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1 Ultime notizie dal mondo 1-15 Marzo 2007 (http://www.rivistaindipendenza.org/) a) Irlanda del Nord. Una messa a punto politica, a partire dall’importante esito delle elezioni del 7 marzo. Cfr. 3, 9, 10, 13, 14 marzo. Due simpatiche notizie da Corsica (13) ed Euskal Herria (1). b) Torniamo sulla questione delle basi, dopo l’importante manifestazione del 17 marzo a Roma «per il ritiro delle truppe italiane dall’Afghanistan e da tutti i teatri di guerra» e «in sostegno alla resistenza delle popolazioni in lotta, da Vicenza ai paesi invasi ed occupati». Vediamole dal cuore dell’imperialismo statunitense, in questa fase egemone: cfr. USA 9 marzo. c) America Latina. Viaggio di Bush e controviaggio di Chávez. Un occhio al nodo dell’agrocombustibile (cfr. scarrellata di notizie al 12 su Brasile e USA ) vista a Washington come alternativa strategica al petrolio. Venezuela (cfr. 4 e 12) prosegue la sua anti-imperialista geopolitica: vedere Cuba (1 e 2), Nicaragua (13) Bolivia (2), Argentina (2). Un occhio anche alla Colombia: attacco FARC, connessione istituzioni-paramilitari e un ricordo del prete-guerrigliero Camilo Torres Restrepo (il tutto al 3 e al 15) e ancora, sul fronte interno, a Bolivia (8), Venezuela (1). Assolutamente non irrilevanti i duri scontri interni istituzionali in Ecuador (8 e 14). Sparse ma significative: Israele. L’attacco al Libano era programmato ben prima del sequestro –ad opera di Hezbollah– di militari di Tel Aviv penetrati in territorio libanese. Ad ammetterlo è niente-po- po-di-meno-che l’attuale primo ministro Ehud Olmert. Stando alle sue parole pare proprio che lo sconfinamento armato (peraltro non occasionale) di un’unità israeliana non fosse casuale ma mirasse a creare il casus belli. Dal Libano nessuna sopresa in merito. Il tutto all’8. Intanto un ex presidente USA, Jimmy Carter, e l’inviato ONU nei Territori Occupati palestinesi accusano di apartheid e colonialismo Israele (cfr. 10 e 13). E tanto per non smentirsi in fatto di aggressività, prove generali di bombardamento sull’Iran a Cipro (cfr. Israele. 8). La Siria teme e si sta attrezzando di conseguenza, se è fondato quanto dicono i servizi segreti israeliani (9). Sul fronte palestinese? Una bambina usata come scudo umano dai militari israeliani (9) e il governo di unità nazionale palestinese (15) che smorza per adesso le aspettative di guerra civile su cui lavorano USA (cfr. 6) ed Israele. Sull’Iraq. Spettro Vietnam (2). Si parla sempre più di exit startegy (13), mentre gli USA costruiscono carceri nel paese “liberato” (14) e intanto concorrono ad aumentare il numero degli sfollati (5). In relazione alla legge sul petrolio cfr. Gran Bretagna / Iraq al 10 marzo. Ma sul nucleare Londra parla chiaro: cfr. Gran Bretagna. 15 marzo. Iran. Nuova stretta nella risoluzione in arrivo (15); Mosca si mostra compiacente con gli USA (cfr. Russia / Iran. 14 marzo). Sull’Iraq cfr. USA / Iran all’11. Infine Iran / Palestina (5 marzo) e Iran / Arabia Saudita (4) Nepal. Il nodo della regione del Terai (14 marzo). Tra l’altro: Germania (9 marzo) Sahara Occidentale (7 marzo) Somalia (6, 11, 14 marzo) Siria (9 marzo) e Unione Europea / Siria (15 marzo) Polonia / Ucraina (6 marzo)

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Ultime notizie dal mondo 1-15 Marzo 2007

(http://www.rivistaindipendenza.org/)

a) Irlanda del Nord. Una messa a punto politica, a partire dall’importante esito delle elezioni del 7 marzo. Cfr. 3, 9, 10, 13, 14 marzo. Due simpatiche notizie da Corsica (13) ed Euskal Herria (1). b) Torniamo sulla questione delle basi, dopo l’importante manifestazione del 17 marzo a Roma «per il ritiro delle truppe italiane dall’Afghanistan e da tutti i teatri di guerra» e «in sostegno alla resistenza delle popolazioni in lotta, da Vicenza ai paesi invasi ed occupati». Vediamole dal cuore dell’imperialismo statunitense, in questa fase egemone: cfr. USA 9 marzo. c) America Latina. Viaggio di Bush e controviaggio di Chávez. Un occhio al nodo dell’agrocombustibile (cfr. scarrellata di notizie al 12 su Brasile e USA) vista a Washington come alternativa strategica al petrolio. Venezuela (cfr. 4 e 12) prosegue la sua anti-imperialista geopolitica: vedere Cuba (1 e 2), Nicaragua (13) Bolivia (2), Argentina (2). Un occhio anche alla Colombia: attacco FARC, connessione istituzioni-paramilitari e un ricordo del prete-guerrigliero Camilo Torres Restrepo (il tutto al 3 e al 15) e ancora, sul fronte interno, a Bolivia (8), Venezuela (1). Assolutamente non irrilevanti i duri scontri interni istituzionali in Ecuador (8 e 14). Sparse ma significative:

• Israele. L’attacco al Libano era programmato ben prima del sequestro –ad opera di Hezbollah– di militari di Tel Aviv penetrati in territorio libanese. Ad ammetterlo è niente-po-po-di-meno-che l’attuale primo ministro Ehud Olmert. Stando alle sue parole pare proprio che lo sconfinamento armato (peraltro non occasionale) di un’unità israeliana non fosse casuale ma mirasse a creare il casus belli. Dal Libano nessuna sopresa in merito. Il tutto all’8. Intanto un ex presidente USA, Jimmy Carter, e l’inviato ONU nei Territori Occupati palestinesi accusano di apartheid e colonialismo Israele (cfr. 10 e 13). E tanto per non smentirsi in fatto di aggressività, prove generali di bombardamento sull’Iran a Cipro (cfr. Israele. 8). La Siria teme e si sta attrezzando di conseguenza, se è fondato quanto dicono i servizi segreti israeliani (9). Sul fronte palestinese? Una bambina usata come scudo umano dai militari israeliani (9) e il governo di unità nazionale palestinese (15) che smorza per adesso le aspettative di guerra civile su cui lavorano USA (cfr. 6) ed Israele.

• Sull’Iraq. Spettro Vietnam (2). Si parla sempre più di exit startegy (13), mentre gli USA

costruiscono carceri nel paese “liberato” (14) e intanto concorrono ad aumentare il numero degli sfollati (5). In relazione alla legge sul petrolio cfr. Gran Bretagna / Iraq al 10 marzo. Ma sul nucleare Londra parla chiaro: cfr. Gran Bretagna. 15 marzo.

• Iran. Nuova stretta nella risoluzione in arrivo (15); Mosca si mostra compiacente con gli

USA (cfr. Russia / Iran. 14 marzo). Sull’Iraq cfr. USA / Iran all’11. Infine Iran / Palestina (5 marzo) e Iran / Arabia Saudita (4)

• Nepal. Il nodo della regione del Terai (14 marzo).

Tra l’altro: Germania (9 marzo) Sahara Occidentale (7 marzo) Somalia (6, 11, 14 marzo) Siria (9 marzo) e Unione Europea / Siria (15 marzo) Polonia / Ucraina (6 marzo)

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Ucraina (1 marzo) Afghanistan (9, 11 marzo) Russia (15 marzo) India (15 marzo) Cina (9 marzo) e Cina / USA (5 marzo). Corea del Nord (15 marzo) USA (1 marzo)

• Euskal Herria. 1 marzo. Arresti domiciliari per Inaki de Juana Chaos, detenuto dell’ETA da 115 giorni in sciopero della fame. Lo hanno confermato fonti del ministero dell’Interno. Le autorità penitenziarie spagnole hanno deciso di scarcerare il detenuto «per ragioni umanitarie». Le fonti hanno precisato che de Juana sarà dapprima trasferito in un ospedale per poi tornare a casa. De Juana, divenuto un simbolo del movimento pro amnistia basco, protestava per una condanna a 12 anni, ridotta a tre, per reati di opinione (articoli di stampa) imputatigli mentre era in carcere. Aveva già trascorso 18 anni. Secondo de Juana e la sinistra indipendentista, la seconda condanna è solo servita ad evitare che uscisse di prigione, sotto la pressione delle destre. Negli ultimi mesi de Juana veniva alimentato con una sonda ma la scorsa settimana si era opposto con forza a tale misura costringendo alla sospensione del trattamento, poi ripreso ammanettandolo al letto.

• Ucraina. 1 marzo. Tymoshenko incontra a Washington e New York organismi pubblici e

privati –mass media, banche, think tanks (pensatoi)– e alte cariche accademiche e governative, tra cui il vice-presidente Dick Cheney e il Segretario di Stato Condoleezza Rice. L’obiettivo di Yulia Tymoshenko, oggi all’opposizione in Ucraina, è confermare che la Rivoluzione Arancione non è morta e che la sua squadra lotterà per sottrarre l’Ucraina alle iniziative filo-russe dal governo Yanukovich.

• Ucraina. 1 marzo. Le prospettive di integrazione dell’Ucraina nella NATO sono uno dei

temi caldi del momento. Dai due vertici dello Stato non arrivano che dichiarazioni discordanti. Yanukovich ne ha negato più volte l’opportunità (settembre 2006 a Bruxelles; a dicembre, a Washington, durante l’incontro con il Segretario di Stato USA Condoleezza Rice), e lo ha ribadito nei giorni scorsi, appellandosi al volere della popolazione. Sul fronte opposto, Yushchenko afferma che l’ingresso nella NATO non è altro che il naturale sbocco al processo di ricerca di un sistema di sicurezza collettivo, nel perseguire il quale l’Ucraina dovrebbe pensare più ai propri interessi nazionali, che ai timori e alle reazioni dei paesi vicini. Anche il Ministro della Difesa Anatoli Gritsenko, suo alleato, ne sostiene l’inevitabilità, negando la necessità di consultare la popolazione con un referendum. Oltre la metà dell’opinione pubblica ucraina si dice infatti ancora contraria all’ingresso nella NATO.

• Ucraina. 1 marzo. Questione ancor più spinosa è la cooperazione militare con gli USA. Kiev nega di avere alcun ruolo. Di fronte all’irritazione russa sollevata dai piani USA di dispiegare radar e intercettori antimissilistici in Polonia e Repubblica Ceca, il governo ucraino ha voluto dimostrare la propria estraneità e una certa indignazione per non essere stato consultato in merito. La costituzione ucraina bandisce il dispiegamento di basi militari straniere sul territorio del paese. Secondo Yanukovich, gli USA avrebbero dovuto informare sia Kiev che Mosca prima di prendere una tale decisione. In un’intervista rilasciata alla vigilia del suo incontro con la cancelliera Angela Merkel, il Primo Ministro ha descritto il suo paese come un ponte ideale tra UE e Russia, per il quale la cooperazione in tema di energia, trasporti, “lotta al terrorismo” e ai traffici illeciti è fondamentale su entrambi i versanti, russo ed europeo. Per questo, la retorica anti-russa che l’opposizione solleva con sempre più insistenza potrebbe, secondo Yanukovich, non solo destabilizzare il paese ma ritorcersi pericolosamente contro i suoi stessi interessi.

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• Ucraina. 1 marzo. Minoranze russe in alcune zone del paese. Yanukovich sta da tempo lavorando a una serie di leggi che, in linea con la Carta Europea delle Lingue Minoritarie o Regionali, riconoscano e regolino l’uso del russo almeno nelle regioni sud-orientali del Donetsk, dove la popolazione russofona è fortemente discriminata. La primavera scorsa la sezione locale del Partito delle Regioni aveva di propria iniziativa dichiarato il russo “lingua regionale” e chiesto al governo di invertire la politica di “ucrainizzazione” della cultura (dal gennaio 2006 i film russi devono obbligatoriamente essere doppiati in ucraino) coerente con il progetto di Yushchenko di fare della lingua ucraina il vero collante nazionale. Lo status della lingua russa è stato fin dall’inizio uno dei principali pomi della discordia tra le due fazioni politiche, che potrebbe eventualmente sboccare in un referendum volto a riconoscere il russo quale seconda lingua ufficiale. Pare che la bocciatura del nuovo Ministro degli Esteri proposto da Yushchenko sia stata motivata proprio con il suo ostentato rifiuto di parlare il russo e di servirsi invece di un interprete che traduce i suoi discorsi dall’ucraino. Secondo il Primo Ministro Yanukovich simili discriminazioni si riscontrano anche nei costi dei servizi pubblici fondamentali tra regioni differenti, ennesima prova della forte politicizzazione della vita pubblica, nonché specchio del confronto politico in atto tra le due fazioni rivali.

• Ucraina. 1 marzo. In campo energetico, dopo la secca smentita di Kiev in merito alla creazione di un consorzio per la gestione congiunta russo-ucraina delle pipelines per il trasporto del gas, definita da Putin un “rivoluzionario sviluppo” nelle relazioni tra i due paesi, Kiev torna a pensare a una “strategia energetica europea”, imperniata sull’asse UE-Asia Centrale. Il presidente Yushchenko è d’accordo con il suo omologo lituano Valdas Adamkus sulla necessità che i paesi di “transito” delle attuali rotte del gas e del petrolio centro-asiatico uniscano i propri sforzi per costituire una fonte di approvvigionamento alternativa a quella russa. Lo scopo non è di sostituirsi ad essa, ma di consentire un atterraggio morbido qualora questa dovesse decidere, come successo l’inverno scorso, di tagliare i rifornimenti. Sorprendentemente tale accordo comprende un terzo paese: la Bielorussia, accomunata all’Ucraina dall’aver improvvisamente scoperto la propria scomoda dipendenza dal vicino russo. Significativo è anche l’avvio dei colloqui con l’Uzbekistan per l’incremento delle sue forniture di gas all’Ucraina, che oggi ammontano a circa 2 miliardi di metri cubi annui, pari al 10% delle sue esportazioni totali. Yanukovich si recherà nella capitale uzbeca, Tashkent, nell’aprile 2007 per concludere l’accordo, che dovrebbe concretizzarsi nonostante l’Ucraina rappresenti, per il presidente uzbeko Islam Karimov, il prototipo di quel tipo di rivoluzioni colorate di cui Tashkent ha paura. Avere Yanukovich come interlocutore potrebbe tuttavia facilitare il dialogo, in aggiunta al fatto che, come molti analisti pensano, l’accordo vedrà la luce solo previo l’almeno tacito assenso del Cremlino.

• USA. 1 marzo. Impeachment per il vicepresidente USA Dick Cheney? Ipotesi tutt’altro che

peregrina in conseguenza del caso Libby, l’ex capo dello staff di Cheney e consigliere per la sicurezza nazionale accusato di reato per aver svelato alla stampa lo status di agente della CIA di Valerie Plame. Dopo il 20 febbraio, allorché la giuria si è riunita in camera di consiglio dopo cinque settimane di dibattimento, sui media USA sono apparsi diversi servizi che indicano in Cheney il vero regista della vicenda ai danni di Valerie Plame. L’ABC ha mandato in onda il 22 febbraio un servizio intitolato «Poi tocca a Cheney ? (…) Un verdetto di colpevolezza dell’ex collaboratore potrebbe suscitare inchieste penali sul conto del vice presidente Dick Cheney?». La risposta affermativa è data dal procuratore Kenneth Starr, inquirente speciale nel caso Whitewater ed ex accusatore dell’ex presidente USA Bill Clinton, secondo il quale la conseguenza ovvia del caso Libby è accertare se Cheney si sia macchiato di «ostruzione della giustizia». Uno scenario possibile è che, nel caso di condanna, l’inquirente speciale Fitzgerald possa offrire a Libby il patteggiamento, se è

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disposto a raccontare quello che sa sul vero ruolo di Cheney. Sempre la ABC ha poi mandato in onda un altro servizio intitolato “L’ossessione di Cheney”, in cui si spiega che «il processo a Libby ha mostrato un vice presidente preoccupato di liquidare le accuse di manipolazione dell’intelligence da parte dell’amministrazione Bush alla vigilia della guerra in Iraq». Il servizio continua citando le accuse dell’ambasciatore Joe Wilson, marito della Plame, secondo cui l’amministrazione aveva condotto il paese in guerra con falsi pretesti: «un attacco molto grave» che Cheney avrebbe gestito inducendo Libby ed altri ad aizzare la stampa contro Wilson.

• USA. 1 marzo. Pure l’ultimo numero di Gentlemen’s Quarterly, rivista per uomini molto

diffusa, ha pubblicato un articolo di Hylton sul vicepresidente USA, “Il popolo contro Richard Cheney”, in cui si prospettano quattro capi di accusa per l’impeachment del vice presidente. In tutta la storia degli Stati Uniti, scrive Hylton, solo 17 alti funzionari federali sono stati colpiti da impeachment. «Nel caso di George Bush vi saranno ragioni innumerevoli per non aggiungere un diciottesimo nome alla lista. Da quelle più moderate (due impeachment presidenziali consecutivi sono più un danno che un beneficio per la nazione) a quelle provocatorie (sebbene abbia sbagliato su un numero impressionante di questioni, Bush è sprovveduto oltre ogni misura per poter essere ritenuto responsabile) a quelle pragmatiche (se Bush subisce l’impeachment poi ci ritroviamo con il vice presidente Dick Cheney)(...) Ma tutto questo non vale invece per il vice presidente Cheney (...) Negli ultimi sei anni, con il paese che sprofondava nelle disavventure militari, nella follia fiscale e nello sfascio ambientale, gli errori del vice presidente non sono soltanto limitati a questi temi, ma egli ha dimostrato doppiezza, inganno e distruttività verso la democrazia americana». L’articolo passa quindi in rassegna le malefatte di Cheney, come le menzogne per istigare la guerra in Iraq, la corruzione e i rapporti con la Halliburton, l’usurpazione di poteri ben oltre quelli concessi dalla Costituzione tanto da agire di fatto come Primo Ministro. I quattro capi di accusa per l’impeachment: 1) ha deliberatamente condizionato e limitato la capacità dei servizi di raccogliere informazioni, 2) ha personalmente imbrogliato la popolazione statunitense, 3) ha deliberatamente accolto e protetto un noto criminale a danno della politica USA, ovvero Ahmed Chalabi, 4) ha mantenuto rapporti indebiti ed eticamente inammissibili con i suoi ex datori di lavoro della Halliburton e ne ha promosso programmi e interessi a scapito di quelli della popolazione statunitense.

• Cuba / Venezuela. 1 marzo. Sottoscritti accordi nel settore dell’energia, della sanità,

delll’industria agraria, dell’educazione e della preparazione del personale, nonché del finanziamento per le piccole industrie. Il presidente del Nicaragua, Daniel Ortega, ha incontrato a Caracas il presidente del Venezuela, Hugo Chávez. Chávez ha ricordato che durante la sua visita a Managua per assistere alla nomina a presidente di Ortega, era stato deciso di aprire un ufficio della Banca Nazionale di Sviluppo, Economico e Sociale del Venezuela in Nicaragua. «Ora», ha detto ancora Chávez, «si metterà a punto una linea di credito per i piccoli e medi produttori, mentre i guadagni della banca andranno alle scuole nicaraguensi, per far sì che questo paese cominci a liberarsi dal giogo neoliberista». Il Venezuela fornisce al paese centroamericano petrolio e derivati a condizioni molto favorevoli di pagamento, unite alla consegna di 32 impianti generatori di elettricità dei quali otto sono già stati sottoposti a prove di funzionamento molto positive ed incorporati al sistema elettrico del Nicaragua, mentre si prevede l’incorporazione degli altri impianti, dopo il rodaggio, nelle prossime settimane.

• Venezuela. 1 marzo. Con la Ley de los Consejos Comunales, «il popolo sta prendendo le

redini della costruzione della patria». Lo ha detto il presidente Chávez parlando di questo nuovo strumento legale, che mira a superare la democrazia rappresentativa per costruire una democrazia partecipativa.

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• Iraq. 2 marzo. Lo spettro del Vietnam sempre più reale in Iraq per le forze militari USA.

«Vittoria entro sei mesi, oppure andremo incontro a un crollo verticale nel sostegno sia politico che dell’opinione pubblica, sulla falsariga di quanto accadde in Vietnam, costringendoci a battere in ritirata». Questo, in sostanza, il monito che un gruppo d’élite di ufficiali delle forze USA in Iraq ha depositato sul tavolo del generale David Petraeus, nuovo comandante in capo delle truppe statunitensi. Il gruppo di ufficiali, tutti veterani in antiguerriglia, sono stati incaricati dell’implementazione della “new way forward”, ossia della nuova strategia messa a punto da Casa Bianca e Pentagono per riprendere in mano la situazione dell’Iraq ed imprimere una svolta decisiva alle operazioni militari. Il team, conosciuto con il nome di “Baghdad brains trust”, lavora nella blindatissima Zona Verde della capitale irachena e –secondo il britannico Guardian– ha ingaggiato una vera e propria lotta contro il tempo per districare e risolvere una serie di questioni e problemi sul tappeto che rendono difficile l’attuazione del cambio di strategia voluto dal presidente Bush. «Sanno che stanno lavorando con il tempo contato. Sanno che a Washington si potrebbe discutere di imboccare la via del “piano B” entro l’autunno: ossia il ritiro», ha riferito al Guardian una fonte dell’Amministrazione Bush, coperta dall’anonimato, che ha regolari contatti con il “Baghdad brains trust”. «Gli ufficiali sanno che i prossimi sei mesi sono la loro opportunità. Ma sanno anche che ogni giorno che passa è sempre più dura», ha aggiunto l’alto funzionario.

• Cuba / Venezuela. 2 marzo. Bio-diesel: intesa tra Cuba e Venezuela per nuovo impulso a

produzione etanolo. Undici gli impianti che verranno costruiti per produrre etanolo, l’alcool derivato dalla canna da zucchero utilizzato come combustibile ‘pulito’ per preservare l’ambiente, ridurre il consumo di combustibili fossili e sviluppare fonti alternative di energia. Il progetto si inscrive negli oltre 350 nuovi programmi bilaterali nei settori energetico, sanitario ed educativo, da ultimare entro fine 2007. L’annuncio all’Avana al termine dei lavori della VII Commissione mista intergovernativa, alla presenza del presidente ‘ad interim’ Raúl Castro, il ministro dell’Energia venezuelano Rafael Ramírez e quello del dicastero dello Zucchero cubano, Ulises Rosales. Cuba riceve quotidianamente 98mila barili di petrolio venezuelano, che L’Avana contraccambia con servizi medici ed educativi.

• Venezuela / Argentina. 2 marzo. Basta con la dittatura del Fondo Monetario. Lo ha detto il

presidente dell’Argentina, Nestor Kirchner, aprendo ieri i lavori del parlamento. Il prodotto interno lordo argentino sta crescendo da cinque anni, incluso quello in corso, dell’8% annuo e non è quindi il caso che subisca «la dittatura del Fondo Monetario Internazionale». Inoltre, la disoccupazione non supera l’8,7%, lo stesso livello di 15 anni fa, prima che il paese entrasse in un periodo di grave crisi. Per finire, riferendosi ai “Bonos del Sur”, titoli di borsa che Buenos Aires emette insieme a Caracas nonostante critiche formulate in più sedi economiche e finanziarie, il presidente argentino ha sottolineato i suoi buoni rapporti con il Venezuela e con il suo capo di stato Hugo Chávez. I “Bonos del Sur” emessi in questi giorni da Caracas per un valore complessivo di un miliardo e mezzo di dollari sono stati richiesti da operatori finanziari internazionali in quantità otto volte superiore alla disponibilità.

• Venezuela / Bolivia. 2 marzo. Caracas stanzia 15 milioni di dollari per la Bolivia, colpita

dalle più gravi alluvioni degli ultimi 25 anni che hanno causato finora 350mila disastrati e ingenti perdite al settore agricolo. Il presidente Hugo Chávez raggiungerà la settimana prossima il paese andino per una «visita di solidarietà» nelle regioni alluvionate.

• Irlanda del Nord. 3 marzo. Il Sinn Féin intende essere parte delle amministrazioni nel nord

e nel sud dell’Irlanda per adempiere alla «sua missione storica di creare una vera

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repubblica ed un vero governo nazionali». Lo ha detto oggi l’esponente del partito repubblicano, Gerry Adams, nell’intervento conclusivo al congresso annuale (Ard Fheis) del partito, a Dublino, che ha visto anche la presentazione dei candidati del partito. Delegati ed invitati di tutta l’Irlanda discutono di un’ampia serie di mozioni con particolare attenzione a quelle che saranno le priorità del partito nell’esecutivo multipartitico che dovrebbe formarsi il prossimo 26 marzo e alle politiche che saranno la chiave dell’agenda dei repubblicani del Sinn Féin nelle negoziazioni con il governo delle 26 contee (repubblica irlandese). Tra pochi giorni ci sono cruciali elezioni nel nord e tra pochi mesi quelle generali nel sud. Il Sinn Féin è l’unico partito irlandese che concorre in tutta l’isola. Rispondendo a chi gli rimprovera di rafforzare la divisione dell’Irlanda con la sua decisione di partecipare alle elezioni ed istituzioni nel nord e nel sud dell’isola, ieri il presidente del Sinn Féin ha chiarito il perché dell’impegno elettorale repubblicano: Sinn Féin vuole usare la sua partecipazione alle istituzioni per forzare politiche ed attuazioni che portino in modo irreversibile all’unità d’Irlanda. È questa la «missione storica» del Sinn Féin.

• Irlanda del Nord. 3 marzo. Alla vigilia delle elezioni, Sinn Féin ribadisce i temi centrali

del partito (sanità ed istruzione) ma non dimentica questioni che pure non sono, allo stato, di particolare premura per la maggioranza dei votanti, come la questione della connivenza tra i gruppi paramilitari lealisti e le forze di sicurezza britanniche, che tante vite sono costate non solo nel nord Irlanda, ma anche nella repubblica irlandese. Davanti alle telecamere che cercavano ansiosamente Gerry Adams, ad essere mandata per le interviste è stata spesso Amanda Fullerton, figlia di un consigliere del Sinn Féin ucciso a colpi d’arma da fuoco da paramilitari lealisti nel suo domicilio nella contea del Donegal (repubblica d’Irlanda). Questo è uno dei tanti casi irrisolti per i quali Sinn Féin reclama attenzione ed azione, tanto più ora che il partito repubblicano dà i suoi primi passi di implementazione della sua nuova politica di riconoscimento di una Polizia nordirlandese che ancora, in molti aspetti, continua ad essere parte della macchina repressiva che ha causato e mantenuto questa connivenza. La questione del sostegno ad una forza di polizia nordirlandese rifondata, approvata in una conferenza straordinaria del partito lo scorso 28 gennaio, è tornata ad essere discussa. Organizzazioni locali del partito hanno espresso opposizione e contrarietà. Si tratta di una decisione a lungo ponderata, ha detto Adams, e non è possibile tornare indietro. «Il Sinn Féin ha cambiato molto (..). Questo si deve al coraggio e alla dedizione di migliaia di persone che hanno dato il meglio della propria vita alla causa repubblicana... La pace deve essere costruita. Siamo i costruttori della pace. Siamo i costruttori della nazione», ha detto l’esponente repubblicano.

• Irlanda del Nord. 3 marzo. «La transizione dal conflitto alla pace non è mai facile». Così

il ministro dei servizi d’intelligence sudafricani, Ronnie Kasrils, che è stato uno dei membri fondatori dell’Umkhonto we Sizwe o MK, organizzazione militare affiliata all’ANC (African National Congress), che ha parlato alla conferenza del partito repubblicano per offrire l’esperienza sudafricana ai delegati irlandesi. Kasrils ha fatto riferimento alla decisione del Sinn Féin di appoggiare il lavoro della Polizia nordirlandese, sostenendo che un partito che guida, come è il caso del Sinn Féin, deve prendere decisioni difficili e controverse per la sua base se queste sono benefiche, in questo caso, per tutti gli irlandesi. Ha quindi aggiunto che la stessa forza, fiducia e resistenza che si mostra nella «lotta per la libertà» sono necessarie quando arriva il tempo della negoziazione. Il processo di pace sudafricano è stato sempre un referente per il Sinn Féin, e le sue relazioni con rappresentanti dell’ANC risalgono a tempi ed esperienze che precedono i processi tanto in Sudafrica come in Irlanda. Storicamente, per la discriminazione che i cattolici hanno sofferto ad opera dei governi unionisti, i repubblicani si sono identificati con le vittime dell’apartheid. Tra gli altri intervenuti, l’ambasciatore cubano in Irlanda, Noel Carrillo, ed il portavoce dell’illegalizzata Batasuna, formazione indipendentista basca, Arnaldo Otegi.

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• Irlanda del Nord. 3 marzo. Sanità ed educazione, il diritto alla casa (i repubblicani si

impegnano alla costruzione iniziale di 5mila case all’anno e all’esproprio di quelle disabitate per porre fine alla speculazione urbanistica), proposte per la sicurezza sulle strade ed un ampio documento sui diritti dei lavoratori sono i temi su cui si discute al congresso del partito oltre alle tradizionali strategie per un’Irlanda unita. Il programma elettorale repubblicano include l’appoggio ai processi di pace in Euskal Herria e in Palestina, regole per un commercio giusto, la cancellazione del debito del terzo mondo e l’opposizione alla guerra in Iraq. Si lavorerà anche per indire un referendum sull’unità politica dell’isola. Sempre per il programma di governo, Sinn Féin vuole un regime fiscale controllato dall’Assemblea di Stormont, si oppone alla privatizzazione dell’acqua, pone la necessità dell’incremento della spesa pubblica per i servizi sociali e per le zone rurali. In campo scolastico i repubblicani vogliono togliere ai centri educativi la potestà di scegliere gli studenti e trasferire ai genitori ed ai giovani la scelta del tipo di scuola. Il controllo della polizia e lo smantellamento delle strutture di connivenza tra lealisti e polizia sono i punti chiave della sicurezza per i repubblicani.

• Colombia. 3 marzo. «11 militari morti e 38 feriti. Nelle nostre fila abbiamo perso 9

combattenti, cui rendiamo un sentito tributo, e altri 12, che hanno riportato ferite, stanno guarendo in modo soddisfacente nei nostri ospedali». Lo comunica lo Stato Maggiore del Fronte 27 delle FARC-EP (Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia – Esercito del Popolo). Nel villaggio Laureles, giurisdizione del municipio di Vista Hermosa nel dipartimento del Meta, ha avuto luogo un combattimento tra unità guerrigliere e truppe speciali della cosiddetta Forza Omega. «Nello sviluppo della demenziale politica uribista (Alvaro Uribe, presidente colombiano, ndr) di guerra contro il popolo, al servizio degli interessi statunitensi e con il pretesto di una crociata contro il terrorismo ed il narcotraffico, le truppe dell’esercito ufficiale conducono una vera e propria campagna di sterminio in cui gli sgomberi, la distruzione di ogni tipo di coltivazione con fumigazioni indiscriminate, i blocchi, le uccisioni di civili presentati ai media come risultati positivi contro la guerriglia, le sparizioni, le minacce, i bombardamenti generalizzati ed il furto di bestiame ed animali sono il pane quotidiano in queste regioni dimenticate del Paese. Gli immaginari bollettini militari diffusi dal bugiardo ministro della guerra Juan Manuel Santos, e dai generali subalterni agli ufficiali statunitensi, non riescono ad occultare la realtà della resistenza insorgente, che ogni giorno di più cresce e si riempie di gloria nelle battaglie per la Nuova Colombia». Dopo aver informato dell’«abbondante materiale di guerra» preso, le FARC invitano «il popolo colombiano a continuare a lottare ed a resistere in modo organizzato alla brutale offensiva del governo illegittimo e corrotto capeggiato da Uribe Vélez, con la certezza che la vera democrazia, l’indipendenza, la dignità e la giustizia sociale finiranno per imporsi sotto forma di un governo patriottico delle maggioranze, capace di agglutinare i diversi settori che oggi si oppongono all’attuale regime di terrore».

• Iran / Arabia Saudita. 4 marzo. «Iran e Arabia Saudita devono lavorare uniti» nel mondo

islamico e in Medio Oriente. Lo ha detto il presidente iraniano, Mahmud Ahmadinejad, prima di intraprendere il suo viaggio ufficiale a Riad che lo porterà ad incontrarsi con il re saudita. Oggetto dell’incontro questioni come gli scontri interconfessionali in Iraq, la crisi politica nel Libano («se il Libano chiede aiuto all’Iran per garantire la sua unità nazionale e la sua indipendenza, noi siamo disposti a collaborare») e il programma nucleare iraniano.

• Venezuela. 4 marzo. «Negroponte assassino di professione». Il presidente Chávez denuncia

i progetti di assassinarlo e dice che «sono cresciuti di peso» dalla designazione a numero due del Dipartimento di Stato USA di John Negroponte, che ha definito «assassino di

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professione». Nell’intervista concessa durante il nuovo programma televisivo dell’ex vicepresidente José Vicente Rangel, Chávez vede difficile la possibilità di un colpo di Stato o di un’insurrezione contro il suo governo pilotata da Washington, ma non esclude un attentato contro di lui. Secondo Chávez, in un tentativo di ucciderlo partecipò anni fa il Das, il servizio di spionaggio colombiano. Attualmente, ha aggiunto, «la gente di Posada Carriles (il terrorista anticastrista responsabile dell’attentato a un aereo cubano, ndr) si muove molto attivamente in Centro America e cerca di allacciare contatti in Venezuela».

• Iraq. 5 marzo. L’Iraq potrebbe avere 2,3 milioni di sfollati al suo interno per fine anno a

fronte dell’1,8 milione attuale. Lo ha sostenuto ieri l’Alto Commissario dell’ONU per i Rifugiati (ACNUR), Antonio Guterres, al Cairo.

• Iran / Palestina. 5 marzo. Il movimento islamico di Hamas avrebbe inviato un numero

imprecisato di militanti in Iran per ricevere addestramento militare. Lo scrive il New York Times che riporta l’analisi d’intelligence dei servizi segreti interni israeliani, lo Shin Bet. Il capo dell’agenzia di intelligence, Yuval Diskin, ha dichiarato che il numero sarebbe destinato a crescere e che l’addestramento iniziato lo scorso mese, potrebbe andare avanti anni. Il portavoce del premier palestinese Ismail Haniyeh, Ahmed Youssef, ha respinto le accuse israeliane, definendole una propaganda mirata a colpire il nascente governo di unità nazionale palestinese. E forse, aggiungiamo noi, a preparare ancor meglio il terreno, per le opinioni pubbliche, per la già minacciata aggressione all’Iran.

• Cina / USA. 5 marzo. Cina: + 17,8% per il budget per la difesa 2007. L’annuncio, ieri, di

Jiang Enzhu, portavoce del Congresso Nazionale del Popolo. Pechino prevede di spendere 350,9 miliardi di yuan (44,94 miliardi di dollari). Secondo quanto riportato dal portavoce, il governo cinese destinerà alla difesa il 7,5 % delle spese totali dello Stato. La superiorità militare degli Stati Uniti rispetto alla Cina non è comunque messa in discussione. Infatti, con i vari supplementi alla richiesta iniziale di 439,3 miliardi di dollari, il Congresso degli Stati Uniti dovrebbe approvare un totale di 462,8 miliardi per il 2007, mentre la richiesta per il 2008 è già di 481,4 miliardi di dollari. Resta il dato che le spese militari cinesi hanno mantenuto una crescita superiore al 10% nell’ultimo decennio, il che desta molta preoccupazione, soprattutto a Washington. Alla vertiginosa crescita economica Pechino affianca anche un incremento delle capacità militari che consentano di proteggere i suoi interessi nella regione. La Cina intende emergere quale principale attore regionale e non può permettersi di diventare un gigante economico rimanendo un nano militare. Dalla costante crescita delle spese militari cinesi emerge chiaro un messaggio: Pechino tiene ben presente la possibilità di ricorrere all’opzione militare per difendere i propri interessi strategici.

• Cina / USA. 5 marzo. Negroponte critica l’assenza di trasparenza del budget militare

cinese. Oggi, sul New York Times, il vicesegretario di Stato USA, John Negroponte, intervistato sulle scelte militari cinesi, ha criticato non tanto l’aumento in sé della spesa, ma la non trasparenza del budget. Negroponte ha riportato i dubbi espressi da diversi analisti militari sui dati ufficiali cinesi, che occulterebbero la reale quota di bilancio statale destinata al riarmo, che ammonterebbe a più del doppio.

• Polonia / Ucraina. 6 marzo. Varsavia e Kiev vogliono una conferenza sull’energia con

Azerbaigian, Kazakistan e Georgia. L’obiettivo è la promozione di un oleodotto che trasporti il petrolio del Kazakistan e dell’Azerbaigian verso la Polonia via Georgia ed Ucraina. Obiettivo dichiarato di Yushenko e Kaczynski è ridurre la propria dipendenza dalla Russia ed impedire “ricatti energetici” da parte di Mosca, che di recente si è fatta sentire anche con l’Azerbaigian. Tanto che negli scorsi mesi Tbilisi ha sottoscritto un’intesa con Baku e Ankara per trovare un’alternativa alle risorse energetiche provenienti da Mosca.

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Attraverso l’accordo Varsavia e Kiev intendono soprattutto rispondere alla costruzione del “gasdotto del mare del Nord”, che toglie oggettivamente ai due paesi un’importante ruolo strategico, consentendo a Mosca di rifornire i paesi dell’Europa occidentale aggirando gli ex sudditi dell’Europa orientale. Da un punto di vista geostrategico, paesi come l’Azerbaigian mirano ad aumentare la propria capacità di contrattazione sia su Mosca ma anche su Washington, dato che si potrebbe discutere anche sull’eventualità o meno di consentire agli Stati Uniti di posizionare postazioni antimissile sul proprio territorio. In tal senso possono essere lette le dichiarazioni provenienti da Georgia e Azerbaijan giunte quasi in contemporanea, secondo cui i due paesi non avrebbero trovato nessun accordo con Washington sulla difesa antimissile

• Somalia. 6 marzo. Violenti combattimenti oggi a Mogadiscio dopo che un centinaio di

ribelli hanno attaccato i soldati del governo ad interim e i loro alleati etiopi presso una base all’interno dell’ex quartier generale della difesa nella zona industriale di Mogadiscio. L’edificio è divenuto nelle scorse settimane il quartier generale delle forze etiopiche. Questa mattina un gruppo di soldati (circa 400) dell’Uganda, parte di una missione di peace-keeping (8mila uomini) coordinata dalla Unione Africana, era arrivato nella capitale somala, dove il governo provvisorio e i suoi alleati etiopi devono fronteggiare quasi quotidianamente attacchi della guerriglia. Gli ugandesi rappresentano l’avanguardia della forza dell’Unione Africana messa in piedi per aiutare il governo provvisorio somalo a rendere sicuro il Paese del Corno d’Africa. Colpi di mortaio hanno preso di mira l’aeroporto, dove questi soldati si erano appena accampati.

• USA / Palestina. 6 marzo. Washington rivedrà il progetto di fornire 86 milioni di dollari

per addestrare ed equipaggiare le forze di sicurezza leali al presidente palestinese Mahmoud Abbas. L’annuncio ieri con il prendere corpo del governo di unità nazionale formato da Fatah di Abbas e da Hamas, che guida l’attuale governo palestinese ma che gli USA considerano un’«organizzazione terroristica». Il Dipartimento di Stato aveva avviato il progetto per rafforzare la parte di Abbas contro Hamas e spingere alla guerra civile.

• Sahara Occidentale. 7 marzo. Zapatero accetta il piano che nega l’indipendenza del

Sahara. Il presidente del governo spagnolo, José Luis Rodríguez Zapatero, ha accettato ieri che il piano di autonomia per il Sahara proposto dal Marocco sia «la base per dare impulso al dialogo tra entrambe le parti ed arrivare ad una soluzione definitiva». In tal modo Zapatero dà il suo appoggio al progetto marocchino che nega l’indipendenza del Sahara e la limita ad una autonomia. Madrid ha firmato con Rabat un accordo per vendere armi, mentre il Marocco faciliterà l’accesso dei pescherecci andalusi nelle acque saharawi. La posizione di Zapatero è stata criticata dal presidente della Repubblica Saharawi, Mohamed Abdelaziz, che la considera «destabilizzatrice», e dall’Algeria.

• Sahara Occidentale. 7 marzo. Oltre l’aspetto territoriale, il Sahara Occidentale ha una forte

valenza simbolica per il sovrano marocchino. Concedere l’indipendenza al popolo Saharawi, per Mohammed VI, significherebbe indebolire la propria immagine e ridurre il prestigio di cui gode tra i sudditi. Inoltre, in una prospettiva internazionale, l’Algeria diverrebbe, a seguito di una concessione di questo tipo, il vero Paese leader della sponda africana del Mediterraneo. Alla valenza simbolica, si affiancano ragioni economiche. Il Sahara Occidentale, infatti, è una zona particolarmente ricca di petrolio e fosfati, una risorsa energetica preziosa, cui Mohammed VI non intende rinunciare. Importanti risorse che il popolo Saharawi sta cercando di sfruttare, per sostenere la propria causa. Nel 2006 sono state siglate intese commerciali con diverse compagnie petrolifere straniere, per lo sfruttamento delle risorse energetiche off-shore.

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• Sahara Occidentale / USA. 7 marzo. Gli Stati Uniti si trovano in una delicata posizione. La Casa Bianca non intende scontentare né il Marocco né l’Algeria, preoccupata dei risvolti economici della penetrazione cinese in Africa. Ignorare la questione del Sahara Occidentale può essere un tentativo per ridurre l’interesse marocchino per la Cina e la Russia, i due colossi asiatici partiti alla conquista dell’Africa.

• Israele. 8 marzo. Prove generali d’Israele per il bombardamento all’Iran? «Ampie»

esercitazioni militari di velivoli israeliani autorizzate dalle autorità cipriote si sono svolte lunedì nello spazio aereo della Repubblica di Cipro. Lo ha riferito ieri la stampa greco-cipriota. La notizia era stata diffusa l’altro ieri dalla rivista greca Diplomatia, che si occupa di difesa. Secondo vari osservatori si tratta di una «prova generale» per un eventuale bombardamento israeliano ai danni di impianti nucleari iraniani. Il direttore dell’aviazione civile di Cipro, Leonidas Leonidou, ha ammesso che le autorità cipriote hanno autorizzato il sorvolo dello spazio aereo di Nicosia a soli sei aeroplani, mentre, secondo la rivista greca, le manovre sono state condotte da 26 velivoli: sette Boeing 703, un Gulfstream equipaggiato per la guerra elettronica e 25 caccia, tra F-15 ed F-16.

• Israele. 8 marzo. Pianificata l’aggressione israeliana in Libano dello scorso luglio. Lo scrive il quotidiano israeliano Haaretz che riporta una testimonianza di Olmert. L’attuale primo ministro israeliano ha affermato di aver scatenato l’aggressione del Libano dello scorso anno attenendosi ad un «piano di emergenza» («contingency plan») da lui già approvato quattro mesi prima. Olmert, sotto attacco per la gestione fallimentare della controproducente guerra durata 34 giorni, ha dichiarato il mese scorso, a seguito di un’inchiesta giudiziaria, che la cattura dei due soldati israeliani il dodici luglio ha fatto scattare i piani per un attacco su larga scala del Libano. Gli inquirenti della “Commissione Winograd” (che sta indagando sulle cause dei deludenti risultati del conflitto per Israele) dovrebbero pubblicare un rapporto per questo mese. Haaretz non specifica come ha appreso i dettagli della testimonianza di Olmert del primo febbraio. Di fronte a diverse opzioni, Olmert scelse quella che il giornale israeliano definisce come un «piano moderato» che includeva attacchi aerei con limitate operazioni di terra. Più di un migliaio di morti, diverse migliaia di feriti e più di un milione di rifugiati (su una popolazione poco sotto i 4 milioni), oltre a colossali danni all’ambiente ed alle infrastrutture, sono le devastazioni arrecate al Libano dall’aggressione sionista.

• Israele. 8 marzo. Durante l’audizione davanti alla “Commissione Winograd” –che indaga

sul modo in cui è stata condotta l’aggressione in Libano– il premier israeliano Ehud Olmert ha anche sostenuto di aver avuto incontri sulla situazione in Libano più di qualsiasi altro predecessore, il primo dei quali l’8 gennaio dello scorso anno, quattro giorni dopo aver assunto la guida del governo a seguito dell’ictus che ha colpito Ariel Sharon. E poi ancora incontri ci sono stati a marzo, aprile, maggio e luglio, qualche giorno dopo il rapimento (il 25 giugno) del caporale Gilad Shalit nella Striscia di Gaza. E a marzo, racconta ancora il quotidiano israeliano, Olmert chiese ai comandanti se esistesse un piano operativo che prevedesse una reazione «a un eventuale rapimento di militari israeliani in Libano [sottolineatura nostra, ndr]». Dinanzi alla loro risposta positiva, il premier chiese di poter vedere quei piani per evitare di dover prendere una decisione improvvisa nel caso si fosse presentata quella circostanza. Tra le varie opzioni presentate, scelse una definita «moderata», che prevedeva attacchi aerei accompagnati da una limitata operazione di terra. Sulla decisione di nominare ministro della Difesa Peretz, Olmert ha ricordato che secondo gli accordi di coalizione quel portafoglio spettava ai laburisti, mentre sull’avvio delle operazioni di terra 48 ore prima della tregua il premier ha spiegato di averlo deciso per influenzare il dibattito in corso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla risoluzione 1701 in modo che fosse il più possibile favorevole a Israele.

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• Libano. 8 marzo. «Tali notizie non ci sorprendono, era tutto chiaro già la scorsa estate.

Dichiarai subito che Israele aveva usato un pretesto (i due soldati catturati da Hezbollah al confine, dalla parte del territorio libanese, ndr) per lanciare un’aggressione gravissima contro il Libano. Avevamo intuito che si trattava di un piano preparato con cura ed eseguito al momento opportuno. Spero che la Comunità internazionale ora prenda in considerazione questa realtà e non dimentichi le distruzioni immense, le sofferenze enormi, i tanti morti subiti dalla nostra popolazione civile». Immediata la replica, oggi, del presidente libanese Emile Lahoud alle dichiarazioni di Ehud Olmert davanti alla Commissione Winograd che indaga sulla conduzione della guerra in Libano riportate ieri dal quotidiano Ha’aretz. Ammissioni che spazzano via l’idea, sostenuta lo scorso anno da molti, di un Israele colto di sorpresa, impreparato, di fronte all’azione compiuta da Hezbollah. Il fallimento delle forze armate israeliane in Libano del sud assume una dimensione ancora più devastante: erano pronte a scattare, ma ciò non le ha aiutate a sbaragliare le centinaia di guerriglieri Hezbollah che opponevano resistenza sul terreno e, tantomeno, a bloccare il lancio di razzi katiusha nello Stato ebraico.

• Ecuador. 8 marzo. Si fa durissimo lo scontro politico in Ecuador. Appello del presidente

alla «resistenza pacifica» contro la maggioranza del Congresso che si oppone all’assemblea costituente. Il Tribunale Supremo Elettorale ha il primo marzo fissato la consulta popolare in merito per il 15 aprile. Nello scontro istituzionale in corso, il presidente ecuadoriano Rafael Correa ha intimato a 57 deputati di accettare la sentenza della Corte elettorale che li ha licenziati. La decisione del Tribunale Supremo Elettorale di sospendere i 57 era arrivata dopo che i deputati avevano a loro volta chiesto l’impeachment di quattro membri sui sette che compongono la Corte incluso lo stesso presidente del Tribunale Supremo, Jorge Acosta, dopo che quella aveva approvato un referendum sulla revisione della Costituzione. Quando i 57 deputati hanno tentato di occupare i loro seggi, sono stati fermati da un cordone di poliziotti e da manifestanti filogovernativi. Il referendum è stato chiesto da Correa per ristrutturare il Congresso, in vista delle sue riforme di rottura nei confronti del Fondo Monetario e della Banca Mondiale. I sondaggi di opinioni mostrano che il 70% degli ecuadoriani appoggia il presidente. Dalla stragrande maggioranza della popolazione la costituente, sostiene l’analista politico e filosofo Matteo Martinez è sostenuta perché «percepita come la possibilità di un cambiamento di un sistema politico ed economico profondamente corrotto».

• Ecuador. 8 marzo. L’accordo che concede ai militari statunitensi l’operatività della base di

Manta non sarà rinnovato. Lo ha assicurato il presidente Correa nel corso di un incontro con Helga Serrano, dirigente della Coalición No Base Ecuador. L’accordo scade nel 2009.

• Bolivia. 8 marzo. Il rifiuto della guerra nella nuova Carta Magna boliviana. È la proposta

che il presidente Evo Morales, in visita ufficiale in Giappone, ha annunciato che porterà all’Assemblea Costituente. «Noi popoli indigeni boliviani e americani viviamo in armonia con la Madre Terra. Per questo apparteniamo alla cultura della vita e non condividiamo politiche di militarizzazione o di nuclearizzazione», ha affermato Morales.

• Irlanda del Nord. 9 marzo. Vincono DUP e Sinn Féin. Superiore al 63,8% del 2003

l’affluenza alle urne. I risultati del voto, annunciati nel tardo pomeriggio di oggi, confermano infatti che il Democratic Unionist Party (Dup), il più oltranzista dei partiti unionisti, è il maggiore partito nelle Sei Contee occupate e ha ottenuto oltre il 30,1% dei consensi e 36 seggi (sei in più di quelli ottenuti nel 2003) sui 108 dell’Assemblea. Subito dietro il Sinn Fein, partito cattolico nazionalista, braccio politico dell’IRA (Esercito Repubblicano Irlandese), che ha ricevuto il 26,2% dei voti e ha conquistato 28 seggi (quattro

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in più rispetto alle precedenti elezioni). I leader dei due partiti, il reverendo Ian Paisley del DUP e Gerry Adams e Martin McGuinness del Sinn Féin, sono stati rieletti a grande maggioranza. Secondo il sistema proporzionale in vigore, altri quattro partiti minori si sono divisi i restanti seggi. Il moderato Ulster Unionists Party, che fino a pochi anni fa era il partito di riferimento per gli unionisti, è stato il grande perdente ottenendo meno del 15% (solo diciotto dei ventisette seggi che aveva). Il SDLP (nazionalisti moderati, socialdemocratici) ha perso due seggi ed ora ne ha sedici. L’Alliance Party (per la cooperazione repubblicani-unionisti) 7. I restanti 3 seggi sono andati a formazioni minori. I settori –sia repubblicani, sia unionisti– contrari agli Accordi del Venerdì Santo e di Saint Andrews, sono usciti nettamente sconfitti. È il caso di Robert McCartney, esponente dell’UKUP (Partito Unionista del Regno Unito) e contrario al processo di pace: si presentava in sei distretti elettorali e non ha conseguito nessun seggio, come il suo partito, sparito dalla mappa politica. Un suo successo (tredici i candidati) sarebbe stata chiaramente una brutta notizia per il processo di pace, giacché la sua vittoria avrebbe potuto essere intesa come una perdita per il DUP, e favorire le componenti oltranziste contrarie ad un cambio di politica dentro il partito, come la formazione di un governo con il Sinn Féin. Lo stesso può dirsi di coloro che, da una prospettiva repubblicana, ritenevano che il Sinn Féin avesse concesso troppo accettando una polizia nordirlandese sia pur riformata. Nessun eletto ed i voti che hanno avuto non hanno causato alcuna perdita al Sinn Féin.

• Irlanda del Nord. 9 marzo. Partono ora i delicati negoziati per formare un Governo entro

la scadenza del 26 marzo imposta da Londra e Dublino. Se i partiti nordirlandesi riusciranno a nominare un governo condiviso (cioè con ministri sia dello schieramento repubblicano nazionalista che unionista) allora Londra mollerà il direct rule, il controllo diretto di questa parte di isola irlandese. Ma se il 26 marzo il nuovo parlamento uscirà con un nulla di fatto, allora l’Assemblea Stormont, già chiusa dal 2002, verrà nuovamente sospesa. A quel punto per le sei contee nordirlandesi sarebbe davvero difficile sostenere una tale situazione. L’Assemblea di Stormont, il parlamento regionale, fu istituita con la storica intesa di pace del 1998, passata alla storia come «l’Accordo del Venerdì Santo». Gli esperti sono convinti che il reverendo presbiteriano Ian Paisley cercherà di tirare fino all’ultimo ma poi darà luce verde per evitare che Dublino, con Londra che progressivamente si sta sganciando, acquisisca voce in capitolo diretta sulle Sei Contee occupate. Ciò che conta, secondo gli esperti, è che Paisley sia primo con un netto margine di vantaggio. In tal modo potrà convincere la propria base di poter dettare le condizioni. Secondo la recente riforma elettorale chi ha la maggioranza relativa esprime il Primo ministro e il secondo classificato il vicepremier. Sotto Paisley vi sarà dunque MacGuinness, in una sorta di Governo di unità nazionale.

• Germania. 9 marzo. A volte ritornano: strategia tedesca per il rilancio della Costituzione

Europea evitando il ricorso ai referendum popolari. Angela Merkel, il cancelliere tedesco presidente di turno dell’UE, intende arrivare, entro un anno al massimo, all’approvazione di una mini Costituzione Europea da far ratificare senza indizione di referendum nazionali. Anche se la dimensione del Trattato sarebbe molto ridotta rispetto a quello concordato dai governi dell’Unione Europea nel 2004 ma poi respinto da francesi e olandesi nei referendum del 2005, i punti chiave verrebbero riproposti. Secondo indiscrezioni raccolte dal quotidiano inglese The Guardian, per raggiungere l’obiettivo la Merkel intende: far firmare il prossimo 25 marzo ai leaders europei la “dichiarazione di Berlino” per rilanciare il processo di un Trattato Europeo approfittando dell’anniversario dei 50 anni dalla firma del Trattato di Roma; indire una conferenza di governi UE in giugno; far redigere un Trattato entro dicembre; farlo approvare a tutti gli Stati membri entro febbraio 2008.

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• Germania. 9 marzo. Secondo The Guardian, la Merkel deve comunque ancora persuadere i dubbiosi e ricercare accordi, in particolare con la Gran Bretagna, sebbene il governo Blair abbia già dato il suo assenso ai cambiamenti chiave nel modo in cui la UE è organizzata. Ossia: una presidenza europea singola con termine prefissato che sostituisca l’attuale sistema della rotazione semestrale tra i 27 paesi; un unico “ministro degli esteri” europeo che rappresenti una linea comune dell’UE negli affari interni (sebbene la qualifica ufficiale non sarà quella di “ministro degli esteri”; un sistema di votazione a doppia maggioranza nei consigli dell’UE che erode i diritti di veto nazionali e che, per la prima volta, riconosce la posizione della Germania come il più grande ed il più potente tra i paesi dell’UE). Questi erano i cambiamenti centrali concordati nel 2004 e sfumati nel 2005 e che probabilmente sopravviveranno nella nuova versione “semplificata” del Trattato che si sta negoziando. Per rendere il progetto più appetibile agli scettici come Gran Bretagna, Polonia e Repubblica Ceca, e soprattutto per evitare qualsiasi ricorso ad un referendum popolare sul progetto, lo statuto non sarà più chiamato Costituzione, ma “Trattato” o “Trattato semplificato”.

• Israele / Palestina. 9 marzo. «Bambina come scudo umano» a Nablus. La denuncia arriva

direttamente da lei, l’11enne palestinese Jihan Daadush, che ha raccontato a B’Tselem, organizzazione israeliana per i diritti umani, cosa le avrebbero fatto i militari israeliani nella sua Nablus, città del nord della Cisgiordania. La settimana scorsa l’esercito occupante ha condotto una serie di raid e operazioni «a caccia di terroristi». «Un soldato mi ha ordinato di dirigermi verso una casa (da perquisire, ndr), tre altri militari mi seguivano», ha detto Jihan. «Quando abbiamo raggiunto l’abitazione mi hanno ordinato di entrare e io ho obbedito». Dopo averla usata come scudo umano per ripararsi da eventuali colpi dei combattenti palestinesi, un militare, sempre secondo il racconto della bambina, le avrebbe detto «Grazie per l’aiuto, ma non raccontarlo a nessuno». Quella di utilizzare i civili come scudi umani è una pratica vietata dalla legge israeliana e dalle convenzioni internazionali. L’esercito ha fatto sapere che verificherà la denuncia. Intanto, in un video trasmesso sui circuiti internazionali ed anche dalla italiana RAI, si vede un giovane palestinese utilizzato come scudo umano da militari israeliani, prima che questi facciano di volta in volta irruzione nelle case palestinesi.

• Siria. 9 marzo. Damasco starebbe dislocando migliaia di razzi lungo il confine con Israele.

Timore che il paese finisca nelle mire d’Israele come il Libano? Non entra in merito il sito Debka, legato all’intelligence israeliana che ricalca quanto diffuso dall’agenzia di stampa francese Afp, la quale dichiara con certezza che la Siria sta dislocando razzi a medio e lungo raggio, capaci di colpire le città settentrionali di Israele. Nel suo rapporto Afp parla di razzi da 220mm e 302mm che, con i loro 100 km di gittata, possono raggiungere le città di Haifa, Tiberias e Kiryat Shemona. Diversi lanciatori di sistemi Frog (razzi terrestri non guidati), con testata da 550 chilogrammi e raggio d’azione di 70 chilometri, sarebbero stati dislocati nei pressi del confine e nelle vicinanze di Damasco. Aver concentrato gran parte dei missili a lunga gittata nel nord del Paese, lascia pensare che Damasco si stia organizzando per anticipare un’invasione delle forze di difesa israeliane. Infatti, se Tel Aviv cercasse di attraversare il confine per distruggere le batterie nemiche, i razzi Frog e i missili a lunga gittata verrebbero lanciati contro le truppe israeliane. Le fonti Afp ipotizzano che la Siria si stia preparando ad affrontare una guerra a bassa intensità. Uno scenario d’attacco alla Siria è già previsto dall’intelligence israeliano.

• Afghanistan. 9 marzo. «La risoluzione dei problemi in Afghanistan non potrà avvenire in

tempi brevissimi». Lo dice a Il Messaggero il generale Mauro Del Vecchio, ex comandante della missione ISAF a Kabul (agosto 2005-maggio 2006) premiato a Parma come “Uomo dell’anno 2007 - una vita per la pace”. Del Vecchio ricorda che, durante il periodo del suo comando, di attacchi «ce ne sono stati di numerosi, purtroppo. Ci furono dei caduti e

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vivemmo quei momenti con grande dolore». Il generale auspica un ulteriore sforzo sul piano militare, «ma senza tralasciare gli interventi in termini di aiuti finanziari».

• Cina. 9 marzo. La proprietà privata ora è garantita per legge. Formalmente la sta discutendo

da ieri l’Assemblea del Popolo, che alla fine approverà. Il tema era dibattuto da 14 anni. La bozza presentata è un compromesso quanto a toni, definizioni e dispositivi, ma apre una breccia epocale soggetta ad essere allargata, quando i tempi lo consentiranno. Una breccia che comunque era stata ben delineata con la modifica apportata nel 2004 alla Costituzione quando nella legge fondamentale si era aggiunto che «La proprietà privata legale dei cittadini è inviolabile». Nella presentazione si dice che «la legge è resa necessaria dalla necessità di rafforzare le basi del sistema economico socialista» in uno Stato «al primo stadio del socialismo», dove «la proprietà pubblica resta dominante ma le altre forme di proprietà si sviluppano e operano fianco a fianco». Così che «lo Stato consolida e sviluppa il settore della proprietà pubblica e incoraggia, sostiene e guida lo sviluppo del settore economico non pubblico».

• Cina. 9 marzo. Nell’accezione più limitata, la legge, che consta di 247 articoli suddivisi in

5 parti, servirà a delimitare i confini della proprietà e come sarà possibile ottenerla, venderla o trasmetterla nei tre settori fondamentali: proprietà pubblica, collettiva (che riguarda soprattutto i villaggi e le contee) e privata, andando a toccare anche i regolamenti condominiali. Su una questione importante, tuttavia, gli oppositori hanno ottenuto una vittoria sostanziale: la proprietà delle terre agricole non sarà privatizzata. Resta in vigore il sistema in base al quale la proprietà è collettiva e le famiglie contadine ne “posseggono” l’uso sulla base di contratti le cui scadenze sono sempre più a lungo termine (fino a 50 anni). «Si è preso atto» ha spiegato il vice presidente Wang «che non si è ancora stabilita nelle nostre campagne una rete di sicurezza sociale». Non vi sono dunque le condizioni per fare a meno di un sistema che rappresenta una sorta di welfare per gli agricoltori.

• USA. 9 marzo. «Una volta erano le colonie, oggi sono le 700 basi militari e 2 milioni di

soldati nel mondo a misurare la potenza di Washington». Così Chalmers Johnson, storico statunitense, scrive nel suo ultimo libro “Nemesis: the last days of the american republic” (Metropolitan Books). «Una volta si poteva seguire l’espansione dell’imperialismo contando le colonie. La versione statunitense delle vecchie colonie sono le basi militari. Seguendo su scala globale i cambiamenti che riguardano le basi possiamo conoscere molto dell’“impronta” imperiale americana e del militarismo che l’accompagna. Non è facile tuttavia valutare le dimensioni o il valore esatto dell’impero di basi militari degli Stati Uniti. I dati ufficiali disponibili sull’argomento sono fuorvianti, anche se istruttivi. Secondo il Base structure report –gli inventari (dal 2002 al 2005) delle proprietà immobiliari possedute nel mondo dal dipartimento della difesa– ci sono stati molti cambiamenti nel numero delle installazioni. Nel 2005 le basi militari americane all’estero erano 737. E a causa della presenza militare in Iraq e della strategia della guerra preventiva del presidente George W. Bush, il numero continua ad aumentare. Il Pentagono può considerarsi uno dei più grandi proprietari terrieri del mondo».

• USA. 9 marzo. Il Base structure report del 2005 non fa però parola di tutte le guarnigioni e

basi effettivamente occupate dagli Stati Uniti nel mondo. «Omette, ad esempio», prosegue Johnson, «nella provincia autonoma del Kosovo, l’immenso Camp bondsteel, costruito nel 1999 e gestito dalla Kbr corporation (già conosciuta come Kellogg Brown & Root), una filiale della Halliburton corporation di Houston. Omette anche le basi in Afghanistan, in Iraq (106 guarnigioni nel maggio del 2005), in Israele, in Kirghizistan, in Qatar e in Uzbekistan, nel golfo Persico e nell’Asia centrale. Il rapporto non comprende le venti

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installazioni in Turchia, tutte di proprietà del governo turco e usate congiuntamente con gli statunitensi. Il Pentagono omette inoltre dal suo resoconto gran parte delle strutture militari e di spionaggio situate in Gran Bretagna, del valore di 5 miliardi di dollari, che sono state camuffate da basi dell’aeronautica militare del Regno Unito. Se ci fosse una stima veritiera, l’impero militare statunitense supererebbe le mille basi all’estero. Ma nessuno, e forse nemmeno il Pentagono, ne conosce il numero esatto. In alcuni casi sono i paesi stranieri a tenere segrete le loro basi USA, temendo ripercussioni imbarazzanti se venisse a galla la loro complicità con l’imperialismo USA. In altri casi il Pentagono ha sminuito l’importanza della costruzione di impianti destinati a gestire le fonti energetiche oppure, come in Iraq, ha conservato una rete di basi per mantenere l’egemonia sul paese, qualunque sia il futuro governo iracheno».

• USA. 9 marzo. Washington cerca di non divulgare nessuna informazione sulle basi che usa

per intercettare le comunicazioni globali né sugli arsenali e sui depositi di armamenti nucleari. Lo storico statunitense Chalmers Johnson cita William Arkin, esperto di questioni militari: «gli Stati Uniti hanno mentito a molti dei loro più stretti alleati, perfino all’interno della NATO, sui loro progetti nucleari. Decine di migliaia di testate nucleari, centinaia di basi, decine di navi e sottomarini vivono in un mondo segreto, senza nessun ragionevole motivo tattico». Prosegue Johnson: «in Giordania, per limitarci a un solo esempio, Washington ha dislocato cinquemila soldati in varie basi lungo il confine con l’Iraq e la Siria. La Giordania ha anche collaborato agli “interrogatori” dei prigionieri catturati dalla CIA. E malgrado tutto continua a sostenere di non avere nessun accordo particolare con gli Stati Uniti, e che sul suo territorio non c’è nessuna base e nessun tipo di presenza militare americana. Il paese è formalmente sovrano ma in realtà è un satellite degli Stati Uniti, e lo è da almeno dieci anni».

• USA. 9 marzo. Nel 2005 ci sono state molte variazioni nello spiegamento militare in patria

e all’estero. La causa è stata una serie di cambiamenti strategici necessari per conservare il dominio globale e chiudere le basi in esubero in patria. «In realtà», dice Johnson, «molti di questi cambiamenti dipendono dall’intenzione dell’amministrazione Bush di punire i paesi –e gli stati all’interno della federazione americana– che non hanno appoggiato l’intervento in Iraq, e di premiare chi lo ha sostenuto. Così le basi negli Stati Uniti sono state spostate nel sud. Negli stati meridionali, sostiene il quotidiano The Christian Science Monitor, “c’è più sintonia con le tradizioni marziali” rispetto al nordest, al midwest o alla costa del Pacifico. Secondo un imprenditore del North Carolina, soddisfatto dei suoi nuovi clienti, “i militari vanno dove hanno più sostegno”. Il programma di chiusura delle basi avviato nel 2005 era in realtà un programma di consolidamento e di allargamento, con un enorme afflusso di finanziamenti e di fornitori dirottati verso poche zone chiave. Al tempo stesso l’apparente riduzione della presenza dell’impero all’estero è in realtà una crescita esponenziale di un nuovo tipo di basi –senza familiari e senza le strutture a loro destinate– situate nelle aree più remote, dove finora non c’è mai stata una presenza militare statunitense. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, nel 1991, era chiaro che l’alta concentrazione di forze militari americane in Germania, Italia, Giappone e Corea del Sud non era più essenziale per far fronte a eventuali minacce: non ci sarebbero più state guerre con l’Urss né con altri paesi di quell’area. L’amministrazione di George Bush senior avrebbe dovuto cominciare a disarmare o a trasferire le forze militari in esubero. Più tardi Bill Clinton chiuse varie basi in Germania, nella zona di Fulda, che un tempo si pensava fosse la via più probabile per un’invasione sovietica dell’Europa».

• USA. 9 marzo. «Alla fine degli anni Novanta», dice Jonhson, «i neocon misero a punto

teorie grandiose per promuovere apertamente l’imperialismo della “superpotenza unica”: azioni militari preventive unilaterali, la diffusione della democrazia all’estero con le armi,

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l’eventualità di ostacolare l’emergere di qualsiasi paese o blocco di paesi “quasi alla pari” in grado di sfidare la supremazia militare americana e un Medio Oriente “democratico” che avrebbe rifornito gli USA di tutto il petrolio di cui avevano bisogno. Un elemento di questo immenso progetto era il riposizionamento e l’ottimizzazione delle forze armate. Era inoltre previsto un programma per trasformare l’esercito in una forza militare più leggera, agile e ad alta tecnologia: grazie a questa mossa, secondo le previsioni, si sarebbero liberati dei fondi consistenti da investire in operazioni di polizia globale».

• USA. 9 marzo. E per le basi all’estero? Lo storico statunitense entra nel merito: «Per

potersi espandere in nuove zone, i ministeri degli esteri e della difesa devono negoziare con i paesi stranieri un accordo specifico, il cosiddetto Status of forces agreement (Sofa). Devono inoltre siglare molti protocolli d’intesa, come il diritto di accesso per i velivoli e le navi nelle acque territoriali e nei cieli stranieri. Inoltre devono ottenere la firma del cosiddetto Artide 98 agreement, basato sull’articolo 98 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale. L’accordo consente di sottrarre i cittadini americani in territorio straniero dalla giurisdizione della Corte. Questi trattati di immunità sono stati creati con una legge statunitense del 2002 (l’American service members’ protection act) per proteggere il personale militare all’estero. Gli altri accordi internazionali bilaterali indispensabili sono quelli di cooperazione nel settore militare tra Stati Uniti e forze della NATO, che riguardano il rifornimento e lo stoccaggio di carburante per gli aerei e le munizioni, i contratti di affitto per le proprietà immobiliari, gli accordi bilaterali di sostegno politico ed economico agli Stati Uniti (il cosiddetto sostegno della nazione-ospite), le disposizioni per le esercitazioni e l’addestramento (sono consentiti gli atterraggi notturni? E le esercitazioni di tiro con armi cariche?) e le responsabilità ambientali per l’inquinamento. Quando gli Stati Uniti non sono presenti nei paesi stranieri come conquistatori o salvatori –come è accaduto in Germania, Giappone e Italia dopo la seconda guerra mondiale e in Corea del Sud dopo l’armistizio della guerra di Corea nel 1953– è molto più difficile che riescano a ottenere quegli accordi che consentono al Pentagono di fare ciò che vuole, lasciando al paese ospite l’onere di pagare il conto».

• Irlanda del Nord. 10 marzo. I dirigenti dello Sinn Féin lo stanno ripetendo in queste ore: il

DUP ha voluto queste elezioni come un referendum sull’Accordo di St. Andrews (13 ottobre 2006) per assicurarsi che il documento contasse sull’appoggio della gente ed ora devono accettare il risultato. «Il popolo ha parlato e hanno detto ‘andiamo a farlo’ (il governo multipartitico, ndr) e questo è quel che deve fare Ian Paisley», ha detto Gerry Adams, presidente della formazione repubblicana. In seguito ad un incontro con il ministro britannico per l’Ulster, Peter Hain, Adams ha affermato di «sperare che entrambi i governi (britannico e irlandese, ndr) accettino quello che la gente a maggioranza ha votato. Spetta ora ai politici locali, che hanno chiesto un mandato, eseguire quel mandato nelle istituzione create con l’accordo del Venerdì Santo». Ieri, in conferenza stampa, il candidato alla carica di viceprimo ministro nordirlandese e responsabile della delegazione negoziale del partito repubblicano, Martin McGuinness, ha ricordato che il Sinn Féin è «ansioso» di accettare la sfida della formazione del governo ed «è preparato». Da parte sua il dirigente del partito oltranzista unionista DUP (Democratic Unionist Party), Ian Paisley, non si smentisce: sì ad un possibile governo multipartitico «sempre e quando io sia convinto dell’impegno repubblicano per la pace». All’interno del partito, figure come Peter Robinson, Jeffrey Donaldson o Gregory Campbell, che non scartano la formazione di un governo con i repubblicani, hanno ricevuto tanto appoggio, in termini di voti, quanto coloro che si oppongono alla negoziazione con il Sinn Féin, tra i quali Nigel Dodds o il reverendo William McCrea.

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• Gran Bretagna / Iraq. 10 marzo. Blair nega di aver influito sulla legge irachena del petrolio. Il governo di Tony Blair nega di aver partecipato o influito su una legge che prevede che i benefici dello sfruttamento petrolifero siano sì ripartiti tra le 18 province dell’Iraq, ma dà il controllo alle multinazionali.

• Israele / Palestina. 10 marzo. «È apartheid» nei Territori Occupati. L’ex presidente USA

Jimmy Carter torna ad attaccare Israele. «La vita dei palestinesi è quasi insopportabile e malgrado il ritiro di Israele da Gaza e la rimozione degli insediamenti ebraici dalla Striscia, non c’è libertà per la popolazione, né accesso al mondo esterno». Intervenendo all’università “George Washington”, negli USA, Carter ha ribadito i contenuti del suo recente libro “Palestina, pace non apartheid”, che ha suscitato vaste polemiche, spiegando che per «apartheid» intende la segregazione forzata di un popolo sulla propria terra da parte di un altro.

• Somalia. 11 marzo. Etiopici sotto tiro, l’Eritrea inquieta per i soldati ugandesi. Attacco con

numero imprecisato di vittime ai soldati etiopici che si ritirano da Kismayo, riconsegnata alle truppe filo-governative. Quando si trovava a circa 60 km da Mogadiscio, un convoglio sarebbe saltato su un campo di mine. I sopravvissuti sarebbero poi stati bersagliati da raffiche di mitra. In giornata erano stati segnalati nuovi combattimenti a Mogadiscio, dove almeno un poliziotto è rimasto ucciso. Sempre ieri, in un’intervista alla BBC, il ministro eritreo per l’Informazione Ali Abdu ha detto che «le truppe di pace dell’Unione Africana (UA, ndr) in Somalia rischiano di peggiorare la situazione nell’intera regione». I circa mille soldati ugandesi della forza di pace UA sono a Mogadiscio da pochi giorni ma già sono stati attaccati più volte. Il ministro Abdu è quindi tornato ad accusare l’Etiopia di essere uno «Stato fantoccio» al servizio degli USA e di voler spaccare la Somalia.

• Turchia / Kurdistan. 11 marzo. Decine di kurdi arrestati dalla polizia turca. È la risposta

alle varie manifestazioni che si sono svolte in diverse città del Kurdistan Nord. Nei cortei si rivendicavano diritti democratici per il popolo kurdo.

• Afghanistan. 11 marzo. La Casa Bianca conferma l’invio di 3.500 militari supplementari in

Afghanistan. L’annuncio è del portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, Gordon Johndroe. Il livello dei militari USA in Afghanistan raggiungerà di nuovo il massimo storico di 27mila circa, in risposta alla paventata offensiva di primavera dei Taliban.

• USA / Iran. 11 marzo. Teheran insiste: «Via le truppe dall’Iraq». Senza data del ritiro non

cambia nulla. È quanto ha caratterizzato la conferenza sulla «stabilizzazione» dell’Iraq iniziata ieri a Baghdad e alla quale hanno preso parte ambasciatori e viceministri di Iran, Siria, Egitto, Bahrein, i cinque paesi del Consiglio di Sicurezza ONU, la Conferenza Islamica e la Lega Araba. Alla fine dei lavori non è stato chiaro neppure se sia davvero avvenuto l’incontro di cui tanto si era parlato alla vigilia: quello tra i rappresentanti di Stati Uniti e Iran. Secondo l’ambasciatore USA a Baghdad, Zalmay Khalilzad, il colloquio c’è stato, diretto e senza peli sulla lingua, almeno, ha precisato, da parte statunitense. Ha smentito invece il faccia a faccia il viceministro iraniano per gli affari internazionali, Abbas Araghchi, che ha parlato di discussioni con i diplomatici USA avvenute sempre in presenza degli altri partecipanti. L’inviato dell’Iran ha sottolineato di aver spiegato con estrema chiarezza che senza il ritiro delle truppe di occupazione USA dall’Iraq e senza che sia fissato un calendario per la partenza dei soldati stranieri, l’Iraq non troverà pace. «Siamo a favore della stabilità, della pace, della democrazia e della prosperità in Iraq. La sicurezza dell’Iraq rappresenta la nostra sicurezza», ha detto.

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• USA / Brasile. 12 marzo. Bush in viaggio in America Latina. In ballo ragioni politiche (contrastare lo chavismo venezuelano) ed economiche. Con il Brasile, primo produttore mondiale di etanolo, gli Stati Uniti hanno sottoscritto un accordo per l’incremento del mercato dei biocombustibili. L’etanolo USA (prodotto con il mais) ha bassa produttività, mentre quello brasiliano (prodotto con la canna da zucchero) è cinque volte più efficiente. Grazie all’accordo con Brasilia, Washington mira a ridurre la dipendenza dal petrolio venezuelano e mediorientale (e a indebolire i governi di Caracas e La Paz). Ma si tratta di prospettive a lungo termine: il Brasile produce 17.500 milioni di litri di etanolo all’anno (di cui il 90% è destinato al consumo interno), mentre gli Stati Uniti avrebbero bisogno di 132.000 milioni per raggiungere l’obiettivo che si sono prefissati: ridurre di circa il 20% il consumo di benzina. E c’è il rovescio della medaglia: l’espansione di coltivazioni a fini energetici aumenterà il prezzo degli alimenti e incrementerà il degrado del suolo per l’abuso di pesticidi. Sono questi i timori dei movimenti sociali della regione, in particolare Sem Terra e Via Campesina, per i quali «l’attuale modello di produzione di bioenergia si basa sugli stessi elementi che hanno sempre causato l’oppressione dei nostri popoli: appropriazione del territorio, dei beni naturali, della forza lavoro». Questo modello rischia inoltre di provocare tragiche ripercussioni sull’agricoltura tropicale, trasformando «grandi estensioni delle nostre terre in immense monoculture solo per far viaggiare le automobili», come ha sottolineato la dirigente contadina Irma Ostrosky.

• USA / Brasile. 12 marzo. Tuttavia, anche dietro quello che potrebbe apparire un successo

dell’amministrazione, si nasconde un ulteriore elemento di debolezza dell’attuale presidenza repubblicana. Nelle discussioni con Lula, Bush non ha fornito nulla in cambio. Ciò che stava a cuore a Lula era che gli Stati Uniti si impegnassero ad abrogare la tassazione imposta alla importazione di etanolo dall’estero, e quindi anche dal Brasile, di 54 centesimi di dollaro a gallone: Bush non ha potuto prendere alcun impegno, costretto a fare i conti con i produttori statunitensi di mais (da cui può ricavarsi ugualmente etanolo) pronti a boicottare ogni tentativo di eliminare tale tassa.

• Brasile. 12 marzo. Il mais nel motore va bene, ma a modo nostro. Il movimento dei

contadini Sem terra del Brasile e l’organizzazione internazionale Via Campesina condannano l’iniziativa del presidente Bush, che nel suo imminente viaggio latinoamericano si propone di sedurre e cooptare i governi della regione perché promuovano la produzione su larga scala di biocombustibili –come l’alcool dalla canna da zucchero e l’etanolo dal mais– per esportarli verso il mercato statunitense. Parlano di «alleanza diabolica» di interessi di tre grandi settori del capitale internazionale: le corporation petrolifere, le transnazionali che controllano il commercio agricolo e le sementi transgeniche, e le imprese automobilistiche. Cosa vogliono? Mantenere l’attuale livello di consumi nel primo mondo, con tutti i suoi tassi di guadagno. Per ottenerlo, pretendono che i paesi del sud concentrino la loro agricoltura nella produzione di combustibili per rifornire i motori del primo mondo. L’energia contenuta nelle granaglie o nelle piante è in realtà una metamorfosi agrochimica dell’energia solare che attraverso gli oli vegetali o l’alcool si trasforma in combustibile. Le migliori condizioni per la realizzazione di questo processo sono nel sud del mondo, dove maggiore è l’incidenza dell’energia solare e dove ci sono ancora terre disponibili. Inoltre le imprese vogliono approfittare della spinta verso gli agrocombustibili per espandere l’uso delle sementi transgeniche di soia e mais, assicurandosi i guadagni derivanti dalla vendita di sementi brevettate e da quella di prodotti agrotossici per lo sviluppo dell’agricoltura energetica.

• Brasile. 12 marzo. Produrre combustibili con girasole, mais, soia, mandorle, palma africana o canna da zucchero è in apparenza un comportamento animato da una buona intenzione: quella di sostituire il petrolio, combustibile inquinante e non rinnovabile, con combustibili

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rinnovabili che non danneggiano l’ambiente. Questa alternativa sarà premiata da un’ampia pubblicità gratuita, perché si presenterà come un gesto di buona volontà per contenere il riscaldamento del pianeta. Ma ciò che interessa l’alleanza trilaterale è solo ottenere guadagni. La questione ambientale non li preoccupa minimanente. L’alleanza ha optato per l’energia rinnovabile solamente per non dipendere dal petrolio importato da paesi che hanno governi nazionalisti come il Venezuela e l’Iran, per il fallimento della guerra in Iraq che ha impedito agli Stati uniti di impadronirsi di quel petrolio, e per l’instabilità politica di Nigeria, Arabia Saudita, Angola.

• Brasile. 12 marzo. I movimenti contadini sostengono in primo luogo che non va impiegato

il termine biocombustibile, perché mettere genericamente in relazione energia e vita (bio) è manipolare un concetto che non esiste. Il termine va rimpiazzato con agrocombustibile. Secondo, ammesso che l’agrocombustibile sia più adeguato all’ambiente del petrolio, ciò non modifica l’essenza della scelta a cui è chiamata l’umanità: il modello attuale di spreco di energia e di trasporto individuale, che deve essere sostituito da un modello basato sul trasporto collettivo (treno, metropolitana eccetera). Terzo, i movimenti contadini sono contrari all’impiego di beni destinati all’alimentazione umana per produrre combustibili. Quarto, nonostante la produzione di agrocombustibili sia considerata necessaria, deve essere fatta in modo sostenibile. L’attuale modello neoliberale di agricoltura su larga scala e di monocoltura danneggia l’ambiente con l’uso intensivo di agrotossici e meccanizzazione, elimina la manodopera e aggrava il riscaldamento del pianeta distruggendo biodiversità e impedendo che l’umidità e le piogge si mantengano in equilibrio con la produzione agricola. Affermano che è possibile realizzare combustibili con prodotti agricoli se essi vengono coltivati in modo sostenibile, in unità produttive piccole e medie, che non squilibrino l’ambiente e che comportino maggiore autonomia per i contadini nel controllo dell’energia e nei rifornimenti alle città.

• Brasile. 12 marzo. Il viaggio di Bush segna l’inizio dell’offensiva per l’esportazione di agrocombustibili latinoamericani verso il mercato statunitense. In cambio, i capitalisti nordamericani dell’alleanza trilaterale esigono il diritto di installare decine di nuovi stabilimenti per l’alcool in tutto il continente americano. Per rendere fattibile il proprio programma, il governo Bush postula che all’alcool-etanolo venga riconosciuto lo status di «materia prima energetica» non agricola, per sfuggire alle norme imposte dall’Organizzazione mondiale del commercio sui prodotti agricoli. Bush propone inoltre che Brasile, Stati Uniti, India, Sudafrica e altri paesi negozino un registro tecnologico comune per l’agrocombustibile derivato da canna da zucchero, mais o piante al fine di giungere a una formula internazionalmente riconosciuta, dando forma a una sorta di Opec dell’energia agricola, che ne controllerebbe il commercio mondiale. I movimenti contadini, nei prossimi mesi, continueranno a dibattere per una migliore definizione dei concetti e delle iniziative politiche di fronte a questa nuova sfida, compresa la definizione di una proposta di produzione realizzabile e sostenibile. Soprattutto, discuteranno come combattere questo disegno statunitense il cui eventuale successo comporterebbe una tragedia per l’agricoltura tropicale, poiché trasformerebbe grandi estensioni della terra migliore in monocolture, aggraverebbe la perdita di biodiversità e ridurrebbe la quantità di terra dedicata alla produzione di alimenti, espellendo verso le favelas milioni di contadini in tutto il mondo. Tutto questo per rifornire il trasporto individuale motorizzato e mantenere i consumi dell’american way of life.

• Venezuela. 12 marzo. Mentre George W. Bush compie il suo viaggio in America Latina, il presidente Chávez realizza una sorta di “controviaggio”, che ha visto come prima tappa l’Argentina. Qui il presidente venezuelano ha firmato accordi di cooperazione in campo agricolo, scientifico e tecnologico con il suo omologo argentino Néstor Kirchner. Tra i progetti «vitali e strategici» presi in esame dai due capi di Stato, la realizzazione del Banco

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del Sur e il rafforzamento del processo di integrazione energetica. Il giorno dopo è partito alla volta della Bolivia, dove ha visitato la zona colpita dalle recenti inondazioni (il governo di Caracas ha offerto 15 milioni di dollari in aiuti umanitari, contro il milione e mezzo promesso da Bush) e ha poi preso parte –insieme a Morales– a una seconda manifestazione antimperialista nella combattiva città di El Alto. Il viaggio di Chávez non si è fermato qui: si è recato in Nicaragua, dove è stato ricevuto da Daniel Ortega e dove ha concordato la costruzione di una raffineria di petrolio nella località di León e l’incorporazione di Managua al progetto Telesur. Lunedì 12 è sbarcato in Giamaica, dove si è incontrato con la prima ministra Portia Lucretia Simpson-Miller. Nel colloquio sono stati presi in esame i progressi negli accordi in campo energetico, delle finanze e della viabilità sottoscritti tra i due paesi nell’agosto 2006.

• Irlanda del Nord. 13 marzo. La Commissione di Verifica lascia senza scuse il DUP. Nel

suo ultimo rapporto (il quattordicesimo) reso noto ieri, si dice che l’IRA non è venuto meno ai suoi impegni con il processo di pace, anche se gruppi dissidenti repubblicani si mantengono attivi. Il rapporto tratta anche dell’evoluzione del piano di smilitarizzazione britannica e notifica la chiusura di altre due basi militari nei sei mesi analizzati. In totale, le enclave militari si sono ridotte da ventiquattro a venti, e delle quattordici che si riteneva rimanessero operative, Londra ha detto che saranno chiuse quattro. Quanto alla riduzione del numero delle truppe a cinquemila soldati, la Commissione rileva che questa sarà conseguita entro questa estate.

• Irlanda del Nord. 13 marzo. Domani DUP, Sinn Féin, SDLP e UUP nomineranno i loro

ministri per il nuovo governo. Se il DUP lo farà, sarà un passo in avanti verso l’esecutivo multipartitico, all’interno del quale il DUP avrà quattro ministri, Sinn Féin tre, SDLP due e UUP uno.

• Israele / Palestina. 13 marzo. Tel Aviv sotto accusa per apartheid e colonialismo ai danni

dei palestinesi. Sono questi i crimini attribuiti a Israele da John Dugard, inviato ONU per la situazione palestinese ed esperto di diritti umani, in una relazione letta nel corso del quarto meeting dell’ONU sui diritti umani in corso a Ginevra. «Ci sono elementi di occupazione che rappresentano forme di colonialismo e di apartheid, e che violano la legge internazionale», scrive Dugard, che fa riferimento anche alle conseguenze legali del comportamento adottato dal governo israeliano: «La questione potrà essere appropriatamente posta alla Corte internazionale di giustizia per un ulteriore parere».

• Iraq. 13 marzo. Una rapida exit strategy dall’Iraq nel caso in cui l’invio di truppe

supplementari si rivelasse inefficace o se il Congresso ostacolasse il dispiegamento dei rinforzi. È l’ipotesi allo studio del Pentagono confermata dalla Casa Bianca dopo che la notizia è apparsa sul The Los Angeles Times. Il portavoce Gordon Johndroe ha citato le parole del segretario alla Difesa Robert Gates che la scorsa settimana aveva dichiarato che sarebbe «irresponsabile per gli USA non considerare una via d’uscita alternativa se l’attuale escalation del livello delle truppe non riuscisse a porre fine alla violenza in Iraq». A indurre gli strateghi del Pentagono a puntare a un programma alternativo c’è la consapevolezza, ormai largamente maturata, che potrebbe non bastare nemmeno la decisione di Bush d’inviare nel paese arabo occupato ulteriori 21.500 uomini con compiti bellici in senso stretto, più 4.500 adibiti a funzioni logistiche, per un totale di 26.000 effettivi da aggiungere ai 140.000 già di stanza nel Paese del Golfo Persico.

• Venezuela / Nicaragua. 13 marzo. Chávez e Ortega siglano intesa su energia e

comunicazioni. «Non abbiamo più bisogno di andare a mendicare dal nefasto Fondo Monetario Internazionale né da nessun altro. Oggi abbiamo creato la ‘Banca del Sud’, in

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cui è incluso anche il Nicaragua»: lo ha detto il presidente venezuelano Hugo Chávez durante l’incontro dedicato alla «fratellanza latinoamericana» ospitato nel quartiere Subtiava di León, 90 km a nord-est di Managua, ultima tappa del suo viaggio ufficiale che ha già toccato Argentina e Bolivia. «Sono felice di annunciare che qui costruiremo una grande raffineria per lavorare il greggio venezuelano», ha aggiunto Chávez prima di firmare con il suo omologo nicaraguense Daniel Ortega un ‘memorandum di intenti’ per la costruzione dell’impianto, con un costo stimato di 2 miliardi e mezzo di dollari, in cui transiteranno giornalmente 150mila barili di greggio venezuelano. «Crederemo agli Stati Uniti e al presidente Bush» –gli ha fatto eco Ortega– «solo se si ritireranno immediatamente dall’Iraq e impiegheranno quel denaro per tirare fuori dalla povertà gli statunitensi e investire nello sviluppo dell’America Latina».

• Corsica. 14 marzo. Vogliono portar via un dirigente nazionalista dopo avergli perquisito la

casa, ma lui si rifiuta di seguirli. Parecchie decine di militanti gli danno man forte, pone le sue condizioni e alla fine la spunta. Uomini dell’antiterrorismo dello SdaT (Sous direction des affaires terroristes, ex-Dnat) si sono presentati ieri, alle 06.30 del mattino, a Lavasina (nell’Alta Corsica), una dozzina di km a nord di Bastia, all’abitazione di Paul-Fêlix Benedetti. Il nome del portavoce del movimento indipendentista pubblico còrso, U Rinnovu, è inscritto nell’inchiesta del giudice parigino dell’antiterrorismo Gilbert Thiel. Questi sta indagando su una serie di attentati attribuiti ad uno dei due principali movimenti indipendentisti clandestini còrsi (l’FLNC 22 ottobre) e su delle conferenze stampa clandestine di detto movimento. Dopo tre ore di perquisizione l’invito a Benedetti a seguirli al commissariato di Bastia. Nel frattempo, grazie a quella che sull’isola è chiamata «fratelliphone», amici e militanti di U Rinnovu affluivano presso l’abitazione presidiata anche da un consistente dispiegamento di gendarmi. Benedetti ha declinato l’invito «perché», ha detto Gérard Dysktra, altro dirigente di U Rinnovu e suo amico personale, «lui non ha niente da rimproverarsi e poi non gradisce salire sulle vetture della polizia». Le sue condizioni di recarsi al commissariato a piedi ed insieme al centinaio di amici e compagni presenti non passa. Il più vicino commissariato dista dal luogo 8 km. Dopo interminabili negoziazioni tra gli uomini della SdaT, la prefettura ed i militanti nazionalisti presenti, e di fronte all’impossibilità di prelevare Benedetti, si decide di procedere alla sua audizione sul posto. Un fatto mai avvenuto in Corsica e pare in tutta la Francia, stando a quanto riportato dalla stampa. Dopo parecchie ore d’«interrogatorio», consistente in «una discussione su questioni di politica generale», Benedetti è stato rimesso in libertà (h. 15.15), le varie forze di polizia se ne sono andate e si è aperto sul posto un mega-picnic a base di pizza. Rinnovu ha poi convocato un’immediata conferenza stampa a Bastia. «Non c’è alcun dubbio: sono stati il coraggio e la mobilitazione rapida di un centinaio di militanti e simpatizzanti e di sindacalisti dell’STC (Sindacato dei Lavoratori Còrsi, ndr) che hanno impedito questo tipo di azione repressiva della giustizia speciale (francese, ndr) e della sua polizia politica», ha detto Benedetti, che ha rivendicato il diritto all’autodeterminazione del «popolo còrso, legittimo sulla sua terra, esasperato di vedere questi muri che gli vengono frapposti in casa propria». Sconcerto sulla stampa francese che parla di schiaffo alla prestigiosa SdaT.

• Irlanda del Nord. 14 marzo. Mandelson critica Blair. Peter Mandelson, ex ministro per il

nord Irlanda, ha criticato la politica di Tony Blair per aver «irresponsabilmente fatto troppe concessioni al Sinn Féin per arrivare ad un accordo». Lo fa intervistato ieri dal pro laburista The Guardian. Queste dichiarazioni arrivano nel pieno delle negoziazioni per la formazione del governo nel nord Irlanda dopo le elezioni della scorsa settimana. Subito dopo la pubblicazione di queste dichiarazioni, Mandelson ne ha sfumato la portato sostenendo che non intendeva criticare le attuazioni di Blair.

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• Somalia. 14 marzo. Bombe sul palazzo presidenziale di Mogadiscio, villa Somalia, dove il presidente Abdullahi Yusuf si era ufficialmente reinsediato da lunedì. «Molti morti». Il disastro politico è anche peggio. I “signori della guerra” e le Corti islamiche, cacciate dall’intervento etiopico, rendono insostenibile la situazione del governo di transizione che gli etiopici e i peace-keeper dell’Unione Africana cercano di sostenere.

• Russia / Iran. 14 marzo. Mosca blocca una fornitura di uranio per la centrale di Busher.

L’Iran definisce «deplorevole» la decisione della Russia. La Atomstroiexport, la compagnia di Mosca che sovrintende alla costruzione della centrale di 1.000 Megawatt di Busher, sulle rive del Golfo Persico, ha annunciato lunedì sera che cento tonnellate di uranio parzialmente arricchito che avrebbero dovuto raggiungere questo mese la repubblica islamica non arriveranno «per carenza di fondi», mancati pagamenti da parte dei committenti. Di conseguenza –ha detto il Cremlino– la prima centrale atomica iraniana a fini civili non potrà iniziare a funzionare, come previsto, nel settembre di quest’anno. Tehran ha negato qualsiasi ritardo nei pagamenti e il negoziatore Ali Larijani, l’uomo che sta difendendo il suo programma atomico in tutte le sedi internazionali, ha definito «deplorevole» la decisione di Mosca. Larijani ha dichiarato all’Irna che il «ritardo» evidenzia la necessità per l’Iran di riuscire a produrre in proprio combustibile nucleare: «Non c’è alcuna garanzia per le forniture di combustibile nucleare e l’insistenza e le richieste dell’Iran a questo proposito sono assolutamente giustificate». Intanto l’Aipac, la lobby ebraica statunitense, passa all’azione e lancia una campagna di boicottaggio contro le aziende che investono in Iran. Nel mirino del direttore esecutivo dell’Aipac, Howard Kohr, i fondi pensione dello Stato della California (i CalPERS), oltre un miliardo di dollari che verrebbero in parte investiti in aziende straniere che contribuiscono allo sviluppo del settore energetico iraniano. La lobby ebraica –ha annunciato Kohr– farà pressione per il disinvestimeno in dieci stati nordamericani.

• Nepal. 14 marzo. Le ribellioni nel Terai, regione ormai fuori del controllo governativo,

rischiano di rallentare fortemente il processo di pace. Dopo dieci anni di guerra civile e oltre 13mila morti, il 19 gennaio 2007 è stata approvata la Costituzione provvisoria. Tra le novità della nuova carta l’ingresso in Parlamento dei maoisti (83 deputati), sia uomini che donne, con l’esclusione di Prachanda leader del gruppo maoista ma non membro del Parlamento, che si preparano anche a far parte del governo provvisorio e ad essere eletti, in giugno, nell’assemblea costituente che sancirà la nascita del nuovo Nepal. Dopo l’approvazione del testo costituzionale sono iniziate le proteste antigovernative della popolazione della regione del Terai, degenerate in violenti scontri.

• Nepal. 14 marzo. La popolazione del Terai, scrive Maria Iolanda Famà su Equilibri.net,

rivendica una ridefinizione delle circoscrizioni elettorali tale da garantire ai madhesi (da Madhesh, altro nome della regione del Terai, che significa «terre umide») un’adeguata rappresentanza nell’assemblea costituente che verrà eletta a giugno e la garanzia che il futuro assetto statale del Nepal sarà federale, con un’ampia autonomia per la regione del Terai. Le proteste antigovernative della popolazione della regione, nei giorni successivi all’approvazione della Carta, sono degenerate in scontri con almeno una quindicina di morti, tra manifestanti e poliziotti. Assaltate decine di stazioni di polizia e uffici governativi. Numerose strade della regione, le principali del paese, sono bloccate dai manifestanti ormai da settimane.

• Nepal. 14 marzo. A guidare la rivolta è il Forum per i Diritti del Popolo Madhese (Madhesi

Janadhikar Forum), capeggiato da Upendra Yadav, che chiede la creazione di un sistema federale, una maggiore autonomia per il Terai e una rappresentanza su base proporzionale in vista delle elezioni di giugno dell’Assemblea costituente. Il Forum, che denuncia di essere

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stato escluso dal processo di pace tra governo e maoisti, ha annunciato il 12 marzo per bocca dello stesso Yadav l’intenzione di cambiare strategia di protesta, abbandonando lo sciopero generale che ha fino ad oggi paralizzato qualsiasi attività pubblica nei 22 distretti del Terai per concentrarsi sulla chiusura di tutti i punti d’accesso tra India e Nepal. L’accesso ai centri di Nepalgunj, Birgunj, Janakpur e Kakarbhitta è già interdetto da febbraio e gli uffici doganali sono stati di fatto chiusi. Il prossimo passo dovrebbe essere il blocco di tutti gli uffici governativi nel Terai, inclusi gli uffici che riscuotono le tasse, e i pagamenti delle bollette di elettricità e telefono. Ai cittadini è stato chiesto di non effettuare alcun pagamento. Secondo il programma di Upendra Yadav, il 29 marzo migliaia di abitanti del Terai dovrebbero circondare Singha Durbar (Kathmandu), il cuore dell’amministrazione centrale, dove hanno sede l’ufficio del Primo Ministro, il Parlamento e i principali ministeri nepalesi. Le pressioni del Forum sono volte ad ottenere come primo passo le dimissioni del ministro degli interni Krishna Prasad Sitaula, ritenuto moralmente responsabile per la morte delle persone rimaste vittime degli scontri seguiti alle proteste (sino ad oggi circa 35 persone). Il primo ministro, Girija Prasad Koirala, ne ha però escluso le dimissioni, perché gode del supporto anche dei maoisti.

• Nepal. 14 marzo. Oltre agli scioperi e ai blocchi attuati dal Forum, c’è il Fronte di

Liberazione Democratico del Terai – Fazione Jwala (Janatantrik Terai Mukti Morcha– Jwala, JTMM-Jwala). Il Fronte di Liberazione Democratico del Terai (JTMM) è nato nel 2004 dalla scissione del gruppo fedele a Jai Krishna Goit (uno dei luogotenenti del leader maoista Prachanda) dal Partito Comunista del Nepal - Maoista. Il leader del JTMM, chiede l’indipendenza di questa regione, e dal 2004 combatte per la creazione di uno Stato Terai indipendente, con un proprio esercito, una propria polizia e una propria amministrazione. Dal luglio 2006 i guerriglieri del JTMM si sono ripetutamente scontrati con i maoisti, oltre che con le truppe governative. Goit, che si nasconde nel nord dell’India, minaccia di dichiarare guerra al nuovo governo di unità nazionale nepalese se le rivendicazioni del Terai non verranno accolte. Le rivendicazioni del Fronte si basano sul fatto che la regione del Terai è situata al confine con l’India (è una fascia pianeggiante e molto fertile) abitata dai madhesi che sono di lingua hindi e costituiscono metà dell’intera popolazione nepalese, da sempre però tenuta dai pahadi (che significa gente delle colline) ai margini della vita politica ed economica del paese.

• Nepal. 14 marzo. I pahadi che abitano la fascia centrale del paese, detto anche pahad, ossia

gli altopiani ai piedi dell’Himalaya, sono sempre stati i protagonisti della vita politica del Paese, essendo gli unici ad essere eletti e a lavorare per le istituzioni del Nepal. Questa marginalizzazione politica unita ad una differenza linguistica hanno fatto sì che le due regioni del Nepal convivano senza però instaurare legami politici od economici. Dal JTMM si è inoltre recentemente resa di fatto autonoma la già citata Fazione Jwala, guidata, appunto, da Jwala Singh. Il 12 marzo il JTMM-Jwala ha annunciato la rottura della «tregua unilaterale» e immediatamente dopo si sono registrati scontri a fuoco con unità paramilitari dei maoisti. Il giorno seguente la fazione ha rapito tre dipendenti governativi richiedendo un riscatto di un milione di rupie nepalesi (circa 10.600 euro). L’ingresso in campo del JTMM-Jwala rende la situazione ancora più instabile dato che, mentre il Forum impiega come mezzo di lotta principalmente scioperi e blocchi, il gruppo di Jwala Singh è da tempo dedito a rapimenti, estorsioni e omicidi di attivisti politici. Non a caso la recente offensiva del JTMM-Jwala segue il rifiuto da parte del governo di garantire l’amnistia per i reati commessi dai membri del gruppo.

• Nepal. 14 marzo. Alle rivendicazioni dei ribelli, le risposte della classe politica sono state

diverse. Il leader maoista Prachanda ha dichiarato di essere ben consapevole della minaccia rappresentata dal movimento separatista. Per lui la soluzione sarebbe la creazione di una

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repubblica federale che garantisca autonomia ed eguali diritti alle popolazioni nepalesi. Il leader maoista ha anche dichiarato: «Se dovessimo decidere di combatterli, li sconfiggeremmo nel giro di una settimana». Dichiarazioni d’avvertimento nel caso in cui le rivendicazioni si spingessero troppo oltre. Il fatto che Prachanda abbia fatto sapere di ritenere legittime le rivendicazioni della popolazione del Terai ha indotto il primo ministro nepalese, Girija Prasad Koirala, preoccupato anche del degenerare della protesta, a rivolgere ai manifestanti un appello alla calma e al dialogo, dicendosi pronto ad intavolare un negoziato politico sulle questioni sollevate: ridefinizione delle circoscrizioni elettorali che garantisca ai madhesi un’adeguata rappresentanza nell’assemblea costituente che verrà eletta a giugno e garanzia che il futuro assetto statale del Nepal sarà federale, con ampia autonomia per la regione del Terai.

• Nepal. 14 marzo. Il numero due dei maoisti, Barubarm Bhattarai, ha invece pubblicamente

dichiarato di condividere la tesi che va per la maggiore negli ambienti governativi di Kathmandu: quella del «complotto indiano». Secondo Bhattarai, dietro la rivolta del Terai ci sarebbe lo zampino dei nazionalisti indiani del Bharatiya Janata Party, da sempre desiderosi di mettere le mani sulle pianure meridionali del Nepal, abitate da una popolazione affine a quella indiana, che condivide con l’India anche la medesima lingua. «Il BJP ha fatto arrivare nel Terai camion carichi di gente del Bihar», ha detto Bhattarai, spiegando che si tratterebbe di «agitatori mandati a fomentare le violenze». Un Terai indipendente cercherebbe legami molto stretti con il vicino gigante indiano e l’attuale fase di transizione del Nepal rappresenta per Nuova Delhi un’irripetibile occasione d’intervento. Non tutti la pensano come lui e vedono la volontà dei movimenti politici madhesi di alzare la posta per acquisire più peso nel futuro assetto istituzionale del Nepal.

• Nepal. 14 marzo. Il governo nepalese non può permettersi una manovra militare nella

regione del Terai per due ragioni: una di carattere politico ed una economica. La ragione politica è che i maoisti vogliono provare a dialogare con i ribelli, ed in parte accettano le rivendicazioni. Riconoscono che l’assetto politico del Paese è stato finora sbilanciato a favore della popolazione pahadi, ed il processo di pace potrebbe essere l’occasione per riequilibrare la situazione. Se il primo ministro decidesse di inviare delle truppe, quindi, rischierebbe di generare una nuovo conflitto con i maoisti. La ragione economica è riassumibile con i dati presentati dalla Federazione Nepalese delle Camere di Commercio ed Industrie, che mostrano come, solo nei primi 20 giorni di agitazione politica, le oscillazioni della moneta del paese abbiano portato perdite di miliardi di dollari alle esportazioni, alle importazioni e alle industrie dei trasporti. L’unica via praticabile sembra essere quella del dialogo.

• USA / Iraq. 14 marzo. Il Pentagono avvia l’espansione dei suoi due maggiori centri di

detenzione militari in Iraq, in previsione dell’ondata di arresti che dovrebbe essere tra le conseguenze del nuovo piano per la sicurezza in corso di attuazione a Baghdad. Lo scrive il Washington Post, citando documenti di appalti per lavori nelle prigioni. L’espansione riguarda il centro di detenzione di Camp Bucca, nel sud dell’Iraq e quello di Camp Cropper, alla periferia della capitale. Il primo ospita oggi circa 13.800 detenuti iracheni, mentre il secondo ne contiene circa 3.300.

• USA. 14 marzo. Traumatizzato 1 su 3, ed un quarto dei soldati USA di ritorno da Iraq e

Afghanistan ha bisogno di cure mediche soffrendo problemi di salute mentale. Lo rivela uno studio pubblicato da Archives of Internal Medicine, che ha esaminato 103.788 militari fra il 2001 e il 2005. La diagnosi più frequente è stress post traumatico, seguito da ansietà, depressione e dipendenza da droghe. Ma quella rappresentata non è ancora la realtà poiché

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solo un terzo dei veterani si è rivolto alle strutture mediche governative dove l’indagine è stata condotta.

• Ecuador. 14 marzo. I deputati di destra rientrano a forza nel Congresso. Scontri. Il

presidente fa appello al popolo. La crisi istituzionale in Ecuador precipita. Il gruppo di 57 deputati destituiti (cfr. Ecuador. 8 marzo) dal Tribunale Supremo Elettorale (TSE) ieri è rientrato a forza nel palazzo del Congresso. Il palazzo era circondato da due cordoni di polizia. Uno, la Polizia nazionale, agli ordini del governo e del TSE, che cercava di bloccarli; l’altro della Scorta legislativa agli ordini dal presidente del Congresso nazionale, Jorge Cevallos, che voleva farli entrare. Facendosi largo a spintoni, urla e imprecazioni, i deputati espulsi sono riusciti a sfondare il cordone della Polizia nazionale con l’appoggio della Scorta legislativa e di gruppi di civili arrivati da Guayaquil con pulman organizzati da Noboa. L’azione è stata cruenta. Anche qualche colpi d’arma da fuoco. Alla fine gli espulsi sono riusciti a entrare nell’aula. Alle 10 di ieri mattina il presidente del Congresso Cevallos, dopo aver consentito l’entrata violenta degli espulsi, ha dichiarato sospesa, adducendo ragioni tecniche, ogni attività del Congresso per una settimana. Quindi è saltata la seduta parlamentare prevista con i supplenti al posto dei 57 destituiti. Gli eventi si sono susseguiti tumultuosi. La strategia di Cevallos e dei partiti conservatori che rappresenta è chiara: prendere tempo, per permettere al Tribunale Costituzionale (TC), cui i 57 hanno fatto ricorso, di annullare la decisione del TSE. Ma il TC se n’è lavato le mani sostenendo la sua incompetenza e rimandando la palla. E il TSE ha dichiarato allora che «si sta prendendo in considerazione la possibilità di destituire Cevallos».

• Gran Bretagna. 15 marzo. «Basta sensi di colpa per le guerre». All’insegna di questo il

primo ministro Tony Blair ha fatto passare il riarmo nucleare, sostenuto dai voti dei conservatori e nonostante il no di 95 deputati Labour e le proteste pacifiste. Blair ha portato a casa la vittoria, dopo sei ore di acceso dibattito. Prima del dibattito di ieri sera in parlamento c’erano state le dimissioni di tre sottosegretari e le proteste di ambientalisti, movimento no war, no nuke, oltre a decine di personaggi celebri. Non è bastato. Tony Blair ha usato toni apocalittici alla House of Commons con l’aut aut: o si rinnova il Trident (sistema di difesa nucleare) o la Gran Bretagna sarà esposta a rischi enormi. Prima del voto finale c’era stato l’estremo tentativo dei ribelli di far passare una mozione che ritardava la decisione sul sistema missilistico, visto che la necessità di un suo rinnovo non era affatto dimostrata. Parlando a Sky Blair ha detto che «finché il mondo occidentale non la smetterà di chiedere scusa per i suoi valori, di chiedere scusa per ciò che le sue truppe stanno facendo in Iraq e Afghanistan, non sconfiggeremo mai i tentativi di chi con il terrorismo vuole distruggere la democrazia. Finiremo in una situazione in cui più queste persone si comportano male, più aumenteranno le ragioni di un nostro ritiro, anzichè la nostra determinazione a portare a termine un giusto compito». Il sistema missilistico Trident, commissionato da Margaret Thatcher nel 1980, è un sistema di difesa marino, composto da tre elementi: i sottomarini, le testate nucleari e i missili. Le testate nucleari sono 200.

• Unione Europea / Siria. 15 marzo. Sostegno sul Golan, ma stop a Hezbollah. Ieri, a

Damasco, il rappresentante della politica estera dell’Unione Europea, Xavier Solana, ha detto di sostenere le rivendicazioni siriane sul Golan, occupato da Israele, ma di pretendere un’azione del regime di Assad contro il libanese Hezbollah.

• Russia. 15 marzo. La Russia sta elaborando un sistema di difesa anti-missile che «supera

per le sue caratteristiche quello attualmente in uso, il S-400 ‘Triumf’». Lo annuncia il comandante in capo delle forze aeree Vladimir Mikhailov all’agenzia Itar-Tass. «Stiamo passando dalla fase teorica a quella sperimentale», dice il generale che tiene a precisare il

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«carattere difensivo» del nuovo sistema. Mosca è irritata dall’annuncio USA di voler installare in Polonia e in Repubblica Ceca sistemi anti-missile giustificati come difesa contro eventuali ordigni iraniani o nordcoreani. Una mossa che lascia perplesse anche l’Europa e la NATO, dato che non assicurerebbe protezione a tutti i membri dell’Alleanza, ma lascerebbe scoperta la fascia sud, Italia compresa. Per il Cremlino, la principale obiezione è che lo scudo USA appare più uno strumento in chiave anti-russa che un’arma di difesa contro i cosiddetti «paesi canaglia».

• Palestina. 15 marzo. Per il nuovo governo palestinese di unità nazionale è fatta. Oggi il

premier incaricato Ismail Haniyeh (Hamas) ha consegnato la lista dei ministri al presidente Abu Mazen che poco dopo ha firmato il documento. Il nuovo gabinetto e il suo programma saranno presentati sabato prossimo al Consiglio Legislativo Palestinese (CLP), il parlamento dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), per il voto di fiducia (che appare scontato). Subito dopo il nuovo esecutivo sarà in carica e a quel punto si capirà se verrà finalmente revocato l’embargo scattato contro l’ANP un anno fa dopo la vittoria elettorale di Hamas. Le prospettive sono poco incoraggianti. Israele ha ieri comunicato che non tratterà con il nuovo governo palestinese e si aspetta che la comunità internazionale faccia lo stesso. Non sarà deluso. Emma Udwin, portavoce del commissario alle relazioni esterne, Benita Ferrero-Waldner, ha fatto sapere che «occorrono consultazioni con i nostri partner (USA e Israele, ndr) per capire in che modo e quando riprendere le relazioni» con l’esecutivo palestinese. Washington da parte sua ha già fatto sapere di allinearsi alla posizione di Tel Aviv.

• Palestina. 15 marzo. L’assedio continuerà, ma il nuovo governo rappresenta già una

risposta ad un problema urgente: lo scontro tra Hamas e Fatah. Il conflitto ora dovrebbe terminare. Il programma di governo prevede il «rispetto» dei precedenti accordi con Israele ma stabilisce che «la resistenza è un legittimo diritto del popolo palestinese» e che la sua fine dipenderà «dalla fine dell’occupazione e il ritorno della libertà». «La chiave della stabilità e della sicurezza nella regione», si sostiene, «sta nella fine dell’occupazione israeliana della terra palestinese, del riconoscimento del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione... e nel ristabilimento dei diritti legittimi del popolo palestinese». Si rivendica inoltre «il diritto al ritorno dei profughi palestinesi». Alla stretta di mano decisiva tra Abu Mazen e Haniyeh si è giunti dopo settimane di trattative sul ministero dell’Interno, affidato ad Hani Kawasmi, considerato un indipendente vicino ad Hamas. Il nuovo ministro degli esteri sarà il deputato e docente universitario Ziad Abu Amr. Vice premier, Azzam al Ahmed, capo gruppo di Fatah in Parlamento. In tutto Hamas avrà 9 ministri, Fatah 6, il Partito del Popolo uno, il Fronte Democratico uno. Restano fuori dalla coalizione il Fronte popolare e il movimento della Jihad Islamica. Il ministero dell’informazione è andato al leader del partito di sinistra “Iniziativa democratica”, Mustafa Barghouti. Hamas si è tenuto ministeri dove è più facile avere rapporti con la società: l’istruzione, lo sport e la gioventù, la giustizia.

• Iran. 15 marzo. Accordo per una nuova risoluzione che inasprisce le sanzioni all’Iran per il

nucleare civile che Washington addita invece, senza alcuna prova, come militare. La Casa Bianca spera ora in un voto veloce già per la prossima settimana. Il contenuto dell’accordo di oggi tra i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più la Germania, reso noto dall’agenzia Reuters prevede: 1) 60 giorni di tempo per l’Iran per sospendere l’attività di arricchimento dell’uranio e l’AIEA ha il compito di verificare la scadenza. 2) Si allunga la lista di società e singoli le cui proprietà saranno congelate: fra cui la banca Sepah, di proprietà statale e aziende controllate dai pasdaran. 3) Embargo totale all’esportazione di armi convenzionali made in Iran. 4) Tutti i paesi e le istituzioni finanziarie internazionale non dovranno concedere nuovi «finanziamenti e prestiti al paese» eccetto che per «scopi umanitari e di sviluppo». 5) Ai governi di tutto il mondo viene chiesto, ma non imposto, di

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vigilare sui viaggi all’estero dei funzionari iraniani coinvolti in attività nucleari. Se entro 60 giorni dall’approvazione della risoluzione l’Iran sospenderà i suoi programmi nucleari le sanzioni saranno sospese, altrimenti ne saranno adottate altre, più dure. Viene comunque escluso un intervento militare.

• India. 15 marzo. La guerrilla maoista uccide 49 poliziotti nella regione centrale di

Chastisgarh. L’attacco, oggi, è il più consistente dall’inizio dell’anno. Secondo l’ispettore generale della polizia dell’area di Bastar, R.K. Vij, citato dall’agenzia Efe, «circa 500 naxaliti (guerriglieri maoisti, ndr) armati hanno attaccato il posto di polizia con granate e bottiglie molotov, e aprendo il fuoco all’impazzata». Nel commissariato si trovavano 24 agenti del Corpo Armato e 55 membri della Polizia Speciale.

• Corea del Nord. 15 marzo. Pyongyang non inizierà il disarmo finché Washington non

toglierà le sanzioni. È il compromesso (la «disponibilità») che il governo nordcoreano ha trasmesso ieri al direttore generale dell’Agenzia Internazionale di Energia Atomica (AIEA), Mohamed el Baradei, per smantellare il proprio arsenale nucleare e che questi ha reso pubblico in conferenza stampa. Si tratta del primo passaggio sulla via dell’attuazione degli accordi raggiunti il 13 febbraio a Pechino nel corso dei colloqui a sei per lo smantellamento degli arsenali e dei programmi nucleari di Pyongyang. La Corea del Nord si è dichiarata pronta a rientrare nell’AIEA e aprire le porte dei suoi impianti atomici agli ispettori dell’Agenzia internazionale per il disarmo nucleare e gli Stati uniti, poche ore dopo, hanno reso noto di aver intrapreso le prime azioni per sbloccare i fondi bancari nordcoreani congelati da due anni a causa di sanzioni finanziare decise contro Pyongyang.

• Colombia. 15 marzo. Politici reclutavano paramilitari. Sono stati politici governativi

colombiani di spicco a reclutare i paramilitari delle Autodedefensas Unidas de Colombia (AUC) e non il contrario. Lo sostiene il procuratore generale, Mario Iguarán, in un’intervista ad un canale regionale della televisione pubblica. Ha precisato che la sua è l’«impressione» e la «sensazione» che gli lasciano le carte dell’inchiesta sul cosiddetto scandalo della «parapolitica», i presunti nessi tra uomini del Congresso, funzionari ed esponenti di governo con le AUC. L’inchiesta «è molto importante perché ci sta dimostrando (...) che non furono le AUC a reclutare la classe politica, ma fu la classe politica che reclutò le AUC», ha proseguito Iguarán.

• Colombia. 15 marzo. Camilo 41 anni dopo. Il 15 febbraio del 1966 veniva ucciso il prete-

guerrigliero Camilo Torres Restrepo nel suo primo conflitto a fuoco. Ad ucciderlo l’esercito regolare colombiano nella remota regione di Santander, a Patiocemento, tra il Cerro de los Andes e la Cordillera de los Cobardes. Il suo cadavere fu fotografato e minuziosamente esaminato dalle autorità militari colombiane e da esperti dei servizi segreti USA al fine di essere certi dell’identità del guerrigliero caduto. Quando furono sicuri che si trattava di Camilo tirarono un sospiro di sollievo: il più popolare leader politico e guerrigliero colombiano era stato messo a tacere per sempre. Troppo carismatico per dargli una degna sepoltura, il suo cadavere fu occultato e ancora oggi (quasi) nessuno sa dove si trovino i suoi resti.

• Colombia. 15 marzo. In Colombia la popolarità di Camilo, a tanti anni di distanza, rivaleggia solo con quella del Che e di Bolivar. Ancora ci si ricorda di quanto fossero affollati e partecipati i suoi comizi con il Frente Unido a Cali, Bogotà, Buenaventura, Barranquilla, Cartagena de Indias. La parabola politica e umana di Camilo Torres lo portò gradualmente ma ineluttabilmente su posizioni sempre più radicali e rivoluzionarie. Nato nel 1929 in una famiglia borghese, benestante ed anticlericale di Bogotà, scuote familiari ed amici con la sua vocazione e la

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susseguente ordinazione sacerdotale. Con una borsa di studio in Belgio riesce poi a laurearsi in sociologia all’università di Lovanio, culla dei preti-operai belgi e francesi degli anni ’50 e ’60. Ritorna in Colombia come prete-operaio nel malfamato quartiere bogotano di Tunjelito, poi viene nominato cappellano dell’università di Bogotà dove diviene presto popolarissimo tra gli studenti ed i professori. Il suo carisma e la sua lettura radicale della Teologia della Liberazione lo portano presto a scontrarsi con la gerarchia cattolica colombiana, che lo costringe a spretarsi. Ma il cammino di padre Torres ormai è segnato: dà vita al giornale Frente Unido che poi diventa un abbozzo di movimento politico intorno a cui si raggruppano comunisti, socialisti, cattolici del dissenso, contadini diseredati, sindacalisti ed indipendenti di sinistra. Camilo diventa «un pericolo» per l’oligarchia colombiana al potere e per i suoi sponsor statunitensi. Il passo verso la clandestinità e la lotta armata diventa ai suoi occhi una scelta conseguente e ineludibile, e nel 1965 entra nell’ELN (Ejercito de liberacion nacional), il gruppo armato che si rifaceva a Guevara. Non gli basta più essere un teorico, vuole partecipare alla lotta di liberazione a tutti gli effetti. Cade nel primo scontro a fuoco con l’esercito. Come per “Che” Guevara, nel momento stesso in cui muore, nasce il mito di Camilo Torres, il prete-guerrigliero. Il suo esempio sarà seguito da altri: padre Domingo Laìn, ‘el cura Perez’ che diventerà poi il capo dell’ELN, padre Uribe, padre Ernesto Cardenal che si batterà nelle file sandiniste in Nicaragua.