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Abitare la crisi con Gesù Santuario del Getsemani di Paestum, 18 – 22 novembre 2013 Esercizi spirituali per sacerdoti e religiosi guidati da S. E. Mons. Arturo Aiello vescovo di Teano - Calvi 1

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Abitare la crisi con Gesù

Santuario del Getsemani di Paestum, 18 – 22 novembre 2013Esercizi spirituali per sacerdoti e religiosi guidati da

S. E. Mons. Arturo Aiello vescovo di Teano - Calvi

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PREMESSA

È sceso il buio intorno, mi vedi.È ancora viva la fiamma,che trema.Prendi ancora fiatoe andiamonon ti spaventarenoi possiamo.Faremo fino in fondoogni strada chiusa,supereremo golefiumi di acqua velenosa.Meno male che ci sei ancorameno male che ci sei tu,dietro una porta sbarrata a tuttisei riuscito a trovarmi.( Pacifico )

«Crisi» è parola indigesta, come una scheggia conficcata nella mano che accarezzava la piallatura dolce dei tuoi giorni “perfetti”. È tunnel che mai avresti immaginato di imboccare, buio che mai pensavi potesse rovinarti addosso. Dentro. Siamo figli di un passato che voleva una fede priva di dubbi, una vocazione priva di incertezze, un’obbedienza priva di esitazioni, una purezza priva di fragilità, una preghiera priva di distrazioni, una disciplina priva di infrazioni. Per questo, forse, siamo cresciuti inseguendo modelli privi di umanità. Eppure «viene un’ora in cui ciò che un uomo ha costruito della sua vita si richiude su di lui e lo soffoca. «Tu credevi di “fare” la tua vita ed ecco che la tua vita ti disfa» (C. Bobin). Tanti hanno attraversato questa gola d’acqua velenosa, anche mistici, eremiti, uomini e donne di grande spiritualità, fondatori di comunità. Quanti hanno sofferto e soffrono tante sere della vita con il cuore nella polvere e i sogni calpestati, lacerati da un’intima emorragia di speranza e soli in mezzo alla folla, bersaglio della tentazione che fa centro nelle nostre più alte aspirazioni, troveranno in questi Esercizi Spirituali un’offerta di senso a difesa dei pensieri più nefasti che piovono a frecce nell’agonia dell’esistenza e una chiave per rileggere le stagioni accartocciate dell’anima. Questo denso percorso in quadri successivi mostra come non soltanto il deserto della prova sia un appuntamento in agenda a cui tutti devono presentarsi, ma che addirittura è possibile «abitare la crisi». Cioè la crisi può diventare spazio familiare, la tempesta faro che conduce all’abbraccio del porto, l’apparente fine di tutto occasione di fecondità. Ci sono aurore che hanno bisogno dell’incubazione della notte per esplodere. Crisi non è paralisi di passi, ma ciò che determina il passaggio da una fase all’altra della vita, spogliandoci, essenzializzandoci.

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La crisi è l’ora di Dio, l’Ora di Gesù. Ora dell’abbandono e del compimento, Ora della violenza e della mitezza. Gesù ha affrontato la crisi del deserto inospitale, la crisi della solitudine e dell’incomprensione, la crisi dell’insuccesso, la crisi della Passione, dell’ingiusta condanna, del tradimento. E in queste logoranti crisi è rimasto, è voluto restare. Rileggere la crisi con Gesù è una delle indicazioni più preziose incastonate in queste pagine di vita, perché «tante nostre crisi, se lette alla luce della nostra esperienza, di quello che sappiamo e vediamo, rischiano di portarci alla depressione, alla demotivazione, alla fuga, ci fanno entrare in situazioni intricate da cui poi è difficile uscire. È importante, invece, lasciarci guardare da Gesù in qualsiasi momento della nostra vita, perché Egli ci legga, perché Lui sa leggere bene quello che ci accade, più di quanto non possiamo fare noi da soli». Occorre rimanere, perseverare, mantenere la posizione avanzando per-severa, attraverso le difficoltà, «tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb 12,2). La Sua silenziosa ma costante intercessione ci traghetterà «all’altra riva», ci farà «camminare sulle acque dell’impossibile». Con Gesù si può abitare la crisi e arrivare ad amare anche l’oscurità: «Ho cominciato ad amare la mia oscurità. Perché ora credo che essa è una parte, una piccolissima parte, dell’oscurità e della sofferenza in cui Gesù visse sulla terra… Oggi ho provato davvero una gioia profonda: Gesù che non può più attraversare la Sua agonia, lo vuole fare in me. Più che mai abbandono me stessa a Lui. Sì, più che mai sarò a Sua disposizione» (Madre Teresa di Calcutta).

padre Marco

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ABITARE LA CRISI CON GESÙ

Prima meditazione: Abitare il deserto.

Gli Esercizi spirituali sono un’esperienza, così come la tradizione ce l’ha consegnata, da vivere nella cornice del silenzio, con tutto il disagio che questa parola comporta oggi, anche per noi, non solo per i nostri giovani. “Silenzio” significa: non parlare, evitare tutti i rumori possibili, non dialogare durante i pasti (ho un ricordo che mi viene proprio da questa Casa, santa casa, di uno di voi, che mi riportava che, dopo aver invano tentato, durante i pasti, di conservare il silenzio, un giorno si è presentato con la cuffia e la musica, e il suo dirimpettaio lo ha accusato di essere uno che non voleva dialogare. Non me lo sono inventato!). E allora, poiché abbiamo bisogno di incontrare Gesù, di convertirci, di metterci davanti alla Parola in una maniera radicale e senza filtri, senza preservativi, tanto per dare un’immagine un po’ forte, ci impegniamo in questo senso, e se qualcuno di voi, a un certo punto, sta per scoppiare, prenda la sua auto e ritorni alla sua pieve, alla sua Canonica, lasciando gli altri a svolgere il cammino. Spero che questo invito, che ripeterò, e di cui spero nella prima meditazione di darvi anche motivazioni spirituali, sia raccolto in maniera radicale. Tra l’altro, va anche detto stop ai telefonini e a tutto quello che ci connette con l’esterno. Le nostre diocesi, le nostre parrocchie, in questi giorni, andranno meglio senza di noi. Di questo non vogliamo convincerci e pensiamo di essere insostituibili, dunque dobbiamo mantenere il contatto con la sacrista, con quello delle pompe funebri, con la segretaria o il pool delle segretarie della parrocchia. Lasciamo, invece, che il mondo vada per la sua strada, come dice il canto che conoscete. Ci ospita questa Casa. Celebreremo l’Eucaristia nella parte superiore, e invece utilizzeremo quella più calda e più raccolta, la parte inferiore, la cappella a due piani, per le Lodi, l’Adorazione, la Compieta, a meno che non vi sia dato appuntamento in altro luogo. Questi gli avvisi di massima. Cercherò di guidarvi in una maniera semplice, umile, ma anche portandovi per mano. Avete letto un titolo, poi vi spiegherò com’è nato, ma è un fatto piuttosto relativo, l’importante è il nostro confronto con la Parola, fino a farci male. Allora, dopo questo avviso un po’ terroristico — ma un po’ di terrorismo fa bene per noi che lasciamo la guardia — possiamo introdurci nel nostro cammino. Facciamolo, innanzi tutto, segnandoci con il segno della Croce, perché è il segno distintivo, ma anche perché è ciò che dà avvio ad ogni preghiera, anche una preghiera lunga, quale è quella degli Esercizi.Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

Canto: Vieni, Santo Spirito

Il brano che ora vi suggerisco, che è all’inizio del vangelo di Marco, serve a dare il la, cioè non è ancora parte integrante del cammino che faremo, ma ci aiuta a fare un po’ di stretching, visto che proveniamo tutti dal campo di combattimento, e quindi abbiamo una certa difficoltà ad entrare in preghiera prolungata. So per esperienza che, quando si viene agli Esercizi, almeno nelle prime ore, si è accompagnati da una voglia matta di scappare. La conoscete

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bene, tra l’altro è anche mia, mi capita sempre, e devo farmi forza per rimanere, ed è certamente una difficoltà, perché abbiamo messo il piede sul freno, ma anche una tentazione, perché da questa esperienza, da esperienze come queste, provengono tanti frutti spirituali, che non possono non preoccupare chi ha a cuore la nostra perdizione. E non vi sembri che questa sorta di evocazione del diavolo ci introduca in una riflessione fosca. Credo fermamente che, se fossi il diavolo, mi impegnerei, impiegando tutte le mie forze, per far cadere un prete. “Perché se cade l’uomo ingrato — dice Metastasio nei versi della Via Crucis — cade una persona; se precipita un prete, precipita una comunità”. Non so se questo possa aiutarvi, nelle riflessioni fatte anche da soli, a capire come mai la nostra vita sia particolarmente provata. Ormai ci sembra che delle forze si accaniscano nei nostri confronti e non riguardano solo noi come persone, ma anche il ministero che svolgiamo. Il brano è al capitolo 1 del vangelo di Marco, ristretto ai vv. 9-13. Vi leggo il testo.Vi dicevo che non fa parte integrante del nostro percorso, d’altra parte queste ore servono a introdurci, a farci varcare la soglia della preghiera. Una parola voglio dirla anche sul tema che ho scelto come ipotesi di cammino, ma non so neanche se lo seguiremo così come mi è venuto in mente il mese scorso. È partito dal nome di questo Centro di Spiritualità: Getsemani. Cosa significa per me e per quelli che verranno fare gli Esercizi al Getsemani? Per questo ho scelto alcuni brani, in cui Gesù vive un momento di difficoltà. Ovviamente, ce ne sarebbero tanti, ne ho individuati alcuni che segnano momenti di crisi. Di qui il titolo: “Abitare la crisi con Gesù”. Lo affronteremo domani, anche se ce ne darà già possibilità la lettura del Vangelo nella liturgia della Parola e nell’Eucaristia che celebreremo questa sera. Non c’è bisogno che mi soffermi su note esegetiche, vi do solo qualche annotazione che contestualizzi la preghiera. Cosa ha significato per Gesù il Battesimo sulle rive del Giordano? La frequentazione con il Battista ha significato “noviziato”, esperienza “fondativa”, nella sua umanità, beninteso. Gesù, almeno a guardarlo dagli obiettivi degli evangelisti, vive nell’esperienza del Battesimo un momento rivelativo di sé, dove si sente confermato, inviato, dove comprende appieno chi Egli sia e cosa deve fare. Ecco, l‘esperienza degli Esercizi è un tornare al momento fondativo della nostra vita. Badate che di tali momenti ce ne sono due nella nostra vita. Uno è per tutti noi l’esperienza dell’Ordinazione diaconale e presbiterale, ma prima c’è stata un’altra esperienza, meno documentabile sul piano sacramentale, ma ugualmente importante, forse, per certi aspetti, ancora di più sul piano esistenziale, ed è il momento, la stagione, dove ci siamo sentiti chiamare. Quasi per tutti noi questo è avvenuto nella giovinezza, nella prima giovinezza, qualche volta addirittura nell’infanzia, dove qualcuno ci ha detto chi eravamo e che cosa dovevamo fare. Credo che, dopo tanti anni, diamo poca importanza a quegli eventi che hanno disegnato la nostra storia. Dice il padre Rossi De Gasperis: “Quando sei andato via da casa e sei andato in Seminario, in noviziato, in quel momento si celebrava, scattava, era evidente una grazia, che ti viene incontro in una maniera chiara, quanto più ti allontani geograficamente e temporalmente da essa”. Quindi due momenti: quello che avete super

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fotografato e documentato in tante maniere il giorno delle Ordinazioni, ma, ancor prima, il momento, a volte enucleabile con difficoltà, ma cui pure siamo chiamati a riandare col pensiero, che è quello in cui eravamo adolescenti o ragazzi o giovani, facevamo mille cose, e qualcuno ci ha detto: Tu sei. Ho fatto questa precisazione perché avviene lo stesso per Gesù sulle rive del Giordano, quando è battezzato; uscendo dall’acqua, si aprono i cieli, si ascolta una voce, scende lo Spirito (esperienza trinitaria) e tutto questo avviene anche ora. Fermandomi questi giorni, torno con Gesù sulle rive del Giordano, faccio memoria della mia storia, di quello che Dio ha fatto con me e in me, e mi reimmergo nelle acque sorgive della mia vocazione. Questa è un’esperienza di Spirito Santo: Esercizi spirituali (anche solo il titolo ci dice di che cosa si tratta). Innanzi tutto, “spirituale” non è da intendersi come Esercizi che riguardano la vita spirituale, il mondo spirituale, ma anche, e direi, soprattutto, “Esercizi nello Spirito Santo”. E poi “Esercizi”. Questo, infatti, non è un momento di riposo: Vado un po’ agli Esercizi e finalmente dormo! Quest’aspetto è anche bello, buono, e può far parte della cornice di questi giorni, ma certamente non ne è l’anima, che è invece quella della palestra: pesi, flessioni, esercizi con un allenatore. Adesso va di moda quello personale, personalizzato, e le nuove palestre sono dotate di allenatori che fanno il piano specifico per me, dunque si tratta di recuperare certe articolazioni che, a causa di una preghiera sbadata, veloce, e addirittura bypassata, in questo momento non sono al top (immagino che anche a voi sia capitato di fratturarvi qualche arto, allora avete vissuto il disagio, la fatica, il dolore di riprendere, una volta tolto il gesso — che adesso sembra sempre più fuori moda — o anche le viti, i movimenti che prima erano naturali, normali, attraverso la fisioterapia). Gli Esercizi spirituali, Esercizi nello Spirito Santo, sono finalizzati a riabilitare delle articolazioni che rischiano di essere anchilosate. Perciò occorre tornare al Giordano come esperienza fondante, fondativa della nostra vita. Tornarvi con Gesù, ovviamente. “Mai andare nel proprio passato — dice Bonhoeffer — da soli”. Dobbiamo immergerci in queste acque chiare, fresche e dolci, come quelle che cantava il Petrarca, che sono le acque della nostra giovinezza, della nostra nascita, della nostra Ordinazione, le acque frizzanti, spumeggianti dell’entusiasmo con cui siamo partiti. Dobbiamo ricevere la grazia dello Spirito, di nuovo un’identità e quest’identità è: “Tu sei prete!”. Qui, nel testo, nell’esperienza di Gesù, è: “Tu sei il figlio mio prediletto”. Oggi abbiamo anche tanto pudore — purtroppo! — di sentirci un po’ così. Forse anche una certa teologia di massificazione, massificante, ci ha portati lontano da frasi del tipo (adesso lo possiamo dire perché siamo inter nos): Il Signore mi ha guardato con sguardo di predilezione. È chiaro che: “Tu sei il mio figlio prediletto” ha un valore unico e irripetibile per Gesù di Nazaret, ma quando leggiamo questo testo ci chiediamo se, in una maniera analogica, non possa essere applicato anche a noi, e diciamo: “Certo, a tutti i battezzati”. Ma ora ci chiediamo se questa predilezione — lo so che, qualche volta, col passare degli anni, magari a voi non sarà capitato, ma a me sì, in certi momenti l’abbiamo forse maledetta — può essere applicata a me, che sono stato chiamato al ministero ordinato, e prediletto perché scelto da un numero, da una classe, da una folla, da una miriade di persone, e messo a parte e collocato in una dimensione di amore speciale. Beninteso, ne sono compiaciuto, speriamo che

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almeno in qualche aspetto possa essere vero anche per noi e per il nostro ministero. I versetti 12 e 13 (ritorneremo poi sulle tentazioni, perché uno dei brani scelti è proprio quello delle tentazioni nella versione di Matteo e di Luca) qui mi interessano come incipit degli Esercizi, perché questa esperienza, così gratificante ed edificante anche sul piano umano per Gesù, non viene seguita da un bagno di folla (adesso seguiamo l’andamento di Marco) ma, una volta ascoltata questa voce, certificatosi della sua “vocazione”, Gesù è spinto dallo Spirito — lo stesso che scende su di noi — nel deserto (e qui abbiamo, nella versione marciana e in questi due versetti, una condensazione dell’esperienza delle tentazioni). Subito dopo questa esperienza esaltante, lo Spirito spinge Gesù nel deserto. Allora gli Esercizi sono questo. Chi ti ha spinto qui? Ci ha spinti lo Spirito. Da Ischia, da Salerno, da Vallo, da Napoli, da Sorrento, da Teano, insomma da tante diocesi, da Benevento, ci ha spinti lo Spirito. A te sembra che tu abbia deciso che era ora che andavano fatti gli Esercizi, che andava bene questo periodo, in realtà c’è qualcosa che ci spinge, ed è lo Spirito. E lo Spirito spinge nel deserto, perché il deserto è un luogo arido, dove si è fuori dalle nostre sicurezze false, fosse anche la nostra stanza, siamo spinti fuori, dove non abbiamo più appigli (il mio Ipod, la mia consolle, da cui dirigo la parrocchia, come il quadro di un pilota), e dove veniamo messi davanti alla nostra verità. Qui c’è tutta la teologia di Osea, che conoscete bene, e la categoria del deserto della Sacra Scrittura, a partire dall’Esodo, come esperienza fondante, per cui l’uomo, vistosi sguarnito, spogliato delle sue sicurezze, decide di fidarsi di Dio. Lo Spirito spinge Gesù nel deserto e spinge noi nel deserto. E allora provate, veramente, ad essere crudeli in questi giorni con voi, non telefonando: “Sono nel deserto, non prende, non prende la linea nel deserto, non arriva il satellite, non c’è copertura, non c’è campo nel deserto”. Provate a mettervi fuori da tutte quelle cose che ci rendono uomini altrove, o preti, o vescovi. Ogni qualvolta Israele amoreggia, si fa avanti, si tira, come dicono i nostri giovani, altre storie, allora Dio lo sospinge nel deserto, per riparlare al suo cuore, come nei tempi della sua giovinezza (ricordate Osea). Il versetto 13 comincia con: “Vi rimase”. È questo il problema! Il problema è “rimanere”. Vi confesso che, senza riuscire a riposare, ho avuto uno stravolgimento dello stomaco, ma si trattava di una somatizzazione di rigetto, cioè, se avessi dovuto rispondere all’impulso che fisicamente avevo sentito un’ora fa, sarei scappato. E immagino che, in altra maniera, con le vostre somatizzazioni — la mia avviene qui, nello stomaco — vivrete la tentazione di andarvene, mentre bisogna rimanere. Il rimanere è la risposta, perché la chiamata è lo Spirito che ti spinge, e qui non hai merito, accade allo stesso modo per tutti noi. Ma riuscirò a rimanere? Riusciranno i nostri eroi a resistere fino a venerdì, alle 12:30? Ecco, “vi rimase”. Vedete che in questo “vi rimase” — ma poi avremo modo di lavorare su questo tema — c’è la matrice di quell’abitare la crisi. Si può abitare una crisi? O una crisi è solo un temporale che ci raggiunge senza ombrello, che ci impaurisce e da cui dobbiamo scappare? Forse dobbiamo imparare ad “abitare la crisi”. Questa è una sfida che vorrei lanciarvi e che vorrei entrasse nella nostra preghiera in questi giorni.

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“Gesù rimase quaranta giorni”. Anche se il deserto non era bello. Tutte le volte che andiamo in Terra Santa, non so voi, ma io provo sempre una gran voglia di andarmene, perché certi panorami aridi, certe lunghe distese di pietra, senza un albero, mi angosciano. “Gesù rimase”. E tu devi rimanere. A volte è un deserto la nostra vita da preti o da vescovi. È un deserto la nostra diocesi, la vostra parrocchia, che fate fatica ad amare, ma adesso che incontro Gesù, che abita nel deserto, sento una spinta, a dire: “Sì, ci voglio stare in questi giorni”. Vedete, semplicemente, sto cercando di aiutarvi poveramente a sceglierlo questo Corso di Esercizi, perché non è detto che non abbiamo scelta stando qui. “Beh, ci vado per far contento il vescovo, però, intanto, ho portato i miei giochini, le mie cose, le mie letture; ci vado, ma…; sì, mi presento anche alle meditazioni, però poi vado per i fatti miei…”. Credo che dobbiamo lavorare con noi e con i nostri fedeli. In questo momento quello che sto facendo io con voi è invitarvi a salire nel grado motivazionale, che è rimanere preti. Mi sembra una grande sfida, non so voi come l’avvertiate, ma io vi chiedo: I miei preti stasera dormiranno da soli? Che brutti pensieri ha un vescovo nei confronti dei suoi preti! Non so, Luigi, Pietro, e non perché vogliamo mettervi i video nelle stanze o un microfono… (attenzione, se i vostri vescovi vi regalano un telefonino, potrebbe essere pericoloso, perché vi è inserito un microchip, qualcosa che vi spii). Sembrano delle battute, ma in positivo c’è il miracolo che siamo preti ancora. Non parlo della teologia, che dice che siamo preti per sempre, anche se siamo infedeli, pure se lasciamo il ministero, ma sto parlando della nostra adesione. È così difficile rimanere per i nostri giovani preti ordinati. Applausi, spesso, ne abbiamo ricevuti al nostro tempo, ma quando dura quella gloria? Ho scritto a Mons. Di Donna: “Goditi questi pochissimi giorni di luna di miele” che un vescovo vive nella prima settimana, prima di entrare nella diocesi, non oltre; ma è così anche per voi. E allora Gesù rimane e io rimango, e il rimanere è la mia risposta faticosa, asmatica a volte, difficoltosa, attentata, ma miracolosa. Io sogno sempre che, quando ci incontriamo nei nostri Presbiteri, cominciamo ad abbracciarci, a salutarci con: “Ah, ci stai ancora? Ah, non te ne sei andato? Sei ancora lì?”. E voi tra voi, e voi con noi vescovi, e noi con voi, a dire: “Eh, stiamo ancora qui, siamo ancora tutti, non manca nessuno?”, non nei termini delle assenze (quelli che telefonano sempre dicendo: “Ho le esequie…), ma nel senso che siamo ancora tutti preti. Ma è una meraviglia! È un miracolo: è il miracolo del rimanere. Ecco per questi giorni lo viviamo qui in questa nostra piccola esperienza di Presbiterio, fuori dei recinti delle nostre diocesi. Vorrei rimanere. Vorrei starci. Provo a starci. Provo a dire di sì, a seguire le indicazioni che mi vengono date. Marco, in questo testo così sintetico e denso, aggiunge: “Tentato da Satana”. Ma chi ha mai detto che gli Esercizi sono un momento di distensione? Chi l’ha mai detto? Alcuni di voi saranno graziati, vivendo questi giorni come su cuscini di velluto ripieni di kapok, quando ero bambino la cosa più morbida che ci fosse per rendere soffici i cuscini, ma gran parte di noi vivrà la fatica e la tentazione. Gli Esercizi sono giorni di tentazione, forse, più degli altri giorni. D’altra parte, Sant’Ignazio, maestro, ci dice che chi dirige, chi guida, deve fare attenzione a cosa l’esercitante viva, perché spesso vive momenti di grande desolazione o addirittura di tentazione. E il motivo, sapete, è anche psicologicamente comprensibile, perché ci mancano tutte quelle evasioni che esistono nella vita

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normale: Vado a farmi una passeggiata, telefono a un amico, mi collego su facebook, mi guardo un film, mi fumo — spero no — uno spinello, sniffo qualcosa, cioè mi distraggo. Qui no, qui no. Allora, preparati a vivere almeno una volta, preparati ad essere tentato più del solito, ad essere visitato da Dio, speriamo nei termini della consolazione, ma potrebbe darsi che Egli decida di scolpirti, cesellarti, attraverso una tentazione continua (ma su questo torneremo domani). “Stava con le fiere”: sono terribili questi due versetti. “Stava con le fiere”, che significa? Gli esegeti tirano fuori tutti i vaticini di Isaia: il lupo dimorerà con l’agnello, ecc. In una maniera immediata, si vuol dire che il deserto è abitato da animali non domestici, non è un luogo d’abitazione, e dunque è un posto dove ci sono i serpenti (cfr. Esodo), le iene, dove si sentono rumori strani. In una lettura, diciamo psicanalitica, di questo versetto viene fuori che gli Esercizi sono un tempo difficile — sto facendo uno spot non proprio pubblicitario, per dire cosa vivremo — un’esperienza in cui, messi davanti alla verità di noi stessi, non dobbiamo retrocedere rispetto alla tentazione, ma anche rispetto alle belve, alle fiere, alle bestie che sono dentro di noi. Ogni esperienza di silenzio ottiene questa doppia faccia: quella della pace, ma anche quella del disagio, perché emergono, come dal lago di Lochness, le fiere dal mio passato. Perché a casa non mi succede? Perché la sacrista, la persona, il coro, il comitato feste, in qualche maniera, ci tengono fuori. Adesso che tu torni, trovi le fiere, devi saperci stare. Credo che la maturità umana e spirituale di un prete, di noi, si misuri anche dalla possibilità di stare, direbbe Jung, con la zona d’ombra della nostra vita. Non tutto è bello, non ci sono solo giardini, non ci sono solo aiuole, fontane, statue, alberi frondosi, ma ci sono anche fiere. Gli Esercizi mi pongono in questa familiarità. “Stava”, non dice che lottava, “stava”. Bisogna starci con certe fiere. Attenti, non è una visione di manica larga, è piuttosto un indice di maturità, perché certe fiere moriranno con noi, e lo sapete bene! E allora, visto che viviamo insieme con loro, chiediamo a Gesù la grazia di guardarle, di chiamarle, senza rimuoverle, senza far finta che non ci siano. Gesù stava con le fiere, e io voglio stare anche con questi ricordi, con questi aspetti di me poco amabili. E, perché possiate essere consolati, voi ed io, il versetto si conclude: “E gli angeli lo servivano”. È, se volete, un contrappunto di negatività e di positività: lo Spirito lo spinge e lui rimane, e poi è tentato da Satana, e sta con le fiere, ma ci sono anche gli angeli che lo servono. Anche voi sarete serviti da angeli. Il nostro mondo interiore, senza tornare alle visioni infantili, è fatto di angeli e demoni, ci sono fiere che ci impauriscono, demoni che ci tentano, ma ci sono anche angeli che vengono a consolarci, poi imbandiscono per noi una mensa e dicono: “coraggio!”. Gli angeli sono presenza di Dio. Noi siamo circa 80, non so se siano arrivati tutti, oltre a noi, ci sono gli 80 angeli custodi, e poi gli angeli delle nostre Chiese, insomma una miriade. È bello cogliere queste presenze che ci dicono:“Coraggio, ce la puoi fare; coraggio, puoi scoperchiare questo sepolcro, aprire questo pozzo, stare con le fiere, superare la tentazione, vivere questo tempo di silenzio”. Concludo con una frase di San Girolamo, che mi ha raggiunto qualche giorno fa. Non so se succede anche a voi di essere raggiunti da un libro: i libri ti vengono a cercare, non sei tu che cerchi i libri, così anche le frasi. Questa frase

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mi ha raggiunto in una maniera strana, molto rocambolesca. Dice Girolamo: “Chi vuol tornare al Signore, non deve uscire di casa”. Mi ha intrigato questa espressione. Chi vuol tornare al Signore, non deve uscire di casa. Ma che vorrà mai dire? A me è sembrato di dare — poi ci lavorerete anche voi su, e troverete mille altre spiegazioni — due possibili letture. La prima: “Tornare al Signore” è tornare all’ interiorità, e dunque entrare e non uscire. “Chi vuol tornare al Signore, non deve uscire di casa”: è la realizzazione della Parola di Gesù che leggiamo il Mercoledì delle Ceneri. Quando preghi, entra nella tua stanza, chiudi la porta e prega il Padre tuo nel segreto, il Padre tuo nel segreto ti compenserà, e così l’elemosina, e così il digiuno e la penitenza. “Non devi uscire di casa” significa rientrare in te stesso, ritornare a te. “Ritornare al Signore” è ritornare alla verità di me, a ciò che sono, a ciò che sono chiamato ad essere: “Tu sei il mio Figlio prediletto”. La seconda possibile lettura di questa parola di San Girolamo è: restare nella Chiesa. Mi ha consolato anche pensare che il santo volesse indicarci la Chiesa come la casa nella quale stiamo, magari in una maniera molto distratta, pedante, come a volte capita anche a noi preti, e che è il luogo dove il Signore ci aspetta. Non uscire di casa, rientra nella Chiesa, di cui fai parte dal Battesimo, di cui sei ministro. Non uscire, perché il Signore è là, nella tua interiorità. Dunque gli Esercizi sono una forte esperienza di lettura del mistero di Dio in noi. Non uscire di casa, cioè rientra nella Chiesa: l’esperienza degli Esercizi come una forte esperienza ecclesiale. Questo lo dico non solo per quelli fra voi che appartengono alla stessa diocesi o che hanno il privilegio — spero che per voi sia un privilegio — di pregare e di vivere gli Esercizi insieme con il proprio vescovo. Agli Esercizi ci siamo noi, siamo più di due, e dunque c’è Gesù, c’è la Parola, c’è l’Eucaristia, c’è la carità che ci usiamo reciprocamente custodendoci, e dunque c’è la Chiesa. Chiudo veramente, sottolineando questo aspetto di custodia reciproca: preghiamo anche per gli altri; innanzitutto pregate anche per me, perché non dica sciocchezze, non vada per i fatti miei; lo stesso io per voi; e poi gli uni per gli altri, accompagnandoci anche e custodendoci con lo sguardo. Vedete, non ci conosciamo, ma c’è una conoscenza più profonda, più bella, che è anche custodia, per cui in questi giorni non diremo nulla, ma forse dialogheremo, passandoci il pane, il sale, guardandoci nei corridoi, osservando i volti giovani, quelli di mezza età, gli anziani, e vivendo gli uni per gli altri questo ministero di intercessione, che è anche il ministero umano di accoglierci. Ho incrociato lo sguardo di Gaetano: ci guardavamo nei corridoi del Seminario di Posillipo, trentacinque anni fa circa, e adesso ci rivediamo. Potremmo dire: Ma che è successo, invece non è importante che cosa sia accaduto in trentacinque anni, è importante che io viva da solo quest’esperienza, ma che la viva anche nella casa, che è la Chiesa, che è la Chiesa che siamo noi, ma anche la Chiesa che prega per noi, custodendoci. Ecco, questo solo per dare qualche la, altrimenti ci mancano i gradini da salire o da scendere per entrare negli Esercizi. Queste ore servono a questo. Vi rileggo il brano. In una maniera più precisa delle altre volte, vi darò anche gli esercizi concreti. Guardo la valigia, magari qualcuno di voi non l’ha ancora aperta, faccio un

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discernimento su quello che ho portato, alcune cose le lascio lì, perché mi disturberanno, magari non aiuteranno il silenzio, tiro fuori solo queste altre cose, le metto sulla scrivania: il quaderno degli appunti, il breviario, la Bibbia, il messalino, e quanto mi può servire per questo cammino. Anch’io nel deserto, anch’io spinto dallo Spirito, anch’io chiamato a rimanere — ma vuoi rimanere? — anch’io tentato, anch’io impaurito dalle fiere e servito dagli angeli. Alle 18:15, nella cappella superiore, solo per stasera, celebriamo l’Eucaristia, perché alcuni di noi non hanno celebrato; siete liberi di concelebrare o semplicemente partecipare. Sarebbe bello che in questi giorni, lancio anche quest’altra bomba, celebrassimo per noi, senza i Francesco, i Giovanni, i cinquecento nomi, le duecento intenzioni, e quindi — magari qualcuno di voi ha già celebrato — mi concedo anche una binazione, una volta tanto per la mia conversione, per l’efficacia di questi giorni, per il mio vescovo, per il mio presbiterio, per i miei confratelli. Facciamoci anche questa carità che nell’Eucaristia diventa potentissima.

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Omelia: Dedicazione Basiliche Pietro e Paolo

Possiamo rileggere questa Parola alla luce del versetto che abbiamo pregato nel primo salmo dei Vespri, il salmo 10.“Quando sono scosse le fondamenta, il giusto che cosa può fare?”. La Chiesa fa memoria della Dedicazione della basilica dei santi Pietro e Paolo, e ci fa contemplare la tempesta di Paolo e la tempesta di Pietro. Quella di Paolo è appena accennata nel brano degli Atti, ma sappiamo che, a Malta, da cui parte, Paolo è arrivato, miracolosamente, naufrago. E non è l’unico naufragio, l’unica tempesta che l’apostolo ha dovuto vivere. Più volte, nell’epistolario, fa l’elenco delle sue difficoltà, dinanzi alle quali le nostre impallidiscono. Pericoli via terra, via mare, da parte di falsi amici, dei nemici. La fede nasce nella difficoltà, nella lotta, nella tempesta. Nel Vangelo, invece, abbiamo la tempesta di Pietro. Vedete, carissimi fratelli, l’intero brano parla della difficoltà del credere: “Quando sono scosse le fondamenta…” e va letto alla luce dell’inciso: “Venuta la sera”. È la sera di un giorno campale, di un giorno glorioso, è la sera dopo la moltiplicazione dei pani. Potrebbe essere gloriosa, ma ora che scendono le ombre, le tenebre, i discepoli sono separati da Gesù. Gesù li manda avanti e poi non li raggiunge, ma se ne va sul monte a pregare. Lo sappiamo noi, ma essi, invece, sperimentano la notte e la solitudine. Ci sono tre aspetti che descrivono il pericolo del naufragio della fede: la sera, la solitudine, il vento contrario, dunque la tempesta. Entriamo, come vedete, già da subito nel tema, che si va svolgendo e che ci viene donato in questi giorni: confrontarci con il combattimento della fede, che è credere che Gesù ci sia, anche quando non ne abbiamo esperienza. Potremo dire che nelle due fasi, Pietro che cammina sulle acque e Pietro che affonda, ci siano anche due stagioni del credere e due stagioni della vita. Anselmo, che ha letto il Vangelo, è un diacono in attesa dell’Ordinazione presbiterale, e dunque è nel momento dell’entusiasmo; Antonio e Gaetano hanno terminato gli studi in Seminario e vivono questo anno in attesa di essere ordinati diaconi; ci sono altri giovani tra voi che, probabilmente, si ritrovano, almeno spero, in questa stagione, che anche noi abbiamo vissuto, di chi cammina sulle acque. Non sentono il peso. Se noi li interrogassimo: “Ma il celibato, che andate ad abbracciare, è un peso?”, risponderebbero: “Noi affrontiamo, andiamo incontro a questa tempesta, sorridendo e cantando”. Ma poi c’è la stagione della fatica, la fatica del credere, che è la nostra. E queste stagioni si alternano, per fortuna. Non c’è solo la stagione cronologica della vita, altrimenti ci sarebbe da scoraggiarci, almeno noi che siamo avanti negli anni. Si alternano queste due fasi: quando camminiamo, sull’onda delle difficoltà, senza abbatterci, e quando, invece, cominciamo ad affondare. L’importante è avere lo sguardo fisso su Gesù. Si cammina sulle acque infide, si attraversano le tempeste, si vivono le sere della vita, si sopportano le solitudini, ma si è certi che, anche se non fruibile, non visibile, Gesù prega per noi, come in quest’Eucaristia, in cui intercede per noi presso il Padre, perché la nostra fede non venga meno, perché abbiamo a risollevarci, perché in questi giorni possa uscire il grido: “Signore, salvami!”. Segno che l’anima, nonostante i graffi, è ancora viva, perché un’anima che grida è ancora viva. E allora la

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preghiera in questi giorni serve a far emergere questo grido, che, certo, viene dalla difficoltà, ma è anche preludio a una nuova stagione, in cui possiamo, voi ed io, camminare sulle acque dell’impossibile.Carissimi fratelli, a fine di questa settimana ci apprestiamo a concludere l’Anno della Fede nelle nostre cattedrali. E poi per il Papa e per tutta la Chiesa si vivranno due celebrazioni conclusive di questo anno. Non sta a noi tirare i bilanci, piuttosto sta a noi chiederci: “Ma noi, noi preti, e ovviamente anche noi vescovi, crediamo?”. Non voglio giocare al massacro, beninteso, sono più dolce di quanto non vi appaia in queste prime battute del nostro cammino, ma credo che non siano il celibato, l’organizzazione della Chiesa, neppure l’organizzazione della Curia, a cui il Papa Francesco, con piglio, si sta dedicando, il problema della Chiesa. Perché il problema della Chiesa — almeno, diciamocelo tra noi, e facciamolo intorno all’altare, perché Gesù ci sente — è la nostra fede. Io mi chiedo se i miei preti credano ancora. Noi discutiamo di tutto nelle nostre assemblee di clero, dalla A alla Z, dall’ordine delle processioni alla religiosità popolare, a quanto bisogna versare in Curia per questo o quel permesso, ma difficilmente agitiamo, perché ne abbiamo paura, il vero problema: “Ma, oggi, i preti credono?”. Certo, noi aiutiamo la fede di tanti, ma questo non dice di per sé che quel dono che offriamo agli altri, ce l’abbiamo, perché è un dono di fede, da chiedere, da alimentare. Siamo qui per questo, per chiedere il conforto dei fratelli, per invocare l’intercessione dei santi, per compiere delle opere che esprimano e sostengano la fede. Il grido di Pietro è il nostro, questa sera e in questi giorni: “Signore, salvami!” E il rimprovero che Pietro riceve, lo riceviamo noi con lui: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”. Perché Pietro dubita, si lascia prendere dalle leggi della natura, dalla legge di gravità, a un certo punto distoglie lo sguardo da Gesù e comincia ad affondare, ingloriosamente, come è accaduto tante volte a me e, forse, anche a voi. Siamo qui per dire: “Signore, abbi pietà di noi, ridonaci il dono della fede”, perché possiamo aiutare altri a credere, quando ci imbattiamo in quell’interrogativo terribile, che ci graffia, e che è tornato nei giorni scorsi nel Vangelo: “Quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà la fede sulla terra?”. È un interrogativo posto solo per scuotere, per svegliare qualche ascoltatore assopito?, come succede tante volte nelle nostre chiese, ma anche nella meditazione degli Esercizi (a volte si sentono addirittura dei ronfi, dei tromboni, non è il caso vostro, ma mi è capitato in passato). Certamente non è una domanda retorica oppure una domanda buttata lì solo per creare scompiglio, ma è una vera profanazione. E allora concludiamo questo Anno della Fede con la certezza chiara, la chiarezza interiore, che, prima di ogni altro discorso e prima dell’organizzazione della Chiesa e dei problemi morali, il credere debba essere la nostra primaria preoccupazione. Ecco, stasera poniamo davanti a Gesù, senza difficoltà, la nostra confessione di incredulità — ci ha accompagnati durante questo anno —: “Signore, io credo, ma aiutami nella mia incredulità”, che è una preghiera presente nel Vangelo, apparentemente contraddittoria: Credo o non credo? La verità è che neanche noi lo sappiamo. Credo, aiutami nella mia incredulità, perché c’è una parte di me che crede, e una parte di me incredula, c’è una parte di me evangelizzata,

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e una parte ancora da evangelizzare. “Quando sono scosse le fondamenta, il giusto che cosa può fare?”. E qui non è solo il lago, il mare per Paolo, il lago per Pietro, ma è questa condizione di instabilità. Quelli di Ischia, ma anche gli altri che affacciano sul mare, avranno sentito dai propri nonni il proverbio: “Pe’ mmare nun ce stanno taverne”, a dire che siamo nell’incertezza, nell’instabilità, cioè uno che si metta a navigare non ha dove ripararsi nel momento della tempesta. Questo non è vero per noi, perché anche per mare ci sono taverne. “Appena saliti sulla barca, il vento cessò”. E questa barca è la Chiesa. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a Lui, dicendo: “Davvero Tu sei il Figlio di Dio”. E allora c’è una taverna anche per mare, un rifugio anche in questa estrema instabilità, ed è nuovamente la Chiesa, dove Gesù è presente, dove ci poniamo in adorazione, riconoscendoLo. Siamo qui, in questi giorni, per questo.

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Compieta: Totus, Solus, Alius.

Volevo chiedervi se siamo veglianti o dormienti, sia che vegliamo sia che dormiamo, sia che viviamo sia che moriamo. In questi giorni siamo contemporaneamente veglianti, vegliamo, ma anche dormienti, perché la preghiera è anche un sogno. Dice il salmo 126 che il Signore ricolma il suo amato mentre dorme, ed è il sonno di Salomone, cui il Signore si rivela, dicendo: “Cosa vuoi chiedere?” E lui: “La sapienza del cuore”. Quindi, contemporaneamente — perché la fede è fatta di paradossi — stiamo qui a dormire e vegliare. Questa è l’immagine di Gesù al centro, Egli ci richiamerà continuamente questa dimensione: “Vegliate e pregate per non entrare in tentazione”, ma, allo stesso tempo, entriamo anche in una dimensione di riposo. Spero che gli Esercizi siano anche questo, oltre alla lotta, di cui ho parlato nel pomeriggio. Vegliamo, perché la fede sia alimentata dalla preghiera, ma vegliamo chiedendo di ricevere un dono. Vi affido le tre paroline che la tradizione antica applica a chi entra in Esercizio. Le conoscete benissimo, ma il mio compito è ricordarvele. Innanzitutto, la parola “totus”. Bisogna entrare negli Esercizi totalmente, ma anche senza lasciare alle porte, fuori, alcun aspetto di noi. Sappiamo quanto nella vita spirituale sia deleterio nascondere qualcosa, non solo al confessore, ma anche al padre spirituale. Il demone muto è all’origine di tante crisi, per cui la tradizione ti invita a entrare totalmente, cioè a non lasciare un aspetto di te dicendo di non volerlo guardare. Può valere per la vita spirituale, per analogia, quello che è l’adagio che conoscete per la redenzione: Quello che non è assunto non è redento. Quindi la natura umana, assunta dal Verbo incarnato, è redenta. Anche qui, quello che non è assunto, nel senso che non entra, un aspetto della vita affettiva, una dimensione, una relazione, finisce con l’invalidare quest’esperienza, e ti capita quello che la mitologia racconta di Achille che, immerso dalla madre nel fiume dell’immortalità e dell’invincibilità, comunque doveva essere sostenuto in qualche parte e quindi il tallone diventa il motivo della sua condanna, benché sia forte e imbattibile in tanti altri aspetti. Ognuno di noi ha il suo tallone d’Achille, e allora vogliamo presentarlo addirittura in una maniera preferenziale a Gesù, in questi giorni: Guarda quest’aspetto della mia vita, guarda questa resistenza, questo ambito della mia vita presbiterale o cristiana o umana. Guarda Tu questa storia. Totus. L’altra parola è “solus”. Entra totalmente e poi rimani da solo, resta da solo. Utilizziamo, questa sera, anche mentre andiamo a dormire, mentre spegniamo la lampada sul comodino, la formula per salutare anche delle persone: Ciao, addio! È bello pure dire “addio” alle persone, anche quelle a cui siamo molto legati. Adesso sono agli Esercizi, non posso, devo essere solo. Solus. Per noi pastori è difficile anche sganciarci dalle comunità. Starete pensando: “Prima, voi vescovi ci dite di affezionarci, ecc., e poi ci chiedete di tagliare, di staccarci”. Si tratta di una solitudine che, diversamente dall’ordine della natura, è sinonimo di fecondità, dal momento che l’altro che viene a visitarci nella nostra solitudine — e qui “solitudine”, se volete, in qualche maniera è “verginità” (sono giorni vergini questi, perché siamo soli) — lo Sposo che viene rende possibile ciò che, magari, non siamo riusciti a realizzare attraverso tanti

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espedienti della scienza pastorale. Solus. Allora, vegliate sulla vostra verginità! Kierkegaard, come ricorderete in tanti, dice che il dramma — lo diceva già cinquant’anni fa — della nostra cultura è che non si riesce a stare soli mezzora, chiusi nella propria stanza. Noi vogliamo tentare di più: restare soli quattro giorni, che poi non sono tanti. Stasera saremo un po’ angosciati, un po’ tutti: “Ah, come passerà questo tempo!”, poi sapremo, per esperienza, che vola, e alla fine: “Ah, peccato, è già passato!”. La terza parola è: alius. È, se volete, l’obiettivo degli Esercizi. Gli altri due sono i presupposti, che rendono realizzabile e fattibile l’obiettivo che è uscire “altro”, convertiti, in grazia. Ma riuscirò ad essere alius da quello che sono stato, a volte, anche per anni, addirittura per decenni? Sì, nella misura in cui mi espongo senza veli, totus, e poi mi sgancio da tante storie, da tanti demoni che torneranno, sì, ma nella preghiera. “Gesù, pensaci Tu! Pensaci Tu alla mia parrocchia, pensaci Tu alla mia diocesi, a queste persone che ho lasciato un po’ in bilico, a queste situazioni che mi porto dietro come sofferenza”. Ecco, se riusciremo a fare questo, ovviamente lo chiediamo ciascuno per sé, ma anche ciascuno per tutti, allora si realizzerà il miracolo, che è frutto degli Esercizi: Uscire diversi, che significa poi, fondamentalmente, con lo sguardo diverso, sia che vegliamo sia che dormiamo. Vegliamo e dormiamo insieme in questi giorni. È una veglia, la preghiera, è un sonno, la preghiera, e vi entro con queste tre parole che la tradizione mi offre: totus, solus, alius.

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Lodi: Tornate, prigionieri della speranza.

Il cammino degli Esercizi è ricco di sollecitazioni. Bastano da soli i salmi (che mastichiamo, a volte, sbadatamente e sonnecchiosi nei giorni normali) per marcare il nostro orizzonte, per essere, da soli, temi da pregare e meditare. Penso, per esempio, a: “Io gli do lode nel paese del mio esilio”. Cerco una lettura trasversale in questi testi, come si addice a un assaggio di meditazione a lodi. “Io gli do lode nel paese del mio esilio”, e poi, ora, il brano della Lettera ai Romani, che è il sole che, di tanto in tanto, fa occhiolino e riempie di colori la nostra assemblea orante. È tempo ormai di svegliarci dal sonno. Questi sono gli ultimi giorni dell’Anno liturgico, ed è bello viverli insieme. Sia gli ultimi giorni e sia anche i primi accenni d’impostazione del Tempo d’Avvento ci riportano all’urgenza di un tempo maturo che viene e che potrebbe trovarci addormentati. Questa volta, a differenza di ieri sera, il sonno da cui scrollarci è sinonimo di ritardo e di peccato. È tempo di svegliarci dal sonno. Siamo immersi in una malattia del sonno sul piano ecclesiale, sul piano sociale, sul piano spirituale. Gli Esercizi vengono come una sorta di ripresa, come una possibilità di scrollarci di dosso i suoni, la bocca impastata, gli incubi del sonno. E il motivo della sveglia, lo squillo di tromba, che è il brano che abbiamo ascoltato, è la venuta del Signore che è imminente, è prossima. L’aver perso la dimensione dell’attesa ha penalizzato la Chiesa — ma questo lo dicevano già gli antichi — che rischia di impelagarsi, di creare aderenze con il mondo, nel senso negativo del termine, perché perde di vista un credo che ci attende. C’è una notte — anche ieri pomeriggio ne parlavamo a Messa: notte, solitudine e tempesta — ecco, essa va diradandosi, perché già è accesa la stella del mattino, annuncio, prologo, pronao di un giorno luminoso, quello della Pasqua che irrompe. Di qui l’indicazione: “Gettiamo via le opere delle tenebre”, cioè togliamoci gli abiti della notte, il pigiama, che sa di trasandatezza. Normalmente, indossiamo il pigiama, ci guardiamo allo specchio, sono gli abiti della notte, magari spaiati, i calzoni di un tipo e la giacca di un altro, nessuno li vede; adesso, invece, bisogna indossare gli abiti del giorno. Non so se lo avete già pregato, lo farete con calma durante questo giorno, ma il brano di Zaccaria, nell’Ufficio delle Letture, è di una ricchezza immensa. Intanto, torna il tema che era presente anche nel salmo che abbiamo pregato, il salmo 32: “Il re non si salva per un forte esercito / né il prode per il suo grande vigore. / Il cavallo non giova per la vittoria”. I nostri presbiteri si dividono in due categorie: i cavalli e gli asini. Ovviamente, io sono dalla parte degli asini. I cavalli, da un lato, e i muli, che sono quelli che tirano silenziosamente la Chiesa. Vorrei fare una carezza a qualcuno di voi che si sente un asino, un mulo, e non è un cavallo. I cavalli si tirano fuori, ma per le processioni, magari imbellettati, con la criniera al vento, e fanno bella figura, sono i primi in quanto a forza. L’Antico Testamento, in qualche maniera, può essere letto come una lotta tra cavalli e muli. Ovviamente, vincono i cavalli sul piano umano, ma, in realtà, i muli e gli asini — come noi, come me, almeno, voi magari sarete pluridottorati — non fanno bella figura, non si possono mettere

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nel circolo, non servono a rendere solenne una processione, ma, umilmente, poveramente, testardamente, tirano il carro. E qui, nella profezia di Zaccaria, il Re, il tuo Re, mite, Gesù, viene cavalcando un asino. Per questo poi al testo è stata appaiata l’omelia di Sant’Andrea di Creta, cui leggiamo un passo nella Domenica delle Palme: “Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme”. Attenzione a quelli fra voi che si sentono cavalli! Sparirete! Restano i muli, gli asini, gli animali da soma, quelli che tirano la parrocchia. Ricordo il vescovo di Marsiglia che, quando io ero giovane, pubblicò un testo dei suoi interventi: “Tiro avanti come un asino”. Beh, sulla bocca di un vescovo sembra un tantino disdicevole, in realtà, il pastore voleva dire: “Vado avanti con difficoltà, tiro il carro, non sono un cavallo, sono un animale da soma”. Ma quello che è più bello in questo testo, e vorrei che non vi sfuggisse, è: “Tornate alla cittadella, prigionieri della speranza!”. Vi confesso che chi ha portato la mia attenzione su questo testo è il rabbino che parlò al Convegno di Verona — polemico, come tutti gli Ebrei ortodossi — però ci fece gustare, tirò fuori dallo scrigno della Scrittura questo testo: “Tornate alla cittadella, prigionieri della speranza!” (Zaccaria, 9-12). Nella preghiera, cerchiamo di lavorare intorno a questo ossimoro: Prigionieri della speranza. Si può essere prigionieri di una cosa che non c’è ancora? Normalmente, si è prigionieri del passato, di una colpa, di una condanna. “Io gli do lode nel paese del mio esilio”: Com’è possibile che io canti i canti del Signore in terra straniera? Com’è che io posso danzare in questa situazione che sembra apocalittica, fallimentare? Perché sono prigioniero della speranza.Mi auguro, cari fratelli — a volte “fratelli” è meglio che confratelli — che vi sentiate prigionieri della speranza, e quindi tirati a forza verso un futuro che incombe, verso un parto, una gestazione in corso, che ci reclama, reclama la nostra attenzione verso il futuro e non verso il passato. Prigionieri della speranza. Noi ci saremmo aspettati: Voi che coltivate la speranza dei prigionieri. Nel nostro vocabolario, e anche nelle nostre categorie mentali, sarebbe suonato meglio: Voi che siete prigionieri e coltivate la speranza. E invece, prigionieri della speranza, quindi la speranza intesa come un dolcissimo carcere, che ti lega, ti spinge, come è spinto il bambino violentemente attraverso il canale del parto. Allora mi chiedo: se io vivo così il mio ministero, se sento che devo tirare il carro, ma si tratta di farlo fino a stasera, ancora per un certo tempo, perché il giorno sta per scoppiare, la realizzazione della mia speranza è vicina, la mia salvezza è più vicina ora, di quanto sono diventato credente, allora, costi quello che costi, qualsiasi cosa mi sia chiesta, offro volentieri la mia schiena per portare pesi, apparentemente insopportabili. D’altra parte, ed è appena il caso di ricordarlo, ma forse lo farò più volte in questi giorni, il nostro vivere da celibi per il Regno ha questa grossa proiezione. Anche Gesù ve lo ricordava, due Domeniche fa, a proposito di quella donna scalognata che si era sposata tante volte. Ma poi, alla fine, da chi sarà reclamata? Da nessuno. Di chi sarà moglie? Ebbene questo fatto appartiene alla storia. E allora il nostro vivere da soli, il nostro vivere in un letto a una piazza, a volte, ci pesa, e non tanto perché vorremmo spaziare da un posto

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all’altro del letto (perché freddo è e freddo rimane), ma perché il nostro vivere in un letto a una sola piazza è questo essere rivoltati. Non abbiamo tempo. “E perché il parroco non mi sposa?”. “Non ho tempo”. Questo dovrebbe rispondere un prete per tanti motivi. “No, non ho tempo, c’è da fare, da argomentare, da svegliare i dormienti, da svolgere un ministero, perché il tempo è breve”. E allora vengono gli Esercizi, anche per riprendere queste dimensioni, perché si appesantiscono sotto la polvere di scelte fatte una volta e mai più rinnovate. Persino il nostro celibato, il peso della nostra solitudine sono legati al fatto che siamo prigionieri della speranza, e dunque siamo legati mani e piedi, come asini, e tiriamo avanti come asini. Ebbene, “Io gli do lode nel paese del mio esilio”. Vi invito, come metodo, a prendere un’espressione, anche mentre facciamo colazione, anche durante i pasti o mentre si passeggia, a ruminare una parola, e a dirla e a ridirla, sulle prime cercando di capirne il senso, ma poi, ed è la parte più interessante, lasciandoci portare da quella parola, che non è più pensata (soggetto, predicato verbale, complemento oggetto), cioè essa non conduce a vedere le concordanze bibliche, no, è la parola che, per esempio, ancora mi risuona: “Signore, salvami!”. Lo sto dicendo più volte, “Signore, salvami”, oppure “Io gli do lode nel paese del mio esilio”, o “Tornate, prigionieri della speranza”. A un certo punto questa parola perde anche il suo senso grammaticale, sintattico, esegetico, per diventare una stanza, un parco, un bosco, un mondo in cui entrare per farci lievitare, per farci abbracciare. È questo il senso della preghiera litanica, compreso il Rosario, dove qualcuno potrebbe dire: “Eh, adesso devo pensare al mistero, devo pensare che i misteri…”. No, lasciati andare, lasciati andare alle Ave Maria, neanche più pensate nella loro formulazione: Ave Maria… Santa Maria…, esse diventano così una nenia che aiuta ad addormentarti, addormentare quel demone in qualche maniera nella tua mente. Che il cuore riceva olio, riceva acqua, riceva rose, riceva pane, riceva senso!

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Seconda meditazione: Quando il Maestro se ne va.

Canto: Vieni Santo Spirito

Salutiamo il vescovo Ciro, Ordinario del luogo. Con questa meditazione entriamo nel vivo del tema, del filo conduttore di questi giorni, che è: “Abitare la crisi”. Come già vi anticipavo ieri, vorrei fermarmi insieme con voi su alcune stazioni della vita di Gesù, cercando di enucleare particolari momenti di crisi per metterli in parallelo, in sinossi con i nostri momenti e le nostre esperienze di rottura, di chiusura e di schiusura — le crisi, in fondo, sono sempre questo — favorendo una nozione spirituale positiva di crisi. Con l’intento di evitare di piangere continuamente, come facciamo quando ci riuniamo nei nostri presbiteri generali, foraniali, decanali, o comunque siano. Siamo in crisi: economica, dei valori, del mondo giovanile, del lavoro, ma forse — è l’idea madre, matrice di questo taglio, di questo cammino trasversale in alcuni testi evangelici — nella crisi sono deposti un dono, un frutto, un’energia, che potremmo cogliere, riconoscere e utilizzare come motore per la nostra vita personale e poi anche pastorale, perché i due aspetti non sono disgiunti. Vorrei mettere insieme tre testi: questo che ho letto, che è al capitolo 1, brevissimo, del vangelo di Marco, ai versetti 14 e 15, che rappresentano l’inizio del ministero di Gesù; poi la morte del Battista, al capitolo 6, sempre di Marco, ai versetti 17-29; e infine, al capitolo 1 di Giovanni, l’indicazione di Gesù come Agnello di Dio da parte del Battista, e il distacco di due discepoli da una scuola solida, qual è quella del Battista, per la scuola nuova, che Gesù inaugura, versetti 35-39. Si tratta di una sorta di trittico, che ha un unico filo conduttore. Vorrei intitolare questa meditazione o quest’inizio di meditazione (la meditazione vera la farete voi): “Quando il Maestro se ne va”. Un altro titolo possibile potrebbe essere: “Quando ti senti le spalle scoperte”. Ovviamente, a leggere, per esempio, il primo testo, così stringato, così ruvido, così asciutto, di Marco 1, ci sembra che non sia accaduto nulla di speciale: “Dopo che Giovanni fu arrestato — il testo è immediatamente successivo al brano introduttivo dei nostri Esercizi, meditato ieri pomeriggio — Gesù si recò nella Galilea e cominciò a predicare”. Sembra un’annotazione di natura cronologica, in realtà, la bravura di ogni credente e di ogni presbitero è quella di leggere tra le righe. Il Vangelo ha più “non detto” che “detto”, e allora dovremmo chiederci, da amanti della Parola (noi che la guardiamo, ce ne lasciamo avvolgere e innamorare continuamente, ovviamente sotto l’azione dello Spirito per non perderci), cosa ci sia dietro — direbbe Erri De Luca — le palpebre chiuse di questo versetto. Sollevo la palpebra e scopro che non si tratta solo di un’annotazione cronologica, ma — come vi dicevo stamattina durante le Lodi — di una sorta di squillo di tromba, di chiamata alle armi, perché nell’arresto, e poi, al capitolo 6 del vangelo di Marco, nell’esecuzione capitale del Battista, Gesù comprende che si stanno preparando delle cose bellissime e drammatiche. Sta accadendo qualcosa, si sta muovendo qualcosa, è un tempo gravido, e quindi l’annuncio dell’arresto di Giovanni desta in Lui un’urgenza.

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Nella nostra esperienza umana e spirituale, a volte, questa urgenza coincide con la partenza, la scomparsa dall’orizzonte o la morte di un maestro. Poi vi inviterò concretamente a fare anche un esercizio in questo senso, ma guardiamo innanzitutto questi tre testi, come imbastitura di una possibile meditazione. Nel destino di Giovanni, che va verso la morte, Gesù comprende dove sta andando Egli stesso. Nel destino del maestro c’è il destino del discepolo, perché un discepolo non è più grande del suo maestro, dirà Gesù in seguito. Giovanni è stato arrestato? Giovanni, quello che attirava le folle? Quello che esercitava un fascino? Quello a cui tutti chiedevano (come vedremo, fra non molti giorni, nei testi dell’Avvento) cosa bisognava fare? Ebbene, Giovanni è stato messo in carcere, e subentra la delusione. Poi svolgerò meglio nel brano di Marco 6 il tema della morte. Gesù vive una delusione, uno scandalo, ma anche una chiamata: è il suo turno, è la volta in cui deve venire sulla scena. Ricordate l’episodio che don Milani racconta della sua vocazione? Fu un prete così aspro, ma anche bello nel nostro presbiterio italiano! Quando era ancora un gaudente, un lontano, ma aveva anche lui un riferimento, un maestro (i sacerdoti fiorentini hanno fatto scuola), a un certo punto va a colloquio da lui perché si sta avvicinando alla fede, ma il suo interlocutore gli dice: “Non ci possiamo incontrare oggi, perché c’è un mio figlio, un giovane prete, che è morto”. Quindi chiede a Lorenzo se vuole accompagnarlo così da parlare per strada. E l’impatto di don Milani, il futuro don Milani, di Lorenzo, con il giovane prete cadavere, genera la chiamata; non la genera, la occasiona, perché il giovane dice a se stesso: “Prenderò il suo posto”. Per uno che cade, dieci si fanno avanti. Non so se questo sia vero anche per noi oggi, dovrebbe esserlo. In genere, muore il parroco della parrocchia, e non c’è nessuno che possa sostituirlo: questo vuoto, di per sé, è una chiamata o un orizzonte di chiamata. Chi continuerà l’opera? Chi continuerà a servire la comunità? Ecco, più o meno accade questo per Gesù, che già con la sua esperienza fondante è entrato nella “vocazione” che il Padre gli affida. Parliamo, ovviamente, del versante umano, della coscienza umana di Gesù, ma poi Egli se n’è stato nel deserto, a fare la sua quarantena, i suoi Esercizi spirituali, e quindi ancora un po’ sonnecchia. Tuttavia, adesso che il Battista è stato imprigionato, attenti, non è che si libera la scena. “Allora posso venire io!”, perché la parrocchia è libera; la diocesi è senza pastore: “Allora mi candido!”. No, questa morte è solo un campanello, una chiamata nella chiamata, un dire: “Basta, rompiamo gli ormeggi degli indugi”. Come vedete, nell’inciso c’è tutto questo: “Dopo che Giovanni fu arrestato”, cioè quando la notizia fu portata a Gesù, quando Egli ebbe superato quella sorta di scandalo. Ma com’è possibile che un giusto venga soppresso?, com’è possibile che quella voce tagliente possa essere messa sotto il mogio?, com’è che non risplende più il suo lucerniere?, com’è che il male ha avuto la meglio? Lo scandalo è sorgivo di questa esigenza, e l’esigenza è urgenza, che è presente (v.15) nell’annuncio sintetico: “Il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo”. Prima che per le folle e per gli ascoltatori, è un’urgenza che Gesù sente dentro di sé. Ho l’impressione — e non sono solo io a pensarla in questa maniera — che la dimensione dell’urgenza non si collochi nelle nostre parrocchie e nelle nostre

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diocesi, assistiamo piuttosto a una sorta di quietismo. Qualcuno sente che il tempo è breve, come dicevamo stamattina? Ho utilizzato il termine “sonnacchioso”, che ci viene dal Manzoni, quando il cardinale Federigo, rimproverando se stesso davanti all’Innominato, dice che è stato un ministro lento e sonnacchioso, cioè non è andato incontro alla pecorella smarrita. C’è una sorta di organizzazione, una macchina, che, probabilmente — lo dico sempre in una maniera provocatoria — continuerebbe a funzionare nei suoi aspetti esteriori, se un giorno si dovesse scoprire che è tutto infondato. C’è una macchinosità che procede al di là dell’esperienza, del legame, della relazione.Chiudiamo l’Anno della Fede, ma speriamo che noi e i nostri fedeli abbiamo compreso che non si tratta di recitare il Credo, ma di riprendere o di intessere, nel caso non fosse accaduto in precedenza, una relazione con Gesù: è Lui, crediamo in Lui, e quindi non si tratta di verità da enucleare e da consegnare (come hanno fatto gli antichi, in una maniera ovviamente saggia, perché in tempi di ignoranza era un modo per tenere le persone con l’essenziale) quanto sentire il bisogno di parlare con Lui. Siamo qui per tornare a parlare con Gesù, nel caso che non accada da tempo. Parliamo di Lui, ma non parliamo con Lui. E adesso parliamo con Lui, senza parlare di Lui. “Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo”. In questo momento, infatti, mi interessa, e vi consegno così il quadro, più l’esigenza che Gesù sente per sé, e poi, solo in seconda battuta, l’annuncio per gli altri. Non c’è tempo da perdere, non c’è da stare tranquilli, non dobbiamo dilazionare quello che è urgente o addirittura quello che è essenziale, e cioè la nostra conversione. Convertitevi, credete al Vangelo, perché Lui sta venendo: è qui! In questa parola imprigionata — prigionieri della speranza — ci sono un segno di libertà e un avviso di garanzia. L’altra scena, più complessa, non ve la leggo, è al capitolo 6, versetti 17-29: c’è nuovamente il Battista, nel momento clou della sua missione, quello più drammatico e più fecondo, perché la parola non è solo imprigionata, ma è il testimone, la voce. Ricordate Agostino - la voce che ha sostenuto la Parola, che ha preparato la Parola, che è stato mandato avanti - l’abbiamo cantato appena stamattina. “E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo, perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade”. Questa voce adesso è sgozzata, tagliata; tagliando la gola, infatti, tagliamo la voce, la voce che ha portato la Parola. Altre volte, ma in altri percorsi, mi sono fermato in maniera particolareggiata su questo testo, guardandolo come un prisma, perché in questa storia della passione e morte del Battista è riflessa in contrapposizione la storia della passione di Erode per Erodiade, e, chissà, forse anche per la figlia di Erodiade, che danzò così bene. Se volete, è presente anche un’ironia, perché un uomo così austero è morto per mano di due donne, di una in particolare, quella scaltra, perché — dice un proverbio napoletano — i furbi finiscono sempre per mano di un fesso. E allora ci sono due passioni che si scontrano: la passione di Erode, la passione di Erodiade, che è una passione di odio nei confronti del Battista, e poi la passione di Erode per la ragazza che danza, e su cui la letteratura, la musica, la danza, le coreografie hanno ricamato la danza dei sette veli. Ma, in fondo, questa ragazzina che danza, questa adolescente, che

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vuole dire? cosa vuole trasmettere? e che cosa la maestra di danza le ha insegnato? quale arte ammaliatrice? Perché Erode finisce — diciamo in napoletano — col fare debiti con la bocca? Attenzione a fare debiti con la bocca! “Anche se dovessi chiedermi… te lo darò, qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche metà del mio regno”. Perché quando la mente è presa, quando la passionalità, il vento della passione soffia, è come un ghibli, come una tromba d’aria, come uno dei tifoni. (Vi siete mai chiesti come mai gli americani assegnano sempre nomi femminili ai cicloni? Ci sarà un motivo: sempre nomi femminili, perché le donne in questo hanno manifestazioni violente). E poi c’è la passione del Battista, intesa nel doppio senso, come per Gesù: la passione del Passio, ma anche la passione dell’essere presi. Giovanni è preso, è stato preso, fin da ragazzo, dall’ansia per un tempo santo, maturo, pronto, e adesso tale passione è incatenata, è sotto il vento e la tempesta del dubbio: “Ma sei Tu Colui che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?”. Prima ha avuto la certezza che fosse lui, sì, è proprio Gesù, l’Atteso, il nuovo Rabbì, è Lui, è Lui l’Agnello di Dio, ma poi la sua venuta, così soft, così debole, così poco appariscente, così poco violenta, genera dei dubbi nel Battista. Quindi, se riesco a trasmettervi queste sfaccettature, Gesù soffre perché il Battista è imprigionato e sta per essere decapitato, ma soffre anche il Battista, che sente le danze, la musica raggiungere le segrete del castello di Erode, e si chiede, come qualche volta noi la sera: “Ma vuoi vedere che hanno ragione loro?”. Almeno i nostri giovani se lo chiedono, quei pochi che abbiamo in parrocchia: “Ma vuoi vedere che hanno ragione loro, mentre io sto inseguendo una chimera?”. Vedete, affacciarci per un attimo su questo dubbio è importante, perché mette a nudo anche i nostri dubbi (il mio intento non è quello di flagellarvi) e ci fa sentire affratellati, perché, sì, noi predichiamo il Regno di Dio, ma la gente vuole il lavoro, ha bisogno del pane. È come se fossimo un po’ lacerati tra le esigenze immediate, cui, come pastori, pure nel nostro specifico, dobbiamo fare attenzione, e questo annuncio, e il dubbio che a volte ci coglie, o coglie alcuni di noi o i giovani nel dire: “Sì, parroco, ma poi, il sabato sera, che si fa?”. Il Battista, che abbiamo visto così monolitico, duro, esigente, ribelle condottiero, che spinge le sue truppe all’assalto, senza economia, adesso, in carcere, mentre sente il frastuono, l’arrivo di auto di grossa cilindrata — di festini in giro in certi mondi ce ne sono tanti, vero? — si chiede: “Ma che sta succedendo? Chi ha ragione?”. La ragazza uscì e disse alla madre: “Che cosa devo chiedere?”. Lei rispose: “La testa di Giovanni Battista”, perché aveva bene in mente che cosa doveva accadere quella sera: abbassare le luci, mettere un po’ di profumo, magari inebriante, una musica, come il Bolero (il Bolero di Ravel fece impazzire una zarina: durante un’esecuzione lei impazzì, perché se lo segui, se hai la mente un po’ fragile, finisci con l’entrare nel suo ritmo orgiastico, e puoi anche impazzire). Ed ecco, per mano di due donne, l’uomo così schivo, così radicale, così monaco, vestito di pelli di cammello, che si ciba di locuste, di miele selvatico, viene portato su un piatto d’argento. La guardia andò, lo decapitò in prigione, e portò la testa su un vassoio, la diede alla ragazza, e la ragazza la consegnò a sua madre. Sembra tutto così tranquillo, ma dietro che c’è? C’è una sconfitta.

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Il brano si conclude: “I discepoli di Giovanni, saputa la cosa, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro”. Sono di nuovo i discepoli, privati del maestro. Gesù, privato del Battista, ma anche i discepoli, privati del loro maestro, adesso si disperderanno. Percuoterò il bastone e saranno disperse le pecore. Questo è l’inferno delle tenebre. L’altro brano, che conosciamo, è Giovanni, 1. Presento questo trittico, ma poi ciascuno di voi potrà seguire quello che gli aggrada di più. Si tratta di un testo molto bello, ma anche drammatico sul piano vocazionale, dove c’è il taglio del cordone ombelicale dei discepoli, di due in particolare. Uno può essere Giovanni l’evangelista, che, sentendo il maestro indicare Gesù: “È Lui!”, lascia il Battista e segue il nuovo Maestro. I due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Rischiamo di banalizzare questi testi per averli sentiti tante volte, ma adesso, nella cassa armonica che sono gli Esercizi, dove il silenzio gioca un ruolo di amplificazione, possono parlare di nuovo al nostro cuore, raccontandoci quanto il maestro, il Battista, fosse esigente, affettuoso, e al tempo stesso libero nei confronti dei suoi discepoli, perché, dietro questi tre testi, se volete, c’è una riflessione sul maestro, su chi è il maestro, su come dobbiamo svolgere il nostro magistero, perché c’è anche un magistero del parroco, del Papa, del vescovo, del padre. Questo magistero, com’è? Come ci colleghiamo ai nostri discepoli? Noi siamo al tempo stesso discepoli e maestri, ma quanto l’affetto che ci lega ai nostri discepoli cela anche una libertà e un’affermazione del Maestro per eccellenza? È Lui, non io! Io sono la voce, Lui è la Parola (di nuovo Agostino). E allora un esercizio — e vado verso la conclusione — può essere: Guardo il mio modo di essere maestro e come svolgo il mio magistero, ammesso che ne svolga uno. Non parlo solo del ministero della predicazione, credo che tutti facciamo l’omelia, più o meno pedantemente, più o meno preparandoci, ma quanto quel magistero verbale, orale, corrisponda a un magistero di vita — ovviamente la distanza la troveremo sempre, però potrebbe accorciarsi — quanto quello che diciamo ci condanna, quanto le persone raccolgono da noi oltre il detto, nel nostro stile di vita, nell’aderenza della Parola al nostro cuore, ai nostri sentimenti, ai nostri progetti, alla nostra affettività. Sono dunque un maestro che indica: Ecco l’Agnello di Dio? Questa espressione la troviamo due volte anche nei versetti precedenti il brano che vi ho indicato. Potete spaziare anche qua, dove il maestro non castra il discepolo, perché a volte succede questo. Faccio un esempio. Vedo che alcune vocazioni alla vita consacrata sono impedite dal proprio parroco (è una riflessione che vado facendo da molti anni, precedente al mio attuale stato diciamo giuridico-sacramentale). Ci sono delle vocazioni — come dire? — aiutate, accompagnate, incoraggiate dai propri parroci, ce ne sono altre che, invece, trovano nel parroco un muro di contenimento, sono delle vocazioni mancate, scusatemi il termine, castrate. E perché avviene questo? Avviene perché il parroco, senza dirselo, è chiaro, (è una cosa irriflessa) pensa: Ma di questo ragazzo, che è un bravissimo cerimoniere del mio gruppo ministranti, di questo giovane, che mi anima la catechesi per i Giovanissimi, di questa persona che è super impegnata, riuscirei a fare a meno? E allora, senza dirselo (è chiaro, eh, ve lo sto dicendo così,

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perché possiate confrontarvi con questa foto, che certamente non vi appartiene, ma che ho visto realizzata diverse volte), non riescono a tagliare, dicendo all’altro: “Tu puoi volare più in alto di me, vai!”, e finiscono con il mettere un veto. Dicono: “Ma no, stiamo bene qui insieme”, come quei genitori che non permettono al figlio di crescere, di andare fuori, in bicicletta, con gli amici, nel mondo. In un bel brano di Bobin in “Francesco, l’infinitamente piccolo”, il poeta francese (tutto il capitolo è improntato a questo) dice: “Guardami, me ne sto andando”. È il figlio che dice a Pietro di Bernardone: “Guardami, me ne sto andando”. Dobbiamo avere il coraggio di perdere, di sentire che i discepoli, i parrocchiani, i giovani ci sono affidati per un certo tempo, ma il nostro compito è quello di lanciarli. Attraverso il rapporto con me maestro, che, inizialmente, è essenziale, ma al tempo stesso strumentale. Mi rendo conto che, in certe stagioni della vita, svolgiamo un compito essenziale — so di rischiare col vocabolario, utilizzando questo termine — che deve essere vissuto intensamente, sapendo, però, che è strumentale (apparentemente, è paradossale quello che sto dicendo), cioè, in questo momento tu hai bisogno di me e io o.k., ti ascolto, anche per ore, però, poi, pian piano, ti dirigo (direzione spirituale), ti oriento, verso l’unico che non ti tradirà, perché io ti tradirò. Allora è meglio che mi tradisca tu e vada via, prima che io ti castri. Attenti che la relazione pastorale è sempre equivoca! Io vi dico delle cose così come un po’ le ho maturate, poi tutto è molto opinabile. La relazione pastorale è sempre equivoca, con uomini, con donne, con bambini: l’importante è stare in questa equivocità con la solidità di chi è radicato in Gesù e sa di svolgere un compito di traino per un certo tempo. Non esiste una relazione pastorale univoca! Viene una persona: “Parroco, mi devo confessare”, e sapete bene chi si vuole confessare veramente e chi vi vuole propinare le solite saponette, lenzuola ricamate di Firenze, che sono false, oppure ha il registratore ed è uno mandato dalle Iene… Quando qualcuno vi chiede di confessarsi, voi immediatamente avete tutto il panorama, dalla A alla Z: può essere un santo o un depravato. La nostra bravura, in altri termini si sarebbe detta “santità”, sta nell’esserci in questa relazione, anche quella con il ladro, anche quella con il registratore delle Iene, di essere scaltri e semplici. Pensate che le relazioni di Gesù siano state univoche? Che la Samaritana, la Maddalena si siano accostate a Lui veramente solo per voglia di conversione? Probabilmente no. Continuamente, ogni tanto, faccio queste aperture pastorali, perché siamo pastori e questa è la nostra vita, spero che vi appassioni questo groviglio di relazioni, questo magma sempre incandescente che può esplodere, che può essere fecondante una vita o che può distruggermi. E allora, questa mattina — poi riassumo veramente — guardo Gesù e guardo il Battista, perché in questa relazione, che noi adesso mettiamo a tema, “quando il maestro se ne va”, “quando ti senti le spalle scoperte”, guardo loro due, guardo lo scandalo che entrambi vivono l’uno dell’altro, l’uno per l’altro, guardo le mie relazioni pastorali. Chiedo — se ho una grazia da chiedere — di essere nella preghiera un indicatore di Gesù, un ponte, un trade-union, chiedo che altri passino sul mio cadavere-ponte per giungere al maestro, di cui io sono una labile immagine, ma, in questo momento storico, una mediazione essenziale. I due se ne vanno veramente, vanno ad abitare con Gesù: Maestro,

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dove abiti? E rimasero con Lui tutta la notte, perché erano le quattro del pomeriggio. Quindi erano i primi Vespri, e si fermarono presso di Lui, cioè è finita una storia, ne comincia un’altra. Vi do qualche assegno. In effetti, nel corso della meditazione, già ve ne ho dati diversi, ma adesso ve li riassumo, casomai vi foste persi. Mons. Cece diceva sempre di me: “Sta’ attento, perché tu dici troppo…”. Ci vorrebbe un equilibrio, io non l’ho raggiunto, spero ci riusciate voi. Questi giorni, magari, saranno, per alcuni di voi o per tutti voi, una penitenza, ma gli Esercizi sono anche questo: una penitenza e un sorbirvi tutte queste riflessioni pastorali-spirituali. Riassumiamo: 1) La contemplazione di questi tre brani messi insieme, anche se non sono posti in maniera cronologica: annuncio dell’imprigionamento; esecuzione del Battista; il Battista maestro, che si libera di alcuni discepoli amati, perché adesso è sorto il sole, e dunque le stelle si ritirano.2) Secondo esercizio: una memoria dei maestri, che è sempre un buon esercizio spirituale. Chi sono stati i miei maestri? Quando ero bambino, il mio parroco, la mia catechista per la Prima Comunione, il mio maestro di noviziato, il rettore del Seminario, il padre spirituale, ecc. Memoria dei maestri, osservando anche come si sono comportati con me, perché il loro magistero va ben al di là di quello che mi hanno detto. “I maestri sono quelli che sono anche testimoni”, ci ricorda Paolo VI nell’Evangelii Nuntiandi.3) Terzo esercizio: guardo me nel compito magisteriale. So essere vicino e lontano? So essere dolce e graffiante? So essere presente e assente? Soprattutto i preti giovani, ma non solo loro, fanno tanta fatica a essere assenti nella vita, soprattutto dei giovani. Sono presenti ventiquattro ore su ventiquattro e, quando non stanno insieme, stanno su facebook. Molto opinabile, non fosse altro che per il tempo che si spreca e per questa sorta di persecuzione che ha quasi sempre l’effetto contrario di quello che vorrebbe realizzare, cioè genera una sorta di rigetto. Il maestro è presente, ma è anche intelligentemente assente. Come avete scoperto tante volte nel vostro ministero, si vengono a confessare da voi quelli con i quali non siete in eccessiva familiarità, ho detto eccessiva, perché poi bisogna anche voler bene: un prete gelido, algido, freddo, glaciale, non creerà alcuna relazione.4) Infine, se è chiaro il tema: quando il maestro se ne va, occorre fare memoria, individuare un tempo, un momento, una stagione, in cui si è vissuto questo distacco, perché è morto il vescovo, il padre spirituale, il cardinale, di cui mi sono occupato giorno e notte, dirà don Damiano, che conclude il suo libro “Il silenzio della Parola” con un riferimento: “Volevo scappare, ma poi qualcuno mi ha detto: Il padre si porta fino al sepolcro, fino alla sepoltura”. E inoltre, ma fa parte di questo esercizio, l’individuazione di un momento di morte come fecondo di vita, perché qui assistiamo a una morte, ma la morte è germinativa, quella del Battista, ma prima troviamo il fallimento, lo scandalo dell’uno e dell’altro.Può Dio abbandonare il giusto? Questo dubbio, questo interrogativo attraversa tutta la Bibbia, anima il Salterio, ha scosso le fondamenta, di cui ieri: “Quando sono scosse le fondamenta, il giusto che cosa può fare?” E sono scosse le fondamenta del Battista, ma anche di Gesù.

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Come maestro, come discepolo di un maestro, posso fare riferimento, guardare un po’ da lontano, col beneficio del tempo, un momento che mi sembrava essere fallimentare, perché il vescovo mi ha cambiato parrocchia, perché sono stato trasferito, ebbene, quel momento, che a me sembrava essere negativo, poi si è aperto, è cominciata una nuova stagione per me. Ecco, questo assegno è più che abbondante, voi scegliete fiore da fiore, piluccate il vostro acino, masticate adagio adagio, e ci vediamo a Messa. Sull’”adagio adagio” vi inviterei a mettere un po’ il freno sul correre, perché ci aiuta — adesso abbiamo tutto il tempo, possiamo camminare piano piano, in punta di piedi, senza fare troppo chiasso — mettiamo il freno anche sul camminare veloce, dalla Canonica alla Chiesa, da un morto all’altro, questo ci aiuta anche spiritualmente a dire: Calma! Adesso è Dio che fa, e tu ti lasci andare.

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Omelia: Zaccheo: Dio in casa dell’uomo.

“Il Signore mi sostiene”, abbiamo ripetuto più volte, e continueremo a ripeterlo nel corso della giornata. Per sostegno si intende anche il sostegno delle nostre parrocchie, delle comunità religiose, che sono state invitate a pregare per noi, delle persone cui abbiamo affidato un impegno, partendo: “Prega per me che vado agli Esercizi”. Le vetrate che ci abbracciano, inoltre, con il loro gioco di colori, vogliono rappresentare anche l’abbraccio dei santi.Nella Prima Lettura, nel Libro dei Maccabei (si tratta di testi che appartengono ormai all’imminenza, perché fanno un po’ da ponte tra Antico e Nuovo Testamento) ci viene presentato un santo: Eleàzaro. Mi fermo un attimo — anche se il Vangelo ci preme di più — sulla testimonianza di Eleàzaro, perché ci riguarda, perché riguarda un anziano, e noi lo siamo, tutti, anche voi preti giovani. È una contraddizione in termini parlare di un prete giovane o di un giovane prete, perché “prete” significa “anziano” e, dunque, all’atto dell’Ordinazione, sono diventati bianchi i nostri capelli e siamo diventati anziani in un attimo. Ebbene, questo anziano non risponde alle sollecitazioni che gli vengono poste di salvarsi la vita, salvando capra e cavoli. Alcuni lo invitano a mangiare carne suina, ma lui rifiuta e non viene meno ai suoi principi. Mi sembra di ascoltare certe proposte che ci vengono a volte dai nostri politici: “Parroco, scriva questa domanda perché c’è uno strano fondo, un fondo europeo…”. Non intendo, ovviamente, colpevolizzare nessuno, e tanto meno le proposte che ci vengono fatte con le migliori intenzioni, ma valga il detto di un altro sacerdote, Laocoonte, sia pure di culto pagano, di cui ci parla Virgilio: “Timeo Danaos et dona ferentes”, cioè nessuno fa doni senza un suo interesse. Tuttavia, veniamo al testo e a questa figura di anziano, venerabile, dolce, bello. Un bell’anziano, un bel prete, più che un prete bello, un bel prete, perché da lui promana l’impegno di lasciare una testimonianza ai giovani. Non si tratta tanto di voler sopravvivere nella memoria, quanto di non scandalizzare i piccoli: è questo che dovrebbe interessarci, interpellarci, anche se qualcuno offre un escamotage per salvare tutto e tutti. Forse è bene che teniamo presente — e siamo ancora nel tema di questa mattina — che c’è un’autorevolezza che incide più delle parole ed è la testimonianza di vita. Negli Atti dei martiri si può individuare un parallelo di Eleàzaro, ed è Policarpo. A Policarpo, anziano vescovo, viene chiesto, per il bene della comunità, di allontanarsi e di mettersi al sicuro, perché la sua presenza, la sua vita vale molto, ma Policarpo nutre la stessa preoccupazione di Eleàzaro, perché dice: “Ma che penseranno i giovani? che Policarpo si è messo al sicuro e che ha salvato la pelle? così potrei scoraggiare altri!”. E allora si consegna, consegna le sue membra, fragili e fortissime al tempo stesso, al fuoco. Dice l’autore degli Atti dei martiri che le carni nude e bianche del santo vescovo, avvolte dalle fiamme, cominciarono a trasformare quella che avrebbe dovuto essere carne bruciata in un colore simile a quello del pane e in un profumo intenso di incenso e mirra. E le fiamme, anziché bruciare il corpo, come accadeva per gli altri, e quindi abbrunire il corpo candido dell’anziano, lo trasformarono in un colore biondo, il colore del pane.

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Dal Vangelo, innanzitutto, coglierei insieme con voi l’aspetto dell’Incarnazione. Gesù, che va a casa di Zaccheo, in una maniera più ampia è il Figlio che entra nella Storia, si sporca le mani, viene ad abitare in mezzo a noi, come dice Giovanni nel prologo: “Pose la sua tenda in mezzo a noi”. Non ebbe timore di respirare la nostra aria malsana, di abitare nei nostri vicoli maleodoranti, di condividere le nostre mense. In una parola: si è incarnato. Nell’invito rivolto a Zaccheo c’è tutto il vangelo del Dio accanto, del Dio vicino, del Dio aderente, del Dio che assume le nostre fattezze. E una volta che abbiamo contemplato questo mistero, che è il mistero centrale della fede, ci chiediamo se noi, come Chiesa, facciamo lo stesso, se anche noi ci incarniamo, ci leghiamo, entriamo nei vicoli e nelle vene della Storia, o piuttosto ce ne teniamo a debita distanza per essere puri, di una purezza che, però, in questo momento, suona come una condanna. E dunque Gesù, che entra nella casa di Zaccheo, è Dio che entra nella Storia, è il Logos, σὰρξ — sono sempre le parole del prologo di Giovanni — ed è la Chiesa che percorre le vie del mondo, che sa di pecora, come ha detto ai preti giovedì scorso il Papa Francesco, ne ha l’odore. Noi abbiamo l’odore della nostra gente. Ricordo con difficoltà la parola di un giovane prete che mi diceva: “Sua Eccellenza, di quella parrocchia — piccolissima peraltro, che non lo avrebbe impegnato chissà quanto — mi dà fastidio anche l’odore della pelle della gente (non me lo sono inventato!). Mi trasferisca, perché mi dà fastidio persino l’odore della pelle”. (Magari a Genny darà fastidio l’odore del Sarno, che non è profumato, ma fa parte dell’orizzonte della sua parrocchia, della sua storia e geografia). Chissà che presentarci troppo profumati davanti al Signore non sappia di condanna per noi! In seconda battuta, questo Vangelo — e lo dico così di passaggio — ci consegna una strategia pastorale (lo abbiamo tra l’altro commentato nelle nostre comunità appena qualche Domenica fa). Noi abbiamo sempre i nostri precetti, i nostri divieti da presentare alle persone, che si allontanano perché si sentono ripetere: “Non devi fare questo, non devi fare quello…”, dimenticando che Gesù va a casa di Zaccheo senza chiedergli nulla, ma riceve molto di più di quanto non sia scritto nelle tabelle. Un tot per questa prestazione: visita casa di Zaccheo = cento euro; benedizione alla casa di Zaccheo = cinquanta euro. Lo dico per farvi sorridere e attenuare un po’ la tensione che è forte, perché la Parola ci fa male. Gesù non chiede niente a Zaccheo, si presenta e basta. La salvezza eccede, non chiede dei corrispettivi, li crea, forse più di quanto il pastore non abbia a cuore. E quindi, seconda pista, se volete, per la meditazione, per la manducazione durante il pranzo, nel primo pomeriggio: Ci chiediamo se siamo una Chiesa dei divieti e degli obblighi, o una Chiesa che va, e qui per “Chiesa” intendo il prete, il vescovo, noi. Zaccheo si sarebbe accontentato di una foto, Gesù gli dà molto di più. Zaccheo voleva solo vederlo, Gesù lo abbraccia. Zaccheo voleva mantenere le distanze, Gesù le accorcia. “Zaccheo scese e lo accolse pieno di gioia”. Intanto gli altri mormoravano. Le mormorazioni accompagnano la vita del popolo d’Israele e anche quella delle nostre parrocchie e delle nostre diocesi. Io ho persino detto una volta ai miei confratelli: “Dovremmo mettere: orario degli incontri del clero ore 9:30, anziché 9:00 puntuali, così prima si parla male del

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vescovo, poi comincia la preghiera”. Magari sarà un buon modo per evitare di sparlare. È una battuta, ma più vietiamo le cose, più divengono appetitose, no? Invece, vi do un quarto d’ora per parlare male, e poi cominciamo la preghiera: Nel nome del Padre… O Dio, vieni a salvarmi… Le mormorazioni dovrò accettarle, metterle in conto, ma non è la mormorazione dei benpensanti che ferma Gesù, perché l’irruzione della salvezza nella casa, nella vita di Zaccheo, genera una rivoluzione. Ecco quello che, quando eravamo a lezione di teologia, ci veniva detto: l’indicativo e l’imperativo. Indicativo previo all’imperativo, l’imperativo conseguente all’indicativo. L’indicativo: “Io sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto”, poi dopo vengono le dieci parole: Non fare questo, non fare quell’altro… Ma noi l’indicativo l’abbiamo dimenticato o lo diamo troppo per scontato. L’indicativo appartiene al primo annuncio: “Dio ti ama, Dio ti salva, Dio ti viene incontro, Dio non guarda le tue colpe. “Se consideri le colpe, Signore, / Signore, chi potrà sussistere? / Ma presso di te è il perdono: / e avremo il tuo timore” (salmo 129).Ecco, siamo qui per rubare a Gesù il mestiere di pastore, il mestiere di evangelizzatore, Lui che è Vangelo ed evangelizzatore al tempo stesso, siamo qui per capire come certe nostre durezze allontanino, come una maggiore accoglienza sia una forma di evangelizzazione o di pre-evangelizzazione. Non bisogna, invece, prima di incontrare il parroco, il vescovo, scoprire quale sia il loro umore: Oggi il parroco è nervoso, meglio non accostarsi. Magari chiedo alla segretaria: come sta il parroco oggi?, e allora mi avvicino, mi presento… oppure: Ah, non è giornata, me ne torno. Forse otterremmo di più, se abbassassimo le difese, e se, come Gesù, nel suo nome, avessimo il coraggio di presentarci anche a casa dei peccatori. (Non ricordo bene, mi viene in mente in quest’istante, ma forse il cardinale Daniélou morì, ebbe un malore a casa di una prostituta d’alto rango, parigina. Che ci faceva il cardinale a casa di questa donna? Che ci faceva? Era andato a prendere un caffè?). Dovremmo andare per le case, bussare, e dire: “Buongiorno, non chiedo nulla, sono venuto a portarti un fiore”. Infine, terza battuta. Gli Esercizi, all’interno della dinamica del vangelo di Zaccheo, sono come salire su un albero. Vengo agli Esercizi per salire su un albero, un sicomoro, per vedere meglio, per allargare l’orizzonte, per prendere anche le distanze dalla mia vita consueta, che è così intensa che mi fa perdere di vista tutto. Gli Esercizi sono come la Buona Notizia di Gesù, che mi dice: “Vengo da te, torno da te, torniamo a parlare, come quando eri giovane, come quando mi seguivi pieno di entusiasmo. Mi fermo a casa tua, sono tutto per te in questi giorni”. La vita spirituale — e concludo — è salire sulle spalle dei giganti. Eleàzaro, Policarpo, i santi, di cui portiamo il nome, i santi delle nostre Chiese diocesane, i santi che sono sulla terra, uomini nobili, cui va tutto il nostro amore (salmo 15). Saliamo sulle spalle dei santi per vedere Gesù. Siamo nani — anche se siete cestisti e avete l’altezza di due metri, non ce la farete — e abbiamo bisogno di salire su questi alberi secolari, sulle loro spalle, così vediamo lontano, incontriamo Gesù. Questa è la nostra condizione! Sali sul sicomoro, entra negli Esercizi, magari con una giornata di ritardo, ma entraci! Sali sulle spalle dei santi: nani sulle spalle dei giganti.

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Terza meditazione: Quando chi ti ama ti intralcia.

Canto: Tu sei per me padre e madre

Questa meditazione ha per titolo: “Quando chi ti ama ti intralcia”. È la seconda scena di questo itinerario teso a far maturare in noi un’amicizia o la crisi. Adesso non è di scena il maestro (quando il maestro se ne va), ma i familiari, e qui assumiamo il termine nella misura più ampia, cioè quella che comprende i vicini, quelli che ci sono più accanto, che, anziché aiutarci nel cammino di crescita umana, di servizio presbiterale o diaconale - qui ci sono anche dei diaconi permanenti - finiscono con l’ostacolarci. Utilizzeremo due testi del Vangelo di Marco, entrambi al capitolo 3: il primo ai vv. 20-21, il secondo ai vv. 31-35. Anche stavolta componiamo un trittico unendoli a un testo che, inizialmente, sembra non propriamente in linea, ed è Luca 9, 57-62, in cui Gesù vive in prima persona la crisi con i suoi ed educa i discepoli a viverne una simile. Adesso Gesù è maestro di noviziato e di formazione, invece nei primi due testi è inserito in una relazione familiare, una relazione primaria, dicono i sociologi, cioè di quelle connotate in una maniera molto forte da un punto di vista affettivo. Come sempre, partiamo dal testo, dai testi. Il primo è un testo di grande provocazione, lo troviamo solo nel Vangelo di Marco, appena accennato, due versetti; quello della crisi, addirittura, riguarda solo il versetto 21. Il movimento che si sta creando intorno a Gesù - siamo alle prime battute, capitolo 3 - non ha ancora acquisito una forma, e quindi siamo nella fase, per così dire, carismatica di un ordine religioso, di una comunità parrocchiale, dove c’è tanta carne a cuocere, per cui si fa fatica a scandire e a distinguere anche il tempo. L’evangelista dice che la folla è tanta, “al punto — e questa descrizione riguarda anche la nostra vita di pastori — che non potevano neppure prendere cibo”. È un andirivieni, un rispondere continuamente a delle richieste, per cui salta anche la consumazione serena dei pasti. La notizia raggiunge i parenti di Gesù, e qui l’evangelista è molto pudico e dice: “i suoi”; la notizia rimbalza fino a Nazaret e si crea una delegazione che è intenzionata a riportare Gesù alla ragionevolezza, «poiché dicevano: “è fuori di sé”», è pazzo. “Se soltanto poteste sopportare un po’ di follia da parte mia!”, dice San Paolo. In questi giorni probabilmente ne sopporterete abbastanza e, dal mio punto di vista, tutto a sconto dei vostri innumerevoli peccati, vostri e miei. Don Gioacchino — lo dico a lui perché sono sicuro che non si offende — mentre passavo in punta di piedi accanto al suo tavolo, per prendere il mio posto, mi ha detto: “Ci stai togliendo la gioia della fraternità”. Ecco, voleva dire: “è pazzo”, si riferisce a me, ovviamente! Gioacchino, in Seminario, era il mio compagno di stanza più vicino ed è mio amico da tantissimi anni ininterrottamente. È bello che certe relazioni, cominciate in Seminario, poi, dopo trentacinque anni, siano ancora in piedi. Ecco, non riusciamo a renderci conto: “Ma perché dobbiamo fare questo sacrificio?”. Anche a voi sarà passata per la testa questa idea: “È pazzo!”, “Vuoi vedere che siamo alla scuola di un folle?”. Chissà, magari sarà così! “Fuori di sé”, tra l’altro questo termine dovrebbe appartenerci, no? Siamo quelli “fuori”, fuori di testa. Non si diventa preti quando si è pienamente consapevoli;

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le persone sagge non assumerebbero, non intraprenderebbero questo itinerario, per farlo, bisogna essere un po’ estatici, fuori di sé, fuori senno. Concludendo la parentesi del silenzio vi auguro di passare dallo sforzo al piacere. Vedete, ci sono dei piaceri che devono essere educati. È strano, sembra che il piacere sia un fatto istintuale, ma non è così, anche quello sessuale. Il piacere, in particolare certi piaceri hanno bisogno di un noviziato, di una preparazione e, sulle prime, ovviamente, ne deriva uno sforzo. Ognuno di noi è stato dentro uno schema — e spero che ci sia ancora — di formazione, che ci ha in qualche maniera un po’ limitati, ma in vista di assumere e di gustare un sapore più intenso. E allora vi auguro — e anche qui ci interfacciamo con il brano e con la crisi di Gesù — di passare dal sacrificio (devono trascorrere questi giorni, si arriverà pure, prima o poi, a venerdì!) al piacere. Io, personalmente, ho piacere del fatto che, dopo tanti Corsi di Esercizi e avendo fatto impazzire tante persone, poi i folli trasmettono la follia. Che volete, è così! Giungo agli Esercizi e, pur dovendo vivere uno sforzo concettuale di concentrazione, dopo, passato il primo round, la prima ora, comincio a entrare in uno stato di grazia, che è un piacere e che si traduce in un modo più immediato nel raccontarvelo. «Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo, perché dicevano: “È fuori di sé”». Chi sono questi suoi? Ci sarà stata anche Maria? Sarà stata coinvolta anche lei? Certe delegazioni si fanno in fretta a farle, lo sapete bene, come parroci, come vescovi, siamo esperti di delegazioni, no? Si trascinano quattro persone, magari forse non sanno neanche per che cosa devono protestare, e si va: Andiamo, facciamo un sit in, andiamo sotto l’episcopio a fare un po’ di chiasso, perché ci hanno trasferito il parroco. E quindi, forse, le delegazioni non mi scandalizzano, non ci deve scandalizzare che in questo gruppo sia stata strattonata, portata a forza anche la Madre, per dare credibilità alla delegazione. “Gesù è pazzo!”. Ci sono delle persone che vengono da noi e non ci dicono in una maniera diretta: “Eccellenza, lei è pazzo”, oppure: “Parroco, lei è un pazzo”, ma lo pensano, lo pensano.L’altro testo, vv. 31-35, è meno rozzo, più teologizzato, più cesellato. Qui abbiamo una seconda delegazione, questa volta, diciamo, con il calumet della pace, ma sempre una delegazione che protesta. Cogliamo la differenza dal fatto che essa — gli esegeti lo sottolineano — resta fuori dell’anfiteatro, dove si sta svolgendo la catechesi, mantiene una distanza, quasi a dire: “Noi non apparteniamo a questa banda di folli”, oppure per attestare un’autorevolezza e anche un diritto di prelazione nei confronti del Maestro. “Giunsero sua madre — qui l’evangelista lo dice esplicitamente — e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare”. È come se adesso arrivasse una delegazione dei miei preti: “Abbiamo un problema, un problema impellente”, io risponderei: “Mi dispiace, non sono il vostro vescovo, sono lo “spiccia faccende”, si dice a Napoli, per questa comunità durante i tre giorni degli Esercizi”. «Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: “Ecco tua madre…». Quindi loro lo avvisano, ma Gesù non risponde. Ci sono sempre gli zelanti che vedono chi è arrivato, lo fanno sedere al primo banco: c’è l’onorevole, c’è il presidente della Regione, c’è il governante di turno… . “Tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano”.

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Adesso ci chiediamo: “Chi è fuori, Gesù, o loro?”. “È fuori di sé”, dice il testo precedente, e questo passo dice: “stando fuori”. Sono fuori e lo cercano, ma Gesù non si cerca fuori della Chiesa, fuori della comunità, fuori da questa ansia del regno, fuori da questa nuova appartenenza (anche se il termine dalle nostre parti diventa un po’ equivoco, soprattutto quando parliamo di “famiglia”, di “nuova famiglia”). «Ma egli rispose loro: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Alcuni commentano che questo testo sembra essere poco rispettoso della relazione Madre-Figlio, Figlio-Madre, in realtà è un’esaltazione di Maria, che compie la volontà di Dio, che si è resa disponibile: Ecco io sono la serva del Signore, ma certamente è una presa di distanza tra Gesù e i Dodici e questi discepoli, questa comunità nuova, emergente, tra Gesù e ciò che era prima nei vincoli del sangue, almeno così erano avvertiti. Gesù dice che o si entra in questa nuova dimensione o si è estranei: Non vi conosco, non so di dove siete. L’espressione ci viene dalla protesta di coloro che ribattono: “Ma abbiamo mangiato con te, ma siamo stati insieme, hai parlato nelle nostre piazze…”. Vi ricordate? Testo apocalittico anch’esso e che afferma che non è la contiguità che ci salva, ma l’essere con Lui. Non sempre la vicinanza fisica è anche comunanza d’intenti, quando la salvezza ci sembra che possa essere partecipare a certe cene e a certi pranzi e a certe riunioni…“Non so di dove siete”, dice, in qualche maniera, sottobanco, sottovoce, Gesù a questa delegazione di familiari, che se ne torna con la coda tra le gambe, senza aver risolto nulla, forse accusandosi reciprocamente: “Te l’avevo detto — accade sempre così — che non dovevamo andare sotto l’episcopio a protestare, te l’avevo detto che non era il caso di fare questa lettera di sottoscrizione…”. Quindi si ritorna un po’ rancorosi; si è arrivati divisi e si riparte ancora più divisi. Vedete — starete pensando: Ma dove vuoi arrivare?, cosa ci vuoi far meditare? — vorrei mettere a tema la crisi di Gesù, che è anche la nostra, una crisi già celebrata, speriamo risolta, ma che poi si presenta con forme nuove, con volti nuovi, rispetto ad altri nella parrocchia, nell’ambito pastorale, che pure vantano dei diritti su di noi (persino le suore dell’episcopio potrebbero vantarli), cioè vorrei dirvi che non si tratta solo della crisi adolescenziale, della libertà dai genitori, che fa parte di una certa stagione della vita, ma che in effetti la crisi è un cliché che si presenta in varie forme, in più punti della nostra esistenza, dove siamo chiamati ad affermare l’Assoluto di Dio. “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?” esprime la libertà di Gesù nel prendere le distanze anche da persone significative sul piano degli affetti, dal momento che sta scoppiando questa bomba che si chiama il Regno, che sconvolge la geografia e la storia degli affetti. Ricordate l’episodio dello storpio — mi viene in mente in questo istante — che vuole entrare, ma non riesce, perché c’era tanta gente nella casa che i quattro — nella lettura allegorica dei Padri erano gli evangelisti — devono scoperchiare il tetto? Ebbene, questo succede anche nelle nostre parrocchie. C’è sempre un gruppetto di zelanti, zelatrici, soprattutto donne, eh, perlopiù, che svolgono un servizio, ovviamente, ma che, piano piano, cominciano a vantare dei diritti, anche sul parroco: “Ma come? Non ci ha detto questa cosa, non ci ha reso partecipi di questo evento, di questo incontro con il vescovo? Non dobbiamo essere interpellati circa questo trasferimento, che abbiamo sentito essere in aria da altre parti …”. Come vedete, questo non è il discorso che si fa agli

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adolescenti, tra l’altro l’adolescenza oggi si ripresenta continuamente, è una dimensione dell’esistere, come uomini e come donne, che ci fa vivere relazioni meravigliose e insieme difficoltose. E allora guardo Gesù e guardo alla sua determinazione nel gestire queste pretese, nel sentire il commento: “È pazzo”, e guardo, vedo, e mi chiedo se ho la sua stessa forza, la sua stessa libertà. È accaduto quando siamo andati in Seminario, quando alcuni di voi, grazie a Dio, ma speriamo sempre di più, una volta ordinati, anziché restare nelle famiglie d’origine, hanno scelto di abitare in una Canonica insieme con altri confratelli. Lo viviamo poi, nel concreto del nostro ministero, nei confronti dei nostri collaboratori, quelli che ci amano, ma che poi, in qualche maniera, chiedono un privilegio. È la tentazione della tana, dice Luca nel brano che è al capitolo 9: «Mentre andavano per la strada, un tale gli disse: “Ti seguirò dovunque tu vada”. Gesù gli rispose: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. A un altro disse: “Seguimi”. E costui rispose: “Signore, concedimi di andare a seppellire prima mio padre”. Gesù replicò: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio”. Un altro disse: “Ti seguirò, Signore, ma lascia che io mi congedi da quelli di casa”. Ma Gesù gli rispose: “Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio». È difficile trovare un brano così duro nel Vangelo. Sono presentate tre tipologie, tre casi, tre situazioni, ma tutte e tre sono legati alla tana che è il luogo dove ci sentiamo protetti, dove siamo a nostro agio, dove ci sentiamo amati, accolti, dove non abbiamo bisogno di tradurre, dove possiamo anche perdere la pazienza. “Ti seguirò dovunque tu vada”. Vedete, anche questo è un testo di discernimento vocazionale, ma poi diventa un testo di esame di coscienza per noi che la vocazione l’abbiamo già compresa e corrisposta, ma che rischiamo di vivere situazioni regressive. La vita ne è piena, la vita dei preti ne è piena. Regressioni verso una tana, un posto tranquillo dove avere un campetto e fare come Cincinnato. Gesù al primo risponde che Lui una tana non ce l’ha: le volpi hanno le tane, il Figlio dell’uomo, invece, è itinerante. E questa dimensione è così difficile da vivere nella nostra vita presbiterale. All’altro è Gesù stesso che dice: “Seguimi”, ma c’è un “ma”, c’è sempre un “ma”. Ho visto persone sfiorire davanti a questi “ma” — giovani intendo — e il “ma” riguarda il padre da seppellire. Come sapete, gli esegeti dicono che poi, sotto sotto, c’era un’eredità da dividere, perché essere presente alle esequie significa che, una volta seppellito il padre, ci si chiede: Vediamo un po’ cosa conservava papà nel comò, sotto una mattonella, una volta, adesso sul conto in banca. E chi è assente non divide la torta, quindi, beh, si tratta di un affetto piuttosto interessato, a dir poco. “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti”, cioè adesso hai la possibilità di entrare in una nuova dimensione, perciò lascia — lo dicevamo già ieri — che il mondo vada per la sua strada, che l’uomo torni alla sua casa. Tu no, tu vieni e seguimi (e qui ricordiamo le celebrazioni esequiali — come dire? — con i pennacchi, con i cavalli, con le bande musicali; la gente non sa più come fare orpelli alla morte, invece si dovrebbe guardare alla sua crudezza, noi siamo

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esperti in questo, purtroppo!). “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti”. I morti ci uccidono, vero? È l’esperienza dei parroci. I morti ci uccidono. Quante energie per i morti e quante poche ne rimangono per i vivi! «Un altro disse: “Ti seguirò, Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa». Pensate che Elia permette questo saluto ad Eliseo: “Va' e torna presto, poiché tu sai ciò che ti ho comunicato”. Qui no, non ci sono saluti da fare, saluti pericolosi. Alcuni di voi sono scappati di casa — lo so — quando erano giovani. “Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il Regno di Dio”. Vedete, potreste sentire questi brani lontani, perché non siamo giovani, perché non siamo seminaristi, in realtà, la crisi di Gesù nei confronti dei suoi, prima è vissuta in senso passivo, e poi, nel brano di Luca, in senso attivo, cioè è Gesù stesso che dà indicazioni a chi viva la crisi, e quindi ci porta dentro le relazioni. Ve le vorrei presentare, le relazioni affettive, quelle sane, ma sempre pericolose. Non esistono relazioni — ve lo dicevo stamattina — sul piano pastorale, ma ancora di più sul piano affettivo, che non si possono ammalare. Tante relazioni si ammalano, anche di paternità spirituale, di figliolanza. Ve le vorrei presentare con lo schema hegeliano, tanto per avere un riferimento che conosciamo bene: tesi, antitesi, e sintesi. La tesi è: Io sto bene con te, ed è l’aspetto simbiotico. Quante relazioni simbiotiche viviamo, non solo nelle famiglie, ma anche nel nostro vissuto. Io non ho smesso di fare il padre spirituale, per fortuna — ancora mi salvo — altrimenti mi sarei già suicidato da vescovo, e quindi sto dentro anche a tante storie, e vedo come il prete giovane, o anche avanti negli anni, maturo, rischia di vivere con un gruppo, con delle persone, pur senza che avvenga nulla di moralmente illecito, di vivere una situazione simbiotica, cioè di immedesimazione nella vita dell’altro, e l’altro nella vita del padre. Stamattina vi ho citato mons. Cece che mi diceva di non parlare troppo, adesso ve lo cito per una cosa molto interessante. Lui sostiene, in una maniera un po’ paradossale, però vera, che in certi casi è più importante il padre spirituale del confessore. Ohibò, e perché? Perché al confessore si dicono i peccati, al padre spirituale si dicono anche cose che non sono peccati. Lo sapete che questa è un’affermazione di grande sapienza? Significa che al padre spirituale vado a raccontare anche episodi tipo: “Ho fatto un dono a una mia catechista”. È un male? No, spero che facciate dei doni alle vostre catechiste, e non le tediate solo come le vestali e non le frustiate a ogni omelia, ma un dono può essere un dono e può essere anche altro, per esempio un messaggio subliminale. E allora il fatto di raccontare al padre spirituale fatti non peccaminosi perlopiù significa metterlo in guardia, far guardare una relazione da un altro, da un tutor, si dice sul piano della psicologia, che a sua volta svolge un ruolo psicoterapeutico, per cui, agli occhi del padre spirituale, dall’esterno, un fatto che sembra del tutto innocente può invece apparire allarmante: “Attento a questa cosa!”. Ma forse sono malpensante — i padri spirituali devono essere malpensanti — tuttavia è bene che si accendano dei campanelli, delle lucette, in situazioni oggettivamente rette da un punto di vista morale. Vedete, a volte succede, come dice l’autore dell’Imitazione di Cristo, che quando arriva il medico è troppo tardi, ma adesso chiudo la citazione ad onore del mio vescovo Felice.

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Questa è la tesi, poi bisogna andar via: “Me ne vado, mi sposo”. È la crisi adolescenziale, è quella dimensione dolorosa del distacco che viviamo continuamente, non fosse altro nel passaggio (spero che avvengano questi passaggi naturali nella vostra parrocchia, e che non ci siano catechiste a vita, che fanno cinquant’anni di catechismo, e poi fate loro la statua, la medaglia d’oro, e ancora fanno catechismo dopo cinquant’anni) e nella turnazione dei ruoli, dove viviamo un distacco che è salutare perché celebra una libertà, e sottolinea l’io. La tesi, infatti, sottolinea il tu, il tu della madre, della famiglia, dove mi rintano, e invece in questa voglia di autodeterminazione — se volete, a volte anche sbagliata, nei nostri adolescenti che vanno via sbattendo la porta — in realtà c’è una voglia di vita, un’operazione-parto, un prendere le distanze. Vanno via da casa. La casa è il luogo da cui partire, dice un autore. Attenti che questo varrebbe per certe analogie anche per la parrocchia, ma vi lancio solo la provocazione, e non intendo riferirmi soltanto al prete che sarebbe bene che, di tanto in tanto, dopo un tot numero di anni, cambi aria, ma anche alla parrocchia che può diventare una tana: Stiamo bene noi, il nostro gruppetto, noi che sniffiamo incensi fino a inebriarci. No, viene un momento in cui bisogna demolire quello che hai costruito, e quindi dire a un giovane: Adesso vai, vai, se egli in prima persona non dovesse fare questa scelta. E allora abbiamo l’antitesi, dove c’è l’affermazione dell’io. La sintesi avviene dopo la lacerazione, dopo la presa di distanza, ed è la condizione del “noi”, quindi il presupposto della coppia, della famiglia, della comunità. Queste non sono solo le dinamiche della vita religiosa, ma anche le dinamiche religiose della vita, della nostra vita, quando ci arrivano persone ancora in fase simbiotica o altre in fase di ribellione. Solo chi è andato lontano può essere vicino. D’altra parte, lo abbiamo sperimentato come uomini nei confronti delle nostre famiglie d’origine. Se siamo stati più vicini ai nostri genitori, di quanto non lo abbiano fatto i nostri fratelli e sorelle sposati, non era perché il prete non ha la moglie, e dunque resta legato — si diceva una volta in napoletano — alla “pettola” della madre, ma perché è andato lontano, e dunque per lui si apre una possibilità di essere vicino. Solo chi è partito può tornare e costituire un “noi” che non sia la riproduzione del tu in me, che non sia più la ribellione dell’io nei confronti del tu, ma il “noi” dell’appartenenza, dove ciascuno è se stesso intorno alla mensa, intorno ad una convivialità nelle differenze. Ecco, è solo un accenno per uno schema, a volte per evitare che abbiate a perdervi in tutte le parentesi che apro, e può aiutarci a inquadrare noi — ed è quello che vi invito a fare adesso, andando verso la conclusione — e a inquadrare Gesù in questo passaggio, in questa crisi, in questa presa di posizione, in questa affermazione di un nuovo “noi”, che non riguarda più la madre, i fratelli, le sorelle, cioè i familiari, ma noi come educatori di comunità. Siamo anche questo. E quindi una comunità-tana è pericolosissima e prima o poi esploderà, mentre una comunità deve avere le porte aperte, deve essere accogliente per persone che entrano e escano. Ognuno di voi avrà sentito mille proteste per gruppi e gruppuscoli che fanno da tappo nei confronti del parroco, soprattutto nelle piccole parrocchie (più le parrocchie sono piccole, più gli zelanti fanno da tappo, da filtro, non fanno arrivare le notizie), lo sapete bene, ma succede anche a noi vescovi, ci fanno

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arrivare solo quello che vogliono loro, manipolano la realtà, smistano la posta, insomma, ci fanno dire: Ma io la mia diocesi la conosco in una maniera mediata o immediata? È sempre mediata — starete pensando — la diocesi o la parrocchia per voi. Ringraziamo di cuore i nostri collaboratori, ma mettiamo anche il freno davanti a certe impertinenze, davanti a richieste di autonomia, di prelazioni indebite, che, a volte, per stanchezza, per amore di pace, lasciamo andare. Io chiamo questo teatrino — ve lo comunico senza farvi pagare i diritti d’autore — “metodo Dalila”, l’amante di Sansone a cui tagliano i capelli. L’ho inventato mentre parlavo con un seminarista. Capita di ascoltare una donna, una volta, due volte, tre volte…, a un certo punto ti porta a una stanchezza tale che finisci col fare come Sansone e dire: “E va bene, adesso ti dico da dove proviene la mia forza”. Le donne hanno una forza nello stancarci, come nessuno. Noi poi siamo piuttosto ingenui, noi maschi, non solo noi preti, tutti, tutti i maschi. Le donne, invece, hanno occhio, fiuto… e allora il metodo Dalila che utilizzano nelle comunicazioni è quello di mettersi nelle orecchie del parroco una volta, due volte, dieci volte…, tanto che a un certo punto lui dice: “Basta, non la voglio più sentire, va bene!”. E va bene oggi, va bene domani, ecco che il parroco ha perso la forza, perché Dalila gli ha tagliato i capelli nottetempo.

Esercizi. Andiamo all’assegno, altrimenti faccio anch’io con voi come Dalila, cioè vi porto allo stremo e vi ci vuole una flebo per riprendervi da questa meditazione. Primo esercizio positivo: memoria degli affetti familiari. Un’esperienza bella degli Esercizi e del silenzio riguarda i defunti. Non so se l’avete già sperimentato, ma a me arrivano tanti di quei defunti durante gli Esercizi che è un piacere: in sogno, mentre passeggio, persone che avevo perso del tutto di vista, e che il silenzio mi fa balzare davanti agli occhi, e torniamo a parlare, a dialogare, a volerci bene, a condividere ricordi. È la meraviglia e il miracolo del silenzio! “Memoria degli affetti” è riandare ai nostri genitori. Adesso, guardando il momento di crisi di Gesù, ripensiamo anche alla nostra famiglia, al luogo dove ci siamo formati come uomini, dove abbiamo imparato l’arte e la fatica di essere uomini, e dunque (per molti di noi si tratta di defunti, per altri di persone ancora in vita) guardiamolo quest’ambito, facciamone memoria e ringraziamo il Signore. Secondo esercizio: memoria di una crisi. Questa può riguardare il tuo rapporto familiare, ma anche il rapporto con il padre spirituale, con una persona forse iperpresente, un po’ ossessiva nella tua vita. Terzo esercizio, un po’ più difficile: Chiamo alcuni miei collaboratori a parlare nella preghiera (non per telefono, nella preghiera). Ci mettiamo intorno a un tavolo e facciamo il grafico delle nostre relazioni. Questo è un esercizio da fare sempre per la salute di certe relazioni che vanno chiarite, rilanciate, purificate, evangelizzate, proprio perché questa meditazione mi ha portato a guardare quelli che oggi mi amano e che forse mi ostacolano. Allora per un attimo guardo Maria, Vincenzina, altri…, li chiamo intorno a questo tavolo e dico: “Ma come va, cioè come andiamo noi due, tu con il tuo ruolo e io che sono il parroco?”. Lo faccio per vedere se ci sono o se si stanno creando delle aderenze. So che questo esercizio meriterebbe molto più tempo, ma comunque

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avete anche la notte, se soffrite d’insonnia, per chiamare a rapporto e a verifica tali persone. Gibran nel brano, che sicuramente conoscete, dal libro “Il Profeta”, dice degli sposi: “Vi sia spazio nella vostra unità, e tra voi danzino i venti dei cieli”, cioè a dire: Siate vicini, ma non troppo. Se è vero per gli sposi, tanto più per noi. “Riempitevi a vicenda le coppe, ma non bevete da una coppa sola”. Immagini che indicano ingerenze, formazioni diadiche, si sarebbe detto in psicologia, cioè inerenti il rapporto madre-figlio.Infine una preghiera di ringraziamento per quelle relazioni libere e liberanti, che viviamo non solo nel senso discendente, cioè tra noi e i nostri collaboratori, ma anche in senso ascendente, tra noi e i nostri padri spirituali, tra noi e le persone che si sono occupate di noi in passato, i nostri vescovi, ecc., nel caso ce ne siano. Un motivo di ringraziamento: Ti ringrazio, Signore, perché questa persona mi aiuta, ma mi lascia anche in una sana lontananza. Ecco, questo è un possibile tracciato del tema: “Quando chi ti ama ti intralcia”.

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Vespri: Parlami Tu, Signore.

Parlami Tu, Signore, rivelami la mia identità più nascosta, più segreta e grandiosa: quella di essere figlio. D’ora in poi, dice Francesco, non chiamerò più te mio padre. Donaci, dona a noi, tuoi preti, una rinnovata coscienza di essere figli e di essere figli del Re, e dunque di stirpe regale. A fronte di tante voci che ci giungono dal mondo, che ci umiliano, ci annullano, polverizzano le nostre identità di carta, Tu, Signore Gesù, ci ricordi chi siamo. Facci riscoprire in questi giorni la nostra stirpe regale: sacerdoti, re e profeti. E il Padre ha cura di noi. “Neppure un capello del nostro capo andrà perduto” ci ricordava il Vangelo di Domenica. A fronte dei nostri sbandamenti, dei nostri disorientamenti, di tante voci offensive, accogliamo come un balsamo questa parola dell’apostolo Giovanni, che ci dice chi siamo. Ed egli stesso è stupito di ciò che sta dicendo, scrivendo e commentando, e aggiunge: e lo siamo realmente, non per gioco. Essere figli ci rende partecipi di un’eredità che si chiama vita, perché Dio vive e fa vivere. Ti preghiamo questa sera per tutti i nostri confratelli defunti, per quanti hanno svolto il ministero nella Chiesa visibile e con mille dubbi hanno varcato la soglia dell’eternità. Ti preghiamo per loro che adesso sanno di essere dei figli e conoscono la nostra dignità e ce la suggeriscono umilmente, dolcemente, all’orecchio del cuore, nei momenti in cui siamo più scoraggiati e disorientati. Sappiamo, però, che, quando Egli si sarà manifestato, noi saremo simili a Lui. Donaci, Gesù, questa coscienza, di camminare a testa alta, nonostante i nostri peccati e le nostre miserie, perché anche se il figlio del re è sfigurato resta sempre un principe; donaci di vivere questa dimensione principesca, regale, certamente nella liturgia, ma soprattutto nella nostra vita morale, zoppicante quanto vogliamo, ma che sempre avanza verso cose grandi.

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Lodi: Nel pericolo la medicina.

Ci sveglia la Parola. La Parola è la nostra sveglia del mattino, il bacio della buonanotte, la guida nei sogni. La Parola di questa mattina è una parola testamentaria, perché Tobi, cieco, apparentemente sfortunato nonostante la sua condotta retta, affida al figlio una sorta di vademecum per la vita. Fare testamento è una delle cose da fare agli Esercizi. Giovanni Paolo ci ha lasciato un testamento con delle annotazioni rinnovate ad ogni corso di Esercizi, perché ci rendiamo conto del tempo che passa, perché vorremmo lasciare un messaggio ai nostri parrocchiani, ai nostri fedeli, ai nostri amici, ma anche perché fare testamento è riassumere, accogliere la propria vita nel palmo di una mano, chiedendo perdono, offrendo perdono, raccomandandoci alle persone, alla loro preghiera, alla loro benevolenza, cercando, insomma, di trasmettere quello che abbiamo capito. Una generazione non può andar via muta, tanto più una generazione di preti. E le cose lasciate in testamento sono sempre estremamente semplici. Chi fra voi, immagino molti, abbia familiarità con questa letteratura, sa quanto i testamenti siano stringati, minimalisti per certi aspetti, perché poi la vita si riassume in poche parole, quello che ho capito e ho pregato nell’Ufficio delle Letture. Se l’avete già fatto, se lo farete, anche nel salmo 17, che è un salmo di un depresso, che è riuscito a superare la sua depressione, concludendo con: “Tu, Signore, sei luce alla mia lampada; / il mio Dio rischiara le mie tenebre. / Con te mi lancerò contro le schiere, / con il mio Dio scavalcherò le mura.” Anche questa è una parola testamentaria, come “Non fare a nessuno ciò che non piaccia a te”. Nel Vangelo si chiama la regola aurea (il Discorso della Montagna) oppure “Usa la benevolenza che vorresti fosse usata a te, condividi i tuoi beni, chiedi il parere a una persona che sia saggia”. Bisogna chiedere il parere anche ai bambini, che hanno una loro saggezza, più perspicace, per certi aspetti, di quella degli anziani. Ma vorrei per un attimo, in modo molto sintetico e a volo d’uccello, allargare l’obiettivo sul libro da cui ci provengono queste parole. Magari in questi giorni, avendo più tempo, possiamo scorrere le parole del testo sacro, più di quanto non accada velocemente per l’utilizzo liturgico. Adesso la Parola è rivolta a me: Non devo fare l’omelia, non devo pensare a cosa dirò, a cosa vuole ascoltare il mio uditorio, a cosa fa al caso della mia comunità. Il Libro di Tobia è una sorta di parabola sulla vita, che è un sentiero da percorrere, perché è perlopiù un libro per la via, lungo la via, non solo nei compiti, nel testamento — si chiama “testamento” perché fa testo — che Tobi affida a Tobia, ma anche nelle vicende. Certi libri dell’Antico Testamento andrebbero riscoperti anche sul piano pastorale. È molto affascinante il Libro di Tobia, perché c’è un ragazzo inesperto che non può più fare affidamento sul padre cieco e deve intraprendere un viaggio per riprendere ciò che il padre aveva dato in prestito. Dunque un viaggio vitale — poi si rivelerà più vitale di quanto non ci si attendesse dai primi passi — un viaggio che comincia per il sostentamento, perché Tobi dice al figlio: “Io ho fatto un prestito, questo è il documento”. Ma come farà questo ragazzo a percorrere le vie della vita, le vie di un paese straniero? come farà? si perderà? Vedete, è come una fiaba nel senso più bello del termine. E allora c’è un angelo che lo accompagna, perché

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la vita non è mai un cammino da soli: Ci sono angeli, presenze, persone che sono state inviate anche a noi, quando eravamo ragazzi, adolescenti, giovani inesperti, giovani preti, che ci hanno guidato. Qui c’è la storia di un pesce. E il pesce, innanzitutto, viene avvertito come pericolo, perché è un grosso pesce che cerca di mordere Tobia, ma in questo pericolo c’è una medicina. In tante nostre esperienze, anche sbagliate, rilette, riguardate in filigrana alla luce della Parola di Dio, poi ci sono dei doni, non fosse altro che il dono dell’umiltà. Nel pericolo del pesce che tenta di mordere Tobia c’è ciò che aiuta il ragazzo a superare molte difficoltà, e la prima è rompere l’incantesimo, si direbbe in una fiaba, che circonda come maleficio una donna che è la sua donna: Sara. Conoscete la storia, ma adesso mi interessa riprendere questi temi: la vita è un viaggio, ha bisogno di sostentamento, e quindi si parte per questo; la vita non è da percorrere da soli, perciò occorre riconoscere l’angelo che il Signore ci ha dato, gli angeli che il Signore ci manda. La vita è anche matrimonio. Padre e madre sono legati a due temi molto importanti dal punto di vista dell’antropologia culturale, perché il padre è il patrimonio, la madre è all’origine del matrimonio. C’è un romanzo di un romanziere statunitense, Philip Roth, che si intitola proprio così, Patrimonio, e racconta il rapporto dell’autore con il padre anziano e gravemente malato. In questo viaggio aiutiamo altri a uscire fuori dal maleficio, fuori da una situazione di morte. Tutti gli uomini che si sono avvicinati a Sara sono morti. Anche qui, come nella storia del Vangelo di due Domeniche fa. E allora l’amore si presenta come guarigione. Anche noi che siamo stati chiamati ad una vita di celibato e, speriamo, anche di castità (a volte diciamo: Non siamo religiosi, siamo preti diocesani; qui ci sono dei frati, e allora la castità è vostra… no!) siamo chiamati a liberare le persone, a farle uscire da una dinamica di morte e a immetterle in una dinamica di vita. In fondo, la confessione, la direzione spirituale, tutta l’attività pastorale, quando sono intelligenti, hanno di mira questo, cioè far uscire le persone dal buio. Quindi nel suo viaggio avventuroso e difficoltoso Tobia non solo trova una compagna, ma libera anche una donna dalla cappa che le impedisce di comunicare. Ebbene, l’amore è la medicina, ed è l’amore che vince l’incantesimo; il bacio dato all’orco lo trasforma nel Principe azzurro. È sempre l’amore, anche nei nostri presbiteri. Se non c’è amore, se non c’è anche quella forma di amore laico, che viene dal Medioevo e che si chiama cortesia, non c’è medicina. Se ci fosse un po’ più di cortesia… (Ricordo una predica del vescovo di Vallo della Lucania, mons. Favale, sul galateo. Forse non era proprio opportuna, ma parlò di questo “amore di cortesia”, che significa atteggiamento che si tiene a corte: Buongiorno, buonasera, e che consiste nel mantenere i rapporti sereni, nel fare delle attenzioni). L’amore libera, libera anche noi. Ciò che mi interessa comunicarvi di più della saggezza di questo testo antico è che poi Tobia non solo torna sano e salvo, cosa di cui il padre dubitava, non solo torna con i soldi, e quindi con la sicurezza per il futuro, ma persino con una moglie, il che significa posterità. Torna inoltre con la medicina che guarisce il padre, riportandolo alla luce. E la guarigione del padre — leggetela nella preghiera — è una guarigione della memoria, perché il padre è la memoria.

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Dio sa quanto i nostri presbiteri, tutti, abbiano bisogno di questa guarigione! Oltre che noi, come singoli, come persone, ne hanno bisogno anche le nostre famiglie rispetto al loro vissuto. Siamo sempre astiosi perché non pacificati, e quando ci mettiamo insieme e guardiamo le vicende delle nostre Chiese locali, ancora di più sentiamo questo disagio, perché non siamo pacificati, perché il vescovo precedente, quello ancora prima... Allora, metti un po’ di questo fegato di Tobia e spalmalo sulle palpebre chiuse, sulla memoria fosca, dolorosa, che impedisce il futuro, imbrigliata, incatenata, come sotto un maleficio. Spalma questo unguento, che ovviamente è la preghiera che ci proviene dalla fede, la grazia dei sacramenti, degli Esercizi, che ci fa riandare alla memoria, chiedendo: Signore, guariscimi, guarisci questo ricordo, questa relazione dolorosa che ho avuto con il vescovo, con due vescovi fa, con dieci vescovi fa. C’è sempre una memoria dolorosa! Questo esercizio lo facciamo singolarmente, ma poi, se ciascuno di noi lo fa, finiamo col farlo anche come famiglia, come presbiterio. Qualche indicazione l’andrete a rileggere in tutto il Libro, tra l’altro breve, da utilizzare anche per una catechesi per gli adolescenti. Qualcuno usa questo testo anche leggendolo in maniera allegorica e psicologica per un corso prematrimoniale: Come ci si accosta all’altro, all’altra, preghiamo prima, in modo tale che anche il tuo passato sia liberato e noi possiamo veramente incontrarci, altrimenti ci incontriamo sempre con le maschere.

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Quarta meditazione: Quando soffia il vento della tentazione.

Siamo al capitolo 4 del vangelo di Luca, ai versetti 1-13. Ovviamente, valgono anche le altre versioni, e cioè Matteo 4, versetti 1-11; sul brano di Marco, invece, ci siamo già fermati nello stretching previo alla palestra degli Esercizi. Il titolo di stamattina è: “Quando soffia il vento della tentazione”. Non ci interessa in questo momento cosa ci sia nell’impianto esegetico di questo brano, certamente non accogliamo la versione antica, in cui si diceva che Gesù veniva tentato per finta, in modo tale da darci una lezione anche in questo stato. Nella sua umanità, Gesù, come tutti gli uomini, è stato provato. E allora cerchiamo di familiarizzare — ovviamente non ho la presunzione di dirvi nulla di nuovo, d’altra parte, siamo sotto l’egida e la bandiera della Parola che non passa, che è vera ieri, oggi e sempre — con la ferialità della tentazione, soffermandoci innanzi tutto su alcuni aspetti in margine a questo brano. Mi sembra che in alcuni movimenti, in alcuni preti, in alcuni di noi ci sia ancora l’idea che la tentazione sia di per sé un fatto negativo, e invece accogliamo questa riflessione sentendo che la tentazione è un campo magnetico, fecondo anche di tanta forza, certamente un luogo di crescita. “Figlio, se ti presenti per servire il Signore … preparati alla prova”, dice il testo sapienziale (Siracide, 2,1) che, forse, in qualche maniera Benedetto ha raccolto nel prologo della sua Regola: “Ascolta, figlio, i precetti del padre”. Molti di noi vanno ancora in ansia quando si trovano sotto il vento e sotto la sferza della tentazione, pensando erroneamente che esprima una dimensione negativa e non che sia portatrice piuttosto di un’occasione di crescita. In ogni tentazione — d’altra parte la crisi è una tentazione — ci possono essere, come nella crisi del malato, due possibili esiti: la guarigione e la morte. Ma sono entrambi presenti, e quindi la prognosi riservata significa che il malato è in una condizione incerta: non si sa quale porta poi imbocchi, quale soglia varchi, se quella della morte, e quindi si precipita, o quella della vita. Quindi la tentazione è un terreno di frontiera. Il tema della lotta spirituale, che era così chiaro ai Padri antichi, mi sembra che non sia tanto oggetto di predicazione da parte nostra, segno che non è tema di riflessione. Tra l’altro, con noi c’è Anselmo, che viene dall’abbazia di Montecassino e si prepara all’Ordinazione presbiterale; raccogliamo la presenza di un monaco e di alcuni religiosi con simpatia, perché lo stato di salute della Chiesa italiana lo si verifica con il termometro della vita religiosa. E potrei fermarmi qui, per dire come vanno le cose nella nostre parrocchie, nelle nostre diocesi, nei conventi, nei monasteri e nelle abbazie. Noi pensiamo sempre che in una maniera ideale i monaci siano gli aristocratici della vita spirituale, quelli che stanno con l’alambicco della preghiera e della meditazione, in realtà sono la punta di iceberg di una Chiesa. D’altronde, è sotto gli occhi di tutti che la vita religiosa, e nella vita religiosa la vita monastica, in Italia è in crisi; noi abbiamo qui in regione due abbazie, Cava e Montevergine, ma il giorno in cui, come ho augurato ad Anselmo, Montecassino risorgerà sulle spoglie e intorno alle ossa e alle reliquie di San Benedetto, noi ne dovremo godere tutti, perché significa che la nostra vita ecclesiale ha imboccato una strada buona. Chiudo la parentesi, era solo per chi avesse bisogno di un termometro, per dire: come va? Ebbene, guardiamo i monaci, i

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frati, la vita religiosa… Potremmo obiettare: Ma noi non c’entriamo… intanto loro fanno parte della Chiesa, ne sono un elemento essenziale, e il loro essere frastornati sottolinea una non chiara identità da parte della Chiesa intera. Ho fatto questo riferimento a proposito dei Padri del deserto, e poi di tutta la tradizione monastica, la tradizione ascetica, che insisteva molto sul tema della lotta, nel senso che la vita è una lotta. “Militia — dice l’autore dell’Imitazione di Cristo — militia est”, oppure “agone”, di cui l’agonia è solo l’ultima lotta, ma ce ne sono tante, quotidiane, settimanali, mensili, annuali, che contraddistinguono la nostra vita, e possono essere, a seconda di come le affrontiamo, momenti di crescita o momenti di calo. Tutta l’arte della direzione spirituale, in qualche maniera, gira intorno a questo tema e alla delizia del padre e alla docilità del figlio nel lasciarsi accompagnare nella lotta, perché, se tu pensi di fare — non mi riferisco a voi, ma alludo a tanti seminaristi, giovani preti, novizi — come la vispa Teresa che va in giro con il panierino, o come Cappuccetto Rosso che va nel bosco canticchiando, pensando che la vita presbiterale o la vita cristiana siano questo, ovviamente, come dice la fiaba, finirai nelle fauci del lupo cattivo, che è pronto ad aspettarti, camuffato, travestito, ma mai perfettamente. Quindi, questo è un tema penitenziale, quaresimale. Non è un caso che la I Domenica di Quaresima, a qualsiasi ciclo appartenga, ci presenti sempre le tentazioni di Gesù. Perché? Qual è la pedagogia della Chiesa? Cosa ci vuole dire la Parola? Come ciò che celebriamo esprime la nostra vita? È un ricordare ai credenti che bisogna indossare, come dice Paolo, la corazza, l’elmo e la spada. Anche stamattina ci siamo svegliati, e qualsiasi cosa di buono abbiamo fatto ieri, non dico che non conti, ma certamente non è determinante per la lotta di oggi; certamente, se siamo stati attenti, se non abbiamo utilizzato il telefonino (come alcuni di voi stanno facendo, contravvenendo alle patologie del predicatore, diciamo pure alle fobie, alle manie del predicatore), se ieri è andata male, oggi bisogna motivarsi di più. Dico in una maniera un po’ terroristica che, se anche ieri abbiamo fatto miracoli, io e voi, oggi possiamo essere depravati. Tale incertezza caratterizzava la vita dei santi — la vita dei santi è luogo teologico, ve lo ricordo — ha caratterizzato la vita di tanti credenti, deve caratterizzare anche la nostra vita. Io so più o meno finora se sono riuscito a stare in piedi, ma quello che succederà fino a stasera solo Dio lo sa, e quindi mi avventuro in questa giornata, pur all’interno degli Esercizi, con la santa incertezza di sapere che ci saranno delle trappole, delle tensioni, degli annuvolamenti, delle precipitazioni, delle bombe d’acqua, che insomma possono sconquassare la mia torre eburnea. Da questo punto di vista nessuno di noi è al sicuro fino all’ultima lotta. Questa consapevolezza mi impone quel sano atteggiamento guerriero e di vigilanza che aiuta la vita spirituale. La lotta spirituale è un tema centrale, e quindi torniamo a parlare di lotta, anche con i nostri fedeli, che pensano che partecipare all’Eucaristia sia un toccasana rispetto ai mali della vita; rispetto alle prove, invece, si trovano a far fronte a tanti pericoli interni ed esterni. La tentazione fa parte della vita, e questo la Parola lo dice chiaramente: Gesù, condotto nel deserto, viene tentato. Marco dice che lo era “in una maniera continuativa”, usa l’imperfetto, a sottolineare che la tentazione non è un fatto occasionale, del momento, ma ha accompagnato la vita del Maestro fino alla

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fine, fino all’ultima tentazione, quella sulla Croce: “Se tu sei il Figlio di Dio, scendi dalla Croce”. Ovviamente, bisogna armarsi, e qui entra in gioco tutto l’apparato ascetico che, purtroppo, abbiamo smontato, e che dobbiamo rimontare, anche se non con le stesse categorie, le stesse forme della nostra infanzia, adolescenza, prima giovinezza. Le tentazioni, d’altra parte, si aggiornano, perché il demonio si aggiorna a differenza di noi; lui fa i corsi di aggiornamento, partecipa ai meeting internazionali, noi, invece, pensiamo che bastino le cose imparate in Seminario. Ci sono anche nuove tentazioni, come vecchie tentazioni, ormai fenomeni museali, e allora bisogna armarsi. Questo comporta essere desti, ma anche saper riconoscere tutto il cammino degli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio, soprattutto nel discernimento degli spiriti (chi fra noi venga dalla scuola gesuitica lo ha appreso molto bene). L’intero cammino degli Esercizi è finalizzato a capire sotto quale spirito questa suggestione, questo pensiero, questa tristezza, questa gioia, questa euforia, mi vengano, perché mi possono venire dallo spirito buono, lo Spirito Santo, come dallo spirito cattivo. Detto così, è molto semplice, ma i Padri antichi, Ignazio in particolare, direi quasi con una struttura, in maniera strutturata ci dicono: Attenzione, perché ci sono anche i camuffamenti. Tentazione sub specie boni. Mi sembra, ad esempio, che costruire una chiesa, innalzare un campanile di cento metri sia a gloria di Dio, però bisogna vedere se effettivamente è così, per dire una cosa banale, cioè cosa si nasconde dietro? C’è veramente la ricerca del Regno di Dio o è una mia affermazione? “Ho il campanile più alto della diocesi, venite a vedere le mie campane che fanno i concerti a tutte le ore del giorno!”, magari ricevendo anche denunce, perché adesso suonare le campane è diventato un fatto complicatissimo, come sapete meglio di me. Quest’opera, dunque, anche buona, è finalizzata alla gloria di Dio o al fatto che io lasci un monumento a imperitura memoria, perché i posteri possano dire che Don Peppino ha edificato il campanile in tempi di grande penuria economica? Questo significa andare a fondo. Per farlo, abbiamo bisogno di un confronto con la Parola, e in questo senso le due versioni di Matteo e di Luca sono chiarissime: è la Parola che mi illumina il cammino. “Lampada per i miei passi è la tua Parola” dice il salmo 118; è la Parola che mi pone nella condizione di capire se questo desiderio sia buono, cattivo, misto, perché tanti desideri sono misti; se la posizione del campanile per il 90% è per la gloria di Dio e per il 10% per la gloria umana. Beh, una motivazione perfetta al cento per cento, come sapete, non esiste, anche per noi che abbiamo sposato questo stato anomalo di vita, che è il servizio al Signore e alla Chiesa nella testimonianza celibataria. Probabilmente, nella scelta che abbiamo fatto, sono entrati alcuni elementi umani, è normale, l’importante è che l’altra quotazione, quella della chiamata, sia in una dimensione maggioritaria. È necessario il confronto con la Parola — non è detto qui nel testo, ma lo ricordo — come anche la possibilità di usufruire di una guida o accompagnamento, chiamatelo come volete, se “padre spirituale” vi sa troppo di paternalismo. Abbiamo bisogno, di tanto in tanto, di sottoporre al padre, come dicevo di passaggio già ieri, la nostra resistenza alle dinamiche del nostro ministero e i nostri pensieri, i Λογισμοί, come dicevano i monaci antichi.

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I monaci vanno dall’abate per dirgli: “Oggi mi hanno oppresso questi logismoi”, cioè questi pensieri. Non erano peccati, erano pensieri, per esempio: Non ho fatto bene la miniatura, avrei voluto utilizzare, non so, la polvere di smeraldo, invece non mi è andata bene… Anche una miniatura poteva preoccupare la mente di un monaco, che presentava questo pensiero all’abate e poi andava a letto, così come abbiamo cantato: “In pace mi corico e subito mi addormento”, cioè liberato, perché dirlo è già una liberazione. Se volete, c’è un aspetto terapeutico nella confessione e nel dialogo spirituale, che abbiamo da duemila anni e che la psicologia ha scoperto di recente, ed è la possibilità di verbalizzare: se dici una cosa, il fatto di raccontarla già la struttura, la incornicia, e in qualche maniera te ne libera. Scusate se faccio questo riferimento, ma è frutto dell’esperienza, e vale anche per i casi eclatanti che ci affliggono sul piano nazionale e internazionale. Se avete letto qualche studio specifico sul rapporto tra i sacerdoti — ma non li condanniamo perché potremmo essere noi al loro posto tra mezz’ora — e le loro vittime, le persone di cui hanno abusato, rimane sempre evidente un topos, cioè il fatto che il gesto non venga mai verbalizzato. Si ha un rapporto con un adolescente (maschio o femmina che sia, in questo momento è indifferente), ma poi si è parlato con lui?, cioè si è chiesto scusa? Vedete, questo è un meccanismo, perché il non parlarne non è solo un modo per coprire, ma più a fondo è un modo per dire: Non è successo! Questo è un fatto proprio generale, generalizzato, in ogni storia drammatica o anche appena di ordinaria amministrazione. Bisognerebbe rincontrare la persona e dire: “Ma che cosa abbiamo fatto? che è successo? Scusami!”. Ricordo un prete, tra l’altro un’esperienza molto introitale, per utilizzare una parola liturgica, che a un certo punto si fermò e disse: “Ma non è questo che voglio!”. Ecco, vedete? È insorta la coscienza, ma non lo dico solo a me, lo dico anche a lui/lei: “Non è questo che voglio, non è questa la relazione che intendevo, quando sono sceso per confessarti”. Vedete quanto è importante verbalizzare! Non basta che lo dica allo specchio, non è la stessa cosa. Allora il confronto con il tutor — termine psicologico, psicoterapeutico — con il padre spirituale, aiuta a mettere le cose nel loro ordine: “Ho fatto questo e desidero che tu adesso me lo guardi, perché nemo iudex in causa propria”. Da questo punto di vista io non mi sento al sicuro, non so voi, lo dico apertamente, e forse sarà il caso anche che queste cose ce le diciamo nei nostri presbiteri per custodirci, perché i tempi sono carnosi, lo sono sempre stati, ma forse particolarmente oggi, e non solo per le occasioni. Scusate questa invettiva, ma nasce dalla paternità e dalla coscienza della nostra sempre più forte fragilità. Erano fragili anche i nostri genitori, i nostri padri, i nostri nonni, ma noi lo siamo in una maniera tutta speciale, e allora in tempi speciali c’è bisogno non di leggi speciali, ma di vincoli speciali, occorre celebrare l’appartenenza che — nella preghiera, nell’affetto, nella stima, nell’accompagnamento, nel sostegno — ci aiuta a essere al meglio per noi e anche per gli altri. Vengo adesso alle tre caratterizzazioni che la Parola di Dio ci presenta, e che hanno una loro logica, cioè qui abbiamo un panorama delle tentazioni che fondamentalmente presentano tre nuclei di generazione. Do due letture: una generale e la seconda pastorale. Anche la prima va bene per noi, eh!

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Il primo nucleo riguarda la fame dei sensi. Gesù ha fame: ci sono dei sassi, che ovviamente non sono commestibili, e il demonio gli chiede di trasformarli in pane. Quindi si tratta della dimensione sensuale della nostra vita che dobbiamo riconoscere, imparare a gestire, direi anche, in una maniera intelligente, riuscire a bilanciare, riconoscendo piaceri leciti e piaceri illeciti. Faccio un esempio, scusate se mi auto-cito, ma è una cosa che vi farà sorridere. È morto un sacerdote, tra l’altro non in tarda età, in diocesi, il Giovedì Santo mattina. Quando, il Venerdì Santo, ho fatto la celebrazione della Parola, ho lodato questo prete, perché in una pubblicazione che aveva fatto per la sua parrocchia in appendice ha messo una sua foto col sigaro. Magari molti di voi non condivideranno questa mia lettura, ma io ho detto: “Bravo, bravo!”. Non vi invito a fumare, io non fumo, eppure mi sono detto: Ma perché questo prete fuma? Perché ha avuto il coraggio di mettere la foto con il sigaro nel libro? Voi non lo fareste e neanche io. Immaginate il vescovo con il sigaro toscano che fa delle volute più perfette di quelle che vengono fuori dall’incensiere? Tuttavia, ci sono dei piaceri leciti. L’acconsentire a piaceri leciti ci aiuta a far fronte a quelli illeciti. Non so se riesco a esprimermi bene, ma spero non mi fraintendiate. Ricordate nel Libro di Genesi la fine psicologia che il demonio utilizza con Eva per tirarle di bocca la verità, meglio la bugia, e per portarla dalla sua parte? — È vero che Dio ha detto che di questi alberi non bisogna toccare niente? E lei interviene dicendo: “Sì, è vero per gli altri, solo questo non lo dobbiamo guardare, non lo dobbiamo toccare”. Ma il guardare non era stato detto: si poteva guardare! Allora potrebbe darsi che guardare — in certe occasioni, eh — possa essere un piacere lecito. Se mi escludo ogni dimensione dei sensi, beh, lo sapete meglio di me, esploderò da qualche parte. Se invece riesco a bilanciare — ovviamente qui c’è bisogno di equilibrio e non parlo ad adolescenti — allora la frittura di pesce di ieri (io non l’ho potuta assaggiare, ma ho avuto percezione che fosse buonissima) è un piacere lecito. (Ovviamente non parlo dei preti superabbondanti e ipercalorici! A volte vedo anche nei Seminari seminaristi extralarge, guardando i quali, mi chiedo: “Ma come farà ad alzarsi dalla prostrazione il giorno dell’Ordinazione?, segno di uno squilibrio, cioè se un seminarista pesa 115 chili, bah, sarà anche San Luigi Gonzaga, ma ho qualche dubbio). C’è un equilibrio, est modus, c’è una modalità, però il mangiare — e parla uno che, purtroppo, è penalizzato sotto questo aspetto — in una maniera equilibrata è un piacere lecito. Allora, se io, seguendo la geografia antica, faccio i digiuni di quaranta giorni a pane e acqua — non so quanto siano proponibili — forse mi accorgo che non sono equilibrati, perché poi le persone che sono così dure, drastiche con se stesse su questo piano, non so poi su altri quanto riescano ad autogestirsi. Quindi è importante guardare i nostri sensi, sentire che la sensazione bussa sul piano della sensualità, dei cinque sensi e sul piano della sessualità. Non abbiamo timore di incoraggiarci! Noi parliamo di tutto, ma guai a dire…, quando invece succede lo scandalo, allora tutti a lanciare le pietre sull’adultera! Sarebbe il caso che ci sostenessimo anche su questo piano. Cencini, a tale proposito, parla di “silenzio impuro”, cioè, a volte, non parlare di certe cose, in una maniera ovviamente equilibrata, sana, cristiana, sacerdotale, non è buon segno. Sarà il caso di parlarne, di incoraggiarci, di dire “attenti”. Prendendo spunto da una situazione precaria

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nella mia diocesi, al mio presbiterio ho detto: “Adesso provate questa cosa, ma ricordatevi che siamo tutti in pericolo di vita, e allora attrezziamoci e guardiamoci. Custodite il vescovo, il vescovo si sforza di custodire voi, perché sono tempi carnosi. Il secondo nucleo di tentazioni riguarda il possedere: il diavolo condusse Gesù in alto e mostrandogli in un istante tutti i regni della terra, gli disse: “Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni, perché è stata messa nelle mie mani, e io la do a chi voglio. Se ti prostri dinanzi a me, tutto sarà tuo”. Dobbiamo riconoscere che anche nelle nostre vite entra la dimensione di possesso che riguarda i beni, i soldi, le proprietà, il nostro rapporto con queste cose. Anche qui è presente una dimensione di liceità e di illiceità, cioè anche qui c’è un rapporto equilibrato con le cose che utilizzo rispetto a come si comportava Mazzarò del Verga: “Roba mia, vientene con me!”. E allora, davanti a certi patrimoni che scopriamo alla morte del prete ics, si rimane un tantino perplessi. Si dice: Ma quello è stato casto… Non so, a questo punto, se lasciare un milione di euro — ditemi come si fa per metterli insieme, ma succede nelle nostre diocesi — sia un valore. Quel prete che arrivava con la sottana sdrucita, rattoppata, sgualcita, e a cui il vescovo magari pagava anche il biglietto… poi i suoi nipoti godono di patrimoni immensi. Oggi siamo così attenti, mi sembra anche ossessivamente attenti all’aspetto della castità, ma non tanto alla castità delle cose e del denaro. C’è una libido del denaro che pesa, ci sono delle malattie anche da un punto di vista psicologico, come sapete, e da cui non siamo indenni, e quindi combatterle, un modo per combatterle, è occuparci anche noi dei poveri, e non per cavalcare un cavallo vincente in questi tempi. Quando, ad esempio, si fa la raccolta per Tizio, Caio, e Sempronio nelle nostre parrocchie, il parroco, di suo, mette qualcosa? Nella Caritas, nel gettito — ammesso che ce ne sia uno — della comunità c’è anche anonimamente un donatore sconosciuto che si scopre essere il parroco? Quando il mese scorso avete fatto la raccolta per la Giornata missionaria, voi — non lo voglio sapere — chiedetevelo, ognuno di voi ha messo dieci euro? Meno male! E consiglio, consiglierei anche, di tanto in tanto, di azzerare il conto, che è una cosa che mi ha aiutato molto. Non ho mai avuto conti faraonici, tutt’altro, ho avuto piuttosto paura, da parroco, oggi un po’ meno, da vescovo, di lasciare incombenze al successore, ebbene, qualche volta, come atto di fede, conviene azzerare il conto. Provateci, è un gesto di grande libertà. Ho diecimila euro — può essere una cifra normale sul conto di un prete — me ne libero, comincio da zero, faccio un’opera di carità, la offro per quest’opera, e questo mi allena al senso della Provvidenza e a verificare quanto la serenità mi provenga dalle sicurezze. So che questo meccanismo scatta in una maniera un po’ più forte dopo i quarant’anni, cioè dopo i quarant’anni cominciamo a essere — io ne ho cinquantotto, quindi lo so — preoccupati: Ma poi se mi viene una malattia, se mi succede qualcosa, se… come faccio? devo pensare al futuro… Fare quest’operazione, invece, è un agere contra, fare l’azzeramento mi aiuta a dire: “Dio, che pensa ai gigli del campo e agli uccelli del cielo, si prende cura anche di me”.Il terzo nucleo di tentazioni gira intorno al potere e alla realizzazione di sé, all’orgoglio e alla gloria. Dice il testo che il diavolo condusse Gesù in alto sul pinnacolo e gli disse: “Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto…”. Mi

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ha sempre preoccupato il fatto che Satana citi la Bibbia, lui è un bravo conoscitore, ma non basta conoscere la Bibbia. Potremmo invitare Satana a fare lezione di Sacra Scrittura nell’Università - Facoltà Teologica dell’Italia meridionale, dove Giovanni insegna Liturgia sacramentaria, ma, attenti, non basta la conoscenza intellettuale delle cose, perché forse Satana ce l’ha, ma non ama, non è una conoscenza che passi per il cuore. Quindi, “gettati giù” e “Tu darai ordine ai tuoi angeli di custodirmi in tutti i miei passi”(salmo 90), “perché il tuo piede non inciampi in una pietra”. La spettacolarità mi pone in una condizione di potere, e quindi i titoli: Questa e non quella parrocchia, perché questa è più grande, quella è barocca, questa è romanica, quella è moderna, quell’altra è supersonica… Valgano le parole di don Lorenzo Milani che, mandato a Barbiana — nella mia diocesi ci sono tantissime parrocchie simili a Barbiana — all’atto in cui la madre gli fa capire che muoverà le sue conoscenze per toglierlo da quel buco, scrive a sua madre in maniera forte, irruenta, come gli è congeniale: “Mamma, la grandezza di un uomo non dipende dal luogo dove ha dimorato”. Quindi la nostra grandezza non dipende dall’essere in questa o quella diocesi, in questa o in quella parrocchia, nell’essere Vicari generali (ce ne sono qui due, credo) o viceparroci di una sperduta landa dove la notte ululano i lupi. Allora, intorno alla dimensione sensuale, al potere delle cose e sulle cose, e all’orgoglio della vita, girano tutte le altre tentazioni. Se guardate anche gli elenchi dei Padri antichi sui vizi capitali, troverete comunque queste tre matrici. Scusate, mi sono dilungato, sarò più breve in un’applicazione anche pastorale. Direi che la prima tentazione: “Fa’ che questi sassi diventino pane” è una tentazione che vivono in particolare i preti più giovani, nel volere tutto e subito. Se si manda un prete in una parrocchia, parroco o vice-parroco che sia, vorrebbe trasformare tutto in ventiquattro ore o al massimo in un anno. Io dico sempre che i successi immediati sono quelli che non hanno futuro. È meglio arrivare a certe tappe dopo un cammino, piuttosto che anticiparle, come certi prodotti della terra super-gonfiati che fanno male allo stomaco. Quindi, attenzione a entrare nella pastorale e a vivere la pastorale come un luogo dove i sassi devono diventare pane, dove tutti devono partecipare all’Eucaristia, essere iscritti all’Azione Cattolica, essere divisi, come succedeva una volta, per età e censo. Impariamo l’arte umile delle relazioni. Mi sembra che oggi questa tentazione del “tutto e subito” sia ancora più forte, a fronte dei mezzi che i nostri giovani preti sanno utilizzare così bene, al punto da stare ventiquattro ore, ininterrottamente, su facebook, pensando di convertire il mondo. Io, che mi trovo un prete, diciamo, ottantenne, dissuado e scoraggio sempre, perché le persone bisogna guardarle negli occhi, e si convertono uno alla volta, non in massa; le conversioni, i mega eventi possono essere solo delle occasioni, mentre la vita pastorale, quella parrocchiale in specie — e credo che tutti siate con le mani in pasto — è fatta di pazienza, di attesa, di semina. Guardate il contadino, semina e poi aspetta e poi toglie le erbacce e poi vanga… La seconda è la tentazione dei mezzi potenti. Perciò, se la parrocchia non è dotata della consolle, dove si preme un tasto e si accendono le luci o si abbassano, o suonano le campane, per cui certi altari somigliano più a una consolle di regia che non alla mensa del Signore, mensa sacrificale, allora non

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è adeguata. In questo caso la forza non è più nella Parola, ma è nei mezzi, e torna di nuovo la tentazione di avere una parrocchia grande, ricca, superaccessoriata, dove il parroco dice: A, e al suono della voce si accendono i microfoni e suonano le campane ed esce la custodia dall’anfratto… Ci sono cose simili in giro, per non parlare di quelli che vengono a venderci il fumo e ci inebriano con gli ultimi ritrovati della scienza pastorale tecnologica.E infine — scusate se ho approfittato della vostra pazienza — la tentazione della spettacolarità. “Buttati giù dal tempio e vedrai che farai colpo, avrai successo”! Ma ricordate i carmi del servo, di Isaia: non spezzerà…, non strapperà…, non alzerà la voce…, non farà udire in piazza la sua voce… Lo stile del Messia, del Maestro, il mio Maestro, il vostro Maestro, il nostro Maestro è uno stile dimesso. Parlavo ieri di asino, di mulo e di cavallo, noi preferiamo sempre i cavalli, vorremmo arrivare a cavallo, ma il cavallo non giova alla vittoria: “Non nel mio aratro confidate, non la mia spada mi ha salvato…” troviamo continuamente nei salmi queste espressioni, a dire che non è il mezzo spettacolare, l’effetto che crea la conversione, serve solo a gonfiare la coda del pavone. Chi si è accorto di Gesù, chi ha accolto e raccolto il suo messaggio? “Considerate la vostra vocazione, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio.” dice San Paolo.Quindi mi chiedo se nella mia vita pastorale sto inseguendo la tentazione della spettacolarità, io al di sopra di tutti, guai se si mette in forse la mia autorevolezza… Lo vedete anche quando qualcuno fa un bilancio o esprime un giudizio su di voi, ne restate feriti per giorni, ne restiamo feriti per giorni. Segno che abbiamo di noi un’immagine elefantiaca, un narcisismo esasperato. Spesso i nostri nemici ci fanno grande servizio, ci dicono verità. Ascoltate i vostri nemici più di quanto non prestiate ascolto ai vostri amici, ai vostri sostenitori. Io ho fatto sempre molta attenzione a quelli che parlavano male di me e ho imparato molte cose su di me, perché, sarà per malizia… ma ti dicono, ti presentano un’immagine più reale, più aderente alla realtà di quella edulcorata, camuffata, truccata, come la rendono i fotografi adesso quando si fanno le foto per la tessera: i capelli, come li vuole, biondi?, rimettiamo il ciuffo che ha perso… I nemici, insomma, vi restituiscono un’immagine più vera.Ritorniamo alla meditazione. Innanzi tutto grazie per questo fax che è arrivato qui sul tavolo; anch’io ho pensato ieri che quella mezz’oretta dopo la Messa possa essere ridotta a un quarto d’ora, per cui celebriamo alle 11:45, in modo da avere un quarto d’ora in più per la riflessione. Dopo aver preso il caffè, possibilmente in silenzio, aver fumato il sigaro, dal momento che abbiamo scoperto essere un piacere lecito, una tantum, torniamo al testo e alla meditazione. Riguardiamo queste tre tipologie: chiediamoci come viviamo la tentazione, liberiamoci dall’ansia, ringraziamo il Signore che ci pone in questo campo minato che è la vita, chiediamo la sapienza di entrare in tentazione, sapendo che Gesù fa il tifo per noi.

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Infine rispetto a queste tre tentazioni pastorali mi chiedo quale sia quella cui io sono sottoposto più di sovente.

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Omelia: Una forza contatto con la Storia.

Ci troviamo di fronte alla testimonianza di una madre coraggiosa che vede i suoi figli andare incontro al martirio e alla morte. Vorrei che almeno una delle famiglie della mia parrocchia ragionasse così. Vi rubo questo pensiero, magari vi avrà attraversato la mente. A volte ci chiediamo se siano stati più bravi i nostri predecessori in parrocchia, in diocesi, a inculcare la fede, a coltivarla, di quanto non riesca a noi. Non dobbiamo andare molto lontano, ma credo che dietro una diversa modalità di rapportarsi alla morte da parte delle mamme ci siano anche motivi culturali, molto diversi da quelli di oggi, perché — e per questo dicevo che si tratta di un fatto anche culturale, oltre che pastorale — appena trenta, quarant’anni fa, le madri mettevano in conto la morte dei figli, adesso no, adesso viviamo un po’ tutti una sorta di pretesa di immortalità. E noi, e voi, che in particolare siete più a contatto con le famiglie che vivono un lutto, vi rendete conto che l’illusione d’immortalità attraversa anche quelle più vicine alla vita della parrocchia. Perché è accaduto questo? Non intendo dare risposte e ricette, ma, collegandomi al Vangelo che abbiamo appena ascoltato, credo di poter dire che sia venuta meno la differenza tra l’ultimo e il penultimo, tra l’assoluto e il relativo. Quarant’anni fa le mamme mettevano in conto che alcuni dei propri figli non avrebbero raggiunto la maggiore età, certo, per motivi culturali e medici, per le malattie che ancora erano mortali, ma pure per un’inculturazione della fede che faceva ritenere (e questo appartiene al patrimonio della nostra fede, anche se oggi non è più tanto chiaro) che, certo, la vita fisica è importante, la salute, innanzi tutto, ma c’è una salvezza che è più importante della salute. “Sani e salvi” ci veniva augurato quando si partiva, ma l’attenzione — e non faccio il cantore dei tempi andati — era più sul “salvi”, possibilmente, anche “sani”, ma soprattutto “salvi”. Non a caso le nostre nonne a un semplice starnuto dicevano “santo e vecchio”, ma prima santo. A volte queste espressioni si ripetevano meccanicamente, ma c’era comunque un sensus fidei, un sentire la fede. L’evangelista dice che Gesù raccontò questa parabola, a cui adesso volgiamo l’attenzione, perché era vicino a Gerusalemme, e le persone pensavano che il Regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro. È importante quest’ottica di lettura, cioè Gesù è alle porte di Gerusalemme, sta per accadere quello verso cui Egli ha camminato — nel Vangelo di Luca abbiamo i dieci capitoli di viaggio — ma la comprensione dei fatti da parte dei collaboratori più vicini è molto bassa, ed essi aspettano ancora un regno glorioso. E allora la parabola delle monete d’oro, come viene coniata adesso nella nuova versione, fa capire che c’è una distanza, un tempo (che è il nostro tempo, il tempo della Chiesa) tra la redenzione avvenuta, e che noi adesso celebriamo nel sacramento dell’altare, e la realizzazione in tutte le persone di quella salvezza e di quella redenzione. Le prime generazioni cristiane hanno subito uno scandalo da questo punto di vista, e noi sappiamo quanto poi la dilazione abbia fatto fatica a entrare nella percezione delle comunità, che invece s’aspettavano l’estaton da un momento all’altro. Adesso corriamo il rischio opposto, cioè nessuno aspetta niente, forse neanche noi, e quindi siamo passati da un’iperattesa ad un’attesa flaccida, debole, o addirittura inesistente, e tra

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poco, appena tra due domeniche, ci armeremo di tutto l’armamentario dell’Avvento, per parlare della prima venuta, della seconda, delle venute intermedie, come ci ricorderà la lettura patristica dell’Ufficio delle Letture. Ma ritorniamo a noi. Cosa ci dice, cosa dice a me, pastore, la parabola delle monete d’oro? Innanzi tutto, parla di un tempo d’attesa, e quindi richiede una maggiore pazienza e perseveranza, perché siamo in un tempo dove non si vedono gli effetti della redenzione, ma intanto la redenzione è accaduta, e allora bisogna pazientare. La pazienza per un pastore è una grande virtù, è l’attendere per sé e per gli altri, attendere i frutti, che la semina abbia effetto, ma è anche perseveranza, perché in questo tempo si allentano le tensioni, l’attenzione, e anche la vita morale, che di per sé è una vita sobria e di vigilanza. “Siate sobri,vegliate” dice l’apostolo Pietro.Vorrei spendere, inoltre, qualche parola sull’arte di commercializzare la fede, su cui questa parabola ci offre qualche indicazione, sia pure tra le righe. Ciascuno ha ricevuto la sua moneta — leggi fede, innanzi tutto: la fede è un dono — di cui è responsabile, ma la moneta ricevuta deve fruttare (e questo non per una visione commercialistica della fede), deve ampliarsi, evolversi. Dove accade questo? La risposta è: sul mercato. Non c’è nulla di più distante dai nostri ambienti e dalla nostra sensibilità del mercato, luogo dove si contratta, si acquista, si paga, si vende, si compra, eppure il mercato è un luogo umano, vivace, in particolare lo sono i mercati orientali da cui ci viene questa parabola. Chi di noi sia stato in Terra Santa ha assistito a contrattazioni infinite sui prezzi, sembra quasi che il venditore si aspetti che si faccia il tira e molla. Cosa hanno a che vedere il mercato con la fede e la fede con il mercato? Perché il terzo beneficiario, che ha ricevuto la moneta, una sola, una moneta d’oro, viene rimproverato e condannato? Perché, come egli stesso dice, ha posto la moneta nel fazzoletto. Ricordo un’immagine molto più colorita delle nostre nonne che l’avrebbero posta lì dove state immaginando, perché mettere nel reggiseno le monete significava trovare un posto sicuro, più sicuro di qualsiasi cassaforte. Il particolare che importa è che il beneficiario ha tenuto questa moneta, la fede, lontana, ha creato intorno ad essa una pellicola protettiva. E gli altri cosa hanno fatto? Come hanno fatto a raddoppiare il capitale? Ovviamente, sono scesi con il capitale sul mercato, commercializzando, tirando, facendo in modo, e dunque rischiando, che questa forza, questa luminosità — moneta d’oro, o mina, o talento — venisse a contatto con la Storia. Ecco, questo è il concetto che mi preme comunicarvi, non tanto sul piano teologico, pastorale, quanto su quello spirituale, cioè il talento, la moneta, la fede, la vita, il tempo sono cose che non puoi tenere per te, ma vanno messe a contatto con la vita della gente. Nel contatto si possono creare due cose, ci sono due ipotesi: la prima è che io perda la fede, e noi dobbiamo mettere in conto tale ipotesi; l’altra che la fede, posta sul mercato, messa dentro le vene della Storia, annunciata, a contatto con la vita concreta, possa ampliarsi. Vedete, cari fratelli, dico cose che voi vivete, ma a volte non le teorizziamo, nel senso bello del termine, cioè non le facciamo passare attraverso una coscienza riflessa. Mi riferisco all’omelia. L’omelia di Domenica scorsa è stata un rischio, spero che l’abbiate vissuta così. Certo, se ci pensiamo ogni volta che veniamo

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all’ambone, ci viene voglia di non parlare. Perché è un rischio l’omelia? Perché dall’omelia, come dialogo — “omelia” significa dialogo familiare con la propria comunità, con la propria famiglia — il presidente può uscire rafforzato nella fede e può uscire dubbioso, non so se l’avvertite. Io l’avverto e l’ho avvertito da parroco drammaticamente. Oppure, quando andiamo a casa di un defunto — un fatto d’ordinaria amministrazione, starete pensando — entriamo per la veglia, per una benedizione, per un conforto, una visita… Che succede in quel momento? Succede che io vado con la mia fede, con la mia moneta d’oro, con la mia lampada, e possono capitare due cose opposte, e cioè che da questo lutto esca dilaniato io stesso, e in qualche maniera questo accade sempre, se sono un uomo, dall’altra, può accadere che la mia fede illumini un dolore oscuro che ha bisogno di una parola di conforto. In quel caso anche noi siamo un po’ promotori finanziari. Non sono un bravo commercialista, chi mi conosce sa bene che non sono neanche un bravo economo, ma tutta la pastorale in qualche maniera va vista come rischio di mettere a contatto la fede con la vita, l’annuncio di Gesù morto e risorto con la morte concreta delle persone, con i drammi, con le tragedie, con la ferialità polverosa delle nostre parrocchie, e questo rischio è il vero luogo in cui la fede cresce. Non cresce a tavolino, nelle università teologiche (lì crescerà un pensiero), ma cresce nel contatto vitale con la vita, la morte, le lacrime, lo sperma, le contrattazioni, la nascita, i tradimenti, le unioni felici (poche, a giudicare dalla nostra esperienza). In questo cortocircuito, che, invece, può diventare un circuito che muove delle masse, abbiamo un ruolo importante, perché siamo quelli che rischiano la propria fede in momenti delicatissimi, esclusivi. Chi di voi non ha avuto voglia di nascondersi, anziché andare all’altare davanti a certe bare, davanti a certi drammi… Quanto vorrei essere al primo banco a piangere, anziché star qui a spiegare l’inspiegabile! Ecco, questo è il nostro ministero, un ministero di rischio, e da tante omelie, da tante celebrazioni esequiali, da tante visite a persone disagiate usciamo rafforzati. La nostra fede, oggi, è il frutto di tante azioni commerciali rischiosissime, e questo è il nostro pane quotidiano. Volevo confortarvi sottolineando che proprio questo è il vostro ministero. Si va e si dice: Non so come finiranno l’omelia, la celebrazione; non so come andranno a finire questo dialogo, il confronto che sto avendo, perché annuncio Gesù, certamente, ma avrò fede? Dall’altro lato — e concludo — vorrei farvi notare come questo che avviene singolarmente, poveramente, nascostamente, nelle nostre piccole parrocchie (piccole e dimenticate, come quelle del curato di Bernanos), in grande, nell’addizione di tutte le nostre parrocchie, nelle nostre diocesi, più o meno popolate o spopolate, più o meno articolate, sul piano grande, macroscopico, è l’incontro della fede con la cultura di un tempo. Allora solo vi enumero qualche dato: la fatica della Chiesa col Giudaismo non è stato questo? Gli Atti degli apostoli continuamente ci mettono a contatto con le tensioni con quel mondo; e anche l’epistolario paolino: Se bisogna tener presente che questo appartiene alla legge, questo appartiene alla grazia, ecc.. E ancora — questa è l’opera soprattutto di Paolo — la fede cristiana con l’Ellenismo, che era la cultura dominante, è stata una grande sfida. Tra l’altro, qui siamo in zona di Magna Grecia, e i templi di Paestum ci parlano della grandiosità di quella cultura, che, ovviamente, si traduceva anche nella pietra,

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nelle realizzazioni architettoniche… Come si sarà sentito Paolo all’Areopago di Atene? Forse ha avvertito la vostra stessa sensazione di essere impari? La sensazione con cui vi recate dal defunto o vi avvicinate all’ambone per fare l’omelia, in un momento delicato o drammatico della vita della vostra comunità, o anche feriale. E allora, se l’incontro-scontro, se l’impasto della moneta d’oro, che è Gesù morto e risorto, con l’Ellenismo ha creato tutta una fioritura di Padri della Chiesa, di comunità, di sensibilità nel vivere la fede, ebbene, benedetto quel mercato! Consideriamo, inoltre, la fede cristiana sul mercato dell’Impero romano. Non è stato anche quello un momento difficile? Un periodo in cui ovviamente anche l’Impero aveva il suo interesse nell’usufruire del sangue pulito rappresentato dalla Chiesa cristiana rispetto alla decomposizione già in atto. Non voglio portarvi a grandi pensieri, vi sto solo ricordando come questa cosa sia accaduta tante volte. Per il contatto della fede con i Barbari dovremmo chiedere a San Gregorio Magno e a tanti Papi che, anziché chiudersi in casa, aspettando la fine, sono andati loro incontro, pensiamo a Leone Magno… Sono uomini che hanno trafficato la fede: poiché ci sono i Barbari, si parla con i Barbari. Quei popoli hanno finito poi con l’essere delle potenzialità, pensate ai Longobardi ed ad altri, no? E ancora la Chiesa sul mercato del Rinascimento, la Chiesa nella disputa dell’Illuminismo: tutti rischi. Perché, dunque, oggi non rischiamo sul mercato della modernità? È una domanda. Se aspettiamo che gli altri vengano a bussare alle porte delle nostre Chiese, chiedendo: “Diteci un verbo, una parola…”, resteremo nelle nostre parrocchie polverizzate, polverizzati noi stessi, come delle tombe, ma ecco che questa Parola ci affascina e ci parla. Certo, ci sono tante categorie nella modernità che fanno a pugni con il Vangelo di Gesù, ma noi proprio a queste persone dobbiamo parlare, queste persone dobbiamo evangelizzare, allora dobbiamo scendere in questo mercato. Parla con i nuovi Barbari (cfr. A. Baricco, I barbari), parla con loro, vedi che lingua usano, traduci il vangelo nelle loro categorie: è un rischio! La Chiesa ha vissuto e a volte ha avuto anche paura di certe traduzioni: pensate alle riduzioni delle Missioni o all’inculturazione della fede in Cina. (Un tuo predecessore, Luigi, mons. Pollio, fu imprigionato e martirizzato, fu liberato come missionario del PIME, e poi diventò vescovo in Puglia e arcivescovo di Salerno). Non so se vi stimola pensare al fatto che, forse, tra questi, che arrivano con la moneta chiusa nel fazzoletto o nel libro o nella cassaforte, ci siamo anche noi preti, che non vogliamo rischiare la fede, che vorremmo che tutti venissero da noi, belli e già in abito da Prima Comunione, col giglio e la candela accesa. No, non vengono! Ci prenderanno a parolacce, ma forse — non do lezioni a nessuno — saremo condannati se restiamo chiusi con la nostra moneta, se ripetiamo: “Siamo i migliori, e, se volete convertirvi, venite da noi, e fate come vi diciamo”. Insomma, se non usciamo sul mercato e sulla piazza. I miei preti sono presenti sul mercato o sono chiusi nelle chiese? Ed io, come vescovo, la moneta me la tengo nascosta da qualche parte, in modo tale che nessuno me la rubi, o la rischio nel contatto con la cultura? E, d’altra parte — e chiudo veramente — la Parola di Dio diventa viva e rivive e tira fuori energie insperate ogniqualvolta la proviamo a contatto con la vita. La vita è ciò che fa esplodere, è il detonatore della Parola, altrimenti essa resta lì

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nel libro, sul leggio, nella mia Canonica, nel mio orticello, dove ci sono quattro gatti, ed io mi crogiolo, dicendo: “Ecco, questi sono i miei gioielli”, come fece la matrona romana Cornelia. “Questi sono i miei giovani, la mia piccola bandiera…”. Ma, se avessero fatto così con l’Ellenismo, con l’Impero, con i Barbari, con l’Umanesimo, forse la fede si sarebbe persa. Se ce l’abbiamo ancora, se c’è nel deposito della Chiesa, è perché molti hanno percorso sentieri pericolosi di montagna, in bilico tra due abissi, direbbe Turoldo, e così sono usciti vittoriosi da una battaglia dove erano entrati perdenti. Magari vi ho confuso un po’ le idee, ma ho voluto farvi una carezza per le vostre stanchezze e per le paure che, a volte, vi prendono, prendono anche me: Mi ritiro, me ne vado a Montecassino anch’io, e faccio il monaco; mi ritiro da questo mercato, dove ogni giorno bisogna cominciare daccapo, come se non ci fossero stati duemila anni di cristianesimo. Questa, nel frattempo, è la nostra condizione.

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Quinta meditazione: Quando ti trovi a mani vuote.

Canto: Vedrai, vedrai

Siamo al capitolo 10 del Vangelo di Marco, ai vv. 17-27. Confesso che stavo per intonare “Nulla ti turbi”, non so da dove sia uscito “Vedrai, vedrai”. Vi ho guardato ed è entrato un altro file, che forse può tornare al nostro caso perché il titolo che vorrei dare a questa meditazione — è tutto un sogno quello che stiamo facendo — è: “Quando ti trovi a mani vuote”. Questa canzone di Luigi Tenco, suicida, parla di una vita fallimentare, dove avremmo desiderato altro. Per noi sono possibili due letture diverse nell’esegesi (c’è sempre un’esegesi nei testi delle canzoni): una che si tratti di una canzone d’amore e l’altra che, invece, sia una canzone — dicono fonti più accreditate — scritta per sua madre. Quindi il figlio sente d’aver deluso sua madre, perché è uno sbandato, uno che canta e non vince mai a San Remo, uno su cui la madre forse ha fatto tanti progetti, ma adesso lo vede lì, come tante mamme oggi, steso sul letto a oziare, mentre lei si dà da fare per sbarcare il lunario. Ecco, nell’uno e nell’altro caso, soprattutto se si tratta della seconda ipotesi, questa canzone che parla di un fallimento riesce ad avere un’impennata di speranza: c’è il futuro, c’è un domani, vedrai che cambierà.Guardiamo il brano del Vangelo adesso per vedere Gesù in azione. La nostra attenzione è più rivolta alla “professionalità” della nostra vita, se così si può dire, e credo che ci siano degli aspetti di professionalità da assumere nel nostro ministero. C’è, infatti, una scienza pastorale che continuiamo a ignorare e che in qualche maniera si evolve e fa le sue volute, le sue ricerche sul campo; in fondo, tutto il Vangelo è un manuale, un prontuario di vita pastorale. Vediamo Gesù in tante situazioni non sempre felici e, come nel passo che meditiamo questo pomeriggio, non sempre vincenti. Qui Egli si trova a mani vuote, come noi. Brevemente farò qualche commento, dirò una parola in margine a questo testo ricchissimo. Mi sembra d’averlo consumato nella mia vita e indagato da tante angolazioni e ancora mi chiama, mi reclama, mi appare in tutta la sua bellezza. Noi siamo innamorati di certi testi, che fanno parte della nostra storia, che si vestono, come dice la scienza ermeneutica, di volta in volta, di nuovi bagliori. Wirkungsgeschichte dicevano quando stavamo a studiare Gadamer e compagni, a via Petrarca 115. Ci sono delle persone che si avvicinano a noi, con le quali si riesce a stabilire anche un feeling, e non si tratta di passanti occasionali, quelli che vengono a confessarsi in un frangente e poi non si vedono più. La vita pastorale è fatta anche di questo, di persone con le quali sembra stabilirsi una sintonia, e che poi, almeno da un punto di vista umano, abortiscono, loro con noi, e la responsabilità è reciproca e biunivoca. “Un tale”. Le nostre parrocchie sono pieni di questi “tali”, di questi personaggi in cerca di autore. Nei commenti che ci sono giunti, questo “tale” c’è stato consegnato, ma il testo non dice così, è un giovane, un giovane ricco, sarà perché i giovani sono sempre ricchi, non fosse altro che di tempo, hanno davanti una vita e tante possibilità. La Chiesa non può disinteressarsi di loro. So che tanti di noi fanno fatica a intessere una pastorale giovanile, che oggi è una pastorale di frontiera, come dicevamo a Messa — non stiamo qui per un Corso di pastorale — ma vale la pena ripetere

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che una parrocchia, una chiesa, una diocesi, che non interloquisca, che non incontri i giovani, è senza futuro. Molti di noi continuano — ed è bene che questo accada — a fare tridui, novene, ecc., ma sappiano che tra dieci anni non ci sarà più nessuno. Tale tipologia di approccio pastorale va ancora bene per una certa categoria di persone, parlo, ad esempio, di una grossa parrocchia della mia diocesi, dove ero andato per altri motivi: “Eccellenza, venite, che qui ci sta tanta gente per la Novena dei defunti”. “Sì, adesso”. D’altra parte, a guadare il target di quella chiesa superaffollata, certamente tra quindici anni non ci sarà più nessuno: tutte persone oltre i sessant’anni! Intanto ci chiediamo quanta disponibilità, quanto rischio — per dirla sempre con il Vangelo che abbiamo incontrato o che ci ha incontrati a Messa — mettiamo in conto, quante energie, quante attenzioni, quante iniziative, quanti dialoghi… . Neanche un prete per chiacchierare — cantava Celentano, quando eravamo appena adolescenti, ma questo adesso potrebbe valere anche per le nostre parrocchie — Cerco l’estate tutto l’anno, e all’improvviso eccola qua. Ma il povero Celentano ha cercato inutilmente, in Oratorio, qualche prete con cui fare quattro chiacchiere, perché sono tutti in vacanza, ohibò, anche il prete ha messo il cartello “chiuso per ferie”. A noi non accade che le persone ci vengano incontro in questa maniera, così decisa, così motivata, con una domanda così impellente, credo che ci capiti poche volte che qualcuno ci chieda, o mai: Maestro, che cosa devo fare per avere la vita eterna?, eppure c’è una domanda, non formulata così, è la domanda della felicità, la domanda del senso, del perché di questa bara, la domanda sul tempo, sull’autunno. Ci sono le domande, domande da intercettare — questo è un verbo caro alla pastorale, all’arte pastorale, “intercettare”, intercettare le frequenze d’onda delle persone, delle categorie, delle fasce, intercettare le domande dietro le domande —. “Cosa devo fare?”. Può aiutare a far maturare le domande, aiutare le persone ad andare oltre il loro disagio, oltre gli interrogativi che li assillano, oltre le gioie che sono venuti a condividere con noi, oltre il momento. Cosa fare per essere felice? La Chiesa dovrebbe presentarsi, pur con la Croce e tutte le Vie Crucis possibili, con un’offerta formativa — oggi si fa tanto parlare di POF (piano offerta formativa) —, un’offerta di felicità. Gesù scava, come siamo chiamati a fare noi, sulle domande, perché ha utilizzato l’aggettivo “buono”. Anche nella formulazione delle domande. Chi fra voi abbia insegnato o ancora insegni (e tutti insegniamo perché insegnare fa parte dell’arte pastorale) cerca di capire perché uno formuli una domanda in un modo o in un altro, perché si ponga in un atteggiamento piuttosto che in un altro (Spero che non si offenda, ma è solo per farvi sorridere, poco fa il nostro diacono ci ha detto: “Scambiatevi un segno di pace”, e l’ha fatto in una maniera così aggressiva che sembrava un grido di guerra: sparatevi gli uni gli altri!). A volte, vedete, utilizziamo atteggiamenti che smentiscono quello che diciamo, e quindi vogliamo parlare della misericordia e invece aggrediamo le persone dal pulpito o dall’ambone. La psicologia è attenta anche nella trasmissione dei saperi a quella che in patologia si chiama “dissonanza cognitiva”, ma lasciamo stare, andremmo troppo lontano. Perché mi chiami “buono”? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: anche qui, soffriamo di una malattia, che è quella di aver raggiunto un certo grado di conoscenza teologica, di vita spirituale…, e al

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primo che incontriamo vorremmo propinare tutto quello che abbiamo appreso, magari in quaranta, cinquant’anni di onorato ministero. Ma quanto tempo hai impiegato tu per arrivare a capire quello che hai compreso, e, magari, non lo vivi ancora appieno? E invece pretendi che quelli che arrivano sappiano tutto. Non voglio essere polemico, non mi appartiene assolutamente, ma mi chiedo, anche praticamente: Quanto di questo nostro impianto catechistico da quarant’anni a questa parte, dal meraviglioso documento di base, abbia inciso nelle nostre comunità. Inseguiamo ancora un’idea da approccio cognitivo, per cui chi arriva deve già essere sistemato con il colletto, come vorremmo accadesse ai nostri seminaristi che provengono dalle esperienze più disparate. Insomma, oggi trovare un giovane vergine è veramente un’impresa, non per colpa sua. La fatica che si fa nei nostri Seminari sta tutta nell’umanizzarli, i giovani, cristianizzarli, scolarizzarli. Dico questo perché in parrocchia facciamo lo stesso errore, cioè pretendiamo di imporre tutte le leggi giudaiche a chi viene dal paganesimo. Gesù qui ci ricorda una legge importante della vita morale, che è la legge della gradualità: c’è un bene morale e c’è una via per giungervi. Quanto tempo abbiamo impiegato per capire questa cosa e per orientare la nostra vita, i nostri comportamenti, e — semmai ci siamo riusciti — i nostri pensieri a questo bene? Una vita, e allora cominciamo dal poco, cominciamo dall’abc, è inutile versare tutti i contenuti su una tabula rasa, su persone che fondamentalmente oggi vengono dall’ateismo, e non solo i nostri giovani. Egli allora gli disse: Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza. Vediamole dunque, e su queste vorrei piuttosto farvi meditare. Prendiamo il dialogo: questa cosa è avvenuta a un solo incontro, in più incontri, è stato un Corso in preparazione alla Cresima? Sta di fatto che, man mano che la relazione pastorale, l’incontro si evolve e si approfondisce, Gesù intuisce nell’altro una potenzialità che lo appassiona. Spero che questo vi capiti sul piano pastorale, cioè che vi affacciate (a volte succede anche in Confessione) sul mondo interiore di alcune persone e vi accorgiate che sono meravigliose, bellissime, che sono delle mistiche, senza saperlo, magari si tratta di persone semplicissime, con un impianto diciamo del Credo al minimo indispensabile, eppure vivono una radicalità, uno spirito di preghiera, che ci farebbe dire: “Signora, si metta al mio posto perché ha tante cose da insegnarmi”. Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza. Ieri il “tale” si sarebbe detto un laico impegnato, un laico che ha fatto la trafila dei Campi scuola e che adesso mi giunge in un momento decisivo della sua vita, e mi chiede una consulenza, si affida a una competenza (non a caso utilizzo questi termini). Vi invito a contemplare nella preghiera il versetto 21: Allora Gesù fissatolo, lo amò. È importante questo sguardo, lo sguardo di Gesù, che abbiamo sentito su di noi, innanzi tutto, e quindi faccio memoria del Suo sguardo su di me, del Suo sguardo nella mia giovinezza, dello sguardo che mi faceva battere il cuore, ma poi cerco di mettermi dal Suo punto di vista, e mi dico: “Gesù cosa guarda, cosa sta ammirando, cosa sta dicendo senza parole? Quanto lo sguardo può lasciare una traccia nella vita delle persone, più di tante parole! A volte penso a tutti quelli che ci passano davanti per la Cresima, a noi vescovi, forse è solo un istante quello in cui ci guardiamo, un istante, certo, ed io non ho la potenza

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dello sguardo di Gesù, non sono un ammaliatore (come in passato mi hanno accusato d’essere) e però si verifica la possibilità di due sguardi che si incrociano, si fissano, e non si tratta di uno sguardo passeggero, non è il guardare tutti e nessuno, col grandangolo, ma si guarda il particolare. In questi giorni — ed è uno degli esercizi che vi propongo — stiamo guardando le nostre comunità. Io non so, tra l’altro sto parlando con alcuni, ma ovviamente siete in tanti (è un numero non consigliabile per gli Esercizi per avere possibilità di incontrare tutti) non so chi si sia avvicinato agli Esercizi, magari dopo un lungo digiuno, a volte succede, ma mi chiedo come sia possibile vivere un anno di impegno pastorale senza questo momento di ricarica. Ecco, vedete, tra i tanti benefici degli Esercizi — forse ve lo accennavo proprio all’inizio — c’è la possibilità di guardare da lontano la nostra parrocchia, guardarla, così come dovremmo fare ogni tanto, salendo su una collina, un po’ dall’alto, distinguendo il campanile che subito ci chiama, richiama la nostra attenzione, le case, le vie, e poi le persone, le situazioni delle famiglie, i dolori. Guardare è un’arte pastorale. Allora Gesù, fissatolo…: Gesù lo guarda, ed io in questo momento vorrei guardare la mia parrocchia, che, come vi dicevo già nel testo di Bernanos, è una parrocchia simile a tutte le altre, sta lì adesso sotto la pioggia, potrebbe sprofondare nel fango e nessuno ne saprebbe nulla, tanto è piccola, irrilevante; nessuna cartina del Touring Club la annovera tra i luoghi da visitare, perché non c’è nulla di particolarmente interessante, ma ci sono delle persone, che mi sono state affidate, e io le guardo. No, non mi sto inventando una pastorale dello sguardo, ma forse questo brano ce ne offre lo spunto. Cosa deve fare un pastore nei confronti delle pecore? Le guarda mentre brucano, le guarda, ma noi non abbiamo tempo, corriamo da una chiesa all’altra, e non per colpa nostra, non abbiamo neanche il tempo di confessare le persone, perché arriviamo con dieci minuti di ritardo sull’orario della Messa, sgommando da una chiesa all’altra, frenando, in modo tale che la frenata indica al sacrista di suonare la campanella e parte già il canto d’ingresso… . Sono quadretti da pastorale. E invece dovrei fermarmi a guardarle queste persone, quelle che ci sono e quelle che non ci sono più, quelle che ho perso. Solo Gesù può dire: Non ho perso nessuno di quelli che mi hai dato. Noi abbiamo perso tante persone, e adesso non ve le rimando come un’accusa, ma piuttosto come un modo per richiamarle alla mente, per riguardarle. “Ma che fine avete fatto?”, dice Baglioni in “Gira che ti rigira / amore bello”, un LP vecchissimo, in punta di morte, dopo aver incontrato tutte quelle ragazze, con il suo Maggiolino. Adesso è finito contro un albero e sta morendo, e allora gli passano davanti tutte le ragazze, quella con il cappello…: Ma che fine avete fatto? A volte il pastore deve fermarsi e chiedere e chiamare un po’ a raccolta i parrocchiani perduti, forse a causa sua. Ma che fine avete fatto? Questa è una dimensione importante del pastore, perché, immagino, anzi, spero, che nessuno di noi si accontenti delle quattro pecorelle spelacchiate che brucano sul piazzale della parrocchia, e quand’anche dovesse mancare altro, rimane il compito dell’intercessione. Lei è una persona che mi è stata affidata, e dunque la raggiungo in questo momento, mentre mi viene in mente questo, quella, quella catechista che era zelante, quell’educatore, quel direttore del coro, che, tra l’altro, so in situazioni intricate di vita, nella fragilità della vita affettiva di oggi.

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E richiamandole alla mente, le richiamo al cuore, al mio cuore, al suo cuore, perché, dice Bonhoeffer in Vita Comune, credo, che si parla di Dio alle persone, e poi si parla delle persone a Dio. Noi questo compito lo glissiamo facilmente, non abbiamo il tempo per il breviario, la nostra preghiera personale è piuttosto farraginosa, asciutta, pedante, o addirittura inesistente, e dimentichiamo d’essere anche gli intercessori della nostra gente. In questo momento, in questo pomeriggio, è Gesù che guarda il tale, che “tale” resterà, senza volto, senza storia, senza identità, senza vocazione, sotto il cumulo non dei suoi peccati ma dei suoi beni. Gesù lo guarda, e anch’io vorrei avere tempo per guardare i miei parrocchiani, fosse anche in una visione ideale della preghiera, dove non li conosco tutti, ma ne chiamo alcuni per nome, quelli che sono lontani, emigrati, andati al Nord in cerca di fortuna, i giovani che spopolano e adesso vanno all’estero. I giuristi fra voi staranno dicendo che la parrocchia è un fatto territoriale, e dunque altri hanno cambiato residenza, Dio per tutti, ma poi ciascuno pensi a sé. Guardare: ecco, basterebbe questo inciso, che mi ha sempre commosso, del Vangelo dell’uomo ricco, per invitarci a stare qui, in questi giorni, per guardare un po’ da lontano e con gli occhi del cuore e con amore. “Fissatolo, lo amò”, cioè non lo guardò come guardiamo noi le persone che vengono a bussare all’ufficio parrocchiale, lo guardò con amore. L’accoglienza è la prima forma di pastorale, mettere le persone a proprio agio, farle sentire accolte. La cura delle persone è un aspetto così delicato ed è un bene non facilmente reperibile nel tempo della fretta. Quello che Gesù disse, l’ha detto, gliel’ha comunicato con lo sguardo? E l’audio che, a film muto, ha messo in un secondo momento? Sono ipotesi, per dire che lo sguardo chiama il giovane o l’uomo, questa persona, questo tale, lo chiama a nascere, eppure anche Gesù abortisce. “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri…”. Il tale, infatti, si era presentato con l’idea di mettere un altro bollino per il Paradiso, di assumere un ulteriore credito. Ma la vita spirituale non è questo, è togliere più che assommare. (“Eccellenza — mi disse un signore, il primo anno che ero a Teano — io ho fatto tutto nella vita, cavaliere del lavoro, mi rimane solo essere ministro straordinario dell’Eucaristia…”. Succede anche questo). Ci sono delle gratificazioni, degli avanzi di carriera, qualcosa da mettere sul biglietto da visita, e invece noi siamo qui per spogliarci, per abbandonare falsi atteggiamenti, speriamo peccati. Domani pomeriggio dedicheremo due ore alle Confessioni, per capire che tutto l’armamentario con cui passiamo da una parrocchia all’altra (il vescovo di queste zone, tantissimi anni fa, partì con più di un TIR) non serve, ci appesantisce, noi dobbiamo andare perché siamo truppe leggere. Siamo truppe leggere? O piuttosto stiamo col carro armato per cui i nostri movimenti risultano macchinosi, pesanti, lenti? Sant’Ignazio aveva pensato così la Compagnia di Gesù (non mi chiedete se i gesuiti siano tuttora così), come truppe leggere, pronte ad andare in un attimo, senza troppi orpelli, senza ingranaggi. “La vita spirituale è l’arte di togliere” dice, credo, Cantalamessa, che, tra l’altro, ha predicato qui gli Esercizi qualche settimana fa, a proposito della definizione che Michelangelo dà della scultura: “La scultura è l’arte di

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togliere”. Dal blocco di marmo togliamo tutto quello che è in più, ed ecco viene fuori la Pietà Rondanini o il Mosè. È così anche la vita spirituale, e c’è un’arte di cesello, ci sono degli scalpelli, prima grossi, grossolani, poi sempre più piccoli, che lo scultore prende perché la statua sia liberata completamente. Quindi vieni verso questo magis che ti indico, ma vieni libero! Ma egli, rattristatosi, per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni. Ecco, mi consola che Gesù abbia fallito, perché il suo fallimento diventa un balsamo sui miei tanti fallimenti, perché tante cose non finiscono bene nelle nostre parrocchie, nelle nostre iniziative parrocchiali, diocesane, nell’Unità pastorale, nella Forania, nel Decanato. Si progetta tutto un piano, uno spot pubblicitario, un’immagine decisa da uno staff di comunicatori, e poi... (Ricordo d’essere stato invitato — c’è qui l’interessato, ma non dico assolutamente di quale diocesi si tratti — alla vigilia della visita del Papa, per un incontro con i giovani, proprio la sera prima, pensavo: Ci saranno cento, duecento, cinquecento…, e, invece, con i sette-otto che mi avevano accompagnato eravamo in tutto quindici). Com’è? Si fallisce. Versetti 23-27: abbiamo la reazione a caldo di Gesù al disagio che si è creato ovviamente tra i discepoli. Essi hanno colto, forse hanno anche provato gelosia per il tale che attira e toglie tanto tempo al Maestro (Il mio parroco, quando io ero viceparroco, stava fuori mentre confessavo, e ogni volta che uno entrava sbottava: “Mezz’ora, tre quarti d’ora…”. Adesso è in Paradiso: ha aiutato la mia santificazione, e certamente anch’io la sua.) Si saranno ingelositi, avranno pensato: “Insomma, forse ci toglie il posto…”. (Bruno sorride perché ha conosciuto il soggetto) E allora Gesù dice: “Guardate che è difficile, è difficile”. Adesso, cari fratelli, dobbiamo innanzi tutto riflettere che per noi è difficile, perché “la grazia è a caro prezzo” — credo si dica nell’introduzione alla “Sequela” (Bonhoeffer) — la grazia non va svenduta, non bisogna abbassare il tiro, dire: “Tanto adesso nessuno vive la castità, e allora non ne parliamo neppure…”. È difficile! E, poiché i discepoli si sono scoraggiati davanti alle espressioni dure di Gesù — e chi mai si può salvare —, Gesù dice: “Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio”.Esercizi: ma ve li ho già indicati nel corpo della riflessione. Primo esercizio: esame di un fallimento. Chissà perché nelle nostre chiese, a volte anche nelle diocesi, si fanno i programmi, ma mai le verifiche. Com’è andata quest’anno? E la cosa diventa ancora più problematica quando si tratta di verificare un incontro. Per esempio: l’omelia di oggi a Messa. Mi sono chiesto se vi ho portato in giro per l’aia o sono riuscito a comunicare quanto previsto; finisco sempre con un patema d’animo terribile, che però mi aiuta, mi stimola, mi fa soffrire, mi fa tendere al meglio. Faccio un’omelia, ma qual è il feedback? che cosa hanno capito? Adesso non parlo di voi, eh, ma delle nostre parrocchie, delle nostre omelie domenicali: che ne è di questo itinerario che va da… a…. Tanto si gira pagina, si ricomincia, nuovo giro, nuova corsa, come al Luna-park, ma adesso ci si chiede: ma che è successo? com’è andata? quale parola avrei potuto usare? quale parola non avrei dovuto usare? Mi chiedo se qualcuno si sia offeso per una mia battuta, me ne vado sempre con questo patema. Mi dico: “Avrei dovuto centrare,

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semplificare, sono stato banale, sono stato…”, ecco, se non facciamo così, diventiamo dei venditori ambulanti e non dei professionisti, perché c’è una professionalità nel nostro ministero, che è quella del comunicare, del parlare, del tacere, dei gesti, delle celebrazioni. Non so quanto la nostra vita liturgica ci educhi a farlo. La Chiesa lo fa sul piano teologico, certo, ma mi chiedo se lo faccia poi sul piano delle esistenze, ad esempio, a fine Messa ho dato il bacio… . Prendete un fallimento e guardatelo, potrebbe essere il fallimento di una relazione spirituale o pastorale, guardatelo: come è cominciato e dove vi siete incartati, come dicono i giovani oggi, che cos’è che non è andato. Qualche volta, almeno, con onestà, dobbiamo dire: “Ho fatto tutto il possibile, sono stato attento e accogliente, ho messo il fiore sul tavolo, un cioccolatino, ho fatto la telefonata per il compleanno, per l’anniversario di matrimonio, ho mandato il messaggino nel momento della crisi…”. Intendo: non tutto dipende da noi, e anche questo ce lo dobbiamo dire, perché non usciamo da questa meditazione schiacciati. Se ha fallito anche Gesù, allora tanto più posso fallire io, perché di mezzo c’è la libertà delle persone, l’importante è che la proposta sia chiara. Il Vangelo da sempre è andato controcorrente, e dunque non può essere alla punta dell’Hit-parade delle cose belle e accessibili oggi (Quando passo per il “Campania”, e mi succede spesso, ma immagino lo faccia ogni un prete, guardo le migliaia di auto parcheggiate di Domenica e mi chiedo: Perché non stanno altrove?). Ricordate quella vignetta di esperienze pastorali di don Milani? Ci sono il parroco e il vice-parroco che fanno la processione del Corpus Domini, e poi ci sono dei ragazzacci, che troviamo anche nelle nostre processioni, che stanno stravaccati davanti al bar, non si fanno un segno di Croce, e, inutilmente si sente dal megafono: Convertitevi… . Allora il parroco che porta il Santissimo pensa: “Signore, perdonami, perché non sono con noi”, mentre il vice-parroco, più defilato: “Signore, perdonaci, perché non siamo con loro”. Questo è il modo graffiante di don Milani, ma ha una sua logica. Quindi: esame di un fallimento. Poi (questo spero vi prenda anche in serata, nell’Adorazione): Che fine avete fatto? Si chiama così questo esercizio: Che fine avete fatto?, cioè chiamo alcune persone, e non tanto per rimproverarmi o rimproverarle, ma per recuperarle sul piano della preghiera, dell’intercessione, perché “semel pater, semper pater”. Lo desumo dalla tradizione monastica dal “semel abbas semper abbas”, cioè il padre non può essere tale una sola volta, in un momento di passione, in una girandola di spermatozoi, ma è sempre padre, e quindi sono padre anche di queste persone, che, benché lontane geograficamente, forse anche moralmente, le porto con me, le porto a te, Signore. C’è una bella definizione della vita pastorale di un po’ di anni fa di Müller, che dice che il compito del pastore e del padre è attendere in vita e in morte. È stata una delle cose più belle, a conforto della mia pastorale da parroco, attendere le persone in vita e in morte, perché quando non vengono in vita, quando non tornano in vita, tornano in morte, e non come state pensando voi perché di qui bisogna passare, no, ma in morte, nel senso che, se non ci siamo capiti in vita, ci capiremo in morte, dopo ci rincontreremo e ci perdoneremo. Bisogna attendere, per questo, guardandovi. Mi sono tornate le parole di Tenco: Vedrai, vedrai che cambierà, anche quando l’orizzonte sembra chiuso, come quello atmosferico in queste ore, anche quando non c’è niente da fare, quando

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qualcuno è lontano anni e anni luce da quello che era: “Eh, sono stato chierichetto una volta, ero ministrante…”. E adesso dove è? Allora raggiungo tutti con l’intento non di recuperarli, ma di celebrare un’appartenenza, perché, anche se il giovane se n’è andato, rimane nel cuore di colui che lo ha guardato e lo ha amato.

Tenco: Vedrai, vedrai, vedrai che cambierà…

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Vespri: Guardare, non vedere.

Fissa lo sguardo: torna il tema del guardare, che non è un semplice vedere. Allora Gesù, fissatolo, lo amò. Siamo stati invitati a guardare la nostra vita di pastori e le nostre pecore. Il buon pastore conosce le sue pecore, ed esse ascoltano la sua voce. Vogliamo chiedere a Gesù, questa sera nell’adorazione, la grazia di saper guardare. “Vedere” è un atteggiamento fisico del nervo ottico, del cervello, non richiede scelta. Il guardare, invece, è un vedere esponenziale, un vedere scelto, è scegliere di vedere. Potenza dello sguardo! Ora l’apostolo Giacomo ci invita a poggiare sulla Parola. La nostra deformazione professionale — anche noi abbiamo le nostre — ci inviterebbe a sottolineare il fatto che chi fissa lo sguardo poi mette in pratica la Parola, e quindi a fare attenzione all’azione, alla vita morale, ovviamente è importante. E invece vogliamo fermarci sullo sguardo che accarezza la Parola. In questo momento e in ogni preghiera di adorazione, che cosa funziona? Lo sguardo. Guardiamo, ma soprattutto siamo guardati. Gesù ci guarda, ci accarezza, ci addolcisce, ci svelena il cuore, ci rimotiva, ci guarda, riconoscendoci e permettendo a noi stessi di riconoscerci e conoscerlo. Vorrei consegnarvi questo atteggiamento della preghiera che è il guardare, non è neanche leggere, ma guardare, questa consuetudine, anche se la stiamo perdendo perché i giovani pregano sull’Ipad e quindi non hanno la gioia tattile della Parola. Mi piace tanto il fatto che sui nostri lezionari sull’altare ci sono i nostri baci, quindi fate attenzione quando dovete cambiare un lezionario e comprarne uno nuovo, perché vanno via tutti i baci che avete dato. Abbiamo questa consuetudine d’amore, e l’amore di cosa è fatto? È fatto di accarezzare il libro. Spero che qualche volta vi siate trovati ad accarezzare il breviario, anche questa è una preghiera; magari non sono cieco, non ho la tattilità dei non vedenti, eppure accarezzo la Parola, per dire la mia vita, e mi sembra che sia scorsa qui, su questo libro, il libro della Parola. Sul messale abbiamo consumato gli occhi, eravamo giovani una volta, accarezzando la Parola, adesso abbiamo i capelli bianchi e siamo avanti negli anni. Questa è una preghiera, una preghiera che tocca, che bacia, che guarda. Gli innamorati guardano, si saziano dello sguardo. Noi vorremmo di più, perché abbiamo superato la dimensione bella del guardarsi. A volte succede tra i coniugi, capita anche a noi davanti al Santissimo, non vediamo più nessuno, non ci guardiamo più, non ci tocchiamo più, non ci baciamo più. Viviamo la grazia di fissare lo sguardo, e lo sguardo amante sulla Parola diventa atteggiamento, e non è un atteggiamento gravoso, dice l’apostolo, perché chi lo fa troverà la sua felicità nel praticarlo, perché la Parola è bella, mi sta bene, mi dona — lo diciamo di un abito — mi esalta, fa parte di me, non posso staccarla dalla mia vita senza che si crei un buco nero nella mia esistenza. Si tratta di un progetto di minima, perché ad alcuni sembrerà così: sfogliare il messale con amore, il breviario con affetto. Mi piacerebbe lasciare un domani il breviario a qualcuno: bisogna che stia attento, però, ci sono le carezze, ci sono

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il messale o il lezionario su cui mi sono consumato gli occhi, e su questi libri ho consumato la vita. Questo libro è una persona: è Gesù!

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Lodi: Siamo Dedicati.

Questa mattina ci sveglia la Madre, che ha il compito di tutte le madri: rassicurarci e fugare gli incubi della notte. Questo è il compito di Maria, e questo è il compito della Chiesa madre che ci invita a non temere. La memoria della Presentazione di Maria ci viene dalla tradizione e la nostra fede, in gran parte, oltre che fondata sulla Scrittura, ci è consegnata dalla tradizione, nel senso più alto del termine. A volte, anche negli aspetti devozionali si trovano una perla, pietre preziose, diamanti da non perdere. Che cosa significa “Maria presentata al tempio”? Significa Maria dedicata. Maria, per dirla con le parole del Cantico, giardino chiuso, fontana sigillata. In Lei guardiamo il mistero della Chiesa, sposa e vergine, della sposa rivestita — come abbiamo appena ascoltato — di vesti magnifiche, di salvezza, arricchita di gioielli, coperta con il manto della misericordia. Ricordate la parabola di Ezechiele, quella sul popolo di Israele? Vale per la Chiesa e anche per noi: La bambina è stata gettata via, come oggetto ripugnante, dopo la nascita e viene raccolta da un passante che la vede, ne ha compassione, la prende, la assume, la adotta, la nutre, la riveste, e la bambina diventa regina. Questa è la storia della Chiesa, e questa è anche la nostra storia. Ti saluto, o Maria, piena di grazia, il Signore è con te: La bellezza di Maria non viene da Lei, ma è il riflesso della grazia, piena di grazia. La Chiesa è piena di grazia e noi ne siamo in qualche maniera i custodi, gli amministratori, i dispensieri, e dunque anche noi che apriamo e chiudiamo la dispensa della grazia partecipiamo a questa bellezza, riviviamo nella nostra vita, misera quanto volete, un riflesso di quella grazia, di quei gioielli che dicono bellezza. Anche noi siamo stati dedicati, portati al tempio. Ricordiamo molto bene il giorno della nostra dedicazione, il giorno certamente del Battesimo, ma per noi soprattutto i giorni dell’Ordinazione diaconale e presbiterale. Tante volte ritorniamo con la mente a quei momenti in cui eravamo nudi sul nudo pavimento. Chissà perché nell’immaginario della gente, ma anche nella nostra memoria, non l’imposizione delle mani, che pure ha valore centrale nella dinamica dell’Ordine, resta impresso quel tempo in cui eravamo distesi, abbandonati, dedicati, tutt’uno col pavimento, polvere che diventa marmo scolpito nelle mani dell’artista divino. Oggi la Chiesa ricorda tutte le persone che nell’ombra pregano, pro orantibus, edificano la chiesa, la abbelliscono, vivono la strana vocazione di non vedere mai l’effetto della propria intercessione. Noi, a volte, vediamo anche i frutti del nostro ministero, ad essi, ad esse — in particolare pensiamo alle monache in questo momento — non è dato di vedere nulla: pregano al buio, svolgono il loro ministero nella notte. La clausura è un abbraccio, un recinto, un chiostro, dove Dio passeggia volentieri.Io gioisco pienamente nel Signore. E tu di chi gioisci? Dov’è la tua gioia sarà anche il tuo cuore, perché il tuo cuore e la tua gioia sono lago del tuo tesoro. E allora ci chiediamo — vado già verso la conclusione (questo è l’ultimo giorno pieno degli Esercizi) —: In che cosa gioisco? Abbiamo appena cantato il Cantico, che è come una sorta di crescendo, dove, come in un organo a canne, pian piano vengono chiamati i registri del creato. Non dimentichiamo che questo canto è avvenuto in situazioni drammatiche: Anania, Azaria e Misaele si

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trovano in mezzo alle fiamme, sono in difficoltà, e dunque la loro gioia non è nell’immediatezza, non è “se va bene o male la parrocchia, se ci troviamo in un posto di prestigio o ignominioso”, piuttosto non esistono posti d’ignominia, se non il peccato. La gioia, dunque, non viene da noi, non viene dal successo, da quello che abbiamo realizzato, di cui godere, non viene dal censo né dalla famiglia, viene da Dio: Io gioisco nel Signore. Questa è la persona dedicata. Noi siamo dedicati anche a una Chiesa diocesana. L’incardinazione, un po’ di anni fa, si esprimeva anche con questo termine di forte pregnanza liturgica, che è la dedicazione: di un altare, di una chiesa, cioè di uno spazio dove non si possono fare più baccanali, dove c’è una finalità, per cui quello spazio, quella pietra, quella persona, quel calice, quell’oggetto, quel tempo vengono ad essere proprietà di Dio e esclusi da ogni altra pretesa di proprietà. Io appartengo al Signore, tu appartieni al Signore, ma noi gioiamo di altre cose, e questo ci condanna. Dice Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi, nella diatriba matrimonio-verginità, che la vergine si preoccupa di piacere al Signore, la donna sposata deve piacere al marito, quindi bisogna dire anche alle nostre catechiste che vadano dal parrucchiere, devono piacere al marito, ma così – dice Paolo – finiscono con il trovarsi divise. Vorrei che foste senza distrazioni, dice Paolo, cioè senza grilli per la testa, senza pensare ad altro, sentendo che appartenete al Signore e che la vostra gioia è in Lui, e invece noi pensiamo, guardiamo i punti, andiamo a guardare i punti dell’Istituto, quanti punti ci hanno accreditato… .“Dov’è la tua gioia? Di che cosa gioisci?” ci chiede stamattina il Signore. Si può gioire di nulla, si può gioire nella difficoltà, tra le fiamme, nel martirio, come ci si può disperare in una reggia, e dunque non sono le condizioni esterne quelle che dicono della nostra gioia. Guai se la nostra gioia dipendesse dall’umore, dal bel tempo, se il vento è in poppa o in prua!Io gioisco pienamente nel Signore. E il termine, che Paolo usa nella Prima Lettera ai Corinzi, termine greco, per dire “senza distrazioni”, torna nel Vangelo di Luca, senza l’alfa privativo, nel vangelo di Marta e Maria, dove si dice che “Marta era presa dai molti servizi”, cioè era piena di distrazioni. In questa giornata chiediamo l’intercessione della Madre, siamo qui all’ombra del santuario mariano del Granato, sta lì rossiccio a guardarci e a fare da parafulmine per noi in questi giorni. Liberiamoci anche da tanti orpelli, da tante cose che sembrano mettere al centro la nostra persona, mentre io gioirò veramente solo nel Signore. Salmo 15: Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi, / è magnifica la mia eredità. Il salmo 15 è il salmo del consacrato, del levita, di chi è dedicato al Signore, di chi è proprietà del Signore, e rievoca il tempo in cui, entrati nella Terra Promessa, degli appezzamenti, delle terre vennero divisi per tribù, ne derivò una lunga azione notarile che Giosuè compie con il sorteggio: foglio mappale 521, particelle 32, 33 e 34, e poi ognuno se ne andava con il suo foglio, con il suo titolo di proprietà. La tribù di Levi fu esclusa. Per noi non c’è niente, per noi preti non c’è niente, e allora protestare, andare dal presidente dell’Istituto, a scrivere a Roma: “Com’è che non mi è stato accreditato…”. Non ebbero niente, perché avevano tutto, perché loro proprietà era il Signore.

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Vedete, c’è il doppio significato, oggettivo e soggettivo, e cioè erano proprietà del Signore, nel senso di appartenenza, ma anche la loro proprietà era il Signore, nel senso che vivevano del tempio, degli animali immolati, non avevano bisogno del loro campo, del loro appezzamento, delle loro sicurezze umane, perché erano affidati al Signore, e il Signore avrebbe provveduto, senza l’8X1000, senza la sicurezza della pensione, assicurazione, ecc. Certamente è questione di fede, ma è anche sforzo di conversione per purificarci da tante cose che pian piano s’intersecano, s’insinuano nella nostra mente, nei nostri affetti, nelle nostre mani. Scuote le mani per non accettare regali dice il salmista. Finiscono col dire: “Sì, ma tu di chi gioisci?, a chi appartieni? Ecco questi esercizi, cari confratelli, cari fratelli, cari figli — permettetemi quest’espressione un po’ paternalistica — ci sono dati, offerti, perché possiamo gioire nel Signore, del Signore e basta. Poi, se cerchiamo il Regno di Dio, tutto il resto ci sarà dato in avanzo, in sovrappiù.

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Sesta meditazione: Quando si spengono le luci.

Canto: Restate qui e vegliate

Siamo al capitolo 14 del Vangelo di Marco, ma in questa giornata potete spaziare su tutto il racconto della Passione, qui o negli altri evangelisti. Ci fermeremo su due scene, stamattina e questo pomeriggio. Innanzi tutto su quella del Getsemani, che in qualche maniera ha dato il la alla scelta dei testi e al taglio di questo nostro breve, ma speriamo intenso percorso spirituale. Basterà — e potrei anche rimandarvi a quella rappresentazione, senza aggiungere verbo — metterci davanti (come abbiamo fatto già in questi giorni) alla statua al centro della cripta, e guardare Gesù in questo momento di crisi. Quando si spengono le luci è il titolo o l’avvio di questa meditazione sulla crisi del Getsemani. Tutta la notte, tutto il racconto della Passione, è all’insegna della crisi. C’è una categoria che scandisce i racconti della Passione, in particolare nei sinottici, ed è l’abbandono. Gesù ha abbandonato le folle, che lo hanno acclamato Domenica scorsa, all’ingresso a Gerusalemme; è abbandonato dai suoi, tradito, rinnegato; infine è abbandonato, almeno nella percezione che Egli ne ha avuto, dal Padre. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Guardiamo questa scena, innanzi tutto accompagnandola con lo sguardo amante, che il Medio Evo ci ha consegnato con tutto l’itinerario della Via Crucis, ma poi anche ripensando ai momenti della nostra vita, dove, in qualche maniera, davanti ad un problema, magari non con i frangenti drammatici e terribili della vita del Signore, anche noi abbiamo vissuto fasi di buio, in cui tutti i riferimenti che in altri giorni ci sostenevano ci sono parsi scomparire, impallidire.

Teco vorrei, Signoreoggi portar la croce;nella Tua doglia atroceio Ti vorrei seguir.Signor, sii Tu mia guidadonami Tu coraggio,acciò nel gran viaggionon m’abbia da smarrir.Ti prego, o Gesù buono, per laTua passion, dammi il perdono.Tu col prezioso sanguevammi segnando i passi,ch’io laverò quei sassi col mio lacrimar.Né temerò smarrirmipel monte del dolore,quando il Tuo santo amorem’insegni a camminar.

Con Te vorrei, Signore, oggi portar la Croce nel tuo dolore atroce io Ti vorrei seguir, ma sono infermo e stanco, donami Tu il coraggio perché nel gran

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viaggio non m’abbia da smarrir — dice Metastasio —. Tu con il divin tuo sangue vammi segnando i passi e io laverò a quei sassi con molto lacrimar. Molto bello quest’atteggiamento, che il Medio Evo ci ha consegnato, del pellegrino che segue il Signore, del credente che segue il suo Maestro sulla via della Croce. Il Metastasio dice: Io laverò quei sassi. Tu li hai bagnati col sangue e io verrò a lavarli con la mia preghiera lacrimante, con le lacrime della preghiera o la preghiera della lacrime. Ma veniamo al testo. Giunsero intanto. Quello che è accaduto prima lo sappiamo bene, scandisce la nostra vita, ci crocifigge, siamo crocifissi alle parole dell’Eucaristia: Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, nella notte in cui fu tradito. Queste cose così belle sono nate in una notte di tempesta, come stanotte in cui imperversava la bufera. Nei giorni più solenni, più grandi, a stento riusciamo a fare qualche cosina, a dire una parola, Gesù ha fatto cose grandi nel mentre del suo dolore, nel procinto del suo partire, mentre viveva progressivi abbandoni, e quindi sperimentando una solitudine sempre più profonda. Nella notte in cui fu tradito, ma a volte queste parole così sante ci colgono distratti dalle nostre beghe, dalle nostre faccende. Eppure questo è accaduto. Il dono che hai tra le mani, il pane che ti fiorisce come Suo corpo è venuto in un momento drammatico, e Gesù riesce a ritagliare, a fare una dolcissima epochè intorno alla mensa, non solo per i Dodici, distratti, come tanti partecipanti all’Eucaristia d’ogni tempo, ma per tutti, tutti quelli che si sarebbero seduti intorno alla mensa, anche per noi che lo faremo a conclusione di questa mattinata. L’Eucaristia non è L’Ultima Cena di Dalì, dove ci sono gli apostoli inginocchiati, come monaci incappucciati in adorazione, quella è una Eucaristia ideale, bellissima, eh, con lo squarcio del lago alle spalle del Maestro, l’Eucaristia, al contrario, è avvenuta tra rumori di bicchieri, questioni, beghe, primati, risultati delle partite, banalità, volgarità, o semplicemente distrazioni da parte dei Dodici. Ma questo è accaduto un’ora fa, e l’enclave di dolcezza viene poi interrotta perché urge l’ora, è notte, come dice Giovanni, all’uscita, alla fuga di Giuda. Era notte, è notte: È l’ora delle tenebre, l’impero delle tenebre. E l’isola, che dovrebbe essere un approdo di serenità nel disorientamento generale, appare l’orto, luogo frequentato — dicono gli esegeti — noto ai discepoli e a Gesù, luogo d’incontro, di preghiera, una sorta di quartier generale a Gerusalemme. Vi giungono, ovviamente, con motivazioni diverse, come d’altra parte i nostri fedeli quando vengono la Domenica a Messa: Chi viene per mostrare l’ultimo prodotto della boutique, chi per incontrare gli amici per fare un po’ di conversazione, chi per mettersi in mostra e cantare e leggere, sappiamo quante tensioni sottobanco ci siano alle nostre celebrazioni, no? Penso sempre che i cori — almeno nella mia diocesi attuale — costituiscano insieme con i comitati-festa le croci più dure. Strano, perché domani ci prepariamo a celebrare Santa Cecilia, protettrice dei musicisti, l’armonia la mettiamo insieme: in realtà se canta uno, non canta un altro, se non canta uno, non…, e poi diatribe infinite. Così approdano anche i discepoli al Getsemani, luogo del torchio, perché non c’erano solo gli ulivi, che oggi ammiriamo, secolari, ma c’era anche lo strumento per torchiare le olive, pressione a freddo, per fare l’olio, ma è il torchio di Gesù, il luogo in cui Gesù è torchiato fino a perdere sangue.

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Ed Egli disse: Sedetevi qui, mentre io prego. Perché, vedete, la preghiera ha anche un suo pudore, come la vita spirituale, ha delle stanze, ha, come nella struttura del tempio di Gerusalemme, un luogo per le donne, uno per i pagani, uno per il commercio, ma poi, quando si entra nel Santo dei Santi, chi può farlo, entra da solo. Il povero Zaccaria ha avuto un ictus mentre svolge il suo ufficio, insomma non ha nessuno che possa soccorrerlo e entrare a vedere come mai l’anziano non venga fuori a benedire il popolo (agli inizi del Vangelo di Luca). Speriamo che ci sia un posto, un luogo, un tempo, dove io prete possa dire: “Adesso voi fermatevi qui”, qui comincia la clausura, fosse anche solo quella del cuore. Non sono ammessi tutti all’intimità della preghiera, gran parte deve restare fuori. C’è la preghiera con il popolo — lo dicevo già ieri citando Bonhoeffer — ma poi c’è anche la preghiera per il popolo, quella che fa Mosè sulla cima del monte, mentre Israele combatte contro Amalek. E qui nuovamente facciamo memoria di tutti i monasteri di clausura. In questi giorni fate passare davanti alla vostra mente (spero ne conosciate molti) i monasteri di clausura delle vostre diocesi o di altre diocesi, dove vivono donne votate alla preghiera più difficile, e che partecipano dell’intercessione di Gesù. Prese con sé: Dalla folla sono estrapolati tre, li abbiamo già incontrati altrove, come ognuno di voi sa, sul Tabor, come testimoni di un miracolo di risurrezione, sono gli amici. È bello anche guardare l’umanità di Gesù: Gesù non è superman, ha fame di compagnia, di presenza, non ama tutti alla stessa maniera. Lo dice anche don Milani, ma questo parallelo potrebbe indispettire qualcuno di voi. Egli dice che i preti rischiano di diventare come le prostitute, cioè amano tutti e non amano nessuno. Nei bigliettini (chi avrebbe mai pensato che sarebbero diventati un testamento!) l’ammalato, che non può sopportare neanche un lenzuolo, quindi è nudo, come il Cristo sulla croce, scrive, non potendo parlare, non potendo comunicare: Caro Francuccio, forse ho amato voi più di quanto non abbia amato Dio. Attenti agli amori universali, che non hanno presa e che dicono insignificanza! Ci sono le predilezioni: Si amano altri, e alcuni più di altri, ci sono sintonie, feeling, per Gesù, e dunque anche per noi. Mi affaccio con pudore sul cuore umano del Redentore, sentendo che Egli in questo momento ha bisogno di compagnia, e questa compagnia più degli altri, più di Andrea, Filippo, Bartolomeo, gli può essere offerta, ma, ahimè, sarà deluso, da Pietro, Giacomo e Giovanni, i figli del tuono, e da Pietro, la pietra. E cominciò a sentire paura e angoscia. Qui ci sono anche gli elementi di una depressione, perché, davanti a un pericolo che si conosce e non si conosce, la paura cede il passo all’angoscia, è il timore di una cosa sconosciuta. L’angoscia è immotivata, è una paura generale di qualcosa che incombe su di te e di cui non conosci la portata, il nome, e che per questo non puoi esorcizzare. Dice il testo: Cominciò a sentire paura e angoscia. C’è la paura con un obiettivo concreto: Giuda si sta avvicinando, è andato laddove deve compiere il suo ministero, il suo compito. La paura è quella della morte. E poi c’è l’angoscia per frangenti che Egli non conosce e che gli si riveleranno momento per momento in una regia già stabilita, ma che nella Sua umanità, conosce goccia a goccia. Paura e angoscia. Il Getsemani è il torchio, l’essere torchiati dalla paura, dall’angoscia e dalla tristezza. La mia anima è triste, anche Gesù è triste.

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Attenti a essere troppo spiritualisti! Caro cardo salutis: è la carne il cardine della salvezza. E qui la carne è anche intesa nel suo aspetto psichico, psicologico, dei sentimenti, e tra i sentimenti ci sono la paura, l’angoscia, la tristezza, a volte abissale, una tristezza in cui si raccolgono tutte le tristezze di una vita, come talvolta sulle spalle sentiamo tutti i pesi, anche di un’ingiustizia subita da bambini o da ragazzi. Spesso ci chiediamo com’è che certe persone crollino, e a guardare la loro difficoltà diciamo: “Ma hai sopportato cose più gravi!”. Proprio per questo, questa spilla, adesso, aggiunta a tutte le montagne, a tutti i carri armati che mi sono passati addosso, questa piuma, che sembra non avere neanche peso, va ad aggiungersi alle altre, a tutte le altre ingiustizie che ho subito e che Gesù ha subito. La mia anima è triste fino alla morte. Questo fino alla morte può avere un senso temporale, cioè una tristezza che avrà una fine, oppure anche una finalità, cioè una tristezza che Lo condurrà alla morte. Poi, andato un po’ innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora. Ecco basta che chiudiate i libri, i quaderni e andiate giù a guardare Gesù sulla pietra, pietra Egli stesso, pietrificato nel Suo dolore, nella Sua angoscia, nella Sua tristezza, nella Sua paura. Restate qui e vegliate è chiesto ai tre, alla Chiesa, alle monache di clausura, ai preti, restate qui e vegliate, voi, voi che potete sopportare questa visione, voi non vi scandalizzerete nel vedermi così destrutturato, voi che potreste sopportarmi… Ah, se poteste sopportare un po’ di follia da parte mia! dice Paolo. E Gesù è come se dicesse a Pietro, Giacomo e Giovanni: “Tu, che sei presbitero, puoi fare un passo avanti”. Lasciamo fuori le folle, la parrocchia, la comunità, il gruppo, l’associazione, i movimenti… Adesso ci siamo noi, ci sono io qui, convocato a guardare Gesù, che sembra uno straccio su questa pietra, e non riesco a capire se sia ancora Lui o sia solo pietra. Impietrito stabat dice Jacopone, prendendo spunto dal Vangelo di Giovanni. Anche qui Gesù sta, e sta prostrato, angosciato, sta a vivere l’ora che gli tocca. Anche noi, cari fratelli, dobbiamo vivere l’ora che ci tocca, non possiamo sceglierle noi le ore e i giorni e i luoghi e gli strumenti della nostra passione, è un Altro che stabilisce per noi, e ci colloca ora qui, ora là, e non possiamo chiedere perché, e dobbiamo stare, restare. A volte la preghiera è questo: Uno stare, senza poter dire alcuna parola. Uno stare in assoluta aridità, come abbiamo pregato nel salmo 62: come terra arida, arsa, senz’acqua, cioè non riesco a dire niente, non mi passa alcun sentimento, anzi sento una repulsione. Rischiamo anche noi preti di diventare come i nostri giovani che inseguono il sentire. “Com’è che non sei venuto a Messa?”. “Non me la sento, non me la sentivo, non sarebbe stato giusto venire se non…”: Sembra che il sentire valga più del sacramento, la soggettività (il soggettivismo) valga più dell’oggettività, e allora, se non me la sento, oggi non prego, domani non prego, dopodomani… e così passano settimane, mesi, anni, e perdo anche il gusto, il senso della preghiera. A volte la preghiera è questo, magari anche per anni: stare. Stai lì, buttati lì, stai inoperoso, perché, a volte, certi ritorni di preghiera, che certamente sono una grazia, rischiano di diventare una sorta di dono, di cioccolatino, che non rendono la preghiera autentica, invece la vera preghiera è senza ritorno, come questa di Gesù, e come quella di tanti oranti che sono stati a sorridere al mondo e dentro morivano, ad esempio Teresa di Calcutta.

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E diceva — guardiamola questa preghiera, perché gli evangelisti, la tradizione (la tradizione è il vangelo, il vangelo è la tradizione) ce l’hanno presentata con una formulazione cesellata —: Abbà, Padre. Innanzi tutto ho fiducia, so che Tu mi ascolti, anche se non Ti vedo, so che ci sei, anche se non Ti sento. Abbà. In questo Abbà, come sapete, c’è la voce di Gesù, perché è una delle poche parole in aramaico che il vangelo abbia raccolto (Effatà, Talità kum, il resto è in greco). Abbà, Padre! In certi momenti, essere figlio basta, anche se il padre sembra essersi dimenticato di me. Tutto è possibile a Te. Qui c’è la composizione anche delle Collette, a cui pure dovremmo fare più attenzione, che dovrebbero diventare testi di preghiera prima che testi da utilizzare nella liturgia: preghiera ufficiale, pregare sul messale, pregare sul Canone, pregare sul Prefazio. Le Collette, soprattutto quelle antiche, sono tante, sono dei capolavori di sintesi, dove ci sono l’invocazione, l’attributo, poi c’è la richiesta. Qui c’è la professione di fede: Tutto è possibile a Te, cioè Tu sei onnipotente, puoi tutto, sei tutto, a Te nulla è impossibile. Ecco, l’umanità vi presenta umilmente, ma anche con forza la sua richiesta: Allontana da me questo calice! Troppo amaro. “Fino alla feccia vogliono che io ne beva, ma è amaro, amaro in bocca, amaro nelle viscere. Allontanalo, facciamo un altro progetto”. Vedete, questa è una tentazione, vorrei un’altra cosa. Mi sono preparato per tanti anni per giungere a questo momento, ma ora che sta per scoccare quest’ora, l’ora, la mia umanità si sfalda e mi sento impari. Nel nostro piccolo abbiamo vissuto momenti del genere, in cui ci sembrava di scoppiare, di non poter sopravvivere, se siamo sopravvissuti, siamo dei reduci feriti, come Giacobbe al guado dello Iabbok (Genesi 32). Padre! Tutto è possibile a Te, allontana da me questo calice! Ecco che — e diventiamo anche maestri di preghiera nei confronti della nostra gente, non lasciamo che preghino da soli, invitiamoli a pregare, insegniamo loro a pregare — possiamo dire tutto nella preghiera, tutto, anche bestemmiare. La preghiera e la bestemmia, come tutti gli opposti, si toccano. È importante che alla fine ci sia una resa; c’è una resistenza e poi la resa, e la resa, però, è non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi Tu. Ecco, la preghiera perfetta, perché c’è la fiducia della fede, della richiesta, dell’abbandono. Nel parallelo di Luca, al capitolo 22, si dice che in preda all’angoscia pregava più intensamente, il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra. E la scienza dice che questo è possibile, è possibile che una fortissima tensione interiore si somatizzi al punto da rompere alcuni capillari, segno del dramma, segno di un’angoscia che prende e strangola. Versetto 37: Gesù fa un andirivieni tra se stesso e il Padre, in un dialogo intimo, solitario, gridato, forse, o di un grido muto, e questa piccola comunità, che Egli ha chiamato a sorreggerlo, ma che adesso trova addormentata. Tornato indietro, li trovò addormentati e disse a Pietro: “Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola?”.Tutte le ore di adorazione, quando eravamo bambini, partivano così, ci struggevano, e ci hanno fatto bene. Oggi li catalogheremmo come cose intimistiche, in realtà, quando sentivamo la zelatrice del Sacro Cuore o chi nell’Adorazione mensile, l’Ora Santa, si passava sempre attraverso

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l’espressione Pietro, Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola? Un’ora sola, mentre la vita è fatta di tante ore, tanti giorni, tanti tempi, ma “io non ho tempo, e se ho tempo mi addormento”. Si assopirono tutti e dormirono. A mezzanotte si udì un grido: Ecco lo Sposo, andategli incontro. Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Qui non si tratta soltanto di far compagnia, ma anche di non perdersi, di non perdere Gesù, di non perdere quest’occasione, di non perdermi, perché, senza la veglia, senza la preghiera, io cadrò. Cari fratelli, noi preti camminiamo su una corda, siamo funamboli. Ci meravigliamo sempre: “Quel prete è…, quell’altro è un pederasta…”, ma in realtà dovremmo meravigliarci, come vi ho detto già qualche giorno fa, dell’essere ancora qui, ancora preti, ancora credenti. È un miracolo! Perché camminiamo su una corda e possiamo precipitare da un lato e dall’altro, e se restiamo in bilico, se restiamo in questa stabilità instabile è per grazia, ma questa grazia bisogna anche chiederla, tematizzarla, celebrarla. E la veglia e la preghiera, e la preghiera che veglia, e la veglia orante diventano un modo per restare sul filo del rasoio, continuare a camminare, e quelli fra voi (ci sono qui santi preti anziani, che guardo con affetto e tenerezza) più avanti di noi, che sono riusciti, anche a settanta, ottant’anni, a conservare la fede, nonostante tante prove, vanno guardati con ammirazione. Io non so se ce la farò. Alla loro età tu sarai ancora qui, sarai ancora col colletto, sarai ancora… Chi lo sa, non lo so. Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto ma la carne è debole. I propositi li facciamo tutti, poi c’è l’aspetto greve della carne, e qui non è solo la sessualità, sapete, la carne è quello che ci deraglia rispetto ai migliori sentimenti che la fede cerca di suscitare. La carne è debole, ma la veglia tiene la carne in una dimensione — qui la carne non è solo il corpo, eh, è la vita — di possibile leggerezza; per non appesantirvi in ubriachezze, crapule, ecc., dice l’apostolo. Vedete come Gesù, pur in questo momento così difficile per Lui, pensi ai nostri momenti, pur nel suo Getsemani, ci raggiunga nei nostri Getsemani, nelle nostre prove, per dire: “Ce la farai per mia grazia, ce la farai, se riuscirai ad alzarti un’ora prima, mezzora prima”. Ricordatevi che quello che non si fa la mattina, per noi preti, non si fa più durante la giornata: L’Ufficio delle Letture, le Lodi, se non le facciamo prima di uscire dalla Canonica, quando comincia la giornata, siamo in preda ad altre esigenze. E dunque Gesù diventa maestro anche nella debolezza, ricordandoci la nostra debolezza, perché ricordarla significa anche correre ai ripari, porre una serie di steccati che celebrano la nostra libertà, anziché essere restrittivi, perché una grazia ha bisogno d’essere conservata. Sì, certo, Dio porti a compimento l’opera che ha iniziato in te, ci dice la liturgia nelle Ordinazioni, ma questa grazia Dio la porta a compimento attraverso la tua collaborazione. E quindi — vado verso la conclusione — c’è questo andirivieni: preghiera personale-preghiera comunitaria. Purtroppo, la preghiera comunitaria di Gesù è piuttosto scadente, Egli cerca conforto nella comunità, la comunità che prega. Ma anche la nostra vita, il nostro respiro spirituale, vanno a questi due movimenti: Gesù che va da solo, Gesù che torna da Pietro, Giacomo e Giovanni. La preghiera personale dà adito a quella comunitaria.

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Attenti all’alibi che striscia nei nostri presbiteri, che basti la preghiera pubblica! “Sto sempre sull’altare, basta, ho detto tutte queste Messe, insomma, avrò pur bisogno di farmi un giretto per mare, navigando su qualche sito hard, che mi fa perdere tutta la grazia accumulata nelle celebrazioni”. Senza preghiera personale, non si va da nessuna parte. Vi sto dicendo queste cose anche con una certa durezza, perché non devo guadagnarmi il bollino della guida Michelin, e intanto ho già perso la faccia abbondantemente. Vedete, ve lo dicevo ieri, vi guardo, a volte ne sono confortato, a volte sconfortato. Potreste dire: “Ma tu, alla fine, che vuoi? Che ci stai a fare qui?”. Mi sono detto: “Ci sto, sto qui per Gesù, per perdere la faccia per voi, io ho perso già abbondantemente la faccia per quello che ho detto, per gli esempi che ho fatto… . E voi subito: “Ecco, ha fatto la geografia, ha messo il giocatore nel suo riquadro”, come facevamo da ragazzi con i nostri album. Quindi non riceverò la palma del martirio o la beatificazione da voi, l’aspetto da altra parte e speriamo che mi venga, ma queste cose bisogna dirle ai preti, altrimenti noi di qui a dieci anni — questa è la mia preoccupazione — vivremo nei nostri presbiteri delle crisi, e già sono in corso, eh, delle crisi a domino, effetto domino: uno, due, tre, e via, perché i tempi sono difficili, perché questo è un bel tempo per essere preti, diceva Papa Giovanni Paolo, ed è vero, ma è un bel tempo perché è un tempo difficile, non è un tempo di osanna, è piuttosto un tempo di crucifige. I preti riusciranno a resistere, a servire i loro fedeli in una maniera disinteressata? Riusciranno — e questo è il vero problema — a essere discepoli, oltre che apostoli? Il discepolo è uno che torna dal maestro. L’apostolo va, dice la Messa, predica, confessa, fa le invettive dall’altare, visita le famiglie, gli ammalati, fa la Prima Comunione ogni primo venerdì del mese, Tridui, Novene, Processioni e celebrazioni esequiali prima dopo durante e tutte le benedizioni, e i nostri defunti se ne vanno pieni d’acqua, stiamo a benedirli cinquemila volte … ma questo lo fa l’apostolo, e il discepolo, che ne è del discepolo? Gira nei nostri presbiteri l’idea che il tempo del discepolato sia un tempo ristretto perlopiù al tempo del Seminario (qui c’è anche il Rettore del Seminario, ecco, l’ho messo a fuoco). No, questa è una cosa terribile, che mina tante vite presbiterali, è piuttosto il contrario, e cioè il tempo dell’apostolato è un tempo limitato, perché mi può venire un ictus e non posso più parlare, mi viene un infarto e sto a mezzo servizio. Quindi non sarò apostolo sempre, altrimenti i nostri preti ammalati si dovrebbero suicidare, perché nemmeno la Messa possono dire. Allora è proprio il contrario: il tempo dell’apostolato è limitato, il tempo del discepolato è continuo, senza fine. Il tempo del discepolato è tornare dal maestro, e sottoporre al maestro quello che stiamo facendo, e dirgli: “Ma che ne dici?”. È ascoltarlo, pendere dalle sue labbra, chiedergli di convertirci il cuore: questo fa il discepolo, segue il maestro. Anche a ottant’anni (chi ci arriverà, voi certamente sì, io di questo passo certamente no, ma non mi dispiace), quando non potremo più fare le arringhe al popolo, allora non saremo preti? Sì, saremo discepoli. E un apostolo è tale nella misura in cui è discepolo, ma, se il discepolato lo abbiamo lasciato in Seminario, allora va a farsi benedire anche l’apostolato. Li trovò addormentati: è questa la nostra situazione, siamo addormentati, appisolati, beatamente, qualcuno anche con un sorriso un po’ ebete. “Facciamo

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questo poco che è possibile…”. I loro occhi si erano appesantiti. Hanno bevuto troppo, una coppa, due, tre, conosciamo il vino, era generoso. Sono così anche i nostri occhi. Perché uno si è appesantito? Se mangio troppo, mi appesantisco, mi viene sonno, non riesco a pregare. E quello che dico del mangiare riguarda anche altri ambiti che mi appesantiscono. E non sapevano che cosa rispondergli. Quindi Gesù li trova con quello sguardo che hanno le persone che si svegliano di soprassalto: non sanno cosa dire, magari sono anche presi da un’angoscia. Venne la terza volta e disse loro: “Dormite ormai e riposatevi! Basta, è venuta l’ora”, cioè non ho più bisogno della vostra preghiera, ho superato la crisi. Come Gesù sia potuto passare da una situazione, quella all’inizio del brano, dove ci sono paura, angoscia, tristezza, richiesta che il calice passi, a questa determinazione nell’andare incontro alla sua ora, incontro a Giuda, come mediteremo questo pomeriggio, è il miracolo della preghiera, il miracolo di un’ora di Adorazione. Vedete, quando cominciamo l’Adorazione e stiamo male, significa che dobbiamo rimanere, perché la prima mezzora è un inferno, mille distrazioni, mille… “È inutile che sto qui a perdere tempo, meglio che me ne vada, scrivo qualcosa”. Devi rimanere! Più stai a disagio, più devi rimanere, e, finché non ti sei pacificato, non t’alzare. Basta, è venuta l’ora, dormite, io vado. “Dove vai Gesù?” mi verrebbe da chiedergli, e Lui, come nella leggenda del Quo Vadis, mi dice: “Vado a morire per te”. Questa risposta mi dilania il cuore e mi suggerisce che non riesco a seguirlo. “Vado a morire per te. Vado a salvarti. Vado incontro a Giuda”. Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Trascorriamo un po’ di tempo giù davanti a questa statua imponente e drammatica. Vedete, anche le parole della preghiera del Getsemani, che ci riportano gli evangelisti, sono pietre. Padre. Sono pietre che escono, non sono parole dolci, preghiere edulcorate, non sono sfavillii di certe preghiere super-emozionate, sono pietre. E a volte veramente nella preghiera vengono su solo delle pietre, ricordo di un’emozione lontanissima, di cui c’è solo l’orma. Padre, prima pietra, tutto è possibile a te. Seconda pietra: Allontana da me questo calice, forse la pietra più pesante da formulare, da masticare. L’autore delle Lamentazioni parla di masticare sabbia. È un’espressione che mi ha sempre creato una sensazione fisica terribile. Provate a masticarla la sabbia, questa è la preghiera: masticare sabbia. Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi Tu.Esercitiamoci su questa preghiera. L’esercizio è riandare a un tempo, a un momento in cui anche noi siamo stati braccati, un branco di cani mi circonda, una banda di malvagi dice il salmista. Il documentario che avremmo dovuto vedere ieri, non lo vediamo più, perché è passato il kairos, è finito il tempo, ma potreste guardarvelo voi, è sulla scheda del Centro Nazionale Vocazioni, adesso si chiama Ufficio pastorale vocazionale. Si cambiano sempre le etichette fuori agli uffici, ma chissà se cambia la pastorale. È al numero 4, Il tempo breve, ed è la testimonianza, come vi anticipavo, di un giovane sacerdote, trentatreenne, morto di cancro, che viene intervistato e parla del tempo breve e della voglia che ha di impiegarlo al meglio per il Regno di Dio, per i suoi giovani.

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Anche don Domenico, che ha concluso la sua esperienza il 17 di ottobre dell’anno scorso, ha vissuto il suo Getsemani.

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Omelia: Gesù piange.

Dal Vangelo secondo Luca (19, 41-44).Invocami nel giorno dell’angoscia ti libererò e tu mi darai gloria. E poi il versetto dell’alleluia: Non indurite il vostro cuore. Cerchiamo di entrare attraverso questi due spiragli nel vangelo delle lacrime, che è il vangelo di oggi. La memoria riporta il testo che abbiamo meditato di Gesù e della predicazione nella sua famiglia. In quel tempo, quando fu vicino a Gerusalemme, alla vista della città, Gesù pianse su di essa. Vediamo questa scena dal Monte degli ulivi, accesso a Gerusalemme, tra il verde e l’argento. Tra qualche giorno i vivi faranno da testimoni anche alle lacrime di sangue di Gesù. Abbiamo tra gli ulivi il biancheggiare della città con il tempio, le case, gli edifici sacri, e questa reazione così strana, così bella di Gesù che si scioglie in lacrime. Non indurite il cuore: il cuore indurito è quello che non sa piangere, che non si muove a compassione, non si scioglie. Il cuore del Redentore che siamo chiamati a contemplare in quest’Eucaristia è invece un cuore palpitante, che piange. Qual è il mistero di queste lacrime? Sono le lacrime del Maestro, le lacrime di Dio. Il poeta del “X agosto” parla delle stelle cadenti come lacrime di Dio: “oh, d’un pianto di stelle lo inondi / quest’atomo opaco del Male”. La visione poetica dice di più, qui c’è Dio: Chi lo ha fatto piangere? e perché Dio piange? C’è innanzitutto il mistero del dolore di Dio: Può Dio soffrire? La teologia se lo chiede, se lo chiede anche oggi ed è più aperta a pensare il dolore di Dio. E perché Dio soffrirebbe? Per un solo motivo: l’amore. L’amore è di per sé un luogo di sofferenza. Per non soffrire bisognerebbe non amare, e Dio non può non amare, e dunque soffre. Dio si commuove. Si commuovono le viscere dentro di me, dice per bocca del profeta, ma adesso c’è qualcosa in più: sono lacrime vere quelle che scorrono dagli occhi del Maestro. Le avrei volute raccogliere, forse piene del suo sangue, anche se può sembrare blasfemo quello che sto dicendo, perché mi sembra che queste lacrime traforino il mondo da un capo all’altro, offrendo uno spazio di fuga, di respiro, certamente di salvezza. È su Gerusalemme che Gesù piange, sulla città che non ha riconosciuto il suo giorno, il giorno della salvezza, non ha riconosciuto il suo Messia, il suo Salvatore. Altrove Gesù dice di Gerusalemme che ha cercato di raccogliere i suoi figli come la chioccia i pulcini sul venire della tempesta, ma essi non hanno voluto. In altri passi le lacrime sono sottintese, penso a tanti brani del Vecchio Testamento, per esempio: Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva vangata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato scelte viti; vi aveva costruito in mezzo una terra e scavato anche un tino. Egli aspettò che producesse uva, ma essa fece uva selvatica (Isaia). Sempre immagine di un popolo, di una storia, di una corrispondenza in termini di durezza, freddezza. Adesso è qui, e Gerusalemme non raccoglie. Egli non piange su di sé, ma sulla città con cui ha intrapreso un rapporto, sulla sposa, per cui mi piace pensare che queste lacrime, oggi, siano lacrime sulla Chiesa. Sunt lacrimae rerum, diceva Virgilio, ma adesso sunt lacrimae Dei sulla Chiesa che fa tanta fatica. Noi lo sappiamo, perché conosciamo noi stessi e la storia, lo sappiamo in senso passivo e in senso attivo; lo sappiamo in relazione a chi ha il ministero di

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guardare e a chi guarda il proprio mondo interiore, la desolazione, l’aridità, in contrapposizione a tante sollecitazioni. Questi Esercizi, cari fratelli, costituiscono una carezza sul vostro cuore. Gesù è contento della Chiesa, e abbiamo motivo di pensare che quello che sia accaduto nel giorno del Signore continui nel ministero della vita della Chiesa, e quindi, se il sangue di quella sera è diventato sangue ogni giorno, pure le lacrime di allora sono le lacrime oggi. La Chiesa per cui Gesù ha dato il suo sangue, con cui ha fatto un patto di sangue, che ha sposato sulla Croce, partorendola lo stesso, sposandola e partorendola, effondendo su di lei lo spirito, è svagata, senza memoria, e dimentica che i santi misteri che stiamo celebrando con i nostri fratelli sono gli stessi: Questo è il dolore di Gesù sulla Chiesa. In terza battuta vorrei che anche noi, come pastori, facessimo scorrere lacrime nelle nostre comunità, i vescovi nelle diocesi e i preti nelle parrocchie. Hai mai pianto per la tua parrocchia? Non bisogna fare chi sa quale sforzo per commuoversi davanti alla preghiera e davanti ai tentativi che facciamo per capire il cuore del maestro, cui si risponde picche, le volte in cui abbiamo la percezione chiara di aver sbagliato tutto. Vorrei mettervi sul cuore le parole che Mons. Farina, vescovo di Caserta, sussurra ventiquattrore prima della morte: “Abbiamo sbagliato tutto!”. Mi hanno commosso molto queste parole: “Abbiamo sbagliato tutto!”. È il vescovo che lo dice al suo vicario, facendo, forse, sintesi della vita. Probabilmente lo faremo anche noi al momento della morte, sperando di avere la lucidità, almeno un momento di lucidità. Ci accorgeremo che abbiamo fatto tanto, ci siamo sbracciati… e, forse, inutilmente. Abbiamo fatto tante cose, ma non quello che ci era stato detto. Nel mese di settembre quanto soffriamo sul Breviario quel discorso sui pastori di Sant’Agostino! (Breviario 19 settembre: Dai “Discorsi” di S. Agostino, vescovo). Io mi sento sempre accusato: Non hai fatto questo, non hai curato quello… . Non vi sembri questo un sentimento che ci debba annientare, piuttosto, per intercessione di Maria nella memoria della presentazione di Maria al tempio, divenga un’esperienza per partire, e forse in queste lacrime ritroviamo gli umori della Chiesa, le grandi passioni del prete, che invece mi sembrava d’aver persi. Gesù e la Chiesa. Non mi sembra che possano trovare spazio altri amori. Questo amore è intriso di lacrime per Gesù, tanto più in questo giorno in cui lo contempliamo nell’Orto e nel cammino della Croce, ma anche per la Chiesa, per i suoi scandali, per le sue incongruenze, per i suoi sbandamenti, per il suo aspetto confusionario, quando si occupa di tante cose, perdendo di vista l’essenziale. Perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata (Lc 19, 41-44). Cari fratelli, il Signore ci sta visitando in questi giorni, non diamogli altri motivi di lacrime!

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Settima meditazione: Quando ti senti tradito.

Canto: Nulla ti turbi

Questa è la giornata delle lacrime. Siamo nel prosieguo del brano che abbiamo meditato questa mattina, sempre nella versione di Marco, quindi a partire dal versetto 43, ma potete leggere tutto, fino al versetto 72. Quando ti senti tradito è il titolo, l’incipit, il tema di questo pomeriggio. Guardiamo Gesù che si lascia portare e si consegna, perché alla fine è Lui che si consegna, e non gli altri che hanno il sopravvento su di Lui. Questo è molto chiaro nel racconto giovanneo, il più teologizzato, dove addirittura ci sono tre prostrazioni. “Chi cercate?”. “Gesù Nazareno”.“Sono io” e cadono in ginocchio. Quindi è Gesù che si consegna o è il Padre che lo consegna, o Gesù che riceve le consegne, cioè il compito da svolgere, come noi riceviamo l’assegno in questi giorni. Inizialmente avevo pensato: Quando chi ti ama ti tradisce, ma poi il titolo si è accorciato, perché tradiscono solo quelli che amano, non sono prevedibili tradimenti di estranei. Il tradimento è proprio dell’amore, è solo nell’amore, ed è inscritto in esso: Se non c’è amore, non c’è tradimento.Vorrei portare brevemente l’attenzione sul rinnegamento di Pietro, ma per connetterci per intero, a volte dovremmo trascorrere dei giorni a leggere il Vangelo per intero, e non a tratti, a versetti. Abbiamo lasciato stamattina Gesù dopo l’azione del torchio (qualcuno mi ha scritto — non l’avevo visto — che ci sono un torchio e delle macine anche nel giardino). Ebbene Gesù esce vittorioso, e tutto il racconto della Passione è un insegnamento per noi su come uscire vittoriosi nelle sconfitte. È un paradosso, ma è così. A volte, vinciamo quando perdiamo. Vi consegno questo piccolo ricordo, personale, di un mio fallimento (ce ne sono tanti ovviamente): Fui invitato un po’ di anni fa, forse quattro o cinque, non ricordo, a tenere una relazione al Convegno del Centro Nazionale Vocazioni, dove si teneva una mega assemblea di suore di tutti i colori, e forge, magari alcuni di voi avranno partecipato, un convegno molto accorsato. La mia relazione arrivava dopo altre tre, e allora, per sdrammatizzare un po’, avevo lanciato qualche battuta, ma veramente innocente dal mio punto di vista, nei confronti delle suore. Non l’avessi mai fatto! Mi flagellarono, uscii come San Sebastiano dal martirio, perché, vedete, le suore, che tra l’altro io amo, e tra cui ho svolto per tanti anni della mia vita il mio ministero, vanno a questi convegni come si va alle fiere di Milano sulla casa: “Andiamo a vedere se hanno scoperto come incrementare le vocazioni, avranno la soluzione, a Roma c’è il pensatoio, e sicuramente avranno tirato fuori qualcosa”. Allora ogni congregazione si fa un punto d’onore a mandare un legato pontificio a questa assise, per tornare poi con qualche ricetta. Una delle immagini che, probabilmente, dovette indisporre l’uditorio femminile fu: “Vedete, immaginiamo che venga un giovane, entri una persona del tutto estranea ai nostri ambienti e ci veda qui in tanti, così stranamente vestiti, e si chieda: Ma questi che fanno? perché discutono della fecondità, dei metodi? del come acciuffare una vocazione al volo, far sopravvivere con un’iniezione una Congregazione incartapecorita? Ma di che cosa staranno discutendo? Forse

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della fecondità di una coppia, dei metodi, delle terapie e di tutti gli intrallazzi che conosciamo, pur d’avere un figlio? E mentre si discute di tutte queste cose uno dall’esterno dice: Scusate, ma i due, di cui stiamo parlando, fanno l’amore?”. Questo fu, insomma, il casus belli, cioè ci preoccupiamo dello spot pubblicitario migliore, del manifesto che viene fuori dal convegno degli architetti della comunicazione, come quelli che si industriano per fare concepire un figlio a una coppia, ma forse omettono quella che è la via naturale. I due, di cui stiamo parlando, che avranno figli, insomma, si incontrano o no? Lo dico sorridendo, perché poi le cose dolorose sono altre, però ricordo che tornai in episcopio con i miei tre seminaristi, che mi avevano accompagnato, e, quando stavo per scendere dalla macchina, dissi loro: “Vedete, oggi vi ho insegnato la cosa più importante, come si perde, perché tutti insegniamo come si fa per vincere e attirare l’attenzione, mentre io vi ho insegnato come si perde”. Una delle cose più difficili da imparare nella vita è come vincere nella sconfitta.Ecco, Gesù viene fuori, adesso di nuovo compos sui, di nuovo consapevole della volontà del Padre, della bontà di ciò che va a fare, e quindi può ricevere la delegazione con spade e bastoni capeggiata da Giuda, che ha fornito anche raccomandazioni, perché Gesù è, può fare miracoli e quindi: Arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta, in modo tale che non lo veda più, perché rincontrarlo sarebbe una cosa terribile e meravigliosa. Vedete, la vita e anche questo racconto (soprattutto nel parallelo di Luca) sono sotto lo sguardo. Mi lascio guardare da Gesù. Ti sei lasciato guardare da Gesù in questi giorni? Allora fissatolo, Gesù lo amò. E se tu torni in questo sguardo è come se tornassi nel cono di luce e tutto ti diventa chiaro, e ti ricordi, e allora la Parola può scavare cunicoli per fiumi carsici di lacrime. A volte anche noi mettiamo Gesù sotto buona scorta, magari chiudiamo, diamo due mandate al tabernacolo, perché ognuno se ne stia per i fatti suoi: “Ho fatto il mio dovere, le mie ore di ministero, e adesso dormi, stai tranquillo qui, che io ho altro da fare”. Un bacio è il segno del tradimento, non poteva essere diversamente. Sono i gesti sacri quelli che ci tradiscono, e quelli con i quali noi tradiamo. Il gesto dell’amore diventa il gesto del tradimento. E come sono ambigui questi gesti!, anche quelli che poniamo santamente nella liturgia, ma che poi dal nostro versante, per quanto concerne la corrispondenza, il nostro vissuto, si manifestano come ambigui. Questo è il mio corpo. Quale? quale corpo? E quanto di esso, non solo quello di Gesù ma anche il tuo, e dunque il tuo cuore, la tua affettività, sono consegnati alla Chiesa e per la Chiesa ai tuoi fedeli, e non ad altri? L’evangelista ci ha voluto lasciare come una nota in margine la scena sempre nebulosa ma colma di speranza di un giovane, un giovanetto che segue Gesù, mentre tutti gli altri sono scappati. Prima il sonno, poi la fuga, perché la fuga è un sonno e il sonno è una fuga. Ma lui, questo giovane su cui gli esegeti si sono scervellati, non scappa: è Marco, è… . È un arcobaleno nella notte di tempesta, un’aurora boreale, un segno di risurrezione, proprio ora, per non scoraggiare il lettore che guarda il film che è il vangelo con preoccupazione, e si chiede come andrà a finire. Per confortarlo, Marco ha raccontato di questo ragazzo che non

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si riesce a catturare: È Gesù, è Gesù che fugge via, nudo, libero, oltre ogni lenzuolo, oltre ogni nostro tentativo di catturarlo, fosse anche concettuale. E poi ci sono questi due processi: uno nella casa del sommo sacerdote e l’altro nel cortile e due processati, due imputati: Gesù e Pietro. Bisogna leggere così questi due interrogatori: viene interrogato il Maestro e il discepolo. Il Maestro dice la verità, il discepolo mente. Il Maestro salva, il discepolo rischia di perdersi. Sei tu il Figlio di Dio benedetto? “Io lo sono”. “Non lo conosco” dice Pietro. E allora guardiamo un po’ più accuratamente i versetti 66-72, perché sono una grande scuola di “coscientizzazione” del peccato, con le sue conseguenze. Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una serva del sommo sacerdote (il Battista era morto per mano di due donne) e ancora una volta Pietro, che in precedenza, alle parole Proprio tu in questa notte mi rinnegherai, era stato così baldanzoso: Se anche dovessi morire con te, non ti rinnegherò (questi sono i nostri propositi), cade per mano di una donna che lo interroga. Mentre su si svolge l’interrogatorio di quelli paludati, qui invece si tratta di un dialogo intorno al fuoco, perché Pietro ha un freddo nelle ossa, e neanche il fuoco riesce a scaldarlo, perché gli manca l’amore. Non ci sono abbracci che ci riscaldino nei momenti in cui abbiamo girato le spalle a Gesù. “Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù”. A ben pensare, questa donna è una teologa, perché fa un’affermazione che ha un fondamento nello stesso vangelo di Marco al capitolo 3, versetto 13 e seguenti, quando Gesù chiama i discepoli: Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici che stessero con lui. “Anche tu stavi con Lui”. Sa che il discepolo sta con il maestro e non lo segue da lontano, a differenza delle indicazioni che riceviamo sull’autostrada quando manteniamo le distanze di sicurezza, soprattutto in caso di pioggia. Bisogna tallonarlo Gesù, stargli alle costole, non perderlo di vista, Pietro, invece, lo seguiva da lontano. E cominciano così le nostre crisi, tante, proprio da queste lontananze. Penso anche — scusate, se scendo in questi particolari — a certe lontananze eucaristiche. Si stanno sempre più diffondendo tra i nostri preti alcune consuetudini pericolose, almeno a mio modestissimo parere, per esempio quella del lunedì considerato un giorno di festa. “Tutti hanno un giorno di ferie, e allora noi lavoriamo la Domenica, siamo aperti anche la Domenica, come la Città Mercato, quindi il lunedì non dico Messa”. Voi ridete, ma sono cose vere, oppure vado in vacanza. Quanti celebrano in vacanza? Ecco, vedete?, si attenua una distanza. L’Eucaristia è costitutiva della nostra vita, cioè ci dice quello che siamo, oltre a farci fare delle cose, a svolgere un ministero, e, dunque, starne lontani a lungo, due o tre giorni, non serve a far venire l’appetito, come pensano quelli che affermano: “Ieri ho detto già tre, quattro Messe, adesso vale quello di ieri, il surplus di ieri”. Attenzione a questi messaggi che girano per i nostri presbiteri e che sottendono che l’Eucaristia è un lavoro, come se degli sposi dicessero: “Va beh, ci siamo incontrati troppe volte, adesso viviamo un po’ di castità”. Anche tu eri con lui. Io sono uno che sta con Lui e sono stato chiamato per questo. Nell’esame di coscienza, nella Confessione che andiamo a celebrare, nella misericordia che riceviamo, chiediamo perdono per tutte le nostre fughe dalla preghiera, che rappresenta il soggiornare con Lui, lo stare con Lui, per

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essere come Lui, per essere Lui, perché la vicinanza crea somiglianza, perché la lontananza fa perdere i connotati, i contorni, scontorna i volti e gli eventi. Dicendo: “Non so e non capisco quello che vuoi dire” Pietro rinnega non solo il suo Maestro, ma anche la sua chiamata e ciò che Gesù gli ha detto e che egli ha vissuto negli anni precedenti. Guardando avanti con preoccupazione, credo che noi troveremo in una maniera sempre più esponenziale dei preti che diranno: “È stato bellissimo partecipare a questo presbiterio, eccellenza, mi sono anche impegnato, ho fatto il prete in, sono stato in una parrocchia, ho messo su, ho costruito, ecc., adesso grazie, arrivederci, ho altro da fare”. Si gira pagina in una maniera — come d’altra parte nel matrimonio — così radicale, così, vorrei dire, anche efferata (che è un termine che si utilizza più per i delitti, ma che esprime freddezza), come se ieri tu ed io non avessimo dormito nello stesso letto e mangiato alla stessa mensa. È finito l’amore: “Non so, non capisco quello che vuoi dire, non so di che cosa stai parlando”.Seconda interrogazione. C’è una progressione e riguarda gli amici: Costui è di quelli. Nella prima interrogazione abbiamo un riferimento a Gesù, il Maestro, ma intorno al Maestro si è costituito un collegio, un presbiterio, una famiglia, e capite che rinunciare, denunciare, rinnegare, tradire il Maestro significa ancor più non appartenere alla Chiesa; allora la serva, sempre la stessa, la teologa, ricominciò a dire: Costui è di quelli, cioè fa parte dell’entourage. Come fa a capirlo? Dai lineamenti, dal bagliore più forte del fuoco intorno a cui ci stiamo scaldando, che è rimasto negli occhi di Pietro e riguarda momenti, situazioni, o appena quello che è accaduto qualche ora fa nella stanza alta (l’Eucaristia). Costui è di quelli, cioè il peccato non solo ci allontana da Gesù, ma ci allontana anche dalla Chiesa, ci pone in una condizione di non comunione, ci toglie dalla comunione, e uno che è tolto dalla comunione è uno scomunicato, quindi uno senza più riferimento al Maestro e senza più riferimento alla Chiesa, perché la Chiesa non è un’organizzazione. Senza Gesù il gregge si disperde. Terza interrogazione: Dopo un poco i presenti dissero di nuovo a Pietro: «Tu sei certo di quelli, perché sei Galileo». Da che cosa desumono tale provenienza? Dall’inflessione, perché un meridionale lo si scopre immediatamente dall’inflessione della voce, e così un settentrionale. Ma ecco che anche davanti al richiamo ai natali, alla casa dell’infanzia, all’orizzonte nel quale Pietro è cresciuto (allora si chiamava Simone) Gesù viene rinnegato: Ma egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quell'uomo che voi dite». Si è anche incavolato, lo fa con un certo piglio, per affermare con determinazione che si chiuda il processo, che lui è innocente. In questo modo si sgretola, come vedete, anche il lago, si prosciuga, scompaiono dalla geografia la dolcezza dei colli, la barca, le reti, la pesca miracolosa, quella barca che aveva prestato al Maestro (Luca 5, 1-11). Non c’è più niente, e in questa terza risposta, in questo terzo no, c’è una terza conseguenza del peccato (ogni peccato è un rinnegamento e un tradimento) ed è la disumanizzazione, essere sconvolti nelle radici del nostro essere: Non sono più di Cristo, non sono più con quelli che sono di Cristo, con la Chiesa, non sono più un uomo, non so più chi sono, sono un apolide, uno sradicato, uno senza memoria, uno sventurato. Come vedete, Marco e le prime comunità ci consegnano in questo brano così articolato e allusivo un grande insegnamento sulla sequela, sull’imperativo

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della vicinanza (non seguire Gesù da lontano!), su cosa ti capita quando cominci a rinnegare il Maestro: Non hai più amici, non sei più un uomo. Se volete, in maniera più articolata, si sconvolgono l’ordine teologico e l’ordine ecclesiale, ma è sconvolta anche l’antropologia, perché, senza Dio, l’uomo non sa più di se stesso, è perso. Pietro si è perso, come noi tante volte.Egli cominciò a imprecare, a giurare, e per la seconda volta un gallo cantò. Allora Pietro si ricordò delle parole di Gesù. Il parallelo di Luca ha un particolare, che è degno di essere richiamato e che introduce di nuovo uno sguardo. Qui l’ultima parola è: è anche lui un Galileo, ma Pietro disse: «O uomo, non so quello che dici». E in quell'istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto.Vedete, ci sono tre cose: il gallo che canta, che può essere il canto nella notte, un canto nella notte mi ritorna nel cuore: rifletto, e il mio spirito si va interrogando (Salmo 76), il canto della coscienza che ti rimorde, puntuale come il rimorso (è una battuta di Plauto), e poi ci sono lo sguardo e il ricordo. Allora il canto, che è un disagio, qualcosa che lacera il silenzio della notte, e poi lo sguardo. Anche qui possiamo perderci dolcemente. Questo sguardo, che non ha nulla che dica rimprovero, è uno sguardo dolcissimo, teso a riagganciare. Se anche Giuda si fosse lasciato guardare! Forse ha fatto mettere sul volto di Gesù, come avveniva per i condannati, un panno nero, perché Egli non avesse a guardarlo. Il Suo sguardo ti salva, ti salva anche dalle tue lontananze, dalle tue perversioni. Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, perché Gesù si volta, canta anche il gallo, si sta facendo giorno e noi usciamo fuori dal sonno che sembra aver allargato le maglie fino ad ora, a partire dall’orto, un sonno rancoroso e oscuro. Il gallo che canta annuncia un giorno nuovo, e questo giorno è nel suo sguardo. Abbiamo iniziato gli Esercizi nella prima Eucaristia con la tempesta sul lago, e Pietro che cammina sulle acque e vive il prodigio finché ha lo sguardo fisso in quello del Maestro. Adesso lo sguardo ritorna e Pietro non affonda più o affonderà dolcemente nel mare delle lacrime, segno di rinascita. Si rompono le acque, e allora Pietro si ricordò. Non possiamo che ricordare nell’incontro, e noi, che facciamo tanta fatica a capire e a seguire le nostre comunità, noi, che vorremmo l’imperativo senza l’indicativo, come ho detto, dobbiamo convincerci che senza incontro con Gesù il peccato non c’è. Intendiamoci, non sto liberando le persone da una responsabilità, parlo di una coscienza del peccato, è importante, come ognuno di noi sa, per avvicinarsi alla misericordia. Ci sono gli atti immorali, ma il peccato è un’altra cosa. Innanzi tutto è una grazia (lo dico in una maniera un po’ paradossale), la percezione del peccato è una grazia, e molta della nostra gente è in quella condizione che San Tommaso e gli altri chiamano ignoranza invincibile. Non possono capire, perché non l’hanno mai incontrato, e allora il nostro intento non è tanto quello di metterli al corrente di ulteriori condanne o scomuniche nelle quali sono incorsi, quanto di mostrargli il volto, perché, se non guardano Gesù, non possono capire nulla, non possono confessarsi. Parlo in una maniera un po’ paradossale, ma quello che mi interessa è che torniamo a comprendere, così come la catechesi sottesa a questo racconto esprime chiaramente, e torniamo a raccontare il senso del peccato con l’incontro.

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Avviene anche nel Libro di Genesi, con Adamo ed Eva. “Ma non è successo niente!”. Lo dice anche il Von Rad, nel suo magistrale commento: “Non si sentono squilli di tromba, non si sente un colpo di gong, però quand’è che comincia a nascere la serpe del rimorso?”. Quando Gesù chiama Adamo: “Adamo dove sei? dove sei?”, cioè nell’incontro. Senza Dio, senza che Dio si fosse messo sulle tracce della sua creatura, Adamo, stando al racconto, sarebbe rimasto nella sua beata incoscienza, è l’incontro con Dio che lo fa nascondere. “Perché ti sei nascosto?”. “Perché sono nudo”. “E chi ti ha fatto sapere che eri nudo?”. Vedete, la Bibbia è attraversata dal tema del peccato dentro l’amore, della coscienza del peccato che interviene come grazia quando si torna all’amore, quando è celebrato l’amore, quando l’amore ti viene incontro e ti guarda. E noi siamo venuti qui per questo. Il presbiterio di Ischia, presente, credo, forse al 70%, ha travalicato i mari, ma bisogna andare pure sulla luna, per ricevere la grazia, cioè per essere guardato e per sentire: “Ma dove sei?” dice sempre Von Rad nel suo bel commento: “Dove ti sei cacciato? dove ti ha cacciato quello che hai fatto, cioè dove sei caduto, come sei caduto in basso? dove sei?”. Dove sono i nostri preti? cosa stanno facendo? in quale lontananza? in quale territorio di Zabulon e di Neftali, Galilea delle genti, vivono? quanto si lasciano interpellare dallo sguardo di colui che pure fiorisce ogni giorno nelle loro mani? Il brano si conclude con la via delle lacrime. Solo per un motivo provvidenziale il vangelo di oggi, che ci parla di Gesù che piange su Gerusalemme, adesso si sposa con le lacrime di Pietro, lacrime che chiamano, fecondano, raccontano, salvano. Quante lacrime e scoppiò in pianto! Uscito fuori, pianse, si dice nel parallelo. Fuori, ma da dove? Era già fuori, era già nel cortile, non stava in un ambiente chiuso. Esce fuori, fuori dal suo male, dalla sua malattia, perché è in via di guarigione, fuori dalla tomba che si stava per chiudere. Si rifugia in un cantuccio, lontano dalla Chiesa, da Gesù, da se stesso. Esce fuori. Giuda no. A Giuda le lacrime si fermano come un nodo scorsoio e gli impediscono di respirare. Queste sono le vie possibili dopo il peccato. Allora vi auguro in questo tempo, due ore e più, che dedichiamo al sacramento della Riconciliazione, di sperimentare questo pianto liberatorio. Sono contento di avere accolto anche lacrime concrete, vere, in questi giorni da parte di alcuni di voi: È bello sentire qualcuno che piange, perché è segno di vita, se non quelle esteriori, quelle del cuore, legate al pungere del cuore, alla compunzione. Se si punge il cuore, esce almeno una goccia di sangue, almeno una lacrima.Non c’è esercizio migliore che quello di scorrere con gli occhi delle lacrime questi testi. In fondo, tutti i racconti della Passione sono sempre bagnati, oleati dalle lacrime di generazioni e generazioni di credenti. Non si vede bene che con gli occhi bagnati, perché gli occhi asciutti sono quelli dei morti, senza lacrime, senza più lacrime. Gli occhi e la lingua, luoghi di comunicazione, hanno bisogno di essere continuamente in umido, perché senza saliva non si parla e senza lacrime non si vede. Si vede bene solo con le lacrime. Vi lascio con questa “suggestione”, direbbe il professore Epifano; lo ricordo con tanta tenerezza. Ci pensavo a pranzo: pensavo alle cattedrali, alle grandi cattedrali romaniche del Medio Evo, segno di fede, di arte, ma anche di

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peccato. Questa buona abitudine si è persa, altrimenti costruiremmo chiese magnifiche, come i grandi peccatori un tempo sovvenzionavano grandi cattedrali. Oggi i grandi peccatori, invece, investono nello IOR, e allora – pensavo – vorrei che magari dai miei peccati nascesse una cattedrale di lacrime.

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Vespri: Dono del Signore sono i figli.

Vorrei consegnarvi una parola telegrafica sul salmo 126, su cui sarei capace di parlare per delle ore, ma solo in termini di ringraziamento: “Ecco, dono del Signore sono i figli, / è sua grazia il frutto del grembo”. Queste parole sono pronunziate da noi che apparentemente non abbiamo avuto figli, in realtà ne abbiamo tanti. Vengono dopo i tre “invano”: invano si affaticano i costruttori per la casa, invano veglia la sentinella per la città, invano il lavoro fine a se stesso. Voi mangiate pane di sudore mentre il Signore ricolma i suoi amici nel sonno. Forse già adesso, la vigilia dell’ultimo giorno (ci saranno solo poche ore), ci rendiamo conto di aver ricevuto tanti doni nel dormiveglia della preghiera, ma poi c’è l’insistenza sui figli.Chiediamo l’intercessione di Maria per comprendere questa parola, ma soprattutto per inculcarla ai nostri giovani. Certi figli bisogna farli quando si è giovani. Non sto qui a fare una campagna demografica, vado in un’altra direzione, cioè i figli bisogna farli da giovani. Com’è bello per alcuni di noi, altri anche più avanti negli anni, trovarsi a dire: “Quel figlio è nato cinquanta, quaranta, trent’anni fa”. E un figlio di trenta, di quarant’anni è una forza per noi che non abbiamo più energia per combattere. Vedete, i figli della giovinezza corrono, argomentano, è così anche nella vita spirituale. Mi riferisco ai figli della giovinezza frutto del grembo, grazia di Dio, in mano a un eroe sono i figli della giovinezza, i propositi e le decisioni della nostra giovinezza. Oggi i ragazzi, i giovani tendono a rimandare le cose importanti, matrimonio compreso. “Si vedrà, mi sposo dopo, poi si vedrà, nel Venticinquesimo, magari”. E invece le cose importanti vanno piantate nella giovinezza, le grandi decisioni della vita vanno prese nella giovinezza.Ci sono qui i preti giovani che possono ancora generare figli, mentre noi siamo in un età quasi pensionabile, ma da un lato diciamo loro: “Sì, se siamo andati avanti nella vita, se siamo rimasti credenti, se abbiamo superato tante crisi è perché i figli sono venuti forti della loro giovinezza a difenderci”. Beato l’uomo che ne ha piena la faretra: / non resterà confuso quando verrà a trattare / alla porta con i propri nemici, perché è un vecchio cadente e non potrà trattare alla porta con i propri nemici. Poi c’è l’altra tentazione: la crisi. Ieri avevamo delle energie che oggi non abbiamo, ebbene ci sostengono i figli, ci vengono dietro, ci difendono. Quando il demonio bussa e noi apriamo pieni di timore: “Ce la farò stavolta? Non ho più le energie di un tempo”, i nostri figli palestrati, muscolosi, dalle spalle larghe, loro ci sono. Quindi, da un lato vi diciamo coraggio per i figli che state generando, poi tutti insieme aiutiamo le nuove generazioni che hanno tante difficoltà ad essere feconde, a impiegare bene la grazia e a prendere delle decisioni che non valgano solo per l’attimo fuggente, perché c’è una grazia nella giovinezza, una grazia naturale. Saremmo partiti a trenta, a quarant’anni? Forse no, forse non ce l’avrei fatta, non ce l’avresti fatta, ma a diciotto, venti, ventidue la grazia ci ha aiutato perché non si erano ancora anchilosate certe articolazioni, perché c’era voglia di avventura, eravamo disposti a tutto. Quelli sono i figli della mia giovinezza, che mi difenderanno anche in punto di morte.

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Le vocazioni, di qualsiasi colorazione siano, sono sempre mattutine. È vero che c’è il padrone che esce anche alle cinque del pomeriggio, ma, se è possibile rispondere sì al mattino e il mattino ha l’oro in bocca, incoraggiamo i nostri giovani a lanciarsi, a impiegare la loro giovinezza. Genereranno figli che li sosterranno come frecce in mano a un eroe.

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Lodi: Consolati per consolare.

Si può essere consolati nel mezzo della tribolazione? La lettura breve, che ci fa da sveglia questa mattina, ci dice di sì, perché Paolo, che ormai non vive più per sé, ma vive un prolungamento della vita umana di Cristo nelle sue membra, nel suo tempo, nelle sue vicissitudini, parla di sofferenze di Cristo e di una sua consolazione, quasi che non ci sia più un evento della sua vita privata. Ecco, mi sembra indicare così in una maniera molto povera, e anche un po’ pedante, come d’altra parte ho fatto in questi giorni, la maturità di un prete, la nostra verità: Quando non c’è più nulla che sia solo nostro, un dolore, un mal di schiena, un tradimento, un esaurimento nervoso. Quando potremo in qualsiasi situazione, bella o brutta, difficoltosa o di festa, dire: “Questa cosa, sì, la vivo io, è mia, ma in realtà è di Cristo”, e quindi non ritenere più cosa nostra, evento nostro, dolore nostro, vittoria nostra, ciò che viviamo, ma attribuirli a Cristo, ecco, questo è un criterio per dire che stiamo entrando nella maturità. Paolo parla qui di sofferenze, infatti come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, ma in realtà potremmo dire: “Sono le tue, Paolo, sei tu che stai vivendo questa difficoltà pastorale, che sei deluso di questa comunità, che vedi la divisione, che individui i partiti che ti tirano in ballo come giudice — succedeva a Paolo, come succede anche a noi — per vedere chi abbia ragione”. Paolo ci dice: “No, queste cose le dico in Lui, per Lui, con Lui, per cui sono le Sue sofferenze”, ma, come sono abbondanti le sofferenze, abbondano in me anche le sue consolazioni. Spero, carissimi fratelli, che almeno una volta in un passaggio, in un accordo, in una parola, in un silenzio, in questi giorni siate stati consolati. Veniamo agli Esercizi per questo, per ricevere una carezza, come i bambini o come i cani (non vi sembri offensivo, essi a volte scodinzolano, ritornando, per ricevere una carezza, poi se ne vanno), ma questa carezza è in vista del ministero della consolazione, cui siamo chiamati e in cui siamo continuamente impegnati.Siamo consolati per consolare, siamo stati rimessi in sesto non per noi e la nostra vita è fortemente strumentale per il bene della Chiesa e delle persone che ci sono state affidate, per cui tutto quello che è accaduto in questi giorni, certamente è valido per noi, come persone, ma ha un respiro e un sentire più ampi e avrà una ricaduta ecclesiale. Sottrarsi un po’ di giorni, ve lo dicevo all’inizio, per fare gli Esercizi, tirarsi fuori dagli impegni non è un fatto egoistico, perché adesso torniamo, non dico con l’idea di riformare tutto, ma certamente la predica di Domenica prossima, o di stasera, avrà un altro sapore; non c’è niente da fare, non c’è niente da dire, avrà un altro sapore; diremo le stesse cose, utilizzeremo le stesse parole, lo stesso vocabolario, saremo allo stesso ambone, alla stessa chiesa, bella o brutta, squallida o che ci tira verso l’alto, come la struttura gotica di cui vi parlavo ieri sera, ma la predica avrà un sapore diverso. Perché? Perché quella che trasmettiamo è una Parola maturata nel silenzio, una Parola che abbiamo ricevuto noi per primi e che adesso offriamo, è una consolazione che il Signore ci ha dato e che condividiamo con i fratelli. Il Salmo 50, che ho voluto che baciassimo e che sembra il salmo della flagellazione e del peccato (“ Sono brutto, sporco e cattivo”), contiene questa speranza, non solo la misericordia, ma anche la possibilità che un depravato

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divenga santo, che un depravato come me divenga maestro di bontà e di giustizia. Quando, nella seconda parte, la conoscenza del peccato dà l’invocazione alla misericordia, si dice: Apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode, insegnerò agli erranti le tue vie e i peccatori a te ritorneranno. In fondo, siamo questo — almeno tra noi possiamo dircelo — siamo dei peccatori perdonati, che hanno sperimentato la dolcezza del perdono e impiegano il tempo che rimane loro perché altri possano fare queste esperienze. Null’altro. Papa Francesco, nell’intervista a Civiltà Cattolica, alla prima domanda del direttore: “Ma chi è Bergoglio?” si è fermato un attimo e poi ha dato una risposta, forse anche non troppo pensata: “È un peccatore, cui Dio ha guardato”. Io sono un peccatore perdonato, uno che ha sperimentato l’amore di Dio. Chi è il Papa che ci sta guidando in questo momento e che guida la Chiesa? È un peccatore perdonato, uno che sta insegnando agli erranti le vie, ma era un errante anche lui, anch’io ero un errante, anch’io ero sfaldato, demolito, come Gerusalemme. Nel tuo amore fa’ grazia a Sion, / rialza le mura di Gerusalemme. Gli Esercizi sono una ricostruzione dopo la destrutturazione dovuta al disordine, a una vita spirituale bucata, sono un essere rimandati nel mondo, nel ministero con un volto, un’identità, una grazia. Il Signore ci ha guardati e ci ha fatto grazia. Quando la regina Ester si presentò davanti al re, poteva essere uccisa, andava a nome del popolo, per intercedere per il suo popolo, ma il re le stese lo scettro in segno di benevolenza. E così Dio ha fatto con me, con noi: siamo peccatori perdonati che diventano animatori di comunità e ministri di misericordia per gli altri. A volte tanta durezza, eccessiva, nel sacramento della Riconciliazione (che allontana le persone dal sacramento) è dovuta al fatto che il prete stesso non riesce a mettere insieme nella sua vita la miseria e la misericordia. A volte i più esigenti, i più terribili nella celebrazione del sacramento della Riconciliazione sono i preti che non si sono rappacificati con sé, con il proprio passato e con il proprio peccato. Il Signore ci consola, perché noi consoliamo, ci perdona, perché possiamo raccontare la ricchezza della Sua misericordia, in una parola, la Sua grazia. Il salmo 62, che abbiamo pregato ieri e che avremmo dovuto pregare anche stamattina, dice: Poiché la tua grazia vale più della vita. Ma noi ci crediamo? Crediamo che la grazia di Dio valga più della salute, dei soldi, del potere, addirittura più dell’esistenza. Quando i santi martiri (in fondo sono un canto al primato della grazia) hanno dovuto scegliere tra continuare a vivere e perdere la grazia, hanno detto: “No, voglio la grazia”. Dammi solo il tuo amore, la tua grazia, perché questo solo mi basta, dice Ignazio nella preghiera-approdo degli Esercizi spirituali. Anche noi vogliamo uscire con la percezione che la grazia è la presenza di Dio, è lo sguardo di Gesù, anche adesso che ritorniamo ai nostri inferni. Magari qualcuno di voi starà pensando: “Eh, sto per tornare all’inferno della mia diocesi, della mia parrocchia, della mia famiglia…”, ebbene quell’inferno, se c’è Gesù, è un Paradiso”. D’altra parte, in maniera paradossale, se ci fosse un

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Paradiso senza Gesù, sarebbe un inferno, cioè è la Sua presenza che fa il Paradiso, non sono gli alberi, le cascate, i fiori, i frutti, è la Sua presenza, e noi di questa presenza dobbiamo essere certi. La Sua presenza cambia il deserto in giardino, ma la Sua assenza renderà deserto anche la foresta dell’Amazzonia.

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Ottava meditazione: Quando si rilegge la crisi con Gesù.

Vi prometto di rientrare nella mezzora, in modo tale che poi ci resti un’ora di preghiera personale, prima della celebrazione eucaristica. Potremmo intitolare questo ultimo Esercizio — in fondo lo abbiamo fatto durante tutti questi giorni — Quando si rilegge la crisi con Gesù. Tante nostre crisi, infatti, se lette alla luce della nostra esperienza, di quello che sappiamo e vediamo, rischiano di portarci alla depressione, alla demotivazione, alla fuga, ci fanno entrare in situazioni intricate da cui poi è difficile uscire. È importante, invece, lasciarci guardare da Gesù in qualsiasi momento della nostra vita, perché Egli ci legga, perché Lui sa leggere bene quello che ci accade, più di quanto non possiamo fare noi da soli. Il vangelo di Emmaus vuole essere un’ulteriore carezza, per dirci che non siamo quelli delle pompe funebri, non apparteniamo alla ritualità dei morti che seppelliscono i morti, ma siamo uomini di vita e di speranza.Il padre Rossi De Gasperis — vi inviterei a conoscerle certe persone prima che passino l’eternità, anche perché è molto avanti negli anni; averle incontrate è un grande aiuto nella vita, almeno ascoltarle una volta — dice che (è un’interpretazione sua, ma autorevolissima per tutta l’esperienza che ha maturato in Terra Santa e nell’andirivieni sulla Parola) tornare a Emmaus è la tentazione costante della Chiesa, perché essa continuamente si muove tra questi due poli: Gerusalemme ed Emmaus. E quando vuole andare a Emmaus, al di là di tutte le immagini che abbiamo in mente, vuole tornare ai fasti di un tempo. Dice il padre Francesco: “Perché andavano a Emmaus?”. Non perché fosse la loro contrada, il loro non è solo un tornare indietro, (Torniamo a fare quello che facevamo prima di incontrare Gesù) come in Giovanni 21 (i discepoli tornano a pescare), ma un andare a un luogo che riporta una vittoria. Nel Libro dei Maccabei, Emmaus corrisponde a una località dove gli Israeliti riportarono una grande vittoria contro gli infedeli, e quindi è come andare a Vittorio Veneto, cantare il Piave, o, nella nostra storia della Chiesa, tornare alla battaglia di Lepanto, cioè a un momento glorioso. Tra l’altro questa casa, pensata da Gedda, mi ha fatto andare con la mente ai tempi in cui l’AC furoreggiava negli incontri in Piazza San Pietro (ero aspirante anch’io all’epoca), cioè a tempi oggettivamente gloriosi, ma ovviamente di una gloria che oggi leggiamo, almeno con la coscienza del presente, come una tentazione. Allora l’interrogativo è: “Sto ancora andando verso Emmaus o sto tornando a Gerusalemme?”. Il brano, infatti, si muove sulla doppia direzione di marcia: tornare indietro, regredire, tornare ai fasti, o tornare a Gerusalemme, che significa tornare all’Eucaristia, al pane e al vino, all’essenzialità, alla Croce, a Gesù. Tanto per essere in tema con la Parola, i due che ci hanno accompagnati in questi giorni sono in crisi anche loro, ma di una crisi senza via di uscita, una crisi col cielo addosso, come stamattina, come stanotte: pioggia continua, battente, non uno sprazzo d’azzurro. Quindi tutto è rivolto al passato: “Una volta, sì, quando si faceva la preghiera in casa, quando si viveva la castità prima del matrimonio, quando le nostre chiese erano zeppe, quando, come dice il curato di Torcy di Bernanos, i parroci comandavano con uno sguardo,

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con un movimento di sopracciglio senza bisogno di parlare”. I due vengono da un fallimento che non sono riusciti ad aprire, da una crisi senza possibilità di speranza, quindi i due verbi della crisi sono: restare, abitare la crisi (l’abbiamo già detto) e attraversare la crisi.Dobbiamo anche aiutare i nostri giovani, e non solo, i nostri fedeli, a stare dentro questo mondo, ad abitarla la crisi, la crisi matrimoniale (stiamo continuamente dentro le crisi delle coppie), la tensione genitori e figli, la tensione con le famiglie d’origine, le tensioni delle nostre parrocchie. Non si può scappare. Mentre oggi la reazione più consueta è quella: crisi = morte, crisi = mi debbo rifare una vita, anche i due vogliono rifarsi una vita. Quindi due verbi: uno è abitare, l’altro è camminare, attraversarla la crisi. La crisi un canyon, un deserto, un guado, non bisogna stare fermi, perché stando fermi si regredisce, bisogna attraversarla, non bisogna aggirarla. Sappiamo quanto certe problematiche, aggirate o rimosse o represse, poi si ripresentino in altri momenti, con altri volti, con altre maschere. Il brano, che conosciamo benissimo, ha al centro il vangelo sulla bocca dei due senza la luce della fede. In fondo, dicono tutto, cioè dicono tutto quello che riguarda Gesù: che fu nazareno, profeta, dicono anche la risurrezione, alcune delle nostre donne… e gli angeli hanno detto…, però è tutto muto, è come i colori senza il sole o i colori al buio. Ci sono, ma manca la luce che li esalti, li faccia distinguere, dia i contorni, accarezzi le curve, le linee, descriva l’architettura. Sanno tutto e non sanno niente. Se ci fate caso, questa è la condizione anche delle nostre comunità. Perlopiù, recitano il Credo, e adesso stiamo per concludere l’Anno della Fede (io lo farò stasera nella mia diocesi), sanno le cose, ma non tirano la somma, conoscono gli addendi, ma non riescono a mettere insieme i pezzi. Al centro abbiamo il vangelo, guardato da due prospettive: la prima è quella dei discepoli scoraggiati, e dunque in fuga dalla crisi, da Gerusalemme, che sanno, ma è come se non sapessero, che sanno, senza godere dell’efficacia e della consolazione, per dirla con il messaggio di stamattina, provenienti da eventi apparentemente o evidentemente fallimentari; e dall’altra lo stesso racconto, letto da Gesù. Gesù legge se stesso, esegeta di sé e delle sue vicende. Quando — questo significa leggere la crisi con Gesù — quello che io presento, Lui me lo legge dal suo versante, ecco che anche la disgrazia viene letta come una grazia, anche una colpa può essere letta come felix culpa. Noi le cose le diciamo e le celebriamo nella liturgia, ma finiscono con l’essere non viste, perché se la felix culpa dell’annuncio pasquale riguarda il peccato di Adamo deve essere applicata anche ad altro, anche al mio peccato, anch’esso può essere letto, ovviamente in una lettura a posteriori, come felix culpa che ha demolito l’orgoglio che è in te, ha fatto cadere la statua di Nabucodonosor con la testa d’oro, ma con i piedi di argilla. Anche questa crisi è una felix culpa, perché ti pone nella condizione di affidarti alla misericordia, di sentirti debole, perché quando sono debole è allora che sono forte. Quindi un vangelo, quello di Gesù, ma poi anche la storia della mia vita, letti da questi due versanti: quello di Emmaus e quello di Gerusalemme sulla bocca dei due fuggiaschi, del pellegrino che dolcemente, in una maniera dimessa, si accompagna, chiedendo, facendo domande, mentre Lui potrebbe dare risposte.

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Non ne abbiamo il tempo, ma anche qui mi sembra che dobbiamo raccogliere un messaggio pastorale. Cerco sempre questi addentellati, cioè chiedo a Gesù di insegnarmi come si fa pastorale. Questo aspetto scardina anche tante prassi pastorali: Gesù mi dice che si fa pastorale facendo domande, interessandoci, accompagnandoci, facendo un giro per le strade della parrocchia, non lanciando scomuniche, non facendo affermazioni con il punto esclamativo, ma piuttosto utilizzando più di sovente quell’interrogativo. D’altra parte, anche sul piano umano di una lettura della cultura ci sono più domande di quante risposte non siano disponibili, e il domandare è più importante, forse, dell’affermare. Lo dice anche la sentinella, cui sono in qualche maniera legato, del profeta Isaia: Se volete domandare, domandate quanto ancora resta della notte? Se volete domandare, domandate, cioè fate domande, e, forse, le domande le dobbiamo fare anche noi ai nostri parrocchiani, ai nostri utenti, per dirla in termine laico. “Sei felice? sei contento? ti sta bene? sei soddisfatto? che dici della tua vita o di questo evento che ha vissuto la nostra comunità? Come li leggi?”. Ovviamente, il discrimine tra queste due letture è in riferimento alla Parola, quindi torna, sta scritto, come nelle tentazioni. Il punto diciamo di forza di quest’architettura teologica, che è il vangelo di Emmaus, come molti di voi sanno anche dolorosamente, è il verbo oportebat, era necessario. Sciocchi e tardi di cuore. Tardi di cuore. Noi pensiamo che ci siano dei ritardi mentali, in realtà ci sono anche dei ritardi cardiaci, e non perché il cuore batta più lentamente, come quello degli agonizzanti, ma perché non è pronto a lanciarsi nel salto della fede. Com’è dolce Gesù qui, ma anche un po’ triste. Sciocchi e tardi, sciocchini, diremmo noi in una maniera più dolce: Non avete ancora capito niente — lo dico di me, ovviamente, eh!, non hai ancora capito? non ti è ancora chiaro —. Dopo tanti anni, da tanto tempo sono con voi, e ancora non mi conosci, Filippo? Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Qua c’è un’esigenza, una necessità, non è un caso, c’è una necessità. Uno di voi mi ha detto giustamente quasi in lacrime: “Ma perché la Croce? Quando mi fermo davanti a…, perché questo tracciato?”. Noi non abbiamo una risposta. Quando l’ho ascoltato, pensavo a Bernanos, con il suo essere ossessionato dall’esperienza dell’orto, letteralmente ossessionato, la trovate nel Dialogo delle Carmelitane, nel Diario di un Curato di campagna, in tante opere, cioè i grandi credenti sono stati presi da una scena, o quella del Crocifisso che grida l’abbandono del Padre o quella di Gesù nel Getsemani (Forse un quadro di Bernanos in questa Casa ci starebbe bene, per quello che lui ha vissuto e sentito e sofferto del disorientamento e dell’abbandono di Gesù nell’esperienza del torchio). Ecco, la Croce è una necessità. E questo non per entrare in un “dolorismo”, cioè la croce è la chiave, quella intorno a cui gira tutto, e senza la quale tutto perde senso, si sgretola: Gesù non è venuto a fare i miracoli, a moltiplicare i pani, non è venuto a guarire, altrimenti sarebbe stato un grande fallito, visto che non ha guarito tutti, non ha sfamato tutti. Il libro dei segni, dice Giovanni. Gesù è venuto per la salvezza, ma la salvezza passa attraverso la necessità di cui hanno già parlato. Isaia nei Canti del Servo dice: Dalle sue piaghe siamo

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stati guariti. Possibile essere guariti da una piaga? È possibile che un dolore generi una gioia, che una morte sia prologo e pronao di vita? Noi diciamo: “Sì, perché questa è la nostra fede, e noi non siamo agenti sociali”. Anche noi, in questo momento, per esempio, corriamo il rischio di diventare agenzie di supporto alle povertà emergenti e imperanti; lo dobbiamo fare, certo, ma dobbiamo anche aver chiaro che non è questo il nostro specifico, non siamo chiamati a imbandire mense per tutti, non abbiamo né i soldi né le possibilità, e anche se lo facessimo per tutti non avremmo risolto quello che è lo specifico del nostro ministero, che è: era necessario! Da questo punto di vista siamo le persone più insignificanti di questo mondo, e le più essenziali. Niente, come un prete, quanto un prete è un nulla. Spero che ne abbiate coscienza, un nulla rispetto a quelli che vengono a bussare: “Parroco, il certificato…, parroco e la bolletta…, e la crisi…, e il vicino di casa, e la divisione dell’eredità”. È il vangelo riedito nelle nostre parrocchie. E noi queste cose le facciamo, ma, attenti!, non sono questo il nostro specifico. Dunque, le persone più inutili siamo noi, ma al tempo stesso siamo le più essenziali. Paradossalmente, l’inutilità del prete e della Chiesa è il fondamento della sua importanza, perché, anche se non sfamiamo, non risolviamo i problemi, non ricongiungiamo i coniugi, non riusciamo a raggiungere tutte le povertà e a rispondere a tutte le emergenze, siamo i depositari di questa Notizia, che è una Croce, cioè un fallimento, una crisi. Può essere redentiva, perché lo è stata la Croce e il fallimento di Gesù di Nazaret. Da questo punto di vista, è soprattutto sul letto di morte che le cose grandi si capiscono. Sant’Ignazio ci invita a fare discernimento dentro la bara, dietro i cancelli del cimitero, non per un romantico senso della morte (i Romantici andavano a fare le loro conventicole nei cimiteri), no, perché, divini, comprendiamo quello che è prima, perché lì l’uomo è veramente se stesso, cioè un povero, uno che sta precipitando, e in questo precipitare, in questa caduta libera c’è una mano che lo prende, lo sostiene, e lo innalza. Questo, cari fratelli, è il vangelo, e a questo siamo chiamati. Tra meno di poche ore saremo nelle nostre parrocchie a suonare campane, ad accendere candele (molti di noi fanno anche i sacristi e non ci tiriamo indietro per qualsiasi servizio, anche il più umile), ma siamo lì, come negli avamposti della storia, in fortificazioni apparentemente inutili agli occhi del mondo, come quello del Deserto dei Tartari. In realtà, l’Eucaristia, che celebreremo tra un’ora, e quelle che celebreremo stasera nelle nostre parrocchie, con quattro vecchie sdentate che non capiscono niente, ma che sono la Chiesa e hanno tante cose da insegnarci, quello che facciamo, inutile, è l’unica cosa essenziale per cui valga la pena di vivere e per cui un presbitero deve dire: “Beh, nel segno del pane spezzato, come i discepoli di Emmaus, scoraggiati o alla ricerca del monumento della vittoria, c’è Gesù, c’è ancora, c’è”. VederTi, Signore, vederTi risorto, il cuore sta per impazzire, Tu sei ritornato, Tu sei qui tra noi, e adesso Ti avremo per sempre. Siamo gli irriducibili di questa speranza, e vogliamo chiedere un supplemento di fede, per tornare a essere gli uomini più inutili e più essenziali.

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Introibo Omelia: Gratuità.

I giorni degli Esercizi sono come un’immersione nella grazia della Pasqua, una sorta di Settimana Santa. Con questa Eucaristia celebriamo il sigillo, la conclusione e anche l’immissione con rinnovato impegno nel nostro ministero. Diciamo grazie per tutto quello che il Signore ha fatto in noi e attraverso di noi; ci ha riposti accanto al sogno da cui siamo partiti e un po’ più vicini al suo sogno su di noi. Non solo abbiamo in cuore un sogno, ma anche Lui ha un sogno per ciascuno di noi, che ha un nome e si chiama santità. C’è una sola grande tristezza — diceva Léon Bloy — ed è quella di non essere santi. Noi non lo siamo ancora, non lo siamo pienamente e vogliamo chiedere perdono di questa distanza che c’è ancora tra ciò che siamo e ciò che dovremmo essere.La cupola, che gocciola per la pioggia, ci impone (ma sarà provvidenza anche questa) di celebrare l’Eucaristia con un sì da qui, per continuare ad avere davanti agli occhi del cuore l’immagine da cui, in qualche maniera, è stato originato il cammino che il Signore ci ha fatto percorrere. E questa Parola ultima, tra l’altro stranamente (c’è una diretta connessione tra la Prima Lettura e il Vangelo, perché, come sapete, c’è una lettura continua) presenta il tema della purificazione e della riconsacrazione che per noi è quanto mai opportuno, perché è quello per cui siamo venuti qui. Vi accorgete che il reiterare il gesto della consacrazione più volte nella storia di Israele, come nella Storia della Chiesa, ecclesia semper reformanda, ci pone nel vivo dell’impegno della conversione, cioè la Chiesa deve convertirsi continuamente al suo Signore, purificandosi, scrollandosi di dosso la polvere che accumula durante il cammino, ed è così anche per noi sacerdoti, che tra tante faccende corriamo il rischio di perdere di vista il perché siamo stati chiamati e quale sia lo specifico della nostra vocazione. La purificazione del tempio, sia pure violenta da parte di Gesù, richiama l’imperativo della preghiera. La mia casa sarà casa di preghiera, è stata fatta per questo, ma poi, insieme con la preghiera, intervengono tanti altri fattori. La storia, come dice De Gregori, entra nelle stanze senza bussare, e entra anche nelle nostre chiese e non sempre lascia residui di bene. Spesso nella Chiesa e nella vita di ciascuno di noi lascia residui non armonizzabili con il vangelo, con la santità, con la sacralità di ciò che siamo, di ciò che dobbiamo essere e di ciò che celebriamo, e quindi, di tanto in tanto, urge il dovere di fare pulizia, riportare all’origine, riconsacrare, ridare a Dio ciò che è di Dio, cioè tutto. Voi invece ne avete fatto un covo di ladri, e qui solo di striscio mi riferisco a quello che in questo momento ci preme di più, cioè a quelle aderenze, al potere del denaro che entra persino nelle nostre chiese, nella liturgia, e si fa tanta fatica ad arginarlo anche nella mente della gente. Racconta tale difficoltà pure la novella di Pirandello che vi ho consegnato qualche sera fa: separare l’atto di culto a Dio, il sacrificio di Gesù sulla Croce da qualsiasi interesse. Sul tema della gratuità è stata scritta un’opera unica, quella di Luisito Bianchi, defunto da poco (2012), un sacerdote che ha vissuto vicende anche particolari, tumultuose, un prete operaio, morto, credo, mentre era cappellano all’abbazia di Viboldone (San Giuliano Milanese). Bianchi, quando ero seminarista insieme con voi, scrisse e pubblicò per Morcelliana editore (riediz. Gribaudi 2004), adesso non so se sia ancora reperibile, questo testo: Dialogo sulla gratuità, una

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sorta di collatio monastica sul tema, a partire dai vangeli, da San Paolo, dai Padri. Conviene leggerlo e comunque chiederci, di tanto in tanto, quando tale dimensione risplenda e quando entrino elementi spuri ad appesantire e a rappresentare altro. La nostra vita deve essere all’insegna della gratuità, perché gratuita è la salvezza. Gesù stesso, nel discorso missionario al capitolo 10 del vangelo di Matteo, ci ricorda: gratuitamente avete ricevuto gratuitamente date. E questo non riguarda solo il denaro, ma anche certe aderenze, certe appartenenze di gruppi, di conventicole che non rendono libere le persone; persino certe dinamiche spirituali, di paternità, intendo, a volte legano, anziché liberare, cioè il figlio deve sentirsi libero e anche giovarsi di un altro confessore. Anche questo rientra nella gratuità: “Ti ho accompagnato per un tempo, può darsi che sia cominciata un’altra stagione della tua vita, per cui tu abbia bisogno di un’altra guida. Vai, resteremo in comunione di preghiera, di affetto, ma non ti devi sentire legato”. Questo ed altro diventano motivo di verifica, di conversione dinanzi a questo gesto di Gesù e poi, restando alla Prima Lettura, troviamo la liturgia di riconsacrazione di un tempio profanato. Da chi è stato profanato? Dai pagani, da mani immonde, da abitudini, mentalità, stili che non si addicevano a quel luogo che Gesù dice essere casa di preghiera. Lo sforzo che più si va avanti negli anni e più diventa difficile (a volte è più facile per i giovani che non per i sacerdoti anziani) sta nel mantenere lo stile della propria vocazione. Facciamo continue lotte anche con i seminaristi, con i giovani preti per far capire loro (al di là del peccato, eh, una cosa più profonda e più drammatica, per certi aspetti) come certi stili di vita non si addicano alla loro vocazione, perché ogni stato di vita ha anche il suo stile. Cosa significa stile? Significa come arredo la casa, quali oggetti posseggo, quali libri leggo, quali film vedo, quale musica ascolto, come scandisco il tempo, come faccio le vacanze. Dio sa quanto certe vacanze fatte dai noi preti siano vacanze di tutt’altro stampo, pur senza commettere peccato; sono vacanze gaudenti, al limite potrebbero essere sopportate nella vita dei nostri parrocchiani, ma non certamente nella nostra. E quindi la verità della mia vita, della mia vocazione, del mio essere prete, per noi, o l’essere chiamati al sacerdozio per i seminaristi, si deve accompagnare sempre di più a uno stile confacente alla verità, altrimenti si creano delle crasi, delle stonature, ecco, per dirla oggi con Santa Cecilia, protettrice dei musicisti e di quanti intendono realizzare un’armonia nella propria vita. “Armonia” significa che dalla a alla zeta — certo, delle note false ci saranno sempre —, nelle scelte fondamentali, economiche, affettive, quelle del tempo, della vacanza, dei libri, della musica, dei video, di internet, c’è un’armonia, a partire, direbbe Bonhoeffer, dal cantus firmus, che è ciò che la Parola Dio ha posto nella mia esistenza. Quindi non bisogna amare solo la propria vocazione (questa è solo una caratterizzazione cenciniana), ma anche lo stile di vita inerente alla propria vocazione. Non si può tornare sempre alle due di notte, non si può fare l’alba, magari in preghiera sì, ma intendete a cosa io mi riferisca; una tantum può anche capitare, ma che io vada a letto alle due di notte significa un altro stile con tutte le conseguenze: non reciterò il Breviario, arriverò sull’altare assonnato, innervosito, e quindi tutta la giornata prenderà un altro avvio, e,

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pian piano, se queste discrepanze diventano consuete, consuetudine, sempre più mi allontanerò da quella che è la verità di me. Allora gli Esercizi sono questa consacrazione. È bello che questa parola ci colga stamattina: perché siamo venuti qui? Per essere riconsacrati, perché questo tempio, dove erano entrati i pagani, dove era entrato qualche sito internet, un’abitudine, una passione, adesso venga riposto nella sua bellezza, perché è casa di preghiera, ed è casa di preghiera anche il mio cuore, il mio corpo, il mio tempio, la mia Canonica. Non può essere casa di preghiera solo la mia chiesa parrocchiale. Quindi occorre fare lo sforzo, che tra l’altro appartiene alla vita spirituale, alla sua ferialità, di riconoscere, come dice Sant’Ignazio, gli aspetti disordinati. Lo stesso concetto con un altro linguaggio. Gli affetti disordinati, di cui parla Ignazio, sono quelli non ordinati al fine per cui sei stato creato: lodare, riverire, servire Dio e salvare la tua vita, la tua anima in questo mondo. Gli affetti disordinati sono quelle cose che entrano nella nostra vita di preti e nulla hanno di presbiterale, a volte nemmeno di cristiano. Ecco, riconosciamo questi affetti e chiediamo in questa Eucaristia di esserne liberati. Abbiamo sperimentato e riassaporato, sia pure brevemente, in questi giorni la gioia di appartenerci, di essere salvati, come abbiamo cantato nel salmo 50 questa mattina. Rendimi la gioia di essere salvato, perché, se non c’è gioia, cari fratelli, non c’è possibilità che ci convertiamo, non c’è se non riassaporiamo la gioia, se non faccio assaporare a un giovane la gioia di essere un giovane cristiano, di pregare, di vivere sia pure controcorrente (sono martiri questi nostri giovani, ce ne sono grazie a Dio!) la castità, ma non come impegno, peso, croce da portare, ma come una gioia. Se lo farai, troverai, dopo le difficoltà iniziali, una pace, una gioia, una freschezza, un’energia, una voglia di vivere, di essere al servizio degli altri, una gioia che non troveresti da nessun’altra parte. Diciamo grazie al Signore che ci ha convocati qui, grazie perché ci ha dato quest’opportunità. Sento anch’io di dirvi grazie per la lucidità e per aver sopportato certe mie intemperanze. Grazie! Al grazie, e quindi celebriamo il dono per il datore di ogni dono, deve accompagnarsi anche l’impegno a custodire la grazia, perché, usciti fuori, una ventata, un colpo di vento più forte ce la porta via, quindi occorre trovare anche con il padre spirituale qualche impegno, qualche espansione, qualche espediente che ci aiuti a far radicare la grazia, perché sappiamo bene che siamo sottoposti a tante tensioni e tentazioni. In questo senso — e vado verso la conclusione, in una maniera meno importante ma che un po’ mi preme — vorrei che vi affezionaste agli Esercizi spirituali. Ci sono alcuni fra voi che conosco che fanno gli Esercizi due volte all’anno, perché adesso lo stile di vita caotico nel quale viviamo esaurisce la grazia, prima del tempo, prima di quanto accadesse vent’anni fa, per cui alcuni sono impegnati agli Esercizi, magari in una forma più breve, per tre giorni, due volte all’anno. Non vi chiedo questo, ma impegniamoci a celebrare questa grazia una volta all’anno in una maniera sempre più radicale. Secondo punto: impegniamoci a utilizzare per i nostri fedeli questa forma, perché, vedete, sarà che io sono un fan degli Esercizi, ma quello che si ottiene in un corso di Esercizi non si ottiene in un anno di catechesi. Questo, spero, che lo condividiate tutti, anche proprio per un motivo di distrazione. Vorrei vedere

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quale parrocchia tra le vostre fa oggi un anno di catechesi come si faceva un tempo. È impossibile! Gli ischitani possono confermarlo; io ricordo Capri, dove c’era uno spazio così esiguo di intervento pastorale che andava (immagino sia così anche per voi ischitani) da novembre a febbraio, basta, perché dopo arrivava l’orda dei turisti e tutti dovevano andare a fare i baristi, i camerieri. Lo spazio è esiguo, ma questo non riguarda solo le diocesi e le parrocchie a vocazione, come si ama dire, turistica, ma riguarda tutte le nostre parrocchie. Si sta restringendo il tempo delle catechesi. Voi, dopo Pasqua, riuscite ancora a fare qualcosa? Lo chiedo, ma la mia percezione è che dopo Pasqua, se va bene, ci si rivede a ottobre. Che significa? Si vanno restringendo i tempi, e allora conviene (e gli Esercizi si pongono come questa possibilità) intervenire in profondità, non potendo più intervenire in estensione. Valgono più tre giorni di full immersion di sei mesi di catechesi una volta a settimana; la settimana dopo state certi che i nostri bambini, ragazzi, adolescenti, giovani, e adulti impegnati non ricorderanno quello che si è detto la settimana precedente. E allora, se ciascuno di voi (questa è la provocazione che poveramente e semplicemente, senza alcuna autorità, mi permetto di offrirvi) fa un corso di Esercizi spirituali, anche solo per un piccolissimo gruppo di giovani, di adulti, le nostre parrocchie cambiano volto e così anche le nostre diocesi.Continuiamo a fare la catechesi classica, ma facciamo innamorare sempre più — ed è possibile, io l’ho fatto da parroco per ventisette anni e andava bene — anche gli adulti, gli anziani, i giovani; facciamo innamorare le persone di questa formula, che tra l’altro non è stata inventata oggi, ci viene dall’antichità, perché in questa maniera potremo essere più incisivi. D’altronde, il prete che predica gli Esercizi è il primo beneficiario degli Esercizi spirituali, ovviamente, non andiamo a fare una vacanza e poi diciamo anche una messa, una meditazione, così, non serve. Io soffrivo terribilmente quando a dei Campi scuola, da parroco, si facevano meravigliose celebrazioni, tutti gementi e piangenti, poi si andava a tavola e… finita, persa la grazia! Questo è il motivo per cui ho insistito sul silenzio (più o meno ci siamo, faremo meglio la prossima volta) perché il silenzio inchioda alla Parola, non fa evadere, mentre la telefonata, la battuta (con una battuta si può demolire un’omelia) è un’evasione. E allora, se per tre giorni il mio gruppo di giovani, di adulti, di terza età, quello che volete, con i preti, si pone davanti alla Parola senza possibilità d’evasione, non può che venirci bene. Magari qualcuno di voi si lancerà. Ho sentito con piacere che alcuni hanno già questo “vizio” di organizzare gli Esercizi per la propria parrocchia, per i propri gruppi. Continuate, e quelli che non l’hanno mai fatto, anche se si sentono impari, si lancino. Il sottoscritto ha incominciato nel 1981, appena a un anno e mezzo dalla sua Ordinazione, quindi sono stato lanciato, per grazia di Dio, in questo campo e vi assicuro che i miracoli che ho visto agli Esercizi non li ho visti in alcun Campo scuola, in alcuna novena, in alcun triduo, in alcun ciclo di catechesi, anche più o meno continuativo nelle parrocchie. Grazie! Chiediamo l’intercessione di Santa Cecilia perché la nostra vita possa essere più armoniosa, perché ci siano pause, note e accordi e ci siano il cantus firmus e il nostro controcanto, la nostra armonizzazione. La nostra sensibilità,

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la nostra cultura entri nella partitura che è il vangelo, perché possiamo esserne sorretti, ma anche umilmente portare il nostro apporto. Siamo chiamati a questo.

F I N E

Premessa Prima meditazione: Abitare il deserto.Omelia: Dedicazione Basiliche Pietro e Paolo.Compieta: Totus, Solus, Alius.Lodi: Tornate, prigionieri della speranza.Seconda meditazione: Quando il Maestro se ne va.Omelia: Zaccheo: Dio in casa dell’uomo.Terza meditazione: Quando chi ti ama ti intralcia.Vespri: Parlami Tu, Signore.Lodi: Nel pericolo la medicina.Quarta meditazione: Quando soffia il vento della tentazione.Omelia: Una forza contatto con la Storia.Quinta meditazione: Quando ti trovi a mani vuote.Vespri: Guardare, non vedere.Lodi: Siamo Dedicati.Sesta meditazione: Quando si spengono le luci.Omelia: Gesù piange.Settima meditazione: Quando ti senti tradito.Vespri: Dono del Signore sono i figli.Lodi: Consolati per consolare.Ottava meditazione: Quando si rilegge la crisi con Gesù.Introibo Omelia: Gratuità.

Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.

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