mente del Creatore, del Redentore. Ed è Maria, presente a questa festa in tutta la sua maternità e femminilità, a lanciare un allarme, un S. O. S.: Non hanno più vino! Non hanno più vino, nel senso che c’è qualcosa che non va, sta venendo meno una riserva. Si sta attenuando una benedizione? No, in realtà sta sfiorendo la coscienza di essere benedetti. Non hanno più vino: È il grido non solo sulla coppia, sulla famiglia, ma anche sulla parrocchia. Ci sono parrocchie a corto di vino, di speranza, di festa. Congregazioni religiose dove si avverte la mancanza di gioia, così Diocesi. Gesù non ha assicurato che le singole chiese locali abbiano futuro, ma ha certamente assicurato che la Chiesa avrà futuro. E quindi anche le comunità diocesane possono trovarsi in difficoltà e sentire che si disperde il vino ed aumenta l’acqua, che finisce la poesia e al suo posto avanza tanta prosaicità. Questo vangelo, che sembra riguardare solo gli sposi, in realtà interpella tutte le vocazioni, chiedendo loro se sono rimaste sotto l’ombrello della benedizione o se hanno sottoposto la fede, la speranza, l’amore alle intemperie, alle

correnti, agli inverni. Ci sono anche gli inverni dell’amore, come ci sono gli inverni della fede e della comunione. Non hanno più vino!E allora Gesù cosa fa? Fa compiere un gesto inutile. Maria – ed è l’ultima parola che la Madre pronuncia nel vangelo – dice: “Fate tutto quello che Egli vi dirà”. È il Suo testamento: Siate ubbidienti, anche se vi chiede cose strane, astruse, che non hanno niente a che vedere con ciò che vi aspettate; seguite il Signore in tutto ciò che vi indica. E il Signore invita a riempire d’acqua le giare: un gesto assurdo! I servi potrebbero dire: “Ma è il vino che manca, non l’acqua. Perché ci fai attingere acqua?”. Perché Gesù non vuole mai compiere un miracolo senza la collaborazione dell’uomo. Anche nella moltiplicazione dei pani si ripete lo stesso canovaccio: se non ci fossero pochi pani… Nel vangelo di Giovanni è un ragazzo che si fa avanti, presentato da Andrea che dice a Gesù: C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo, perché i grandi i loro pani li tengono ben nascosti, le loro piccole riserve cercano di tenerle segrete al fisco della grazia. Un ragazzo, invece, è generoso di suo, naturalmente generoso. C’è qui un ragazzo. E ci siamo sempre chiesti se Gesù i pani li avrebbe moltiplicati anche ex novo, ex nihilo, come nel nostro miracolo di stasera, se il vino sarebbe sgorgato anche dal niente, da una botte vuota. Ovviamente, Gesù è in potere di farlo, ma non vuole farlo, perché Dio – dice Agostino –, che ti ha creato senza di te, non ti salva senza di te, cioè dobbiamo mettere in campo le nostre competenze, quel poco che abbiamo, quel poco che siamo, nel matrimonio, nella vita consacrata, nella vita presbiterale, nella Chiesa. I nostri bilanci sono sempre in rosso, sempre in perdita, ma è importante la nostra materia, perché il Signore possa prenderla e benedirla. Del resto, il brano non dice che Gesù abbia benedetto l’acqua. È la sua Parola che benedice, che trasforma, che è performativa. E allora la coppia in crisi, la Congregazione allo stremo, la famiglia in bilico, la parrocchia che sembra non avere futuro, la diocesi che cammina con difficoltà, sono chiamate a dare qualcosa, a mettere in campo un po’ di energie. Ma che cos’è questo? Si dice in un passo parallelo, quello che abbiamo scelto come orizzonte di questi giorni, dinanzi all’inventario dei pani: Ma che cos’è questo per tanta gente? A dire: ma forse è meglio che ci ritiriamo in buon ordine, forse non c’è speranza. Allora, vedete, la fede è proprio qui: sgorga nel momento in cui abbiamo il coraggio, la spudoratezza, se volete, di mettere noi stessi e quel poco che siamo nelle mani del Signore. E allora l’acqua diventa vino, la prosaicità torna ad essere poesia, la tristezza torna ad essere gioia, la comunità torna ad essere fervorosa, la Congregazione non ha più dove mettere le novizie, la diocesi vola con entusiasmo; ma se non c’è qualcuno che si renda disponibile, con la sua povertà, con i suoi limiti, Gesù non opera. Gesù non opererà nella tua casa, nella tua famiglia, nella tua parrocchia, nella tua Congregazione, nella tua diocesi, se tu non lo lasci agire sul tuo conto corrente, a volte così esiguo. Se tu non gli lasci la firma, se Lui non può prelevare, quel poco non renderà mai tanto. Ecco, stasera, concludendo una giornata importante, che è il 50% del cammino che abbiamo messo in cantiere, la giornata della scelta, dell’essere stati scelti e benedetti, noi riceviamo questo messaggio: non c’è grazia senza collaborazione umana. E anche tra poco, se non mettiamo sull’altare le ostie,

Gesù non viene, e un’ostia non costa niente, e questo poco di vino non è neanche valutabile, non è neanche un bicchiere, è una prima misura, ma Lui chiede che noi portiamo pane e vino, e solo allora diventeranno corpo e sangue, solo allora la Chiesa si rinsalda e la speranza torna a sventolare. Pensavo, nei tanti pensieri paralleli che mi attraversano la mente in questa giornata, soprattutto a proposito della benedizione, se uno straccio possa mai diventare bandiera. A volte una bandiera diventa uno straccio, ma uno straccio è uno straccio, eppure, se esso viene posto in alto, sul pennone di un castello, di una chiesa, di una torre, di un campanile, e il vento lo riempie, lo anima, quello straccio diventa bandiera. Ecco, questo è il passaggio attraverso la benedizione. Tante volte, nella preghiera, quando facciamo i nostri viaggi segreti ad Innisfree, l’isola sul lago, mettiamo nelle mani di Gesù il nostro straccio ed egli lo pone sul pennone più alto della Chiesa e ne fa una bandiera. È la sua benedizione, il soffio dello Spirito, il vento dello Spirito che trasforma il nostro straccio in bandiera. In questa Eucaristia tiriamo fuori i nostri panini sbocconcellati, le nostre povertà, e diciamo a Gesù: Signore Gesù, prendi il poco che sono, il molto che spero, il tutto che sei. Amen.***

3° giorno - Lodi Iniziamo, spero con gratitudine, quest’ultimo giorno pieno, per imparare a coniugare gli altri due verbi: “spezzò e diede”. Sentiamoci anche oggi dentro la benedizione, benedizione di questo mattino limpido, e però poi bisogna vedere da noi che tempo fa, ma al di là di tutto occorre sentirsi benedetti dal mattino, dalla luce che, dice padre Turoldo, “si adagia, si affaccia dolcemente sul balcone”, sentirsi benedetti dalle rondini che ci hanno salutato stamattina. Per “Ascolta si fa sera” in questo mese di marzo ho fatto un tentativo un po’ laico di parlare della primavera e del modo in cui mi sento benedetto dalla mimosa che fiorisce nel mio giardino a febbraio e che mi saluta la mattina, dalle rondini, la benedizione delle rondini, e quindi sto attento a vedere quando passa la prima, quando arriva quella della bandiera, dietro cui arriveranno le altre, mi sento benedetto dagli alberi in fiore, come dagli altri elementi della natura. Un tentativo, tra l’altro, in un minuto e mezzo, che volete che si dica? Un tentativo di leggere il libro della natura. Noi siamo a volte troppo presi dalle nostre amarezze per renderci conto che è giorno, è sera, mezzogiorno, “porpora a mezzogiorno”, diceva Yeats ieri pomeriggio. E stamattina cominciamo il nostro lavoro spirituale con il vangelo dei figli di Zebedeo, che vanno da Gesù, pieni della prosopopea della loro giovinezza: “Signore, vogliamo che tu ci faccia quanto ti chiederemo”. E anche noi, da giovani, siamo andati da Gesù, siamo andati incontro alla vita con questo desiderio di grandezza, con questi sogni di gloria, e forse ci sono ancora fra noi alcuni, pochi, che vivono questa stagione meravigliosa e terribile di un’aspettativa, propria della giovinezza. Come il mattino ha l’oro in bocca, così anche la giovinezza ha l’oro in bocca. E vorrei dire a quei pochi giovani che sono qui: non sciupate la grazia della giovinezza, di cui parla il curato di Bernanos nel suo giro in moto con l’amico, ma sarà l’ultima sua prodezza, mentre assaggia il piacere dei capelli al vento, dell’aria che gli viene incontro a forte velocità, sarà già pronto per morire. Cosa chiedete?, dice Gesù. E questa domanda è importante ogni qualvolta ci mettiamo in preghiera: cosa chiediamo? Perché siamo venuti qui agli Esercizi? Che cosa ci aspettiamo? È importante questa domanda perché, alla fine, otteniamo quello che chiediamo, e se non chiediamo nulla, se veniamo con aspettative blande, se affrontiamo la vita senza avere un sogno, fosse anche sbagliato, come quello dei figli di Zebedeo, finiamo con il non cogliere la grazia. Cosa chiedete? E i due, fieri d’aver avuto accoglienza, udienza al cospetto del re, gli chiedono i posti d’onore, a destra e a sinistra, “poter sedere nel tuo regno alla tua destra e alla tua sinistra”. E Gesù dice: “voi non sapete quello che chiedete”, cioè state dicendo una cosa della cui caratura, della cui portata, del cui prezzo non vi accorgete. Voi non sapete quello che chiedete. E neanche noi lo sappiamo quando diciamo “sia fatta la tua volontà” o quando ci siamo distesi, qualcuno di voi, dei preti, ieri nel momento che abbiamo vissuto in comune, ha detto: “Ci siamo distesi sul tappeto, che cosa sapevamo noi della vita, del mistero, dell’essere prete?”. E che cosa sapevate voi il giorno del vostro matrimonio? E che cosa si sapeva quando si era fidanzati? E

quando nacque il figlio, il primogenito, che apriva il grembo, che apriva la porta del nostro amore ad altri, che ne sapevamo? Voi non sapete quello che chiedete.E la fatica di Gesù, che è la fatica di ogni educatore, e non solo nei confronti dei giovani, dei ragazzi, degli adolescenti, è di iniziare alla difficoltà di vivere. Potete bere il calice che sto per bere? Sì, lo possiamo, rispondono. E uno dei libri di Nouwen, “La coppa della vita”, se ricordo bene, ma non ce l’ho tra le mani, penso da una ventina d’anni, riflette sui verbi della coppa che viene riempita, poi innalzata, poi bevuta, la coppa della vita, una sorta di parabola della vita. Potete bere il calice? E i due immaginano un calice d’oro, un calice tempestato di rubini e di diamanti, alla destra del re, mentre un coppiere versa vino buono, vino dolce. Non sanno che si tratta del calice della Passione. Gesù stesso chiederà che questo calice sia rimandato, quando si appresta ai giorni della Passione (sono i giorni verso cui andiamo e per i quali siamo qui a prepararci.) “Padre, se è possibile, allontana da me questo calice”. Allora vedete che il calice che essi volevano bere, e per il quale Gesù dice “non sapete quello che chiedete”, Gesù stesso avrà difficoltà a berne, “Fino alla feccia ne dovranno sorbire”, dice il salmista. E la feccia è il residuo del vino che rimane in fondo al bicchiere. Ecco, cominciamo questa giornata con l’entusiasmo, il sole in faccia, questi due giovani che eravamo noi, quando non sapevamo nulla della vita, non so se oggi ne sappiamo qualcosa, noi possiamo sempre solo balbettarne. La vita è un mistero, ma è certo, ed è l’aspetto su cui lavoreremo, è certo che è attraversata continuamente da un calice amaro da bere. E Gesù dice: “certamente il calice lo berrete”, perché, se beve il calice il Maestro, i discepoli non possono essere da meno. Certo non subito, sulle prime scapperanno, andranno via, si allontaneranno, ma poi correranno incontro al calice, lo cercheranno, alla ricerca del santo Graal, come la reliquia più preziosa della Passione.Oggi staremo in compagnia del nostro dolore e del dolore degli altri. dell’uomo dei dolori, che è Cristo che pende dalla Croce. Quando abbiamo cantato l’antifona “chi salirà il monte del Signore?” (ciascuno di noi ha i suoi appuntamenti nel Salterio) per me il salmo 23 è sempre un appuntamento con Gino (Martella, vescovo di Molfetta). Gino era un mio compagno. Ci legava una dolce amicizia, verso la casa di Dio camminavamo in festa. Gino si specchiava nel mare di Otranto. Gino, per il quale composi nel 1977, senza che lui lo sapesse, propinandogli, come ero abituato a fare all’epoca, ma anche oggi, una composizione di un altro; composi questa antifona per la sua Ordinazione, io ero ancora seminarista, due o tre anni indietro rispetto a lui, e quindi ricordo questo canto nella chiesa di Depressa, si chiamava così questo paese, vicino Tricase, dove stetti una settimana intera a fare le prove con il coro, con due canti, questo e quello di Comunione, che avrebbero solennizzato la sua prima messa. Chi salirà il monte del Signore? Chi ha mani innocenti e cuore puro. Ma chi, chi sapeva, Gino, che cosa ci aspettava, che cosa t’aspettava? Nel presbiterato io ti avrei seguito due anni dopo, nel ’79, e poi negli anni di ministero, poi nel 2001 la tua elezione all’episcopato, come successore di don Tonino(Bello), a Molfetta, e poi l’infarto. Chi lo sapeva? Tra queste date, tanti dolori. Perché vi dico questo? Perché è come se poi noi scrivessimo dei nomi, delle situazioni,

dei ricordi, in margine ai salmi, alla Parola di Dio, e, quando la scorriamo, ci tornano, riemergono, si stagliano sullo schermo. Chi salirà il monte del Signore?. E tu lo hai salito, io sono ancora affannato a mettere un piede dietro l’altro in questa difficile salita della vita, della vita e della morte, della morte e della vita. Della vita e della morte, attraversata dalle vene, dai vasi capillari, dalle arterie del dolore.Ecco, cominciamo così, perché non siamo qui per illuderci, siamo qui per prepararci ad un combattimento. “Figlio, preparati al deserto” dice un poeta slavo, amico di Erri De Luca. Credo che il compito dei genitori, degli educatori sia questo: allenare il figlio al dolore. Dammi il coraggio dell’amore, allenami al suo dolore: è una preghiera di Tagore. E poiché questa lezione è sempre nuova, e difficile anche a sessant’anni, ad ottant’anni, vogliamo cercare di balbettarla quest’oggi con l’aiuto di Dio. ***

Meditazione del mattinoIl nostro essere spezzati è unicoCanto: Io domandoPartiamo per un viaggio non facile. Ci aiuta questa giornata piena di luce, gravida di luce, a dirci che c’è una speranza. Iniziamo con il canto, che anche gli altri anni ho proposto, a cui per motivi emotivi, di ricordo degli anni ’80, sono legato. Anche questo a firma di Sequeri, che pone tante domande. Io domando. Ma che cosa si risponde a queste domande? Sono le domande della vita: perché? Perché è finito questo amore, perché si è chiusa questa porta, perché piango di nascosto, parlo con le cose, penso al mio silenzio. Quando gli “altri” son nemici, perché? quando tu rimani fuori dal mio mondo. E poi c’è questa espressione drammatica: quanto tempo si resiste nella vita, prima di desiderare che la vita sia finita. È un po’ un’espressione di frontiera, ma chiunque abbia consuetudine con la vita, la propria e quella degli altri, i pastori in modo tutto speciale, e quelli che si occupano dell’uomo a vario titolo, sanno che quest’espressione, che sembra blasfema, è dentro la vita più di quanto non si immagini. Proprio ieri vi dicevo: cercate di resistere fino alla fine, perché il finale è un gran finale, e, quando si chiude il sipario, ci sarà un’ovazione, ma prima, un attimo prima, avremo la percezione, anche nell’esperienza della morte, che tutto si sgretoli, che tutto sia inutile, che tutto sia stato inutile, e che quello che abbiamo vissuto è assurdo e che andiamo verso il nulla. L’importante nella vita è resistere. “Resistenza e resa” è il titolo della raccolta delle lettere e delle riflessioni di Bonhoeffer, durante il tempo della prigionia, perché bisogna resistere, prima di arrendersi, e l’arrendersi, arrendersi a Dio, arrendersi ad una uscita di scena, non è altro dalla resistenza, non è senza resistenza. E allora il nostro autore, il nostro teologo Sequeri chiede “io domando”, e la risposta sembra non essere una risposta. “Io ti cerco e tu sei qui”, il “tu” va in minuscolo, “Io chiedo a te, mio Dio, il senso di quello che sto vivendo, ti pongo interrogativi drammatici della mia vita e della vita degli altri, e Tu mi dici: “Guarda che anch’io ti cerco, che ci stiamo cercando insieme…”. E tu sei qui, eppure tu sei qui — dicevamo ieri —, io ti cerco, tu mi chiami e capisco che sei Tu l’incredibile speranza della vita, e non c’è, non c’è altra speranza che Te, anche se questa speranza non è coniugabile con i verbi della vittoria, ma con quelli della sconfitta. Come vedete, in questi giorni stiamo toccando punti nevralgici dell’essere uomini e donne. Punti nevralgici della vita. Io sono scelto, sono eletto, sono amato, devo celebrare questa scelta, questa benedizione. E utilizzate i vostri compleanni per questo. Alcuni hanno paura del compleanno, è il giorno più brutto dell’anno, perché ho settant’anni, ho sessant’anni, e invece bisogna celebrare l’anniversario di nozze, bisogna celebrare…, ci sono dei giorni in cui bisogna mettersi in festa per celebrare non noi stessi, ma ciò che Dio ha fatto in noi, nonostante noi. Celebrare il fatto d’esistere, che rimane una meravigliosa avventura, “meravigliosa e drammatica”, scrive Paolo VI nel suo pensiero alla morte, per cui la risposta è: io sono con te, tu sei qui, io ti cerco, tu mi chiami, cioè in questa confusione, in questa assurdità c’è un mistero, di cui avremo la password soltanto alla fine, adesso ci è chiesto di fidarci.

In questi giorni incrociavo tanti di voi, alcuni, con i quali da anni, da tempo non ci diciamo delle cose, ma poi comunque vi seguo, e so quanto sia difficile la vostra vita, più di quanto voi non diciate. E allora, mi chiedevo, incrociando Rosaria, stamattina, nei viali alle sette di mattina: ce la farà a resistere? E avrei voluto dirglielo, e adesso glielo dico con la paternità, ma anche la familiarità. Ha fatto parte, insieme con me, del gruppo del Ciao, che nella storia della comunità di Piano è una sorta di preistoria, persone con le quali sono cresciuto e con le quali abbiamo sognato, ma poi dovremmo dire, “se non è questa la vita che sognavi”, con Tenco. Non è questa la vita che sognavi. Quindi ce la farà? Ce la faremo? Ce la farai? Ce la farò? Anch’io, quando considero che se mi dovesse venire un accidenti, ho ancora davanti tredici anni di episcopato, mi angoscia, perché undici già sono bastanti. Io invidio i miei confratelli che vanno in pensione, loro ci vanno malvolentieri, voi starete pensando: “forse anche tu ci andrai malvolentieri”, ma io ogni volta faccio il tifo per loro, “beato te”, ma loro sono tristi, perché io dico: prendo il tuo posto sulla scena, facciamo un cambio. Adesso approdiamo all’essere spezzati, ed è l’immagine che avete anche sul vostro libretto, noi, seguendo la coniugazione eucaristica, dobbiamo confrontarci con questo gesto violento, perché non si spezza con dolcezza, non si spezza con una piuma, si spezza con violenza. E un pane che non sia spezzato non può essere mangiato, per cui in questo gesto abbiamo il gesto della rottura, del dolore, della solitudine. D’altra parte, tutto il ciclo del grano è all’insegna della morte. Gesù stesso dice che se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo, ma se muore produce molto frutto. Attenti, questa non è poesia, questa è vita, e “altro è parlar di morte e altro è morire”, diceva il mio predecessore quando io facevo le mie prediche infuocate sulla morte, da giovane, e lui mi seguiva, il mio predecessore parroco, con il quale sono stato ben dodici anni fianco a fianco. Quando tornavamo in sagrestia, mi diceva: “Bravo, hai fatto una bella predica, mi fai venire desiderio di morire, Arturo, quando parli della morte, però ricordati – aggiungeva – altro è parlar di morte, altro è morire”. Cos’è questo nostro essere spezzati? E allora stamattina di scena è vedere (rischiamo di farcene sommergere, ma è il giorno più difficile, pertanto può essere quello più fecondo) quel che non vogliamo guardare. Prendo spunto da quella reazione che abbiamo, almeno io ho avuto più volte nei vari interventi chirurgici, a guardare, da subito, la ferita. Chi di voi abbia subito un intervento chirurgico sa a che cosa mi riferisco. Non ne parliamo a toccarla. E quindi si ha questo progressivo avvicinamento, prima con gli occhi, che non vogliono vedere, m’impressiona vedere questa ferita, che porto, che mi appartiene, che mi ha fatto soffrire, che forse mi farà guarire. Il punto d’approdo è quando riesco a toccarla, adesso io mi tocco la spalla perché è la ferita più grossa, da un punto di vista chirurgico, che io abbia subito, ma ricordo che nei primi giorni neanche potevo guardarmi allo specchio vedendo quei perni che uscivano, mi sentivo inchiodato, e poi la paura di toccarla, e poi pian piano, adagio adagio, come fanno i bambini che si avvicinano ad una cosa proibita, ho cominciato a toccarmi, a toccarla.Vorrei partire in questa riflessione, che adesso faremo a due voci, un po’ improvvisata perché non ci siamo messi d’accordo con Raffaele, ma poi

chiedendogli anche se è possibile, perché il dolore è una cosa così intima che richiede più pudore di quanto non ne debba avere l’aspetto sessuale.Parto da una frase del salmo 89, che mi avete sentito ripetere tante volte, ma che rimane una sorta di tema della vita. Dice in una maniera molto sintetica, e apparentemente prosaica: “Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica e dolore, passano presto, e noi ci dileguiamo”. Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti. Certo, oggi un po’ è salita la soglia della speranza di vita, ma questo non significa che si è risolto il dolore e si è risolta la morte, e allora per la percezione del tempo e della lunghezza della vita ai tempi del salmista queste sono le tappe: settanta, ottanta, ottanta per i più robusti, ma quello che è più importante è di cosa sia fatta questa vita. Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, qui ci troviamo in una situazione di semplice osservazione, a dire: la vita dura tanto, ma di che cosa è fatta questa vita? Dice il salmista: la maggior parte sono fatica e dolore. Se uno non ha familiarità con questo salmo, e non lo ha recitato migliaia di volte, pensa ad una lettura pessimistica, e quindi al salmista alla stregua di Leopardi, che D’Avenia ha difeso a spada tratta nell’ultimo libro su “L’arte di essere fragili”, e di tutti quelli che nella vita sono indulgenti alla malinconia, alla tristezza, alla nostalgia, a pensieri tenebrosi, e invece è una descrizione quanto mai articolata e aderente alla realtà. La maggior parte sono fatica e dolore, e che cos’è la minor parte? Questa parte, di cui non parla il salmista, tanto questo aspetto è veramente fuggente, consiste in gioia, festa, gloria. Passano presto gli anni, e noi voliamo via, e noi ci dileguiamo, e “questa vita diventa un fumo”, dice il Qoelet, vanità. Adesso, vedete, il problema è capire se gran parte della vita è questo, se dobbiamo buttare tutto questo nell’immondizia, ma poi che ci rimane?, cioè, se gran parte si trascorre così, tra il lavoro, la fatica, “il sudore della fronte” dice Genesi, il dolore, allora scontorniamo la vita di tutta questa parte affannosa, dolorosa, per prendere la mandorla dal confetto, per dirla con un’espressione dal dialetto napoletano, ma poi ci chiediamo se questa mandorla esista senza il confetto, e se il confetto non custodisca la mandorla, non ne sia solo cornice, ma parte essenziale, e addirittura custodia, cioè voglio dire, in altri termini, che, se noi della vita dobbiamo scegliere solo il miele e buttar via il sale, l’amaro, non ci rimane niente, perché anche il giorno di festa, anche il giorno di gloria, anche la domenica, che abbiamo atteso inutilmente, “ch’anco tardi a venir non ti sia grave”, dice il poeta, alla fine svapora.Allora questa riflessione che iniziamo su “lo spezzò”, che è l’accostarci a ciò che più ci fa pena, fatica a dire, a verbalizzare, a tematizzare, a riflettere, ad accogliere, a personalizzare, questo verbo ci pone non in un aspetto epidermico di confine della vita, ma nel cuore stesso della vita, dal momento che nasciamo nel dolore. Le nostre due donne in attesa, di cui stiamo cullando i bambini, che un giorno sapranno d’essere stati ad un Corso di Esercizi e che 108 persone li hanno cullati, hanno ricamato, insieme con un vescovo folle, la loro vita, i loro corredini o corredo per la vita, quando arrivano al dunque, lo dice Gesù stesso, quando viene l’ora, entrano nella paura, perché sanno che si avvicina il dolore. È vero che oggi stiamo togliendo dolore anche al parto, facendo, dice qualcuno, un’opera non proprio salutare, dal momento che la nostra cultura, gli esperti dicono, è una cultura anestetizzata, cioè che rifugge

ogni dolore, e in quanto tale rifugge la vita. Noi siamo nati così, siamo nati da un dolore, nel dolore, e, prima che “nel peccato mi ha concepito mia madre”, salmo 50, nel dolore mi ha concepito mia madre. E tutto quello che avviene all’inizio, sapete, è paradigma della vita, e questo bambino, sempre il buon Leopardi, nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” dice che i genitori si danno da fare “a consolar dell’esser nato”. Questo bambino deve imparare il deserto. “Figlio, impara il deserto”, vi citavo questo verso a Lodi.Ecco vi do un pensiero, e poi facciamo questo dialogo dal vivo, in diretta, con Raffaele. Il primo pensiero è espresso qui nella prima frase di Nouwen:L’”essere spezzati” è un’esperienza davvero nostra. Di nessun altro. È tanto unica quanto il nostro essere scelti” e il nostro “essere benedetti”. Il modo in cui siamo spezzati è una espressione della nostra individualità, tanto quanto il modo in cui siamo scelti e benedetti. Sì, come coloro che sono Amati, anche se può suonare spaventoso, siamo chiamati a rivendicare — che verbo impegnativo! — a rivendicare il nostro unico “essere spezzati”, proprio come dobbiamo rivendicare il nostro unico” essere scelti” il nostro unico “essere benedetti”. Cosa vuol dire Nouwen? Vuole dire che il mio modo di soffrire è mio e basta, che non esistono due dolori identici, non esistono, perché non esistono due persone identiche, e non solo adesso quelli che stiamo, non so quanti miliardi, in cammino pellegrini su questa terra, ma in tutta la Storia dell’umanità, nessuno mai soffrirà come me. Che cosa voglio dire? Voglio dire che la sofferenza è un carattere identitario, una dimensione identitaria della persona, non è un incidente, ecco, per questo vi dicevo: gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, cancella questo, cancella questo, cancella quell’altro e poi non rimane più niente, anche perché poi questo dolore è mai puro?, è mai assoluto? e questo amore è mai assoluto?, e questa gioia è mai assoluta? Non è sempre un po’ abbracciata a un dolore?, e il dolore alla gioia?, per cui, all’atto in cui dovessi depennare tutti questi giorni del dolore, della fatica, non mi resta nulla, veramente nulla in mano, farei quel tentativo pedante, che vorrebbero fare i contadini nella parabola del grano e della zizzania, quando dicono: vuoi che andiamo a strappare la zizzania? Noo, dice il padrone, noo, che non vi accada di strappare insieme con la zizzania anche il grano, anche perché, all’inizio, si somigliano, non è ancora spigato il grano. Allora, quale grano?, quale zizzania? Dice un verso bellissimo di De Andrè: “Gioia e dolore hanno i confini incerti”. Fin qui c’è la gioia e poi adesso comincia il dolore, qui c’è il dolore e poi comincia la gioia. Noo. E allora è possibile rivendicare il nostro essere spezzati come luogo di grazia, come luogo di vita, come luogo epifanico dell’io? O vogliamo lasciare tutto questo… non lo voglio vedere, non lo voglio toccare, voglio divertirmi: “chi vuol essere lieto, sia: del domani non c’è certezza”, passiamo da un carnevale all’altro, da una danza all’altra, da una festa all’altra, ma anche per il Casanova verrà l’abbuiarsi, ora viene la notte, ora viene il silenzio (Casanova, sempre il buon Branduardi in un’altra opera di un po’ d’anni fa). Faccio un esempio diverso per non rendere tetra questa riflessione: Quando con i giovani ho detto in passato, in lungo e in largo, che l’importanza della nostra sessualità sta nell’aspetto identitario, no?, cioè perché non bisogna banalizzare la sessualità, come purtroppo avviene perlopiù oggi? Perché il mio modo di amare è unico e irripetibile, e io non lo posso così spargere ad ogni

dove, in ogni relazione, ebbene, vedete, l’amare è gemello del soffrire, e soffrire è gemello dell’amare. “Croce e delizia”, dicono Alfredo e Violetta (primo atto di Traviata). E quindi il messaggio è questo, e poi passiamo, forse, in una maniera più dinamica e anche più interessante, ci tenevo a sottolineare in questo momento che il tuo dolore è tuo, sembra una condanna, in realtà è come dire che il mio dolore è firmato. Firma il tuo dolore, firma la tua difficoltà, firma il tuo soffrire, perché ha un imprinting che lo contraddistingue da ogni altro dolore, da ogni altro soffrire, da ogni altra lacrima, non c’è una lacrima uguale ad un’altra, per questo il verbo eucaristico, su cui oggi ci fermiamo, “lo spezzò”, ci pone dentro la vita, non a fare una riflessione romantica sul dolore. I Romantici hanno tematizzato molto questo aspetto, ma in una maniera di auto-compiacenza, non è questo, nessuno di noi deve cercare il dolore. “I dolori del giovane Werther” ve li citavo ieri, ma accedo a questa dimensione di me, sentendo che è mia, che è santa, sacra, che è un terreno, un giardino, un grembo, una parola che io posso dire sulla scena del mondo, e questa parola nessun altro può ripeterla, e questa parola è una Eucaristia. Ecco, ora chiamo Raffaele, e facciamo un po’ questo dialogo, perché dopo, se volete, dal posto, tanto di dolori qui ce ne sono a iosa, potete intervenire anche voi. Perché chiamo lui? Perché uno psicoterapeuta, come un prete, come un medico, è accanto, è un accompagnatore, una guida turistica – spero Raffaele non senta questo termine offensivo – una guida turistica nel dolore della vita. A volte immagino che le persone ricorrano a lui, come ai medici per l’aspetto fisico, come a Rosaria: ho quest’articolazione che non funziona, un po’ di fisioterapia per riprendere l’articolazione di questa mano, di questo polso, di questo arto… A te, Raffaele, come a noi, viene chiesta una cosa impossibile. Che cosa ci viene chiesto? Aiutami a liberarmi di questo dolore. Lo chiediamo ai preti, lo chiediamo ai medici, lo chiediamo agli psicologi, agli psicoterapeuti, lo chiediamo. E questa richiesta è esorbitante, e nessuno di noi vi può rispondere, spero ne abbiate tutti piena coscienza. Allora, cosa fa questo medico della psiche, della persona (non dobbiamo mai separare troppo, siamo un tutt’uno) al bambino, perché sempre un bambino bussa alla tua porta, alla nostra porta: è il bambino che non vuole soffrire, che ha paura del buio, che chiama la mamma nella notte, che ha avuto un incubo. Cosa fa lo psicoterapeuta, secondo me?, poi magari mi smentisci. Prende il bambino e dice: adesso andiamo insieme, andiamo nel tuo dolore, andiamo a visitare questo giardino chiuso che hai sprangato, dal quale vuoi scappare, ma non c’è possibilità di scappare. Partiamo da una frase, che mi viene in mente in questo momento, del mago di Oz, in cui si dice: “Se vuoi essere felice, non cercare la felicità oltre i confini del tuo giardino”. Ecco, a te la parola, intanto parla un po’ tu, poi dopo io faccio lo speaker.Psicoterapeuta: Raffaele BifulcoMi allaccio a queste parole per portare semplicemente un’esperienza che la professione o più che il lavoro, l’attività, un’esperienza che è poi anche condivisa mi suggerisce. Nulla di particolare, quindi mi lego anche alle suggestioni di questo momento che io stesso vivo in risonanza a quelle che sono le parole di questa mattina. Il primo approccio che io ho con il dolore degli altri è sempre un approccio rispettoso e in punta di piedi. Quello che vedo spesso, molto spesso, è la difficoltà proprio delle persone a contattarlo.

L’esperienza umana più comune è quella di allontanarsi, di rifiutarlo. Quando questo accade, il più delle volte, molto spesso, c’è una conversione di quel dolore, va a finire da qualche parte. Una delle più grandi illusioni è questa, che in qualche modo si possa scansare, che in qualche modo si possa evitare. Mi viene in mente, per esempio, la grande patologia, se vogliamo definirla così, degli ultimi tempi, di cui mi ritrovo lo studio pieno, dell’ansia o delle varie forme di ansia. La domanda è sempre: Dottore, me la tolga. Mi viene in mente un maestro di alcuni anni fa, che venne a farci lezione, quando io ero appunto uno psicoterapeuta in apprendimento, il titolo della lezione era: “Debellare il senso di colpa”. Ed era molto interessante per me capire perché avesse scelto questo termine “debellare”. Ho impiegato molti anni a capire che già all’inizio mi stonava, mentre oggi l’approccio è un altro, quello che io stesso ho maturato, penso per esperienza personale in qualche modo. L’ansia parla, dalla tristezza si scivola in depressione, racconta. Gli impulsi sono l’espressione profonda di qualcosa di personale. Una delle cose che spesso faccio fare, proprio praticamente, concretamente, è di chiedere alla persona di mettere fuori dalla stanza tutta una serie di pensieri, tutta una serie di situazioni contingenti, di fermarsi un attimo, quasi come se lo studio, il setting terapeutico, chiamiamolo così, fosse quella stanza del cuore, di cui abbiamo parlato ieri, e fermarsi, non aver paura perché ci sono io, questa è una rassicurazione importante, non perché in qualche modo la mia presenza abbia una proprietà rassicurante, ma perché ha una funzione di far percepire alla persona di non essere sola, e di ascoltare profondamente cosa comunica quell’ansia, cosa racconta, cosa sta dicendo quella tristezza. Spesso le persone mi prendono per matto. Dicono: dottore, sono venuto qua, adesso esplodo, è una sensazione iniziale, non posso fare questo. Anche qui (ho osservato per anni, perché subito, al primo impatto si ha questo tipo di reazione? Perché la sensazione è di sgretolarsi, di frammentarsi, di perdersi, di finire, di scivolare in un vuoto. Se io do spazio alla mia ansia, se do spazio alla mia tristezza, ma anche tutte le patologie, chiamiamole patologie, legate alla rabbia, se do spazio a questo, mi distruggo, sprofondo in questo sentimento di annientamento, di perdita del proprio essere. In realtà è un viaggio meraviglioso, non è un infiocchettamento, io non sono uno che tende ad abbellire, è un viaggio meraviglioso, perché? Io veramente in tanti anni non ho trovato un’ansia uguale ad un’altra ansia. Spesso lo dico proprio anche in terapia, dico: Guarda, ti hanno detto che sei bipolare, ti hanno detto che sei depressa, ti hanno detto che sei un uomo con disturbo di personalità, ma se io ho dieci diagnosi di depressione, dieci diagnosi di ansia, adesso io sto dicendo questo, ma in realtà sono poi tantissime le etichette con cui le persone arrivano. Io ho dieci depressioni diverse, perché ho dieci storie diverse, perché ho dieci provenienze diverse. Come stare di fronte al dolore? Il dolore ha un meccanismo molto particolare. Verissimo quello che diceva il padre prima. Il dolore è unico. In realtà sto dicendo praticamente con altre parole la stessa cosa. Il dolore, qui c’è un riferimento scientifico, c’è questa teoria meravigliosa, molto interessante, che è quella dei neuroni a specchio, per i quali praticamente un essere umano, se si colloca, se si pone di fronte ad un altro essere umano, può sintonizzarsi sull’altro, ovviamente ci deve essere un atteggiamento, una volontà, una posizione, anche degli strumenti, strumenti umani, non tecnici, chiunque di noi può fare assolutamente questo, porsi in

relazione, in contatto con l’altro. Quando lo facciamo, se abbiamo modo, se gli altri ce lo buttano addosso, oppure siamo disposti ad ascoltare, a porci di fronte al dolore dell’altro, si crea questo meccanismo particolare che è, se possiamo chiamarlo così, un effetto alone, cioè un’espansione. Il dolore dell’altro mi arriva. È inevitabile. È inevitabile, anche se io non voglio colpire l’altro con il mio dolore, penso (per esempio, a cosa facciamo in famiglia, se vogliamo risparmiarlo alle persone care così.) È inevitabile anche se in qualche modo voglio controllarlo. In terapia succede questo, che la stanza si riempie di dolore. La stanza, ovviamente, è la stanza fisica, ma soprattutto è la cassa di risonanza appunto del terapeuta, cioè quella parte del cuore che si apre per entrare in contatto con l’altro. Si crea un ponte che si chiama “empatia”. Questo è un aspetto che mi fa dire che è meravigliosa questa avventura. Di cosa sto parlando? Il dolore di Francesca è unico. Francesca si sente sola in quel dolore. Avere qualcuno che ha desiderio, si percepisce autentico, di conoscere quel dolore, anche se non lo vivrà in prima persona, ma ha voglia di accoglierlo, di ascoltarlo, di farselo raccontare. Questo cambia qualcosa profondamente nella percezione del dolore stesso. Il dolore più atroce è quello che resta inascoltato. Quello solo. Questa è anche un po’ la cosa che cerco di fare, semplicemente, permettere alla persona di non sentirsi disgregata totalmente, completamente da quel dolore. L’altro, quindi il genitore, anche un figlio, il compagno, la compagna, l’altro, il terapeuta, il sacerdote, mi viene da dire anche alcuni insegnanti fanno questo; per esempio, a scuola si accorgono, l’altro diventa una specie di contenitore, quando la persona che soffre non ce la fa. C’è da dire una cosa: nel dolore ci sono molto spesso la confusione, il disorientamento. Questo è un aspetto fondamentale della confusione, c’è proprio questa esperienza della dispersione: cosa mi accadrà? quelle domande che poi diventano: cosa mi accadrà?, cosa faccio?, ora io sto ovviamente usando la parola dolore in maniera molto ampia. Il dolore è un’esperienza che attraversa tutte le età. Dicevo al Vescovo: sembra che potremmo cadere, scivolare nell’inganno, credere che in qualche modo ci sono delle età che sono più predisposte. Non è assolutamente vero. Esistono dei dolori specifici per ogni momento della vita. Il dolore dell’infanzia, ci sono delle forme particolarissime di dolore, di esperienza di sofferenza appunto quando siamo bambini. Esistono dei dolori estremamente specifici dell’adolescenza, legati appunto ad una identità, che non è bambina, non è adulta, in trasformazione, è costantemente in confronto agli altri. Il dolore del crescere, il dolore del diventare adulti, il dolore della maturità, un dolore della senescenza, il dolore della morte, quella degli altri e la propria. Vescovo Arturo: Faccio una domanda, e dopo facciamo un intermezzo, che però è dentro il tema. Il mio dolore e il dolore dell’altro. In che maniera questi due dolori possono parlarsi? Ti chiederei come nell’esperienza di terapeuta il dolore dell’altro guarisce il tuo dolore e viceversa, quindi, senza quella separazione asettica, ma pur con quella cassa di risonanza importante, perché non avvengano confusioni tra dolori. Quindi il mio dolore fisico, psichico, da assenza, e il dolore dell’altro. E poi ti chiederei, Raffaele, qualcosa sul dolore del cuore, come un luogo, l’amore, un luogo sorgivo del dolore, perché tante esperienze dolorose sia nell’infanzia sia nell’adolescenza sia nella maturità sia

nella età anziana, tanti dolori nascono da questa matrice, non sentirsi accolti, non avere un interlocutore, un’interlocutrice, non sentirsi compresi.Risponde il terapeuta.Mi vengono in mente tante di immagini, mentre mi viene chiesto questo. La prima. La grande conquista per me è stata quella di pensare, di superare l’idea di essere tecnicamente preparato, al meglio delle mie possibilità. Un elemento biografico mi ha portato a superare tutti gli esami sempre con il 30 e lode, tutte le specializzazioni possibili e immaginabili, tutti gli autori emergenti e storici, e questo mi ha portato a pensare che in qualche modo fare questo era un modo di rispettare l’altro e fare al meglio questo tipo di professione o di vocazione, se possiamo chiamarla, se la parola non è troppo azzardata. In realtà, la grande conquista è stata quando, lavorando su me stesso, sui miei dolori, ho capito che quelli erano il più grande strumento a disposizione per lavorare, contattare, accogliere, guidare, ascoltare e comprendere, aiutare qualcuno che soffre. Questo è assolutamente necessario. Non è uno slogan. Mi viene in mente l’immagine di un caro maestro, che mi disse: “Non c’è nulla da fare, devi aver navigato i mari più tempestosi e neri, e devi aver superato i mulinelli, devi aver superato le tempeste che abbattono la nave, per poter poi pensare in qualche modo di poter aiutare qualcuno a fare quella strada, andar per questi mari”. Cosa sono queste acque nere? Cosa sono queste tempeste e questi mulinelli? Sono appunto le esperienze di ferita, le esperienze di dolore, i bisogni non visti, inespressi, i dolori che appunto il sacerdote, una madre, un padre, un compagno, una moglie, un figlio, uno psicoterapeuta ha vissuto in prima persona. Per accostarsi ad un dolore bisogna avere presente i propri. Bisogna aver visto i propri, conosciuto i propri, “lavorato sui propri”. E questo è una condizione assolutamente necessaria per evitare le confusioni. Qui adesso vi dirò un elemento un po’ tecnico, ma sta nella domanda, quindi in qualche modo è importante che io dia questo, penso che è importante che io dia questo elemento. Credo di aver visto, di aver osservato tanti tipi di atteggiamenti nei confronti dei dolori. Sì, chi lo evita, e quindi anche chi, per esempio, faccio degli esempi pratici, cerca amici con cui divertirsi, compagnie con cui stare bene, e quindi la scelta di quella ragazza, quella fidanzata perché è leggera, è simpatica, ci posso fare un viaggio, perché abbiamo degli elementi in comune, quindi anche delle scelte di vita, in termini di persone della famiglia che si evitano, con cui vado più o meno d’accordo, e la fidanzata, il fidanzato, il tipo di lavoro anche, il tipo di compagnia che si frequenta, tutto è incentrato su una vita leggera, felice, ma non è raro in determinati ambienti individuare anche persone che hanno una specie di sensibilità al dolore, come se in qualche modo lo cercassero, ne fossero un po’ attratti, c’è una predisposizione a compatire, ad ascoltare, ad avvicinarsi. Sono cose comprensibili, umane, a meno che non diventino uno stile, uno stile è una cosa diversa, cioè la prevalenza o addirittura l’esclusiva modalità di entrare in relazione con l’altro. So entrare in relazione con l’altro sul canale della gioia, del divertimento, della leggerezza, o so entrare in contatto con l’altro sul canale della empatia dolorosa. Non so se questo in qualche modo ha a che fare con l’esperienza vostra, anche di qualcuno che avete osservato, questo andare a cercare il dolore per sentirmi profondamente meno solo, curare, avvicinarmi a quello dell’altro, per sentirmi meno solo, per alleviare il mio, oppure avvicinare gli

altri appoggiandomi, portando il mio dolore, ma dov’è l’elemento anomalo? Quando non se ne viene mai fuori, quando l’altro è visto in funzione della consolazione o dell’ascolto anche ripetitivo di quello che vivo. O questa forma in qualche modo di aggancio al dolore dell’altro, come una specie di missione o che in qualche modo mi solleva, mi allontana dal fatto di contattare il mio. Non è tanto raro, non è tanto raro questo, ed ecco quelle che sono in qualche modo le confusioni, legate al dolore, all’esperienza di dolore. In che modo questo diventa problematico? Diventa problematico perché si perde il carattere identitario del chi sono io e chi sei tu. Qual è il punto di incontro? Provate ad immaginare metaforicamente come se io e l’altro fossimo due sfere che si avvicinano, cioè un punto di contatto, che è quel punto in cui una persona incontra l’altra, e appunto entriamo in contatto su dei punti in comune. Generalmente per via di una condivisione, di una progettualità o di un’empatia. Quello di cui vi sto parlando è la cosiddetta sovrapposizione, provando ad immaginare, metaforicamente, due sfere che in qualche modo si sovrappongono l’una all’altra e si crea un’ampia zona di mezzo in cui c’è una confusione tra chi sono io e chi sei tu, qual è la mia storia, qual è la tua storia. Lì si crea un meccanismo, tecnicamente lo chiamiamo proiezione, o una proiezione identificativa ancora peggio, mi identifico nella storia dell’altro, nel dolore dell’altro, nel percorso dell’altro: io sono come te, tu sei come me. Questo è un meccanismo psicologicamente molto pericoloso, perché è un meccanismo che ha la funzione fondamentale di scansarci dall’esperienza della solitudine. Il dolore quindi spesso è strumentalizzato. Io mi prenderò cura di questo tuo dolore, messaggi impliciti, non detti spesso chiaramente, o tu ti prenderai cura del mio dolore, ed è una camminata tra zoppi, dove il più delle volte bisogna stare molto attenti, c’è una collusione di bisogni, una confluenza di bisogni personali, profondi, e dove poi sostanzialmente si fanno dei grandi pasticci. E così che si formano anche delle relazioni profondamente patologiche, disfunzionali, perché c’è la proiezione sull’altro, che “l’altro” mi farà stare meglio, che l’altro mi salverà, che l’altro mi comprende, grazie all’altro, io eviterò profondamente quel tipo di esperienza di dolore che in qualche modo non voglio più provare.Interviene il Vescovo.Quest’esperienza di cui sta raccontando Raffaele è plasticamente espressa nel tentativo di salvare uno che stia affogando, che ti si aggrappa addosso, e finisce con il far colare a picco anche il salvatore. Questo succede nella vita familiare, nella vita affettiva di qualsiasi caratura. Ti chiedevo qualcosa di specifico, e poi continuiamo dopo, su questo dolore affettivo, cioè quindi la patria, l’amore, come patria del dolore, perché ad un figlio, che si innamori per la prima volta, un genitore deve dire “buongiorno dolore!”.Intervento del terapeuta.In realtà stavo pensando appunto questo. Quello che cercavo di descrivere è esattamente proprio così, l’altro che in qualche modo viene anche strumentalizzato, rispetto al proprio dolore o rispetto alle proprie sofferenze, rispetto a quelli che sono i tracciati fondamentali della propria vita, per evitare il dolore. Da dove nasce il dolore fondamentalmente, il dolore esistenziale? Ci facevamo questa domanda: qual è la differenza tra un dolore che è propriamente patologico e un dolore esistenziale, umano, intrinseco alla

condizione umana. E credo che il tema dell’amore sia assolutamente un tema principe, e lo possiamo vedere da due angolazioni: quando mi innamoro, quindi da adolescente, piuttosto che da adulto, oppure nell’esperienza primaria di amore, quando sono proprio piccolo. L’esperienza di dolore primario, che noi facciamo, la facciamo quando siamo estremamente piccoli, quando sperimentiamo che nostra madre è imperfetta. In qualche modo tutte le mamme sono imperfette, ma sono imperfette rispetto al fatto che arrivano cinque minuti dopo, quando abbiamo cominciato a piangere perché abbiamo fame, e questo è l’esempio più banale, finché è pronto il latte, io ho già pianto cinque minuti, e quindi non è stato istantaneo, il mio bisogno non è stato immediatamente capito e soddisfatto. Voi capite che è così, è un’esperienza che abbiamo fatto tutti, e sto dicendo la cosa più semplice rispetto a tanti e tanti modi in cui la madre o il padre, o chi si occupa di un bambino in qualche modo porta un’umanità sempre limitata. Il dolore nasce da questo tipo di percezione, l’incostanza dell’altro, l’assenza dell’altro, l’incapacità dell’altro di sintonizzarsi esattamente su quello che provo, che voglio. Questo lo sperimentiamo appunto nella maternità e nella paternità che riceviamo. Incostanza, incoerenza, il fatto di essere forzati noi quando abbiamo un bisogno di essere diversi da come ci stiamo manifestando. Gravano nelle prime ferite della vita le aspettative di un mondo, che non prende forma intorno a noi, ma che ci chiede di prendere forma intorno ad esso. Queste sono le ferite primordiali. Le ferite proprie dell’io, le ferite di quello che io sono, non vado bene, mi devo modificare. Se ci pensate fondamentalmente l’educazione è questo, è un dare forma, e non è un principio sbagliato, ma lo diciamo da adulti, quando ci siamo trasformati. Anche se questo è inevitabile, anche se è molto costruttivo, anche molto utile, in qualche modo è una ferita, capite che siamo continuamente dentro le ferite, e generalmente chi si prende cura di noi ci ama, noi sperimentiamo che nell’amore viviamo la ferita, viviamo l’attesa di qualcuno, che ci dà, ma ci chiede, viviamo l’aspettativa di chi ci punisce, ci castiga, ci rifiuta, ci abbandona. Sto dicendo una cosa molto semplice: se non fai questo, non avrai quello. Metodi educativi tradizionali, che penso abbiamo sperimentato veramente tutti, dell’assumere un atteggiamento distaccato, perché ti sei comportato male. Questo lo decodifichiamo nella nostra mente come rifiuto. “Ti lascio da nonna, me ne vado”, lo viviamo come l’abbandono. Questo crea, quando siamo molto piccoli, un danno neuro-psichico, che crea la predisposizione ad una vulnerabilità, ad una vulnerabilità proprio psichica, rispetto ad un determinato tipo di emozioni spiacevoli che non vogliamo più riprovare, le impariamo, ognuno di noi ne impara alcune specifiche, la rabbia, la tristezza, la paura, il disgusto, e vogliamo assolutamente evitarle e incentriamo le prime nostre esperienze di vita per evitare quelle, ecco perché ognuno di noi ha dei percorsi. Ci organizziamo tutta l’esistenza in funzione delle cose che vogliamo, vogliamo sperimentare, e sono per noi quel percepito di felicità, di gioia, di serenità, di benessere, e quelle che invece vogliamo assolutamente evitare. Ognuno di noi ha qualcosa di particolare, alcune cose in particolare che assolutamente vogliamo evitare. Costruiamo tutta la nostra personalità, tutto il nostro comportamento in funzione di quello. Arriviamo all’esperienza d’amore da adolescenti o da adulti. C’è dentro quella storia, ci sono dentro quei passaggi, quei percorsi neuronali, quei tracciati, ci sono quelle esperienze, ci sono

quelle emozioni specifiche. Questo lo viviamo, incredibilmente è stato anche un motivo per me di grande pena, di grande sofferenza in come immaginiamo Dio, perché profondamente è una costellazione di immagini prodotte rispetto a come io sono, a come è l’altro, a come è il mondo, ma come è l’altro è anche come è l’altro, l’Altro con la A maiuscola. La nostra esperienza umana, la nostra esperienza di amore, la nostra esperienza di relazione segue i solchi di questo tipo di esperienze primarie, fondamentali, che poi nella vita, si spera, se abbiamo degli incontri fortunati si modificano, altrimenti ci scavano e ci segnano ancora di più. Voi capite quanto è importante capire il proprio dolore, riconoscerlo. Voi capite quanto è fondamentale sapere la mia provenienza, guardare la mia storia, non solo per evitare le confusioni e le proiezioni, ma anche come paracadute, rispetto alla storia d’amore che andrò a costruire, nella quale io collaboro per reiterare quello schema copionico negativo oppure in cui mi apro a qualcosa, ad una storia che può essere costruttiva, liberante. Mi viene in mente proprio un’esperienza tipica appunto dell’esperienza terapeutica, del percorso di terapia. La coscienza di sé, il lavorare su queste immagini interiori, le ferite del proprio io, dell’altro, delle relazioni, è un campo preziosissimo, proprio per riuscire a tendere la mano, stando non nelle sabbie mobili con la persona, ma puntando i piedi su una terra ferma, solida, per poter poi aiutare a tendere una mano alla persona, risucchiata nelle sabbie mobili dei propri vissuti. Un’immagine che appunto vi restituisco è fondamentalmente legata all’esperienza di confine del dolore. Il dolore dell’altro è un dolore che riaccende il nostro. C’è una fenomenologia del dolore. Il dolore è fatto di piedi che tamburellano, di occhi che strizzano, di lacrime, di visi contratti, di tensioni muscolari, di mascelle tese, è fatto di tante cose, e questo mi arriva. Il dolore è fatto di parole brutte, di racconti tetri, di immagini senza speranza. E questo evoca i miei mostri, mi fa da risonanza. Se io non ho lavorato, in qualche modo non ho capito il mio dolore, non ho capito che senso ha il mio dolore, non riesco a comunicare niente, se non solo un ascolto sterile.Ecco qual è il passaggio. Ogni dolore, a cominciare dal proprio, deve avere un senso. Nasce da una relazione ferita, da relazioni ferite, perché noi soffriamo nelle relazioni, e nella relazione noi possiamo sperimentare una modalità sana, costruttiva, felice, d’esperienza. Questo è il senso con il quale io mi affaccio sulle vite degli altri. Questo è anche un po’ quello che vi voglio comunicare, voglio condividere. Una relazione sana, un rapporto costruttivo, un esserci in maniera non proiettivo, non collusivo, non confluente, ma arricchente, solido, autentico, è il modo per aiutare la persona a sperimentare una nuova forma di relazione, a interiorizzare che esistono modalità, esperienze costruttive, sane, arricchenti, felici, di relazione, che partono appunto dalla condivisione del dolore per fare un altro tipo di percorso. L’altro è una risorsa, e soprattutto questa è la base affinché in qualche modo la persona possa capirsi e trovare il senso, un senso globale. E la dimensione noetica è fondamentale: prima appunto ci diceva il padre qual è il senso, la cosa terribile che fa impazzire è: tutto questo non ha senso. Ma in realtà che cos’è il senso? Il senso lo scopriamo o lo attribuiamo? E qui c’è tutto un tema enorme. L’importante è che in qualche modo sia un percorso verso un significato, perché nel significato sperimentiamo appunto il fatto di poter ricomporre i pezzi frammentati di un’esistenza che, senza quel filo, non sta insieme.

Vescovo ArturoCi fermiamo qui per ora e dopo farò un’altra domanda. Ovviamente questo non è un convegno, per cui: avrei da dire una cosa a…? no, adesso dialoghiamo noi due. C’è sul piano didattico un termine, si chiama “ipertesto”, chi insegna lo sa. L’ipertesto è la possibilità di accedere a un significato attraverso moduli espressivi diversi, allora qui ce n’è uno e ci sta accompagnando da stamattina, ed è Gesù che spezza il pane, o il prete che spezza il pane, è l’immagine dello spezzare, poi c’è il canto Io domando, poi c’erano i figli di Zebedeo stamattina, che volevano i posti, e Gesù dice: “potete bere il calice?”. E adesso c’è Maurizio, che ci aiuta, io abbasso le luci. Questa è una mattinata un po’ difficile, con Schindler’s list, io nemmeno ho visto il film, però io i film li apprendo dai racconti a tavola, con una lista di dolori o di persone da salvare. È proprio un atto umano dare un valore, cioè solo noi lo possiamo fare, solo l’uomo può dare significato a ciò che è accaduto, fosse anche la cosa più ingiusta.Al violino: Maurizio Aiello ***

Meditazione-aperitivo Il dolore accarezzatoCanto: Io domando(Auguri di buon compleanno a Sr Annalie. Spero che questa giornata sull’”essere spezzati” sia per lei un grande dono. Grazie a Nello, che vi ha fatto avere in fotocopia le puntate di Ascolta si fa sera, tentativo di leggere una sacramentalità della primavera). Siamo nel cuore della vita, siamo dentro la nostra esperienza, dentro la vita dei bambini, degli adolescenti, degli adulti, degli anziani, dentro la vita che si spezza, la vita dell’amato, perché i primi due verbi non abbiano ad essere recepiti in una maniera privatistica, egoistica, quasi: “io sono l’eletto, sono il più bello di tutto il reame, sono il benedetto”. Il terzo verbo viene a dirci che tutto questo è in vista di un bene, che va al di là di te, di una vita benedetta, ma che poi viene spezzata, e che sanguina all’atto in cui è spezzata, che si addolora. E tra l’altro questo paradigma dell’“essere spezzati” è un paradigma che va tra l’altro ben oltre la nostra esperienza umana, e riguarda il cosmo intero. Pensate a Romani 8, a firma di Paolo: “la creazione stessa geme e soffre nelle doglie del parto”, a dire che siamo in una partenogenesi delle cose, degli alberi, degli animali, dei minerali, però l’uomo è l’unico che può dire “io soffro”, ed è l’unico nella sinfonia del creato che può dare significato. Già Epitteto nell’Antica Grecia e Marco Aurelio nella tradizione latina dicevano che non sono le esperienze a formare l’uomo, ma la direzione che l’uomo sceglie di dare alle sue esperienze. Questo lo diciamo in margine a quell’adagio che, purtroppo non detto ma realizzato, è alla base del comportamento delle persone, e non solo giovani. Bisogna accumulare esperienze! Ma questo non serve a nulla. In questo senso tutto un filone terapeutico, e già ve ne avrò parlato qualche altro anno, insiste sull’importanza di scrivere la propria biografia, un’auto-biografia, come luogo di guarigione, perché, e noi agli Esercizi facciamo questo, eh, tu possa rivisitare il tuo passato ed assumerlo dando dei nomi a ciò che hai vissuto, altrimenti non c’è significato. Questo è il grande compito umano: dare significato, anche a questa dimensione dell’“essere spezzato”, che fa parte della nostra vita in una maniera preponderante, in maggior parte fatica e dolore. E non vorrei perderla questa parte, pena decurtare la mia vita di gran parte dei miei giorni. Andiamo a pagina 10, e siamo al secondo messaggio. Il primo lo abbiamo vissuto con tonalità emotiva – lo dicevo poc’anzi a Raffaele – molto forte, e questo mi dà la certezza che resterà per sempre. E quale era questo messaggio? Il messaggio è che il dolore non solo ti appartiene, non solo fa parte della tua vita per gran parte dei tuoi giorni, ma è un luogo identificativo, un luogo di conoscenza di te: tu solo soffri in una certa maniera.Il secondo messaggio è quello cui dedichiamo adesso questa mezzoretta, e poi il lavoro del pomeriggio, prima di rincontrarci, ed è espresso nella seconda parte della frase, estrapolata da Nouwen: “La prima risposta alla nostra fragilità è allora affrontarla direttamente e favorirla”. Beh, già favorirla richiede uno sforzo ulteriore, per certi aspetti mentalmente assurdo. Questo

può sembrare del tutto innaturale. La nostra prima più spontanea risposta alla sofferenza è quella di evitarla, tenerla a distanza, ignorarla, aggirarla o negarla”. Queste sono le reazioni istintive. “La sofferenza, sia fisica, mentale o emotiva è quasi sempre sperimentata come una sgradita intrusione nelle nostre vite, qualcosa che non dovrebbe esserci. È difficile, se non impossibile, vedere qualcosa di positivo nella sofferenza; deve essere allontanata a tutti i costi”. Questa è la reazione umana. Ma adesso, a che cosa approdiamo? In qualche maniera questo è già accaduto sul piano emotivo, ora lo dobbiamo chiarire anche in una dimensione cognitiva. “Sì, dobbiamo trovare il coraggio – attenti che queste sono parole pesate, eh, – di abbracciare il nostro “essere spezzati”, fare del nostro più temuto nemico un amico e rivendicarlo come un compagno intimo”. Attenti che qui siamo al limite della patologia, però, come tutte le cose vere si è sempre sul confine: “Fare del nostro più temuto nemico un amico e rivendicarlo come un compagno intimo”. Sono convinto che spesso la guarigione è difficile perché non vogliamo conoscere il dolore. Nonostante questo sia vero per ogni tipo di sofferenza, lo è particolarmente della sofferenza che proviene da un cuore spezzato – quindi la sofferenza emotiva, affettiva –. L’angoscia e l’agonia che derivano dal rifiuto, dalla separazione, dall’abbandono, dall’ingiuria e dalla manipolazione della emotività, servono solo a paralizzarci quando non possiamo affrontarle e continuiamo a fuggire da loro. Quando, nella nostra sofferenza, abbiamo bisogno di guida, deve essere innanzi tutto una guida che ci conduca più vicino al nostro dolore, e ci faccia capire che non dobbiamo evitarlo, ma che possiamo favorirlo. Lavoriamo brevemente intorno a questa concettualità. Innanzi tutto, vedete, il dolore è segno di vita, perché quando non soffriremo più, saremo morti. Parlo del dolore fisico, ma anche delle altre dimensioni di dolore, cioè dire che il dolore faccia parte della vita è già un passaggio, ma dire che il dolore favorisca la vita è un passaggio ulteriore. In che senso favorisce la vita? Perché la allarma, per esempio, parlo del dolore fisico. Voi sapete che esistono delle malattie asintomatiche, che sono le malattie più gravi, perché all’atto in cui si manifestano è troppo tardi. Ma come, non sentivo nessun dolore! Sì, certo, è proprio questo che ti ha fregato, non sentire dolore. Ci sono dei bambini che nascono con una soglia bassissima del dolore, bassissima o altissima, a seconda di come lo si voglia guardare, e sono quelli più a rischio, possono bruciarsi perché non sentono dolore, possono ustionarsi perché non sentono che l’acqua bollente fa male, cioè vedete come il dolore è una spia della vita, e se questo che è chiaro sul piano fisico, eh, sul piano fisiologico è chiarissimo. Il dolore è amico, perché ti dice: “attento”, perché ti dice: “devi andare dal medico”, perché ti dice: “ti devi fermare”. Questo concetto allargato riguarda ogni forma di dolore. Quindi ogni forma di dolore è dentro la vita, più che un nemico della vita. E quando a questa prima visione, a cui potrebbero aderire anche gli atei, noi aggiungiamo il passaggio di una amicizia con il dolore, allora siamo ancora più dentro al messaggio di Gesù, più dentro a quello che intendeva dire Francesco d’Assisi, quando parla della morte-sorella. Non è una poesia, sapete, eh, non è una edulcorazione della morte, sorella morte, ma è il cambio di prospettiva, dove la morte, da tutti temuta, è in qualche maniera addomesticata da Francesco, che ha raggiunto un altissimo grado di santità e di sapienza umana, al punto d’invocarla, di

relazionarsi con essa, senza mettere l’armatura, che pure aveva indossato per i suoi tentativi di campagne militari da giovane. Ecco lo sforzo, ed è veramente uno sforzo che dobbiamo fare, altrimenti l’”essere spezzati” rimane una cosa esterna, lontana da noi. Bisogna capire come ci sia una pedagogia del dolore, e come ciò che mi ha fatto soffrire sul piano fisico, psichico, affettivo, dell’assenza, della incorrispondenza, dell’abbandono (qui ci sono tante persone o vedove o abbandonate o madri che hanno perso figli, quindi una platea di drammi) finché questo evento, questo vissuto, questo dolore non è guardato, toccato, accarezzato, preso per mano, rimane un nemico e fa male, perché un dolore può anche far bene, se è un dolore di crescita, e ogni dolore, alla luce di Romani 8: “la creazione che bolle, come le viscere di un vulcano”, ogni dolore fa bene, ogni dolore nasconde un tesoro al suo interno, ma tu ne sei impaurito, come nel “Racconto dei linguaggi”, che il monaco tedesco ci riporta. Se tu hai paura dei cani, allora ti allontani perché pensi che possano azzannarti, (credo sia una fiaba dei Fratelli Grimm) ma se tu superi la paura e riesci ad ammansire i cani, scopri che stanno a custodia di un tesoro. Detto così sembra una poesia, una teoria, una malattia, quasi diventare amanti del dolore, ma uno che ami il dolore, non è una persona equilibrata, eppure su questo confine si pone il nostro “essere spezzati”. Dice Nouwen: “La guarigione è difficile perché non vogliamo conoscere il dolore”. E se tu non parti, non conoscerai nuovi mondi, se tu non ti lasci alle spalle la casa: “Ascolta, figlio, guarda, porgi l’orecchio, dimentica la casa di tuo padre (salmo 44)”, non conoscerai lo sposo, non avrai figli, posterità, resterai un albero infecondo, un vicolo chiuso, dice Erri De Luca di sé e del suo sangue e del suo sperma, un vicolo cieco della vita; ma se io non ho il coraggio d’assumermi la responsabilità, il dolore del distacco (il dolore è anche il dolore del distacco dalla propria famiglia, dal proprio ceppo, dall’albero genealogico in qualche maniera) non andrò da nessuna parte, non conoscerò me stesso, e non conoscerò il mondo. Come sia possibile fare di un nemico un amico? È espresso chiaramente nell’immagine a pie’ pagina, pagina 11, delle mani del Risorto. Il Risorto, nelle apparizioni, si presenta sempre con i segni della Passione. Non sono guarite le sue ferite, magari saranno luminose, ma ci sono sempre; le piaghe alle mani, ai piedi, al costato diventano un particolare identificativo. Se il Risorto si fosse presentato ai discepoli completamente guarito, senza piaghe, non lo avrebbero riconosciuto, perché non ci sarebbe stata continuità, e invece la Pasqua è questo, noi l’abbiamo meditato due anni fa in questa sede, l’unica volta in cui abbiamo fatto un Corso, non essendoci posto durante la Quaresima, nel Tempo pasquale, e ci fermammo sui discepoli di Emmaus. E la parabola (parabola intesa come itinerario) dei discepoli di Emmaus è proprio questa: due persone che stanno scappando dal dolore, dalla delusione, dalla crisi d’abbandono, e che vengono ricondotte nel centro del loro dolore con “oportebat”. Ricordate? “Era necessario”. Era necessario? Ma era proprio necessario? Non si poteva trovare un’altra strada? È Gesù, psicoterapeuta del cuore, della vita, dello spirito, della Storia, che conduce per mano questi due, proprio là dove, proprio là da cui stanno scappando. “Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti. Non bisognava, non era necessario che il Cristo subisse queste cose per entrare nella sua gloria”, incominciando da Mosè e da tutti

profeti, spiegò loro ciò che si riferiva a lui in tutte le Scritture. Allora le sue mani piagate sono un dolore trasfigurato, un dolore transfinalizzato, un dolore che è rimasto dolore, ma che adesso è guardato, come dice don Tonino Bello, non come ferita, ma come feritoia, attraverso cui guardare il mondo presente, futuro, passato.Torniamo ad Yeats, che quest’anno è stato il nostro poeta di riferimento. Faremo un viaggio in Irlanda per riscoprirlo con “il mantello, la barca e le scarpe” nello stesso lavoro di Branduardi. È un dialogo con il dolore. Lo ascoltiamo nei versi, grazie di nuovo a Katia, e poi nella versione di Branduardi. Il mantello, la barca e le scarpe(Yeats)Cosa stai facendo di così bello?Cosa stai facendo di così lucente?Faccio un mantello per il Dolore:bello a vedersi io lo faròagli occhi di chi lo guarderà...un mantello per il Doloreagli occhi di chi lo guarderà.Cosa costruisci, dandogli vele?Dandogli vele per volare?Costruisco una barca per il Dolore:chè giorno e notte veloce sui marivagabondo il Dolore va...tutto il giorno, tutta la notteil Dolore se ne va.Che cosa tessi con quella lana?Con quella lana così bianca?Tesso le scarpe per il Dolore:silenzioso sarà il suo passoall'orecchio di chi lo ascolterà...leggero il passo del Dolore,improvviso e leggero.Qui siamo in un sound più vicino alla contestualizzazione irlandese, a differenza del largo di ieri un po’ più romantico. Qui, da un punto di vista musicale, stiamo in una sorta di country Nord-europeo. Il mantello, la barca e le scarpe. Diciamolo con un solo verbo: vestire il dolore. Il vestito non è indifferente. Vestire il dolore a lutto?, vestire il dolore con colori primaverili? È bella questa contrapposizione tra quello che stiamo dicendo e la giornata luminosa che il Signore ci dona, il lago a portata di mano, un vero specchio del principe, come ci siamo detti gli altri anni. “Cosa stai facendo di così bello?”. Si dice ad una donna che sta tessendo. Per chi stai facendo questo mantello così lucente? Così luminoso? Per un principe?, per il re?, per il tuo amato? “Faccio un mantello per il Dolore: / bello a vedersi io lo farò”. Il mantello? Il dolore? Vedete qui c’è una voluta

equivocità sul complemento oggetto, cioè faccio questo… Bello a vedersi il mantello perché elegante?, bello a vedersi il dolore, per chi vi poggerà lo sguardo? La seconda immagine è una barca con le vele. Che cosa costruisci? Cosa stai inchiodando? A cosa serve questo fasciame? E questa vela bianca? Faccio una barca per il Dolore, che deve navigare. E il dolore deve navigare, e, man mano che naviga nei nostri anni, prende sempre più significato. Un dolore non deve restare ancorato in un posto, in un angolo, in un tempo, ma è un dolore in continua metamorfosi, deve camminare, deve vivere, deve crescere, deve diventare grande. “giorno e notte veloce sui mari / vagabondo il Dolore va…”, e bussa e chiama e reclama.“Che cosa tessi con quella lana? / Con quella lana così bianca?”. Siamo in Irlanda, l’immagine è della lana, tratta dal gregge. Siamo in un ambiente dove, forse, la sera si mettono le babbucce di lana perché fa freddo, ma queste scarpe per la notte, con la lana così bianca, sono per il Dolore che arriva piano, in punta di piedi, con passo leggero.Ecco, sempre nel tentativo di fare sintesi, pensando a questo momento, sono tornato a Yeats e a Branduardi, che me lo fece conoscere all’epoca, con questo testo così strano, è nella letteratura, dove un dolore diventa un dolore da vestire, dove il dolore piange come un bambino e chiede d’essere preso in braccio. Ma se prendo in braccio il dolore, mi può ferire, ma ti ferirà ugualmente, solo se tu lo prendi con amore, se lo vesti, se gli costruisci una barca, gli fai delle babbucce di lana perché si riscaldi, un mantello perché non abbia freddo, questi gesti di amore trasformeranno il tuo dolore. Mi sono sempre chiesto, e concludo, come mai nei vangeli Gesù più volte agli storpi guariti dice: “Prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua”. Il lettuccio è la barella, su cui gli storpi vengono adagiati, mentre fanno i mendicanti alle porte del tempio, in un crocicchio, in un angolo della strada, ma perché questo comando: prendi il tuo lettuccio? Oggi diremmo: perché altrimenti bisogna fare una richiesta al Comune, perché è difficile riciclare una barella, perché forse c’è un po’ d’amianto? No, semplicemente: porta sulle spalle quello che prima hai trascinato a stento. Allora mi sono anche chiesto: ma poi queste persone sono state veramente guarite? E la risposta è: sì e no. Sono state guarite a volte più in profondità di quanto chiedessero, e sono state guarite più in profondità all’atto in cui mettono sulle spalle, cioè portano con sé il loro dolore. Come trofeo di vittoria? Come una croce da portare, accarezzandola?Ecco riascoltiamo ed andiamo a pranzo.Il mantello, la barca e le scarpe (Yeats-Branduardi)Andiamo a mangiare pane e sale, pane e dolore. Buon appetito!

Meditazione pomeridianaCelebrare il dolore per renderlo amicoCanto: Troppo perde il tempo Può darsi che per qualcuno sia nuova questa lauda di Jacopone, che è in tema con quello che stiamo ricevendo, e non da me, in questi giorni, soprattutto con quello che ci ha interessato questa mattina e questo pomeriggio, cioè la possibilità che l’amore tolga segno negativo al dolore. Ovviamente qui siamo sulle vette della mistica. Jacopone da Todi, un frate anche perseguitato, un uomo importante nella sua città, un uomo sposato con una donna bellissima, che tutti gli invidiavano. La moglie di Jacopone tutti la volevano alle feste, tutti volevano stare nell’alone della sua bellezza. Questo ovviamente prima della conversione o prima della svolta radicale, e poi il giorno in cui Jacopone non ha accompagnato sua moglie precipita il solaio della stanza, della sala dove si sta svolgendo un ballo, un banchetto e questa donna bellissima muore, ma quale è lo stupore di Jacopone, incredulo, quando sotto le vesti meravigliose, intessute d’oro e d’argento, le vesti di broccato, scopre che sua moglie portava un cilicio, quasi a mortificare, a ridurre, a bilanciare la beltà, si sarebbe detto in altri secoli, che la rendeva attraente. E dunque la scoperta da parte del marito che la moglie, bellissima e invidiatissima, era penitente, oltre la morte, oltre al dolore della morte, porta un dolore ulteriore, che è quello di non aver compreso la statura morale di sua moglie, e allora fa quello che il poeta slavo qui ci dice: e se non possiamo più passeggiare abbracciati sul ponte del Reno, facciamolo almeno in questa poesia. E la poesia diventa la conversione e l’abbandono del mondo da parte di Jacopone che, da giureconsulto, da persona ragguardevole della sua città, si fa penitente, e lascia, al di là poi delle vicende anche di persecuzione del suo stato di frate, degli inni d’amore, delle laudi, le laudi sono come delle serenate, serenata alla donna amata, e c’è la lauda che diventa una serenata a Dio. “Troppo perde il tempo / chi ben non t’ama”, cioè chi non impiega il suo tempo nell’amarti, o mio Gesù, dolce amore Gesù, sovra ogni altro amore. Traduco dall’italiano del ‘300: “Amor chi t’ama non sta ozioso”, cioè l’amore ci mette in moto, alzati, corriamo, citavo già questo verso del Cantico, tanto gli par dolce gustare di te, cioè non dorme la notte per la passione amorosa che ha nei tuoi confronti e che non gli dà tregua, ma vive desideroso soltanto d’amarti di più. Spero che qualcuno di voi soffra del non poter amare di più Gesù mentre vorrebbe amarlo di più. È quello che normalmente viviamo, si vive nei confronti di un uomo, di una donna, lo si avverte anche nei confronti del Signore Gesù. Tanto è contento chi ti appartiene, tanto è contento il cuore che tu possiedi, e chi non lo sa, non lo ha sperimentato non lo può sapere, tanto è dolce gustare del tuo sapore, del tuo profumo, dell’ebbrezza del tuo amore. Ma è ancora più importante, rispetto al nostro tema del dolore, la seconda strofa della lauda. “Amor – è sempre Gesù – che togli forza all’amaro”, che cambi segno al dolore, all’amaritudine, all’amarezza della vita, e trasformi ogni cosa nella tua dolcezza, cioè tutto nelle tue mani fiorisce. E in questa vita i santi lo hanno sperimentato, tant’è vero che hanno fatto una morte

dolcissima, pur tra tanti tormenti, “che fecer dolce morte in amarezza”. E in quel momento li confortò il ricordare dolce, il “dolce mentovare”, il ricordarsi di te, di te condannato, di te coronato di spine, di te flagellato, di te crocifisso, questo ricordo fu un conforto così dolce, così forte che vinsero ogni asprezza, ogni dolore, “tanto fosti soave nei loro cori”.Adesso guardiamo un piccolo film, breve, è la prima volta che faccio un’esperienza del genere, è opera di Erri De Luca, che, oltre che scrivere racconti, poesie, ha, credo, prodotto due cortometraggi. Quello che vediamo adesso è: “Le stelle fanno il turno di notte”, che è un verso dello stesso poeta. E perché ve lo propongo adesso? Lo capirete nel racconto, ma è importante capire la scena da cui parte. E la scena è: Due persone escono dall’ospedale, dove sono state a lungo, a causa di un trapianto di cuore, e si sono conosciute nella sala precedente quella operatoria, e si sono scambiate delle impressioni, si sono fatte coraggio a vicenda, non si conoscevano, si sono incontrate in quel momento drammatico, che poteva anche essere sul limitare della morte, e adesso le vediamo uscire dall’ospedale. Nascerà una storia d’amore tra queste due persone? Proiezione del film: “Le stelle fanno il turno di notte” di Erri De Luca Ho voluto che vedeste questo cortometraggio, grazie a Nello che me lo regalò tempo fa, perché quando l’ho visto ci ho ricamato su tutta una mia teoria. Intanto mi sembrava opportuno proporvelo adesso, perché questa è la celebrazione di un dolore. Per l’uno e per l’altra, incontratisi, come vi dicevo, in un momento di estrema debolezza e anche di estremo pericolo, l’uno va verso il trapianto, l’altra per la sostituzione di una valvola al cuore. Vivono questo appuntamento, perché entrambi si sono ritrovati in questa avventura delle Alpi, e quindi si danno questo appuntamento di vita, che è un modo per celebrare il dolore. Sì, voi starete pensando, è celebrare la vita che torna, però è anche riandare ad un dolore. I medici presenti, ma in particolare questo riguarda i chirurghi, che ho interpellato in passato, mi dicevano sempre che i loro pazienti, sottoposti ad interventi chirurgici, per strada, incrociandoli, non li salutavano. Ricordo Andrea de Rosa, per esempio, che si dava anche una motivazione: Non mi salutano perché ritengono quella esperienza conclusa e non ci vogliono tornare neanche con il pensiero. È il contrario, se volete, di celebrare un dolore, di rendere amico un dolore, di vestirlo con il mantello, con le scarpe, dandogli una barca, come diceva Yeats nella riflessione prima di pranzo. E qui i nostri due protagonisti, con il terzo che è il marito ovviamente geloso di questa intesa, legata soltanto a questo voto. Lei ad un certo punto dice: è un voto questa promessa: tra sei mesi scaleremo un torrione del gruppo Sella. È lì che si svolge la scalata, e diventa una sfida, ma al tempo stesso una celebrazione. Avete sentito nell’audio, c’è l’audio del cuore che batte, mentre i due salgono, in particolare lui che ha il cuore di una donna, e quindi anche qui vediamo un dolore, un incidente, un trapianto è impossibile realizzarlo senza una morte. Ho memoria in questo momento di Pasquale Santovito, giovanissimo, diciannovenne allora. È impossibile ricevere un cuore, se non da una persona che, incidentata, è andata incontro alla morte,

quindi c’è un intreccio di morte e vita in questa visione, no?, che ci invita, almeno così come l’ho letto io, (poi c’è anche dentro il motivo del trapianto, il corto è stato reclamizzato per il motivo della donazione, degli organi, ma non è quello che in questo momento ci interessa di più) a celebrare un dolore. Noi pensiamo che “celebrare” sia un verbo da connettersi sempre con una festa. Che si celebra? Che celebriamo oggi? Ovviamente un evento gioioso, e allora si celebra, e invece il verbo “celebrare”, sempre Nouwen, che tanti anni fa “In Viaggio per l’uomo spirituale” o “I quattro movimenti della vita spirituale”, comunque sempre un libro degli anni ’80, mi aprì una finestra sul verbo celebrare, che riguarda certo la vita, ma anche la morte, anche un incidente. Io celebro sempre, il 26 di gennaio, il mio incidente, lo celebro, sono arrivato al diciottesimo compleanno, quindi è diventato maggiorenne anche l’intervento terribile del mio incidente in Piazza San Pietro, cioè dobbiamo imparare a celebrare tutto, anche un lutto, e la celebrazione del lutto, in termini psicologici e psicoterapeutici, si chiama “elaborazione”, ma è sempre legata ad un rito, anche il rito di lasciarsi, il rito di chiudere una stagione, di chiudere la giovinezza, cioè eventi ovviamente non proprio entusiasmanti, per cui si deve trovare un modo di celebrare. E quindi ci vuole una sorta di rituale anche per celebrare due che si lasciano. E questo è nato nel nostro ambito, in Grun ho trovato i rituali dell’addio, rituali anche di due che magari si incontrano ad una cena, eccetera. Ripeto a noi fa sorridere, però ha al suo interno una motivazione terapeutica, a dire: questa cosa è accaduta e noi la celebriamo in questo modo. Ricordo che il 13 di febbraio, quando misero i sigilli al Centro parrocchiale, (per me è un altro dei tanti miei Venerdì santo, se io vi sciorinassi tutte le mie disgrazie, staremmo qui altri cinque giorni) mi presentai alla riunione animatori con una bottiglia di vino pregiato, che aprimmo nella preghiera e lo assaggiammo tutti, per dire: certo questo è un giorno terribile, in particolare per me, che poi andavo incontro a problemi anche di ordine penale, però noi questa cosa la assumiamo come un bene, perché certamente il Signore giocherà su questo incidente.Ecco, il filmato mi interessava da questo punto di vista: celebrare un dolore. Poi c’è un’altra scena bellissima, che affido ai sacerdoti (potete utilizzare questo piccolo film, questo cortometraggio come spot vocazionale). Ecco l’amico che porta su la ragazza, che è moglie di un altro, e ovviamente vivono una vicinanza, l’hanno vissuta in ospedale per il comune dolore, e adesso la vivono come scalatori, perché la vita dell’uno è legata alla vita dell’altro. Come è bella la scena del marito geloso che è salito per il sentiero, non si sa, lui dice “per vedere il tuo sorriso”, ma forse voleva fotografare qualcosa di più scabroso e mettere su una lite. Come è bello che l’amico dica: “io resto qui”, e quindi loro vanno via abbracciati, e lui resta solo, certo, solo con la ragazza di cui porta il cuore che batte, ma resta solo. E questo è il consacrato, ma è anche lo psicoterapeuta, vero Raffaele? Chi conduce un altro, vivendo un’esperienza fortissima di intimità, ad un grado di guarigione, di celebrazione, ma poi se ne distacca e lascia che l’altro, nel caso del piccolo film, lei vada, torni con suo marito per il sentiero, mentre lui resta lì, da solo, perché il turno di notte lo fanno le stelle. Il consacrato è quello che rimane su, perché “il turno di notte lo fanno le stelle”, dice il verso, i poeti aiutano a mantenere la speranza. Credo che anche Heidegger abbia scritto che, in tempo di crisi, i filosofi tengono accesa la speranza. I consacrati mantengono

accesa la luce della vita per gli altri, penso a sacerdoti, suore, psicoterapeuti, insegnanti, educatori, cioè tutti quelli che hanno le mani in pasto con la vita, che impastano la vita. Noi impastiamo la vita, non facciamo i teorici, non guardiamo la vita con il cannocchiale, ma siamo dentro e questo essere dentro ci pone anche in un serio pericolo, che ovviamente va corso, devo dire ai sacerdoti, va corso perché aiutiamo gli altri a dire: ecco, questo è un dolore, adesso questo dolore lo celebriamo insieme, ti conduco a riprendere in mano la tua vita, a riprendere in mano il tuo dolore, la tua vicenda, le ingiustizie che hai subito; adesso io ti ho portato fino in cima, e noi abbiamo celebrato questo dolore, un dolore che ti sarà amico, come le cicatrici, le cicatrici che, a distanza di anni, diventano amiche, ma devono diventare amiche anche le cicatrici del cuore, le cicatrici dell’anima. L’ultimo passaggio, e concludo, lo trovate a pagina 11. Dopo il coraggio di abbracciare, qui c’è l’immagine di Gesù che porta la Croce, e in qualche maniera si lega ad essa, accarezzandola, amandola, sentendone le scanalature, avvertendone, come scrissi tanti anni fa in una Via Crucis, quello che quel legno era, cioè un albero, un albero colmo di fiori, di frutti. Nouwen: “La seconda risposta al nostro”essere spezzati” – quindi dopo aver chiamato il dolore e non averlo respinto, averlo addomesticato in qualche maniera – è di porlo sotto la benedizione – torna il termine benedizione. “Lo prese, lo benedisse, lo spezzò”, tutto quello che è dolore, se non passa sotto i raggi della benedizione, è difficile che divenga amico. E questo è il ricircolo del sangue che, purificato nella preghiera, torna nuovamente, cioè a che cosa serve la preghiera? Serve a svolgere quell’azione che svolge il cuore nei confronti del sangue, il cuore vede arrivare sangue ammalato, sangue infetto, sangue pieno di scorie, lo rielabora, (lo dico a modo mio, qui ci sono dei medici) lo ripulisce, lo ossigena e lo rimanda. Questo è il compito della preghiera. E allora tutto quello che non passa attraverso la preghiera, e quindi la benedizione, finisce non redento. C’è un termine antico della teologia, che riguarda l’incarnazione: ciò che non è assunto, non è redento. Ciò che non è assunto, (il soggetto è il Verbo, è il Figlio di Dio) ciò che non è assunto, non è redento. Quindi abbiamo questa circolarità. Il mondo passa nel cuore di Cristo, Lui assume tutto, tutta la nostra feccia, tutto il nostro dolore, le nostre ingiustizie, quelle fino ad allora e quelle che d’allora in poi sarebbero accadute, ma quello che assume lo redime, mentre quello che è fuori di questa circolarità finisce con il non essere redento e rimane un peso, non diventa mai un dolore dolce. Dolce amor Jesu sovra ogni amore! Un dolore non assunto diventerà un dolore pesante, una cosa a cui non pensare, diventerà una pietra che mi ostacola il cammino, un’occasione di non crescita, mentre un dolore porta con sé, pur con tutte le sue difficoltà, un messaggio di vita, porta con sé una benedizione. Ecco allora, concludendo questo momento, continuando la nostra anamnesi dell’essere stati spezzati, diciamo: Forse questo dolore non te l’ho ancora dato. Dirò di più: forse questo peccato non te l’ho ancora dato. Sapete qual è il motivo per cui noi ci confessiamo? Non è per umiliarci davanti al prete, è per mettere un dolore nella mani della Chiesa che lo pone nelle mani di Gesù. A volte tenere nascosto un peccato, una debolezza, è lasciarla tale, invece porla

nelle mani del Signore è redimerla. Questa debolezza, adesso parlo di una debolezza morale, questo peccato confessato è perdonato. A volte in qualche brano dei mistici ricorre questo tema, quando il mistico, la mistica dice: Ma io ho dato tutto. E Gesù dice: “No, non mi hai dato tutto, dammi il tuo peccato, perché Io lo redima, perché te lo restituisca impacchettato, infiocchettato, leggero, occasione di bene”. Felice colpa, felice colpa, diremo nella Veglia pasquale.Concludo questo momento con un testo di Pascoli perché le stelle, di cui abbiamo visto il filmato, mi hanno richiamato altre stelle (questo già in sede di preparazione. A differenza degli altri Corsi di Esercizi, dove mi presento quasi nudo, intendo impreparato, perché così sono solito fare, parto solo con qualche spunto, qualche idea, in questo caso invece ho svolto un lavoro previo, perché ovviamente bisogna avere degli strumenti, in qualche maniera una regia già da casa) a firma di Giovanni Pascoli.La mia seraIl giorno fu pieno di lampi;ma ora verranno le stelle,le tacite stelle. Nei campic’è un breve gre gre di ranelle.Le tremule foglie dei pioppitrascorre una gioia leggiera.Nel giorno, che lampi! che scoppi!Che pace, la sera!Si devono aprire le stellenel cielo sì tenero e vivo.Là, presso le allegre ranelle,singhiozza monotono un rivo.Di tutto quel cupo tumulto,di tutta quell’aspra bufera,non resta che un dolce singultonell’umida sera.E’, quella infinita tempesta,finita in un rivo canoro.Dei fulmini fragili restanocirri di porpora e d’oro.O stanco dolore, riposa!La nube nel giorno più nerafu quella che vedo più rosanell’ultima sera.Che voli di rondini intorno!Che gridi nell’aria serena!La fame del povero giornoprolunga la garrula cena.La parte, sì piccola, i nidi

nel giorno non l’ebbero intera.Nè io … che voli, che gridi,mia limpida sera!Don … Don … E mi dicono, Dormi!mi cantano, Dormi! sussurrano,Dormi! bisbigliano, Dormi!là, voci di tenebra azzurra …Mi sembrano canti di culla,che fanno ch’io torni com’era …sentivo mia madre … poi nulla …sul far della sera.C’è una bellezza in questo testo, (qui ci sono degli insegnanti di Lettere, quindi mi devo guardare bene nel fare le mie elucubrazioni) che si intitola “La mia sera”. È una sera, è l’ultima sera. È una sera, è la sera di un giorno tempestoso, dove ci sono stati lampi, tuoni, scrosci. Mi sono trovato in Sicilia sotto una bomba d’acqua, pensavo di trovare un po’ di sereno e invece ho fatto tutto il cammino sotto una bomba d’acqua. La giornata è stata tumultuosa da un punto di vista atmosferico, e adesso il poeta sente che col venire della sera verrà anche la pace. È bello l’inizio: “Il giorno fu pieno di lampi; / ma ora verranno le stelle, / le tacite stelle”, cioè le stelle che adesso mettono a letto tutti, che mandano a letto piccoli e grandi. Le stelle che inducono al silenzio. E poi c’è questa descrizione della natura tra “le tremule foglie dei pioppi”. È come se passasse una gioia, è il vento leggero, “leggiera” dice il poeta. E poi si sentono le rane che gracidano, gre gre di ranelle, intorno all’acqua che adesso ha alimentato un torrentello che, attenti eh, singhiozza, non scorre, singhiozza, “singhiozza monotono un rivo”. Nulla è casuale. Piange questo rivolo. È il poeta che piange? “Di tutto quel cupo tumulto, / di tutta quell’aspra bufera, / non resta che un dolce singulto – anche qui un singhiozzo nella sera umida. Di tutto quello che si è scatenato, rimane solo “un rivo canoro”, e dei fulmini restano dei “cirri di porpora e d’oro” intorno alle nubi, ora che il sole sta calando. Vedete, quindi, da un lato c’è il ricordo della tempesta, che è anche il ricordo della vita, dall’altro c’è la quiete dopo la tempesta, ma una quiete che diventa quiete del cuore. Questi versi, ve l’avrò già detto altre volte, li ho incisi sulla tomba di don Alfredo, uno dei preti che ho accompagnato alla morte. “O stanco dolore, riposa! / La nube nel giorno più nera / fu quella che vedo più rosa/ nell’ultima sera”, perché questo prete era un po’ tormentato (autore, tra l’altro anche di alcuni studi su Dante, di alcuni romanzi, di un romanzo storico, “Il dolce nido”) morto per cancro, dopo vari interventi, ed io ho voluto con questa terzina raccontare la sua vita “La nube nel giorno più nera / fu quella che vedo più rosa/ nell’ultima sera”. Poi l’attenzione alle rondini, di cui ho detto anche in Ascolta si fa sera. Adesso in questa sera, in queste stelle che si aprono come fiori c’è il turbinio delle rondini. E il poeta a cosa pensa?, visto che alle rondini ha fatto attenzione per altri motivi, nel X agosto, : ma avranno mangiato poco, a causa della tempesta, non sono potute uscire le rondini a cercare i vermiciattoli, e quindi pensa alla fame “La fame del povero giorno / prolunga la garrula cena - Questo è lui, è Pascoli – La parte, sì piccola, - hanno

avuto poco – i nidi / nel giorno non l’ebbero intera”. E poi subito passa a sé, anche lui è stato privato, come te, Raffaele, della tua infanzia, come noi in tante altre cose, però, che importa! “Che voli, che gridi, / mia limpida sera”.E infine la scena del campanile, di questi rintocchi che arrivano da lontano, siamo nei Canti di Castelvecchio (ricordate anche “l’ora di Barga”?), i rintocchi entrano in questa scena del tramonto, delle rondini, di quello che gli è mancato, e stanno a dire: Placati, addormentati, non ti preoccupare, non ti dar pensiero, non ti addolorare eccessivamente, e quindi sono un invito, una sorta di ninna nanna, e dai rintocchi della sera il poeta torna ai rintocchi ascoltati quando era bambino, e s’andava a dormire all’Ave Maria. Essi dicono: “Dormi! bisbigliano, Dormi!”, cioè con un suono sempre più flebile — là, voci di tenebra azzurra… — bella quest’ immagine, no? Può essere azzurra una tenebra? Là, voci di tenebra azzurra… Questo è un dolore diventato amico. Beh, il motivo principale per cui ve l’ho voluta sottoporre è: “O stanco dolore, riposa!”. Non dice: Vattene! O stanco dolore, riposa! Allora, se il poeta invita il dolore a riposare, se l’è fatto amico, come il nostro protagonista si è fatto amica, e chiunque l’avrebbe fatto, la ragazza che gli permette d’essere ancora in vita. O stanco dolore, riposa! Dormiamo insieme, facciamoci compagnia.Vi rileggo il testo, e quindi questa sera diventa l’ultima sera, dove l’addormentarsi non è: Ho lottato tanto in questo giorno, per questo giorno, ma è la sera delle sere. La mia seraNoi ci vediamo alle 18:45 per la celebrazione eucaristica.

OmeliaNella celebrazione eucaristica della prima sera, il Vangelo di Lazzaro recitava: Era ammalato un certo Lazzaro, e stasera ci viene incontro proprio questo “tale”, cioè un parto andato alla malora, un esperimento pastorale fallimentare. Ricordo ai sacerdoti presenti che il primo a fallire sul piano pastorale è stato Gesù. Il Vangelo ci riporta questo come altri fallimenti, ma non racconta tutti gli incontri e tutti i tentativi che Gesù ha fatto. Anche nella nostra vita pastorale, spesso, dei “tali” vogliono restare nell’anonimato, non vogliono nascere, non vogliono portare a compimento l’itinerario che ci è stato consegnato in questi Esercizi: “Prese, benedisse, spezzò e diede”, perché è proprio sul “dare” che il “tale”, che la tradizione poi ha tradotto in giovane ricco, fa difficoltà. Egli difetta proprio nella mano che deve dare, ha invece una mano attrezzata nel prendere, nel prendere le benedizioni, nell’assumere crediti (i nostri giovani anche a scuola sono ossessionati dall’assumere crediti e, a volte, anche quelli che vengono a compiere un’opera di carità in parrocchia lo fanno più per i crediti da accumulare per gli esami di maturità che non per un vero desiderio di servizio). Che cosa devo fare per avere la vita eterna? Il giovane pensa, come d’altra parte facciamo noi, a volte, che la vita eterna si acquisti, sia in palio, e allora bisogna fare qualcosa. Cosa devo fare? Noi non dobbiamo fare nulla, noi riceviamo tante cose. Noi dobbiamo diventare, dobbiamo essere. Questo “tale”, tra l’altro, non è un lontano, ma è un assiduo frequentatore della parrocchia, dei gruppi dell’Azione Cattolica, degli Scout, conosce i Comandamenti, e non solo, li ha osservati e li ha osservati in una maniera perfetta, perché ha posto al centro se stesso e la sua crescita e la sua affermazione, fosse anche morale. Ci sono tanti pericoli nella vita spirituale per chi sia avanti nell’itinerario. Tutte queste cose, per esempio, il giovane le dice con prosopopea, impettendosi, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza, cioè non mi dici nulla di nuovo. E allora Gesù lo guarda, lo fissa, lo chiama, lo benedice. È tutto in questo sguardo. Il “tale” è chiamato, è scelto. Il “tale”, in qualche maniera, attira anche l’attenzione di Gesù con il suo perfezionismo. Allora Gesù, fissatolo, lo amò. Se lo ama, lo chiama. Se lo ama, lo ha scelto, perché l’amore sceglie. Fu l’amore che scelse scrive Pedro Salinas. E dunque lo benedice, eppure gli manca, come a noi, questo verbo; lo conosciamo bene, lo abbiamo anche, speriamo, in parte, messo in pratica, gli manca l’ultimo verbo, che è “diede”. Sono il prescelto, sono il benedetto, magari accetto anche qualche ferita, qualche lesione, qualche dolore, tuttavia, la cosa più difficile è darsi. Infatti Gesù gli dice: Una cosa sola ti manca: Va’, vendi tutto quello che hai, e dallo ai poveri. È questo che sconvolge la mente del “tale” e lo fa arretrare, come Euridice che sfugge dalle mani di Orfeo proprio ad un passo dalla vita, ad un passo dalla nascita, ad un passo dalla sequela. Il tale è allontanato in una distanza siderale, non più raggiungibile dall’Amore, perché non è disponibile a darsi, a consegnarsi. È uno che vuole assommare, non uno che vuole dare. La vita spirituale non è assommare, è perdersi, è spalmarsi in tanti giorni, in tanti impegni, nella vita di tante persone, a volte chiedendosi anche: cosa è rimasto

a me di me? Avrai un tesoro in cielo, ma questo non gli interessa: a lui interessa avere un tesoro qui, avere degli attestati, metterli in cornice, mostrarli ai visitatori, mettere i titoli sul biglietto da visita, insomma vuole accumulare. La vita spirituale è l’arte del togliere, non dell’assommare. Ricorderete l’espressione michelangiolesca che riassume il senso della scultura, e che sostiene che essa consiste nell’arte del togliere. Anche la vita spirituale è l’arte del togliere. Se questo pane è preso, scelto, non è per me; se questo pane è benedetto, non è per me; se questo pane è spezzato, non è per me. Il pane non mangia se stesso, come l’albero non mangia i suoi frutti. Siamo per gli altri, mandati, inviati, gettati per le strade del mondo, nella vita delle nostre chiese, delle nostre famiglie, in una consegna progressiva di noi agli altri nel Suo nome.Ecco, chiediamo a Gesù in queste ultime ore di non fermarci ai primi tre verbi, ma di accedere o di accedere nuovamente al quarto e ultimo verbo eucaristico: il pane non è fatto per essere contemplato, non lo si pone in una teca museale. Il pane sono io, sei tu, non è scelto per fare bella mostra di sé, ma è fatto per essere mangiato, è dare, ed essere mangiato. Fulton Sheen(1895-1979), un vescovo americano degli anni ’70, diceva che il prete è un uomo mangiato. Ma questo vale per tutti. Anche le suore sono mangiate, anche voi, mamme e papà, sposi e spose, siete mangiati. Siamo diventati spettacolo – dice Paolo – al mondo. Siamo diventati possesso degli altri, altri hanno preso possesso della nostra vita. È questo l’amore: non è possedere, ma lasciarsi possedere, non è mangiare ma lasciarsi mangiare, non è prendere ma dare. Il Signore Gesù, che ci invita a consegnarci agli altri, è il primo che si è consegnato nelle mani dei discepoli, nelle mani sacrileghe dei suoi accusatori, dei capi dei sacerdoti, delle guardie, nelle mani di Pilato. Lo accompagneremo nella prossima settimana, a partire da domenica, nella lettura del Passio mentre passa di mano in mano: Lui, un pane così prezioso, così bello, così benedetto, così consacrato, così spezzato, è preda di mani indegne, ma Lui è venuto a perdersi. Che ci dia questa passione e la capacità di tornare domani – dopo quest’ultima notte di quiete – a casa, in parrocchia, in comunità, dove tanti affamati ci aggrediranno e penderanno a brandelli dal nostro cuore. Non ti rattristare! Il “tale” se ne andò triste, girando le spalle a Gesù, girando le spalle all’Amore, si rattristò perché aveva molti beni, ma in quei beni non ha più trovato il Bene. Sono duemila anni che è triste per non essersi dato, per non essersi dato totalmente, per non essersi consegnato a Gesù ed ai fratelli. ***

Meditazione serotinaUn dono la vita, un dono la morteCanto: PentecosteSiamo qui ancora per poco, ma vogliamo godercele tutte queste ore conclusive, intorno al verbo “dare” – lo diede, gli diede, gli consegnò – e, adesso, con il canto di Pentecoste, “li mandò”, anche se erano poveri diavoli, anche se non avevano grande cultura, anche se non erano superaccessoriati, anche se non erano multitasking, anche se avevano tante pecche i discepoli furono invasi, irrorati, accesi, incendiati di Spirito Santo, e andarono, come abbiamo ascoltato, abbiamo cantato. C’è sempre tanta adrenalina in questo canto, che appartiene anche ad un tempo.“Innanzitutto – pagina 13 - la vita in sé è il più grande dono da offrire, cosa che noi costantemente dimentichiamo. Quando pensiamo al nostro darci agli altri, quello che ci viene subito alla mente sono i nostri talenti unici, quelle capacità di fare cose speciali specialmente bene. Tendiamo a dimenticare che il nostro vero dono non è tanto quello che possiamo fare, ma chi siamo. La vera domanda – è sempre Nouwen – non è «Cosa possiamo offrirci l’un l’altro?» - quanti pani abbiamo, quante doti possiamo condividere, ma - «Chi possiamo essere per gli altri?». E quindi non si tratta di dare un dono, il dare – li diede – deve attingere al nostro capitale; non possono essere soltanto i residui, gli interessi. “Non tocchiamo il capitale”, si dice, quasi che dobbiamo dare il superfluo, dobbiamo dare quello che rimane, rimanendo però noi integri, intatti. Bisogna prendere a piene mani il proprio essere, prendere la propria vita, come diceva il canto, che pure eravamo abituati a utilizzare con alcuni di voi. “Abram, prendi la tua vita e portala sull’altare”. E questo in vita. Don Marco ci ha preparato un’immagine che parla innanzi tutto di una notte (oggi abbondantemente “le stelle che fanno il turno di notte”, le stelle del Pascoli, che s’accendono come fiori) e c’è questa mano, che è la mia mano, la tua mano, che porta un po’ di terra, che è fatta di terra, dove un seme, un chicco di grano deve marcire per germogliare, e poi spigare e diventare pane. E questo per la vita del mondo, questa azzurrità, tenebra azzurra, diceva la poesia di Pascoli, ne “La mia sera”. Questa “tenebra azzurra” adesso si apre davanti a noi, e non è solo la tenebra di questa notte, il momento difficile nel quale siamo chiamati a vivere, ma è il nostro tempo, il nostro spazio, qui è la nostra casa, e qui dobbiamo giocarci, e non giocare.L’ultima immagine dice che noi non dobbiamo solo dare in vita, ma darci, dare noi stessi anche nella morte. Ed è l’ultima pennellata, poi offriamo un piccolo spazio, per chi lo voglia, alla condivisione. Cosa significa fare della propria morte un dono?, della propria vita, innanzi tutto, un dono? Questo è l’impegno di ogni giorno, non basta alla fine di un Corso di Esercizi fare un proposito: sarò più gentile con mio marito, adesso che torno sarò superpaziente, mi lascerò spezzare e dare, consegnare; mi lascerò mangiare, dicevo a Messa, ma questa è la matrice, perché è il cuore del vangelo, quello che mi ha spinto, mi ha entusiasmato, l’ỏργ : di’ qualcosaἠ che possa aiutare queste persone ancora per vent’anni, per trent’anni, fino all’ultimo giorno, fino a quando dovremo resistere, dicevo ieri. Già “dare” è

una morte; dare e darsi è già una morte, è già un rinunciare a sé. Penso di nuovo alle due donne incinte, che sono qui, che per la maternità rinunceranno anche alla loro bellezza, alla forma perfetta del corpo. Qualche mamma rinuncia ad allattare per non sformarsi. Una cosa terribile, eh, stanno entrando delle cose nel vissuto delle donne, e non solo, adesso mi riferivo alla maternità, che sono a dir poco preoccupanti, non è che non allattano perché, non so, il bambino non si è attaccato al seno, ma non allattano per motivi estetici. Allora, questo senza che suoni assolutamente come un giudizio, ma a volte da certe scelte capiamo che cosa si respira in giro. Che cosa si respira? Che dobbiamo essere scattanti, vincenti, giovanili, in forma, in linea, ma qui il “diede e lo spezzò” non c’entra per niente! Pensiamo alle nostre mamme che dai parti sono state letteralmente sformate, adesso capisco che una donna tenga anche alla sua linea, alla sua integrità, ma non si può rinunciare ad una dimensione importante della maternità, almeno all’inizio, che è l’allattamento, per motivi estetici, per cui capite che “questo darsi” è già un morire, e i preti che si danno alle parrocchie, voi che vi date in famiglia, le suore che si danno in comunità, è un morire continuo. L’amore è questo. Con uno di voi poco fa citavamo Michel Quoist ne “La preghiera del prete la domenica sera”, e ne “La preghiera dell’adolescente”, nella stessa raccolta, dice: “Amare è sempre lasciare se stessi per andare verso gli altri”. Questo è bellissimo! E l’amore non è l’amore di Narciso, ma l’amore di chi si sbilancia, e questo è già una morte. Ogni amore è già una morte. Dice il nostro testo che noi siamo chiamati a dare – gli diede – non solo in vita, ma anche in morte. E questa è una grazia da chiedere in modo speciale durante gli Esercizi, cioè gli Esercizi servono anche “a fare testamento”. I preti lo sanno, tutte le aggiunte che Giovanni Paolo II ha fatto al suo testamento sono sempre datate nella I Domenica di Quaresima, quando il Papa e la Curia facevano, allora in Vaticano, adesso qui, i loro Esercizi, a dire che il Papa Giovanni Paolo ripensava certamente alla morte in quei giorni, perché questi sono giorni vitali, e la vita e la morte sono questioni di vita e di morte. E qual è questa preghiera? La preghiera adesso la formulo così come la dico per me: “Signore, fa’ che io non smentisca, all’atto della mia morte, tutto quello che ho detto nel corso della mia vita; fa’ che le persone che mi staranno attorno quel giorno, quel momento, non abbiano a scandalizzarsi: ma non è quello che faceva innamorare della morte il suo predecessore-parroco?, e adesso com’è che la priora de “Il dialogo delle Carmelitane” di Bernanos si dispera sul letto di morte? E quelli fra voi che sono padri e madri dovrebbero formulare così questa preghiera: “Signore, fa’ che i miei figli possano, all’atto della mia morte, ricevere un ulteriore messaggio di vita; fa’ che quello che non sono riuscito a far capire loro in vita, riesca a dirglielo, non tanto a parole, quanto con la vita, nel consegnarmi all’atto “dell’ultima sera”. Il cardinale Martini diceva che la morte alla fine è la grande resa a Dio. Diceva che forse la morte ancora sussiste nella sua fattualità perché è l’occasione radicale di abbandonarsi a Dio, non potendo più contare su altro. Allora, se la mia vita è stata un dono, deve essere un dono anche la mia morte, se ho parlato d’amore in vita, vorrò parlare d’amore anche sul limitare della vita, vorrò benedire. Io spero che, tra l’altro, questa riflessione sulla benedizione vi abbia fatto venire voglia di benedire i vostri figli, i vostri nipoti, i vostri alunni, le persone che incontrate, dicendo: “ti benedico”, o anche

facendo un segno di croce con il pollice sulla fronte, soprattutto quando si parte, quando si va a sostenere un esame, quando si va via di casa il giorno del matrimonio, (ma adesso si va via anche prima) quando c’è un solco che bisogna saltare. Allora i genitori debbono benedire i figli perché la benedizione li rende forti, li incoraggia. Negli ultimi tempi sto sentendo tante benedizioni rivolte a me, anche per telefono: “ti benedico, vi benedico”. E uno, sulle prime, dice: Ma com’è, abbiamo cambiato i termini? Invece no, no, è giusto! Non è solo il vescovo che benedice, non è solo il prete che benedice, ma sono anche i figli che benedicono i genitori, e quindi un vescovo può ricevere benedizione, cioè qualcuno che dica bene, in nome di Dio, di lui, e questo fortifica il ministero. Marco ha scritto qui che tutto questo processo, questi quattro verbi, (ci torneremo domattina nella messa conclusiva) devono essere coniugati fino a che non spunti il giorno: “Donec dies elucescat”. Questo testo è riferito alla parola dei profeti. Dice l’apostolo: fate attenzione alla parola dei profeti come a lampada che brilli in un luogo oscuro, donec dies elucescat, cioè finché non sorga il giorno. Come alcuni di voi sanno, quando ho dovuto scegliere il mio motto episcopale, avevo queste due frasi, entrambe me le aveva sottolineate don Tonino (Bello) nei suoi libri: “Custos, quid de nocte?” e “Donec dies elucescat”. E poi la mia preferenza è andata ad Isaia, ed è diventato: “Sentinella, quanto resta della notte?”. Anche questa frase m’attirava, come a dire: ancora un poco. Per quanto tempo devo “essere spezzato”? Per quanto tempo ancora devo “essere spezzato”? Per quanto tempo ancora devo darmi? spendermi, spalmarmi sulla vita degli altri? Ancora un poco, dice l’autore della Lettera agli Ebrei, un poco appena, perché già sorge il giorno, la notte è avanzata e il giorno s’avvicina. È il giorno di Pasqua, verso cui andiamo, ma quella è la Pasqua liturgica, poi c’è la Pasqua per ciascuno di noi, che è il passaggio, quando saremo accolti come gli amati, come i benedetti, e quando non saremo più spezzati, né dati, perché è finito il nostro tempo, è sorto il sole di giustizia.Adesso vorrei che (io abbasserò ancora un tantino le luci per venti minuti, massimo mezzora) ci dicessimo qualcosa, senza sapere chi parla. Se poi non parlate, vi chiamo io, come al solito. Diciamoci qualcosa, anche se magari stanotte riceverò un’illuminazione, dico a voi non a me, ancora ho bisogno di carburare, di impastare questi verbi dell’Eucaristia, della moltiplicazione dei pani. Davanti alle folle Gesù prese cinque pani e due pesci, levò gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani, e li dava ai discepoli, perché li distribuissero. Cosa ti ha evocato tutto questo?, questa fioritura, intorno ai quattro verbi? Basta accendere il microfono e fare un breve intervento.Interventi degli esercitantiCompletiamo questo momento, innanzi tutto dicendo grazie a quelli che hanno rotto il silenzio. Una volta tanto il silenzio si può rompere, quando possiamo dirci qualcosa, ci diciamo qualcosa anche senza parlare, ma se non parliamo della vita e della morte, di che parliamo? Questa è una sintesi di vita e di morte, in vita e in morte siamo tuoi. E allora aiutaci ad “essere presi”, a

sentire la benedizione su di noi, rendici docili, quando è il momento che siamo spezzati, aiutaci ad essere per il bene degli altri, perderci nell’essere consegnati agli altri. Vorrei anche dire che Gemma mi ha fermato questo pomeriggio: Eccellenza, ma noi che ci incontriamo qui sempre in silenzio non ci possiamo dire niente; ecco io sono pronta, ho un grande giardino, c’entrano cento persone… . Tutto si può fare, e questo per dire anche che c’è un’appartenenza, perché alcuni di voi si incontrano solo qui, da varie parti d’Italia e dai due ceppi fondamentali, quelli della diocesi e quelli del mio passato. Vediamo cosa il Signore ci dà da vivere.Concludiamo con “Eppure tu sei qui”, che vorrei lasciarvi come colonna sonora di quello che il Signore ci ha dato da vivere. Intanto ricordo anche che saliamo su e ci sarà l’esposizione in cappella dalle 10 alle 11. Potete anche stare dieci minuti, insomma il tempo in cui resistete. Oscar ci invitava semplicemente a stare, non dobbiamo dire cose grandi. Alle 11 uno dei sacerdoti ripone il Santissimo, quindi faremo soltanto un canto all’inizio. Felice, se può, si fermi venti minuti per qualche sottofondo.Canto: Eppure tu sei qui ***

4° giorno - OmeliaMancavano intanto due giorni alla Pasqua: concludiamo questo nostro itinerario intorno all’altare, perno di ogni esperienza cristiana. Tutto gira intorno all’Eucaristia, da cui la Chiesa nasce e in cui confluisce. Sono giorni questi dedicati ad impastare Pasqua, come si impastano i casatielli e le pastiere, cioè sono giorni preparatori alla Pasqua, perché non ci giunga improvvisa e non ci trovi impreparati. Per tutte le feste cristiane dovremmo contare su giorni di impasto, di madia, su giorni che preparano giorni, perché le solennità non giungano acerbe, non tanto in se stesse quanto per noi e il nostro cuore. L’ultima parola del nostro cammino, che ha avuto come orizzonte la moltiplicazione dei pani, dei verbi dell’Eucaristia, è il Vangelo che leggeremo Lunedì Santo e si svolge, come tante volte abbiamo predicato, a Betania, nella casa di Lazzaro, laddove le donne hanno pianto a lungo. Ci sono certe schiarite che sono grazia e giungono dopo la grazia di tante lacrime. Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto. Anche la grazia di questo mattino viene dopo i temporali, dopo la purificazione delle lacrime, dopo – lo pensavo guardando il lago con voi stamattina per le Lodi – essere stati qui a lavarci alla piscina di Siloe. Come il cieco guarito, infatti, anche noi veniamo qui in pellegrinaggio a lavare gli occhi nel lago di Albano, che per noi è come un sacramentale, rientra nei luoghi della grazia. Ebbene, in questa casa che è la casa dell’amicizia, la casa dell’umanità del Signore, si svolge questa scena secondo il Vangelo di Giovanni. Siamo a Betania, nella casa di Simone il lebbroso, che ha tante piaghe come noi, ha piaghe ovunque, ferite aperte, cancrene in corso, una morte in corso, vede la propria decomposizione. Gli ammalati di diabete, a volte, sono sottoposti, soprattutto se anziani, ad una vera e propria decomposizione di sé, almeno negli arti inferiori, in alcune ferite che fanno fatica a chiudersi e a cicatrizzarsi. Questa è la condizione di Simone il lebbroso. Ricco quanto volete, ma estremamente povero, ricco per quanto concerne il ceto sociale, ma poverissimo rispetto al corpo, alla sua malattia, alle piaghe, al dolore. E qui, nel bel mezzo del pranzo, si introduce una donna. I Vangeli si confondono: si tratta di Maria, la sorella di Lazzaro, la storia che leggeremo Lunedì Santo; si tratta di una donna misteriosa, la Chiesa; in un’altra interpretazione è la Maddalena che cerca il Signore, che vuole abbracciarlo, averlo tutto per sé, avendo finalmente trovato un uomo. Ho trovato un uomo – dice la samaritana – che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Forse sarebbe bello fermarsi a: Ho trovato un uomo, perché gli altri, quelli che aveva abbracciato, con cui era stata a letto, tanti, non erano uomini. Ho trovato finalmente un uomo. Ecco l’uomo, dirà Pilato: è l’uomo, è bellissimo, come dice la sposa del Cantico. Ed ora seguiamo i gesti pieni di amore della donna, spero siano anche i nostri, nel portare in seno, in grembo, un vaso, un vasetto intarsiato, soffiato, scolpito in alabastro. Lo guardiamo e lo troviamo bello, perché è l’umanità del Signore. Guardiamo la donna che, anziché aprire il vasetto, lo rompe; forse è tutto di un pezzo, come la tunica del Signore, e quindi deve essere rotto, non si può aprire; forse il gesto è violento, un gesto di ferita: lo ruppe, lo spezzò, prese il pane, rese grazie. Ci sono delle santità che hanno bisogno del sigillo della morte, ci sono delle verità che restano asfittiche, metalliche, se non passano attraverso il fuoco, ci

ha ricordato la Prima Lettura. I tre giovani che non vogliono mischiarsi con le abitudini dei pagani vengono condannati per essere bruciati e calati in una fornace ardente. Tutto deve passare attraverso il fuoco, attraverso il fuoco del dolore, il dolore del fuoco. È per questo che la donna rompe il vaso, perché sarà rotta l’umanità del Signore, e dalle cinque piaghe e dalle altre ferite, dalla flagellazione, dalle dolorosissime ferite della corona di spine fluirà un olio profumato. Dice altrove il Vangelo che in tutta la casa, in tutta la stanza, si diffuse quel profumo, che raggiunge le narici, il cuore e gli occhi di tutti. La divinità del Signore si manifesta gloriosamente nella sua morte. Il dolore ha il potere di liberare. Qui, nel Vangelo di Giovanni che abbiamo ascoltato, si dice: Ruppe il vaso di alabastro, e versò l’unguento sul Suo capo; nel Vangelo che ascolteremo Lunedì Santo il contenuto prezioso viene versato sui piedi del Signore, quindi sulla Sua persona, il capo e i piedi, la totalità. Nel Vangelo di Luca, Maria asciuga i piedi del Maestro con i suoi capelli, non avendo lini abbastanza preziosi ed intagliati, non avendo lini ricamati con il punto a giorno, e allora ricorre ai suoi capelli, versati già naturalmente, perché è china sui piedi del Signore. C’è tanta femminilità in questo Vangelo, in questo racconto: c’è la donna, c’è la Chiesa-donna, c’è la Chiesa con la sua femminilità che venera il Signore piagato, prima che questo avvenga. Ed ecco che tale gesto genera perplessità. Ci furono fra di loro alcuni che si sdegnarono. Perché tutto questo spreco? Anche in questi giorni abbiamo sprecato tante cose, abbiamo sprecato parole, i nostri musicisti hanno sprecato la loro arte, abbiamo sprecato immagini, sprecato questa Casa, sprecato del tempo e, perché no, dei soldi, ne potevamo fare migliore uso, come direbbe suor Lucia che è l’economa provinciale, e quindi sa di bilanci e di come economizzare. Non sempre fare economia è bene, a volte bisogna sprecare. E finché economizziamo la nostra vita, i nostri giorni, stiamo sciupando, quando invece ci lasciamo andare ad uno sciupio, ad un’eccedenza, ad un’effervescenza d’amore, allora stiamo utilizzando in una maniera saggia i nostri poveri giorni, i nostri poveri anni. Settanta, ottanta per i più robusti, ma volano via, quasi tutti sono fatica e dolore. Ecco, c’è tutto, ci sono i giorni della Chiesa, i giorni della donna, i giorni di ciascuno di noi, il tempo che i giovani vorrebbero tenere per sé e non sprecarlo per Gesù. C’è quello che abbiamo di più caro, i figli che vorremmo tenere per noi, invece vanno liberati come degli uccelli che sono sufficientemente grandi per lasciare il nido. L’amore è uno spreco. E chi non sa sprecare non sa amare. Tutti i cioccolatini, i confetti di varia foggia che avete consumato (in certi momenti, lo dico per farvi sorridere, sembravate delle cavallette) sono uno spreco. Ma non potevi restare in diocesi, non potevi fare il tuo dovere piuttosto che venire qui? E invece dobbiamo intendere la nostra vita, lo dico ai preti, come uno spreco, lo dico a questi giovani preti, guardateli bene, che sono sottoposti a tanti pericoli, bisogna intendere la vita come uno spreco. Perché questo giovane prete che ha i capelli con il gel, increspati come quelli dei miei figli, dei mie nipoti, sta qui sull’altare? È uno spreco! Cos’è la vita consacrata? Per Jessica, che è in noviziato, è uno spreco, perché Gesù è uno spreco, perché Dio si è sprecato per me, perché Gesù ha sprecato la sua umanità e la sua divinità sulla Croce mentre poteva farne un uso più saggio. Nel Vangelo di Giovanni è

Giuda, ricorderete, il capofila degli economi, è lui che ha l’occhio del commerciante e che valuta lo spreco del nardo in trecento denari! Ne chiederà molti di meno per vendere il suo Maestro. E allora, vedete, questi verbi su cui abbiamo meditato, adesso li guardiamo nella vita del Signore, cioè prima che verbi da coniugare sono verbi che Lui ha vissuto, e noi siamo cristiani perché di Cristo. Gesù è stato preso, era preso dalle cose del Padre: Non sapevate che io debbo occuparmi delle cose del Padre mio, dice in una scena profetica quando aveva dodici anni. Perché mi cercavate? Non sapevate che io debbo sprecarmi per le cose del Padre mio? Quindi è preso, è compreso, è dominato da questo pensiero d’amore. Non riesce a dormire, è benedetto, consacrato nel battesimo, nell’episodio della Trasfigurazione, sul Tabor, sulla Croce, continuamente. È consacrato, è il figlio, è spezzato. Uomo dei dolori che ben conosce il patire. Ed è dato. E da allora anche noi continuamente siamo scelti, amati, consacrati, spezzati e dati.Un’ultima idea su questi verbi: sono particolari. C’è stato un momento in cui sono stato scelto, poi un momento in cui sono stato benedetto, consacrato, un momento in cui sono stato spezzato e un momento, una stagione, in cui sono dato, perché continuamente scelto, benedetto, spezzato, continuamente dato, in un cammino a spirale, dove sembra che i verbi si ripetano, in realtà, andiamo sempre più all’essenziale. E questa donna riconosce Gesù come Messia, perché l’olio profumato è l’olio con cui è consacrato Davide, il ragazzino, da Samuele, quello con cui sono consacrati i re, i sacerdoti, i profeti. È l’olio di Cristo, l’olio dei cristiani.L’augurio che ci scambiamo è che questa possa essere una Pasqua profumata, e non tanto di pastiere, casatielli, quanto profumata di Cristo, di cose che si sprecano, di vite unte per essere spezzate e date. Tra qualche istante porrò un gesto sui preti e poi su voi nel darvi una goccia di olio profumato di nardo che viene dalla Terra Santa e così ci uniamo anche alla terra di Gesù, gettando ponti, perché la terra, il fuoco e l’acqua sono gli elementi primordiali, tra l’altro li abbiamo contemplati proprio nel lago. Il lago di Albano era un vulcano, ma nel fuoco adesso c’è l’acqua: fuoco, acqua, terra. Per i preti sarà in memoria di Salvatore, appena quattro mesi fa, per il gesto dell’unzione delle mani, e per voi in memoria dell’unzione battesimale, crismale per la Confermazione. Gli altri, anche se non parliamo, devono sentire il profumo, il profumo di Cristo. Alla fine, la testimonianza che siamo tenuti a dare non è tanto frutto di uno sforzo, di un impegno, perché resteremo poveri e resteremo peccatori, ma unti, consacrati. Non si tocca il consacrato! Davide lo vive nei confronti di Saul che lo perseguita, egli è il nemico a portata di mano, ma non lo tocca, perché il consacrato del Signore è intoccabile, non gli sarà spezzato neanche un osso. Grazie, Gesù, che ci hai tenuti qui, grazie perché abbiamo sentito il Tuo passaggio, il Tuo profumo; attirami dietro di Te coi tuoi profumi (la sposa del Cantico), grazie perché ci rimandi nella vita con una rinnovata coscienza.Siamo venuti qui a lavare nel lago le nostre vite, come lo scrittore per ritrovare la purezza, la lingua della vita, della fede, della speranza. Grazie perché ci profumi, e questo profumo è il tuo profumo. Allontana, dirada e annulla l’odore di morte che a causa dei nostri peccati ci portiamo addosso. Grazie: Il tuo profumo ci inebria e ci salva.

Il passaggio dalla spiritualità del profumo alla concretezza della porchetta non è un rimprovero, ma un richiamo alla concretezza della vita, quindi non è un gesto profano, non è un cadeau, un souvenir di Ariccia, ma è attestare che la Pasqua deve entrare in tutti i pori della nostra vita, anche nella nostra carne, anche nel nostro gusto. Ed è quello che vi auguro. Ovviamente, come sempre, non ci salutiamo, e quindi adesso andiamo a fare colazione in silenzio, e ci salutiamo con lo sguardo. Questo Corso giocoforza manca, è monco del contatto personale con chi guida, ma vi rendete conto che è meglio non parlare con nessuno che parlare con tre persone, e quindi ho tenuto dei colloqui solo con alcuni presbiteri. Ringrazio innanzitutto loro, perché mi commuove vedere che alcuni partono dalla Sicilia per essere qui. Quest’anno Giovanni è giunto da Biella, veramente questa è solo opera di Dio e non è assolutamente applicabile a nessuno se non al Signore. Grazie a loro che si preparano alle grandi manovre pasquali per cui questo momento è un respiro prima dell’apnea della Settimana Santa. In particolare, grazie a Felice, a Maurizio, che, come ha già detto Carmen (Melese)ieri sera nella condivisione, non sono stai un elemento secondario nella trasmissione. Dobbiamo anche dire grazie a Carmen (Altieri) che, sebbene assente, si è sobbarcata la fatica di mandarvi continuamente mail, aggiornandovi e dandovi appuntamenti. L’accompagniamo in questi giorni in preparazione alle nozze e la benediciamo da lontano.Grazie a tutti voi: tornate a casa con il vostro dolore, ma profumato. Prima o poi speriamo di renderlo amico, adesso lo abbiamo placato, questo dolore, è una piaga che è rimasta, ma che è profumata di Cristo, redentiva. Accetta, guarda con simpatia, prendi per mano il tuo dolore e le vicende che ci attendono e che solo il Signore conosce. Siamo disponibili ad essere nuovamente scelti, benedetti, spezzati, dati.Benedizione del Vescovo

*** Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.