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“Involucri quali messaggi di architettura - Building envelopes as architecture’s messages”, Napoli, 9 -11.10. 2003

IMRE MAKOVECZ: L'INVOLUCRO COME PURA ESPRESSIONE MATERICA.

IMRE MAKOVECZ: ENVELOPE AS PLAIN MATERIAL

EXPRESSION

Gianraffaele Loddo, Daniela Ludoni Dipartimento di Architettura, Università di Cagliari

Piazza d'Armi 16, 09123 Cagliari e-mail: [email protected]

Sommario - Le opere degli esponenti del movimento organico ungherese caratterizzano fortemente l'architettura di questo paese. Con tale denominazione si trovano comprese due fasi ben distinte: la prima al volgere tra XIX e XX secolo, la seconda a partire dagli anni '70 sino ai nostri giorni. Del primo periodo fecero parte architetti come Ödön Lechner e Károly Kós divenuti noti anche a livello internazionale: Lechner alla ricerca di un carattere nazionale inserito nel filone dell'Art Nouveau, Kós traendo spunto dalla cultura della Transilvania (allora ungherese). Il linguaggio che essi svilupparono, molto diverso tra i due, aveva in comune uno spirito fortemente orientato alla ricerca di modi espressivi che affermassero l'appartenenza alla cultura magiara e il forte legame con il luogo. Della seconda fase l'esponente più noto è Imre Makovecz questa volta avendo come fonte di ispirazione non soltanto i segni della tradizione ma anche, e soprattutto, la natura nelle sue forme e manifestazioni: i risultati ottenuti hanno caratteristiche di assoluta specificità. L'attività di Imre Makovecz si è sviluppata a partire dagli anni '60 ed ha raggiunto la notorietà internazionale con la realizzazione del Padiglione dell'Ungheria per l'Esposizione Universale di Siviglia (aprile - ottobre 1992). Egli è divenuto così uno dei progettisti più in voga nel suo paese e a lui, ed al suo studio Makona, sono dovute una serie di realizzazioni che connotano spesso oltre al panorama antropizzato anche quello naturale del suo paese. Il linguaggio basato sull'uso del legno, sia come elemento costruttivo che di finitura, e delle lastre di ardesia per le sue coperture a calotta o a falde comunque curve, ha dato vita ad involucri dotati di grande personalità e di indiscussa riconoscibilità. Il richiamo figurativo di ispirazione zoomorfa o antropomorfa ne è la cifra più rilevante. Negli edifici il rapporto, sia compositivo che materico, tra le superfici complesse e scure delle coperture e quelle piane e chiare delle chiusure verticali è sempre più sbilanciato a favore delle prime proprio come nelle antiche costruzioni rurali ungheresi in cui il tetto sembra incombere sul resto del fabbricato. L'uso frequente di strutture portanti miste in legno e muratura offre la possibilità di realizzare volumi in cui le masse, talvolta enfatizzate da rivestimenti di legno a tessitura molto diversificata, si alternano ad ampie pareti vetrate. Abstract - Representatives of the Hungarian organic movement work to fully characterise the architecture of this country. With such denomination, two quite distinct periods are identified: the first nearly over XIX and XX century, the second from the 70’s until now. Architects like Ődön Lechner and Károly Kós, by then internationally famous, were exponents of the first period: Lechner at the pursuit of a national character included in the Art Nouveau current, Kós taking Transilvanian culture (at that time Hungarian) as starting point. They developed a very different architectural language, but there was an attitude in common between them that was taken greatly from the search of ways of expression that asserted to belong to the Magyar culture and strongly tie with the site. The most famous exponent of the second phase was Imre Makovecz, who took inspiration not only from tradition, but also from various shapes and expressions of nature: achieved results are absolutely specific. Imre Makovecz production developed nearly during 60’s and attained international fame with the Hungarian Pavilion at the Universal Exposition in Seville (April -October 1992). He then became one of the most popular planners in his country. Several buildings, which often characterise not only urban skyline but the natural landscape too, are accomplishments attributed to him and his Makona studio. The language is based on the use of wood, either as building element or as finish, and on the use of slate for its cap roofing or pitches still curved: and gives birth to really characteristic and recognisable envelopes. The figurative recall to human and animal shapes is the most important part of this language. In buildings both architectural and material the relationship between dark and complex surfaces of roofing and those plane and bright of the vertical finish, is still a little bit more in favour of the first ones, such as in ancient rural constructions of the Hungarian country, where the roofing looks to hang over remaining edifice. Frequent use of mixed bearing structures made of wood and masonry, offers the possibility to realise volumes where masses, sometimes brought out by wood coverings having very different textures, alternate to wide glass windows.

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L'identità ungherese Le entità nazionali eredi di un passato importante e successivamente decadute o sottomesse, coltivano lo studio delle proprie radici al fine di ritrovare spunti per una rivincita o quanto meno per la riaffermazione della propria esistenza ed importanza in relazione ai rapporti con le culture, le economie e le politiche dominanti in quel preciso contesto storico. Tutta la società ungherese muovendosi in questa prospettiva è impegnata a partire sin dalla metà dell'ottocento(1), in piena dominazione asburgica, nella ricerca delle proprie radici e nella formazione di nuovi linguaggi da queste derivati. Il fenomeno è stato prolungato e radicato tanto che alcuni esponenti del mondo intellettuale magiaro, e fautori di queste rivendicazioni, hanno raggiunto una notorietà che ha travalicato gli stessi confini nazionali. Nell'ottocento Sándor Petöfi ed Endre Ady in campo letterario e nel novecento Béla Bartók e Zoltán Kodály in quello musicale hanno tratto a piene mani dalla tradizione con l'obbiettivo di riaffermare con orgoglio lo spirito nazionale e di non disperdere il patrimonio formato dalla cultura popolare(2). In campo architettonico prima Ődön Lechner (1845-1914), poi Károly Kós (1883-1977) e Bela Lajta (1873-1920) rappresentano le diverse facce della stessa spinta irridentista e culturale; il primo utilizzando riferimenti orientaleggianti e creando una versione locale del Liberty(3), il secondo traendo spunto dai sistemi costruttivi tradizionali transilvani riuscendo ad elaborare un linguaggio fondato sull'uso dei materiali molto personale(4), il terzo sviluppando un precoce linguaggio moderno con influenze provenienti dalla scuola viennese. Dopo la prima guerra mondiale vi fu l'effimera parentesi della Repubblica dei Consigli(5) che, pur breve, vide la partecipazione diretta di importanti intellettuali come il filosofo György Lukács, gli stessi Bartók, Kodály e di quasi tutti gli architetti che si trovarono così compromessi da essere di fatto estromessi dal successivo regime filofascista di Miklós Horthy che impose per un lungo periodo le ricostruzioni in stile. Nonostante questo clima il contributo ungherese al Moderno non è stato trascurabile: László Moholy Nagy, Marcel Breuer e Farkas Molnár furono esponenti di spicco della Bauhaus. Dopo il 1928 fu fondato il gruppo locale del CIRPAC(6) cui aderirono molti giovani architetti e che non tardò a dare i suoi frutti nel campo della progettazione architettonica e urbanistica sotto la guida spirituale di Le Corbusier. Queste le alterne vicende legate al corso recente dell'architettura ungherese: nonostante si tratti di una piccola realtà in essa ritroviamo le tracce del dibattito culturale che si è dipanato nel corso degli anni nel resto del mondo. Persino durante il periodo comunista non è venuto meno, pur se ostacolato da una parte del regime, il collegamento con i movimenti esterni: le sperimentazioni, talvolta condotte tra gravi difficoltà, hanno portato negli ultimi decenni allo sviluppo di una corrente architettonica riconducibile nell'alveo del Movimento Organico. Essa è innestata sostanzialmente su tre capisaldi: le scuole facenti capo a F.L. Wright ed all'ambito finlandese, la ripresa del linguaggio elaborato all'inizio del novecento da K. Kós e le problematiche legate alla bioarchitettura, al risparmio energetico e all'uso dei materiali naturali. Il mondo organico ungherese gravita soprattutto attorno all'ambiente di Budapest e all'Università della città di Pécs: i capiscuola riconosciuti sono Imre Makovecz e György Csete(7). Imre Makovecz Imre Makovecz è nato a Budapest il 20 novembre 1935; nella capitale compì gli studi universitari laureandosi nel 1959 presso la Budapest Műszaki Egyetem(8). Durante l'esperienza nello studio statale di progettazione SZÖVTERV(9), cominciò ad avvicinarsi alle teorie antroposofiche elaborate da Rudolf Steiner che da quel periodo in poi divennero le linee guida di tutta la sua produzione architettonica e degli scritti teorici. Le posizioni critiche nei confronti del regime lo emarginarono rispetto alle vicende ufficiali tanto che, nel 1977, fu allontanato dall'Istituto di Progettazione Statale Váti, dove collaborava dal 1971, e gli venne revocata la licenza di architetto. Trovò in quel periodo la comprensione e l'appoggio del direttore dell'Organizzazione Forestale del comprensorio di Pilis che gli dette occasione di occuparsi delle strutture annesse al parco naturale: l'esperienza che maturò in qualità di responsabile dell'ufficio di progettazione fu fondamentale per lo sviluppo del suo linguaggio. Tra il 1978 e il 1980 pubblicò, quasi clandestinamente, due diari: Napló e Napló II da lui manoscritti ed illustrati che contengono le considerazioni teoriche e le

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basi della sua filosofia architettonica. Il primo riconoscimento internazionale arrivò nel 1981 quando fu tra i principali protagonisti della mostra organizzata ad Helsinki dal titolo "Tradizione e Metafora - La nuova corrente dell'Architettura ungherese": era la prima occasione di autentica visibilità per tutto il Movimento Organico magiaro(10). Nel 1984 fondò lo studio professionale Makona che divenne, in breve tempo, un punto di passaggio quasi obbligato per larghe schiere di giovani laureati che spesso, dopo una permanenza più o meno lunga in seno all'organizzazione, ne uscivano per fondare a loro volta altre forme di aggregazione professionale. Collaterale all'attività di progettista, ma non meno importante per la diffusione delle sue teorie, fu quella didattica: dalla fine degli anni sessanta fondò una sorta di scuola privata di Master, dopo due cicli organizzò un campo estivo, presso Visegrád, che segnò una tappa fondamentale per tutta l'esperienza organica del suo paese e, tra il 1971 e il 1982 e nel 1986 fu docente nei corsi post laurea organizzati dal Magyar Építőművészek Szövetsége(11). Con il nuovo corso politico arrivano per lui i primi incarichi di rilievo tra cui il padiglione ungherese all'Esposizione Universale di Siviglia del 1992. L'evoluzione del linguaggio di Makovecz, dagli esordi sino alle opere più recenti, consente di individuare una periodizzazione che permette di distinguere tre fasi: un primo periodo di sostanziale sperimentazione, un secondo di maturità dell'espressività organica ed un terzo, più recente, chiaramente post moderno. In Italia le sue opere sono state presentate in due occasioni: nell'ambito di una mostra sull'architettura organica ungherese alla Biennale di Venezia nel 1991 e con una personale tenutasi nel 1998 a Trieste. Oltre che di progettazione architettonica Makovecz si occupa anche di grafica, scenografia ed installazioni ed è spesso impegnato nelle manifestazioni a carattere nazionalistico. Il sottile confine tra terra e cielo ''L'intenzione originale dell'architettura era di creare una connessione tra terra e cielo, una connessione che illumini ed esprima il movimento e la posizione dell'uomo……''. Questo scriveva Makovecz nel periodo in cui fondò il gruppo di progettazione Makona Epitésziroda (Collettivo di Architettura Makona)(12) che di lì a pochi anni porterà alla ribalta internazionale le sue tendenze architettoniche sull'organicismo vivente fortemente legato alla sua terra d'Ungheria, sulla scia della ''Scuola di Pécs'', di cui Makovecz è stato autorevole esponente insieme a György Csete. Il confine tra terra e cielo: raramente in architettura come nei primi vent'anni dell'attività di Makovecz quest'invisibile legame è stato reso più efficacemente in una rappresentazione architettonica. L'eco lontana degli studi steineriani(13), l'influenza dei padri organicisti (le cui opere rappresentano metafore architettoniche del mondo animale e vegetale) quali F.L. Wright, B. Goff, H. Greene ed A. Aalto passando per Gaudí, e la visione olistica(14) del rapporto tra l'opera unitaria e le sue parti, si distinguono inconfondibilmente nei contenuti semantici di Makovecz: un linguaggio composto di segni archetipi intrisi di un simbolismo che trae a piene mani dalla cultura di epoche mitiche, dalla visione ormai sfumata della civiltà dell'antico popolo ungherese, tramandata attraverso le arti decorative derivate dalla tradizione con assonanze celtiche. L'uso costante, a volte inquietante, dell'iconografia ora di matrice religiosa ora mitologica o più semplicemente riferita alle antiche credenze vernacolari, assume in Makovecz la duplice valenza di rappresentazione di due universi contrapposti: quello storico, dato dalla concatenazione dei fatti realmente accaduti, e quello invisibile, ciò che lui stesso chiama ''il non accaduto'' o ciò che ''avrebbe potuto essere e non è stato'', quasi una meta-natura cui Makovecz dà voce ed espressione compiuta nelle sue opere, che acquisiscono in questo modo caratteristica di riconoscibilità. Analogamente i simboli ricorrenti del sole e della luna, come nel caso delle guglie del Római Katolikus Templom a Paks(15), rappresentano insieme il giorno e la notte, il richiamo al nomadismo delle primitive popolazioni d'Ungheria ma anche, estrapolata da quel mondo sotterraneo, l'eterna dialettica tra il bene ed il male. Ancora ricorre il linguaggio dei segni nel Magyar Pavillon a Siviglia(16), in cui Makovecz crea con il volume una nera collina in ardesia da cui spuntano sette diverse torri campanarie (immagine caratteristica della campagna ungherese) ed espone un albero, simbolo della vita, con l'apparato radicale ben visibile al di sotto di un piano trasparente, ad evidenziare l'esistenza dell'altra faccia del mondo troppo spesso ignorata.

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Il padiglione, contemporaneamente catacomba, chiesa e opera d'arte, rappresenta il tentativo di riavvicinare la nazione al resto dell'Europa. L'accezione dell'albero, nelle sue componenti stilizzate del tronco e delle ramificazioni, è spesso ricorrente sia come oggetto-scultura isolato con funzioni unicamente evocative, sia come elemento strutturale ripetuto che crea nello spazio interno un richiamo diretto alla natura, espressa dal bosco artificiale così ottenuto, sia come essenza trascendente dell'uomo in quanto parte del creato. L'incarico per il progetto del Padiglione rappresenta un vero e proprio spartiacque nella produzione dell'architetto. Egli comincia ad ottenere commesse sempre più importanti e oggetto della sua produzione diventano non più edifici o cellule di dimensioni contenute ma via via episodi sempre più vasti e complessi in cui Makovecz cerca di riconvertire le sue teorie architettoniche. Il vocabolario si arricchisce sempre più di simboli e metafore utilizzati nella doppia valenza misteriosofica e ornamentale: alla luna, al sole, alla croce, si aggiungono i richiami ai fattori numerici, alla dominazione turca, all'orografia del terreno, alle torri e campanili che formano così ridondanti elementi del suo lessico compositivo. L'architettura diventa per lui il mezzo con cui affermare la propria fede e l'orgoglio di appartenere alla nazione ungherese intesa anche dal punto di vista etnico. È soprattutto nello spazio costruito che si esprime e concretizza la centralità dell'uomo nell'universo e la sua natura divina(17); il volume è materializzato da un involucro unitario in rapporto euritmico con tutte le sue parti, e l'elemento di copertura, che scende a ricoprire gran parte delle chiusure verticali rappresenta il margine che riunisce il tutto e lo eleva alla dimensione del sacro. Siamo dunque in presenza di una copertura-involucro o involucro-copertura, i cui termini sono divenuti interscambiabili in quanto nella sintassi simbolistica di Makovecz questo rapporto è assolutamente biunivoco e reciproco. Il sistema avvolge quasi interamente l'edificio evocando nella forma planimetrica e nell'uso dei materiali, immagini zoomorfe tratte dalla mitologia, e richiami antropomorfi e fitomorfi. Dell'intimo rapporto tra gli elementi che formano l'involucro sono un significativo esempio le opere concepite da Makovecz tra il 1984 e il 1995 e l'approfondita analisi di alcune di esse quali la Erdei Művelődési Ház a Visegrád, la Faluház a Bak, il Római Katolikus Templom a Százhalombatta e l'Auditorium Maximum della Pázmány Péter Katolikus Egyetem a Piliscsaba consente di ritrovare e comprendere tutti i temi ricorrenti della produzione di Makovecz.

Figura 1 - Studi sul movimento, 1969.

Figura 2 - Porte degli angeli, Expò Budapest, 1993, (progetto).

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Erdei Művelődési Ház a Visegrád Il centro di educazione alla natura progettato nel 1984 e completato nel 1986 (con arredi di Gábor Mezei, e dipinti di Benjámin Makovecz) è situato in uno scenario paesaggistico particolarmente suggestivo, il Parco Naturale del monte Mogyoró, nei pressi di Visegrád cittadina a nord di Budapest. L'edificio, in perfetta armonia con il luogo, suggerisce la forma di un animale di altri mondi emergente dalla terra, che avvolge il volume in un tutto unitario, lasciando scoperta la parte superiore della schiena ricoperta di scaglie, ottenuta con un manto in scandole di metallo galvanizzato che producono un effetto iridescente che fa risaltare il verde del prato da cui sorge. Sulla sommità del tetto un lucernario circolare permette l'illuminazione zenitale dell'interno costituito da un rivestimento in tavole di abete rosso. La pianta è costituita da una circonferenza, di matrice steineriana, con raggio di circa 9.50 m, la struttura portante è realizzata con tronchi di quercia grezzi di circa 30 cm di diametro utilizzati come montanti che sostengono una serie di costole radiali nello stesso materiale: il sistema costruttivo, la pianta e la percezione richiamano inoltre le antiche tende (yurte) delle popolazioni nomadi ungheresi.

Figura 3 - Disegni e schizzi di progetto.

Figura 4 - Vista lato ingresso. Figura 5 - Copertura, rapporto tra le parti

del manto.

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Faluház a Bak La forza immaginifica del simbolismo traspare da questo edificio, di dimensioni contenute, situato nella località di Bak, il cui nome originario, Nemesnagybak, fu modificato in quanto esageratamente allusivo della grandezza della nobiltà. Il centro sorge, circa 15 km a sud di Zalaegerszeg, nel luogo in cui si trovava un tempo un totem sacro in memoria dei caduti della prima guerra mondiale a forma di Turul (uccello della mitologia magiara che rappresenta la discendenza del re Árpád, fondatore della patria). La realizzazione di quest'opera (interni di Gábor Mezei) diede a Makovecz l'opportunità di rievocare l'antico segno. La pianta, circoscritta da un rettangolo 11x22 m circa, a forma di rapace con le ali spiegate, nella quale si avverte il richiamo alla libertà del popolo. La struttura è formata da colonne intonacate su cui sono innestati, mediante capitelli, puntoni di legno che riproducono stilizzate fronde degli alberi. Il manto di copertura è formato da tavole di legno riciclate Granica di varie dimensioni. La posa delle tavole riproduce il piumaggio degli uccelli che scende a ricoprire quasi interamente anche le facciate dell'edificio che solo nell'immediato attacco a terra mostrano le pareti in muratura di mattoni intonacate di bianco.

Figura 6 - Pianta del 1° livello.

Figura 8 - Prospetto laterale e

sezione trasversale.

Figura 7 - Pianta delle coperture.

Figura 9 - Vista del rapporto tra le componenti dell'involucro.

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Római Katolikus Templom a Százhalombatta Százhalombatta significa Cento Colline, le stesse che facevano da quinta panoramica a questa cittadina situata 30 km a sudovest di Budapest. La forma scelta da Makovecz per la realizzazione della chiesa è dunque un chiaro riferimento alla conformazione originaria del sito. Quest'opera del periodo maturo rappresenta una svolta nell'approccio al progetto dell'autore: è infatti allo stesso tempo un sunto degli studi e delle sperimentazioni giovanili concretizzate nei lavori degli anni ottanta, e preludio ad una serie di opere successive nelle quali si ravvede la necessità da parte del progettista di riconciliarsi con la cultura classica, senza mai abbandonare le radici del suo espressivo organicismo ma proponendo piuttosto una sintesi tra i due filoni. L'analisi della pianta e dei prospetti supporta questa tesi: si ritrovano in essi i cerchi intersecantisi di derivazione antroposofica; la struttura portante costituita da colonne a forma di albero stilizzato; la copertura, che diventa involucro, a forma di cupola ricoperta o da un manto erboso o da scandole di ardesia, ed infine la torre campanaria che funge da ingresso con l'effigie di un angelo con le ali spiegate, tutti elementi ricorrenti nei lavori precedenti. L'introduzione di elementi classici è rappresentata dall'inclusione quasi forzata di quinte in muratura intonacate di bianco che si insinuano tra i due volumi a cupola intersecandoli e racchiudendoli, denunciando nel disegno delle bucature e della cornice del coronamento la loro assonanza alla cultura dotta.

Figura 10 - Pianta.

Figura 12 - Vista del rapporto tra la cupola e la quinta muraria

Figura 11 - Sezione lungo la navata.

Figura 13 - Vista del sito.

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Auditorium Maximum della Pázmány Péter Katolikus Egyetem a Piliscsaba Il complesso, situato a Piliscsaba cittadina a 20 km a nord di Budapest, sorge su un'area un tempo utilizzata per le esercitazioni dall'Armata Rossa, successivamente riacquisita dallo stato ungherese e da questo poi ceduta alla diocesi della capitale che ha programmato la realizzazione di un campus universitario. La progettazione, affidata al gruppo Makona, è stata curata da Makovecz in particolare nella realizzazione della cappella e dello Stephaneum, l'edificio che ospita l'aula magna. L'opera rappresenta il culmine della ricerca formale, iniziata con la chiesa di Százhalombatta, di un nuovo linguaggio che apre a concezioni architettoniche derivate dalla cultura umanistica. In questo progetto si fondono tipologie differenti in soluzioni costruttive non sempre riuscite, ma di sicuro effetto scenografico, unite alla presenza di icone e metafore concentrate da Makovecz in quest'opera quasi a sottolineare un compendio del vecchio linguaggio, mediato dalle nuove sperimentazioni e dai nuovi effetti decorativi come l'uso del trompe l'œil di matrice barocca. Il passaggio dalla piccola alla grande scala impone inoltre una rivisitazione in chiave tecnologica degli antichi segni, i quali pur mantenendo il loro simbolismo abbandonano i materiali originari per altri ritenuti più idonei al sistema costruttivo. Un esempio significativo è dato dalla struttura portante che ripropone ancora una volta l'albero della vita stilizzato nelle sue ramificazioni verso l'alto ma realizzato in cemento armato piuttosto che in legno. Le nervature che si diramano dai montanti sono sempre in legno e costituiscono l'orditura che supporta le coperture. L'edificio che ospita l'aula magna è situato sull'asse longitudinale del campus, il cui ingresso principale dà accesso ad una piazza anch'essa progettata da Makovecz. La pianta, pressoché simmetrica, è costituita da tre corpi: al centro due cerchi che si intersecano, dati dall'aula magna e dal palcoscenico, a destra e a sinistra due ali nelle quali si trovano le aule e i servizi accessori, collegate all'auditorium attraverso un grande atrio vetrato e delimitate da due imponenti torri dall'effetto ottico destabilizzante. I due volumi cilindrici dell'aula e della scena, inclinati sulla verticale l'uno verso l'altro, sembrano sostenersi reciprocamente e sono sovrastati da una cupola alla cui sommità una lanterna richiama la forma degli elmi turchi. La copertura di entrambe le cupole è costituita da lastre di metallo, la cui posa a ricorsi orizzontali insieme al disegno delle nervature strutturali, ricorda le cupole delle chiese italiane, segnando un omaggio o più semplicemente un avvicinamento alla cultura tardo rinascimentale e barocca. Questa tendenza è ancora più marcata nel trattamento delle pareti esterne, in muratura di mattoni intonacata di bianco, che presentano finti capitelli ed ampie bucature dalla forma e proporzioni di disegno classico. I volumi delle ali laterali, dalla planimetria mistilinea, riprendono nello sviluppo della copertura il linguaggio organico, senza però avvolgere totalmente l'edificio ma risolvendo il rapporto con l'esterno mediante l'inserimento di un porticato riproposto nella veste simbolica di filari di alberi. Anche in questo caso le murature esterne sono intonacate di bianco ma presentano un'ampia varietà di aperture, sia nella geometria sia nelle dimensioni, che sembra disconoscere il repertorio formale finora utilizzato. Il prospetto sull'atrio di ingresso si chiude con l'inclusione di due torri nelle quali la ridondante presenza di simboli e metafore che attingono a culture diverse crea un effetto di disorientamento nello spettatore.

Figura 14 - Prospetto sull'atrio di ingresso.

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Figura 15 - Dettaglio delle coperture ad elmo.

Figura 16 - Sezione verso l'ingresso.

Figura 17 - Rapporto tra le coperture.

Figura 18 - Pianta d'insieme dello Stephaneum. NOTE (1) In perfetta coincidenza temporale con gli analoghi movimenti indipendentisti che interessarono molte identità europee. (2) Nei primi decenni del Novecento numerosi musicisti e architetti percorsero le campagne che conservano ancora integre, nelle melodie nei segni e nelle tecniche costruttive, le tracce della cultura originaria. (3) Il riferimento alle culture orientali non è casuale: i magiari provenivano proprio dalle regioni oltre gli Urali. (4) Sino alla fine della prima guerra la Transilvania ha fatto parte integrante (anche linguisticamente) dell'Ungheria. Nel 1920 con il trattato di Trianon la nazione magiara perse due terzi del territorio e metà della popolazione tutta la regione transilvana fu annessa al Regno di Romania. Ancora oggi le popolazioni locali, di nazionalità rumena,

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conservano lingua, tradizioni e costumi nonostante i ripetuti tentativi di cancellarne l'identità. L'opinione pubblica ungherese è particolarmente attenta a queste problematiche e ad alcune, tra le tante, manifestazioni di supporto a tali istanze ha partecipato lo stesso Imre Makovecz molto sensibile politicamente agli aspetti nazionalistici. (5) La Repubblica dei Consigli fu un'esperienza di matrice sovietica che si concluse, dopo appena 133 giorni, con la fuga di Béla Kun in Russia. (6) Il Congrés Internationaux d'Architecture Moderne (CIAM) deliberò, nella riunione di Francoforte, l'istituzione di tre organismi: l'Assemblea Generale, il Comité International pour la Realisation des Problémes de l'Architecture Contemporaine (CIRPAC) e i gruppi di lavoro su temi specifici. (7) György Csete è nato a Budapest nel 1937 ed è autore di alcuni importanti episodi architettonici tra cui il Naptemplom a Pécs (1970), la Árpádházi Szent Erzsébet Templom a Halásztelek (1976) e la Ciprus Csárda a Szarvas (1982). (8) Università Tecnica, Facoltà di Architettura. (9) Makovecz collaborò con la cooperativa SZÖVTERV dal 1962 al 1971 vincendo, nel 1969, il premio M. Ybl ritenuto il principale riconoscimento ungherese in campo architettonico. (10) Il ricorrente interessamento finlandese alla causa ungherese è sempre stato molto vivo: esso è dovuto alla condivisione della stessa matrice etnica che fa del gruppo ungro-finnico un caso anomalo del panorama europeo. (11) Associazione degli Architetti Ungheresi. (12) Il ruolo del Makona Epitésziroda è fondamentale nello sviluppo del movimento Organico Ungherese: si pensi che alla mostra dedicata al fenomeno dalla Biennale di Venezia nel 1991 tra i 40 progettisti partecipanti quasi la metà hanno avuto rapporti di collaborazione con il collettivo. (13) Rudolf Steiner architetto e filosofo austriaco (1861-1925) elaborò la dottrina teosofica antroposofica che diede luogo alla scuola che da lui prende nome. La dottrina riconosce all'uomo la capacità di elevarsi con le proprie forze sino a raggiungere la conoscenza dell'invisibile e di compiere una sua necessaria funzione nell'universo. (14) Le teorie olistiche rappresentano una tendenza filosofica in contrapposizione a quella deterministica secondo cui ogni fenomeno o evento del presente è necessariamente determinato da un fenomeno o evento accaduto nel passato negando così ogni possibilità e libertà all'agire dell'essere umano. Nella visione olistica si professa, al contrario, la libertà d'azione e si ammette l'esistenza del dubbio e quindi del carattere misterioso e trascendente della natura stessa. (15) Chiesa cattolica a Paks, 1987. (16) Padiglione dell'Ungheria all'Esposizione Universale di Siviglia, 1990-1992. (17) La centralità dell'uomo nell'universo è evocata costantemente dalle teorie antroposofiche ed è ben rappresentata dai numerosi studi sulle innumerevoli forme prodotte dal movimento delle parti di un corpo umano. Makovecz ha, nel tempo, eseguito numerosissimi studi, sia grafici sia fotografici, sulla geometria di tali espressioni. BIBLIOGRAFIA DVORSZKY H., SALAMIN F. (a cura di), Architettura Organica ungherese, in La Biennale di Venezia 1991, V mostra internazionale di Architettura. Artifex Mücsarnok, Budapest, 1991. EKLER D., Sur l'architecture d'Imre Makovecz, su Techniques & Architecture, n. 360, 1985. GALL A., Kós Károly Műhelye, Tanulmány és adattár. Mundus, Budapest, 2002. GERLE J., Makovecz. Serdián, Budapest, 2002. GLANCEY J., Imre Makovecz and Corvina Muterem, in The Architectural Review, n. 1009, 1981. GLANCEY J., Makovecz embrace, in The Architectural Review, n. 1052, 1984. GUIBERT D., Imre Makovecz: projet organique, pensée périphérique, in Techniques & Architecture, n. 394, 1991. HEATHCOTE E., The Wings of the Soul, Academy Editions, London, 1997. LODDO G., Károly Kós. Dalle tecniche tradizionali al Moderno. Proceedings of the International Congress "Costruire l'Architettura: i materiali, i componenti, le tecniche". Luciano, Napoli, 2001. Magyar Építészeti kalauz az europan 4 alkalmából, in Magyar Építőművészet, n. 3, 1995. MAKOVECZ I., Az Erdei Művelődés Háza, Visegrád, su Magyar Építőművészet, n. 2, 1988. MERÉNYI F., 1857-1965, Cento anni di architettura ungherese. Appunti per una storia dell'architettura contemporanea ungherese. Accademia d'Ungheria, Roma, 1965. MEYHÖFER D. (a cura di), Contemporary european architects 2. B. Taschen, Köln, 1994. NATTERER J., HERZOG T., VOLZ M., Atlante del legno. UTET, Torino, 2000. PRIORI G., SCATENA D. (a cura di), Imre Makovecz "L'architettura unisce in sé ciò che accade realmente e ciò che sarebbe potuto accadere". Palombi, Roma, 2001. WIEBENSON D., SISA J. (a cura di), The Architecture of Historic Hungary. Massachussetts Institute of Technology, London, 1998.