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IL PROCESSO PENALE
L'ORDINAMENTO GIUDIZIARIO
§ I tribunali comunali
Dalla fine del XII secolo l’amministrazione della giustizia è collegata alla nascita dei comuni
e dunque alla fine dei poteri giudiziari dei vescovi-conti (conti: titolari del potere di governo nelle
contee in cui era ripartito l’impero carolingio e post-carolingio, spesso la carica era assegnata ai
vescovi), titolari dell’amministrazione della giustizia nell’altomedioevo carolingio e post-carolingio.
Nasce così il tribunale consolare che, una volta sorto (legalmente o abusivamente), funzionò
sempre, benché non mancarono i tentativi dei vescovi-conti di accordarsi coi consoli per spartirsi le
funzioni giudiziarie, anche dopo che la Pace di Costanza (1183) aveva riconosciuto ai consoli la
giurisdizione esclusiva nelle cause sia criminali che civili, sia di prima che di seconda istanza. Dal
Duecento il tribunale del vescovo (episcopalis audientia) si limitava ormai all’esame delle sole
cause di diritto canonico.
I consoli erano dunque la magistratura cittadina, una magistratura collegiale competente sia
nel civile che nel penale, con una pratica (ma non ufficiale) divisione interna delle attribuzioni,
dedicandosi alcuni alle cause civili e gli altri a quelle criminali, ma sempre nell’ottica ideale di
un’amministrazione collegiale e congiunta della giustizia, cosicché anche quando un solo console
seguiva il processo, la sentenza era sempre pronunciata in nome di tutti (“in concordia aliorum
consulum”).
La giurisdizione dei consoli cittadini comprendeva sia la città che il contado circostante e si
estendeva anche ai forestieri presenti nel territorio comunale (secondo il principio di territorialità),
mentre ne erano esentati gli ecclesiastici titolari del privilegio del foro ecclesiastico anche per le
cause secolari. Presto sorsero però altri tribunali speciali in favore dei mercanti (tribunali
commerciali), dei militari (tribunali militari) e degli studenti universitari (giudicati a loro scelta dai
professori o dal vescovo a partire dall’Autentica Habita di Federico Barbarossa del 1155).
I consoli, nell’esercizio delle loro funzioni giudiziarie, erano assistiti da legum periti (detti
anche causidici o consiliarii), dei conoscitori del diritto che esercitavano professioni giuridiche ma
non giuristi laureati (chi aveva studiato all’Università per un certo tempo ma senza poi laurearsi), la
cui presenza era resa necessaria da quell’ignoranza del diritto che era caratteristica tipica dei giudici
comunali, esperti di politica, di guerra e di diplomazia, ma non altrettanto del diritto.
Tra XII e XIII secolo si affermò nei comuni la carica podestarile in sostituzione dei consoli e
l’ordinamento giudiziario divenne più complesso e articolato: aumentò il numero dei giudici, che
vennero distinti per competenza, e si creò un ordine gerarchico di giudici presieduto dal podestà. Il
podestà era infatti essenzialmente un uomo d’armi che dunque, al momento dell’assunzione della
suprema carica cittadina all’interno di un comune, portava con sé persone esperte di diritto cui
assegnava in sua vece la funzione di giudici (assessori o consoli di giustizia), soprattutto nelle cause
di diritto civile, irte di maggiore tecnicismo; altre volte, invece, secondo le varie e diverse previsioni
statutarie, i giudici che aiutavano il podestà erano eletti dal popolo o estratti a sorte tra gli iscritti al
collegio cittadino dei giuristi, una delle più potenti corporazioni di mestiere. Questi magistrati
duravano in carica un anno, come il podestà, ed erano sottoposti alla fine del loro mandato a giudizio
di sindacato; questo comportava un controllo del loro operato – in caso di rimostranze da parte dei
cittadini – da parte della magistratura dei “sindacatori” abilitata a comminare sanzioni in caso di
irregolarità.
Quanto ai requisiti che gli assessori e i consoli di giustizia dovevano possedere, era
caldeggiata ovviamente la conoscenza del diritto, benché non fosse facile avere dei giudici istruiti,
anche perché il ruolo di giudice era temporaneo e poco retribuito, quindi poco ambito dai giuristi
laureati. Pertanto spesso la carica era ricoperta da non professionisti del diritto, e tale difetto si
verificò specialmente nell’Italia meridionale (dove vi erano effettivamente meno Università, oltre
tutto di epoca più tarda, e dunque un minor numero di laureati) che ebbe una magistratura di persone
non esperte di diritto ma scelte semplicemente per la buona reputazione.
A rimediare a tale inconveniente si introdusse dal Duecento la facoltà e talvolta l’obbligo per
il giudice di chiedere un consiglio a giuristi laureati: il consilium sapientis iudiciale. E’ vero che
l’assistenza di pratici del diritto non era mai mancata neppure prima, poiché i legum periti (o
causidici: pratici del diritto che avevano studiato all’Università per un certo tempo ma senza poi
laurearsi) affiancavano i consoli nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali fin dalla prima età
comunale. Tuttavia nel Duecento si diffuse nella prassi il consilium sapientis, cioè del giurista
laureato, e i doctores furono così chiamati a rivestire una rilevante funzione nell’amministrazione
della giustizia.
Il giudice era sempre autorizzato a chiedere il consilium, mentre era obbligato a chiederlo,
come stabilivano gli statuti, in caso di sua ignoranza del diritto (imperitia), e di richiesta delle parti,
in entrambi i casi con l’obbligo per il magistrato di rispettare nella sentenza il parere ricevuto.
In età podestarile si ripristinò dunque il sistema romano del giudice unico, con l'abolizione
dei collegi giudicanti operativi nella prima età comunale quando la giustizia veniva amministrata dai
consoli collegialmente. Dal Duecento prima il podestà e poi il signore cittadino attribuirono
l'amministrazione della giustizia civile e criminale ai singoli giudici, ciascuno con la sua competenza
e la sua insegna (volta a distinguerli per competenza), disposti in scala gerarchica.
Si esigevano nei giudici i fondamentali requisiti di un'adeguata cultura e dell'età minima di
30 anni, e si cercò di assicurarne l’indipendenza di giudizio, imponendo che il magistrato non fosse
un ecclesiastico, che non fosse del luogo né con parentela nel distretto, così da non subire alcun tipo
di condizionamento a scapito dell’obiettività di giudizio.
Si teneva infatti molto alla correttezza dei giudici, nella consapevolezza che varie
deformazioni del sistema giudiziario potevano incidere negativamente sugli esiti
dell'amministrazione della giustizia, in particolare la venalità delle cariche (dunque acquistabili con
denaro e non per merito), la breve durata delle medesime (generalmente annuale) e le scarse
retribuzioni cui era connessa la possibilità di pretendere doni dai litiganti (le c.d. sportulae che
rappresentavano la parte più consistente dei loro introiti).
In particolare la pratica delle retribuzioni compiute direttamente dalle parti litiganti, che
spesso consistevano in derrate alimentari (da cui anche la denominazione di esculenta -cibo - e
poculenta – bevande -), era un’evidente fonte di corruzione dei giudici, indotti inevitabilmente a
favorire la parte che si era mostrata più generosa e prodiga nei loro confronti.
Nel Trecento, con l'intensificarsi della vita economica e il conseguente aumento delle liti, ai
magistrati vennero affiancati degli aiutanti che presero il nome di (assessores o) auditores, nominati
dalle università (spesso tra studenti prossimi alla laurea), a differenza degli assessori podestarili che
erano nominati direttamente dal podestà tra persone di sua fiducia.
In sottordine vi erano poi i notai incaricati di redigere per iscritto le deposizioni dei testimoni
e tutti gli atti della causa, nonché di conservarli e archiviarli: posta la scrittura a base del
procedimento e dovendo tutto risultare da atti scritti, la figura del notaio divenne assolutamente
indispensabile. Anche la carica di notaio era alienabile e dunque acquistabile con denaro e divenne
persino ereditaria (all’interno di famiglie dedite da generazioni al notariato); gli statuti richiedevano
che avessero la fama di persone oneste, che fossero istruiti nel diritto (attraverso la frequentazione
delle scuole di specializzazione nel notariato), e buoni conoscitori del latino (gli atti processuali
erano infatti tutti scritti in latino e sarà così fino alla fine del Seicento).
Vi erano poi i messi pubblici (nuntii), incaricati di eseguire gli ordini del giudice al di fuori
del tribunale: era ad esempio loro compito procedere all’arresto dei sospettati, notificare alle parti gli
atti processuali e compiere gli atti di esecuzione materiale delle sentenze; poiché dovevano essere
sempre pronti e disponibili ad ogni richiesta del giudice, gli statuti esigevano che abitassero entro le
mura cittadine. Le loro dichiarazioni sulla corretta esecuzione delle mansioni loro affidate faceva
fede, ma i loro atti dovevano essere accompagnati da alcune formalità: erano in particolare tenuti ad
indossare un abito tipico che fosse in grado di distinguerli, una sorta di divisa, che il più delle volte
si limitava ad una sciarpa rossa al collo; dovevano poi avere sempre con sè il testo del Vangelo per
ricevere i giuramenti quando richiesti dalle norme processuali.
§ Le corti signorili e i tribunali normanno-svevi
La nascita delle signorie produsse alcune innovazioni nell’ordinamento giudiziario. La
principale novità era legata al fatto che nel territorio delle signorie erano compresi più comuni,
perciò, dove risiedeva il signore, cioè nella città dominante all’interno del territorio, si istituirono i
tribunali centrali.
Si formano così nel corso del Trecento i tribunali superiori, cioè il foro della città dominante.
Il tribunale centrale aveva competenza esclusiva (in un unico grado di giudizio) per le cause penali
più gravi (reati da punire con la pena di morte o con pene corporali) e per quelle civili di elevato
valore economico. Le cause minori erano invece trattate in primo grado dai tribunali dei singoli
comuni, mentre al tribunale centrale spettava la competenza in appello; il magistrato locale, prima di
essere investito dell’ufficio che gli veniva conferito, prestava pertanto giuramento di rinviare alla
corte centrale tutte le cause in appello. Era inoltre vietato ai tribunali locali di risolvere le liti che i
loro abitanti avevano con i cittadini della città dominante, riservate anch’esse al tribunale centrale.
Erano inoltre riservate al tribunale superiore tutte le cause pubbliche, di interesse dello stato.
Nell’Italia meridionale i Normanni avevano invece fondato una monarchia accentrata in cui il
re era al vertice dell’amministrazione giudiziaria. Subito al di sotto del re c’erano il Gran Giustiziere,
responsabile della giustizia penale, il Gran Camerario, responsabile della giustizia civile, la giustizia
militare era amministrata dal Grande Ammiraglio e quella ecclesiastica e feudale dal Gran
Cancelliere: erano tutti funzionari di nomina regia.
Il Gran Giustiziere aveva comunque una preminenza sulle altre cariche, investito anche del
ruolo di protettore delle vedove, dei poveri, degli orfani e delle chiese, col compito di visitare ogni
anno città e province, anche per reprimere le guerre private tra signori feudali e lo stato di anarchia
che ne derivava.
Al di sotto di queste quattro supreme magistrature vi erano i giudici inferiori, dislocati nelle
varie province del regno: i giustizieri, competenti per le cause penali maggiori (relative a reati da
punire con la pena di morte o pene corporali) e per quelle feudali e fiscali; i camerari, titolari della
giustizia civile d’appello; i baiuli, investiti delle cause penali minori (per reati cioè da punire con
pena pecuniaria) e di quelle civili di primo grado. Erano tutti di nomina regia, scelti tra persone dalla
moralità indiscussa, non originari della provincia alla quale venivano assegnati, né possessori di beni
ove ricoprivano il loro ufficio, nè abilitati a ricevere doni dalle parti processuali; tutti pronunciavano
le sentenze in nome del re.
Al di sopra di tutti i giudici c’era la Magna Curia, presieduta dal re (o in sua vece dal Gran
Giustiziere), e composta dai grandi ufficiali del regno, un’istituzione al tempo stesso politica e
giudiziaria, in quest’ultimo caso competente per tutte le cause nell’ultimo grado di giudizio, in caso
di denegata giustizia da parte dei giudici inferiori e per le liti tra i vassalli del re.
§ I Grandi tribunali
Tra Quattro e Cinquecento nel territorio italiano si formano i principati e le monarchie, che
non apportarono innovazioni sostanziali nel campo della giustizia, ma si limitarono a regolare
meglio la gerarchia dei tribunali con l’istituzione dei Grandi tribunali, nell’ottica di una
riorganizzazione della giustizia accentrata nelle mani del sovrano, realizzata dai sovrani assoluti nei
secoli d’Ancien Régime. Questi tribunali supremi vennero creati o ristrutturati sulla base dei
precedenti tribunali centrali signorili, e poi ampiamente potenziati dai sovrani tra Quattro e Seicento,
vennero dotati di competenze in un unico grado di giudizio per le cause riguardanti direttamente il
potere centrale (cause regie e cause demaniali), e di una generale competenza d’appello sulle
sentenze dei tribunali inferiori dello Stato. Vennero inoltre forniti di cospicui poteri discrezionali ed
equitativi che consentivano un’applicazione non rigorosa e letterale delle norme giuridiche ai casi
concreti, per facilitare il funzionamento del sempre più complesso e intricato sistema delle fonti del
diritto comune, così da evitare la paralisi del sistema.
Il Senato di Milano e il Sacro Regio Consiglio di Napoli, come il Parlamento di Parigi, erano
tra l’altro dotati anche di potere normativo, in quanto abilitati ad emettere regolamenti con efficacia
normativa all’interno della propria giurisdizione, e dotati del diritto di controllo della legittimità
degli atti normativi sovrani e della loro approvazione in vista della loro registrazione, il c.d. diritto di
interinazione, che contribuì indubbiamente ad accrescere il potere politico e il prestigio di queste
supreme magistrature di antico regime.
LA COMPETENZA
Alle origini dei comuni l’unico tribunale ordinario era quello dei consoli, competente per
tutte le cause. Successivamente, in età podestarile, si divisero le competenze e vennero istituiti
giudici ordinari per la materia civile, per quella penale, per le liti relative ai beni mobili, per quelle
sugli immobili e così via: i limiti di competenza erano fissati per legge, ma nella pratica, per il gran
numero di tribunali, i conflitti di competenza erano continui, per l’incertezza sulle linee di confine
tra una competenza e l’altra.
A modificare le regole sulla competenza interveniva anche il fatto che ogni persona di
condizione sociale umile in lite con un nobile, un potente, poteva rifiutare il giudice ordinario di
primo grado e richiedere di sottoporre direttamente la causa al giudice superiore dopo aver giurato di
avere timore dell’avversario, cioè la c.d. “perhorrescientia adversarii”, il timore che la posizione
particolarmente influente dell’avversario potesse condizionare il giudice locale, per cui si chiedeva
direttamente l’intervento del giudice superiore, del tribunale centrale, reputato meno facilmente
influenzabile in quanto non radicato su quel territorio.
§ Il tribunale ecclesiastico
Accanto ai tribunali ordinari vi erano poi i tribunali speciali che sottraevano determinate
categorie di persone e determinate materie alla competenza dei giudici ordinari, a cominciare dai
tribunali vescovili per gli ecclesiastici. I tribunali speciali aumentarono quando le classi e i ceti in cui
si frazionava la società tardo-medievale pretesero propri tribunali speciali; aumentati così i tribunali,
i conflitti di competenza tra essi si moltiplicarono, non essendo sempre di chiarezza immediata quale
fosse il giudice competente.
Fin dai suoi primi secoli di vita la Chiesa aveva cercato di sottrarre gli ecclesiastici al
tribunale ordinario e di sottoporre al tribunale del vescovo tutte le cause civili e penali riguardanti gli
ecclesiastici. L’attuazione di questo principio fu di lunga elaborazione nel corso dei primi secoli del
medioevo e trovò la sua consacrazione definitiva nel Decreto di Graziano e nelle successive raccolte
di decretali, e anche il riconoscimento ufficiale del potere imperiale attraverso l’Authentica
Statuimus di Federico II: secondo la costituzione, infatti, “nullus ecclesiasticam personam in
criminali quaestione vel civili trahere ad iudicium saeculare praesumat contra constitutiones
imperiales et canonicas sanctiones. Quod si actor fecerit, a iure suo cadat, iudicatum non teneat et
iudex ex tunc potestate iudicandi privetur”.
Da quel momento fu pacificamente ammesso dalla dottrina giuridica il diritto della Chiesa al
foro esclusivo, inserito a pieno titolo tra le prerogative ecclesiastiche. Il tribunale del vescovo era
così competente per le liti civili e criminali dei chierici tra di loro, dei laici contro i chierici e dei
chierici contro i laici (specialmente quando questi ultimi si trovavano al servizio di religiosi). Era un
privilegio della Chiesa nel suo complesso e non delle singole persone degli ecclesiastici, perciò ad
esso non si poteva rinunciare.
§ Gli altri tribunali speciali
Erano previsti giudici speciali anche per le controversie che sorgevano nelle fiere e nei
mercati, tra i frequentatori delle medesime, in occasione di contratti conclusi in quei contesti e di
reati commessi in quelle occasioni. I comuni italiani diedero infatti grande incremento ai mercati
periodici, che costituivano una manifestazione caratteristica dell’economia urbana e punti di ritrovo
per i commercianti delle merci di maggiore utilizzo.
A richiedere giudici speciali era il carattere particolare di quelle riunioni che esigevano una
soluzione velocissima, poiché al chiudersi del mercato, che durava pochi giorni, ognuno doveva
essere libero di recarsi altrove, in luoghi dove sarebbero stati diversi i giudici e diverse le leggi e le
consuetudini da osservare. Questa è la ragione giustificativa dei tribunali delle fiere nati nel XII
secolo, fin dalle origini dei comuni cittadini, come rinuncia dei titolari della giustizia ordinaria a
favore di giudici speciali nominati dagli organi pubblici (consoli o podestà), che dirimevano
immediatamente le controversie tra compratori e venditori e le vertenze originate da reati, in modo
che, terminato il mercato, non rimanessero strascichi di litigi.
Altra categoria di persone titolari di magistrature speciali erano gli ebrei cui era riconosciuta,
già dal diritto giustinianeo, la facoltà di vivere secondo la legge mosaica e di ricorrere alla
giurisdizione dei rabbini per le controversie interne tra ebrei. Questa prassi si conservò per tutta l’età
intermedia nelle numerose colonie ebraiche presenti in varie città dell’Italia settentrionale e centrale,
attribuendo ad un tribunale speciale gestito dai rabbini la soluzione delle controversie interne tra
ebrei, sia civili che penali.
Tribunale assolutamente speciale fu poi quello concesso agli studenti universitari da Federico
Barbarossa nel 1155 con l’Authentica Habita che, tra i vari privilegi attribuiti agli studenti
dell’università di Bologna, incluse quello che gli stessi fossero giudicati “coram domino vel
magistro suo vel ipsius civitatis episcopo”; questa costituzione si ispirava ad una prescrizione di
Giustiniano che aveva imposto al vescovo e ai professori di esercitare vigilanza e disciplina sugli
studenti. Il privilegio federiciano venne poi applicato dalla dottrina estensivamente a tutte le
università italiane e fondò il tribunale degli studenti; i professori, però, si trovarono presto in
difficoltà nell’esercizio della giurisdizione penale, per la mancanza dei mezzi idonei al suo esercizio,
e conservarono, per lo più, solo quella civile, gestita dal rettore, scelto tra i professori. L’esecuzione
delle sentenze (sia del rettore che del vescovo) era però riservata ai giudici ordinari.
AVVIO DEL PROCESSO PENALE
L’alto medioevo ha trasmesso all’età comunale due modi di persecuzione dei reati: l’accusa
privata (già prevista dal diritto romano e contemplata anche dai diritti germanici), e l’inchiesta ex
officio del giudice. La prima era la forma ordinaria di processo e piaceva particolarmente alla
popolazione, perché, una volta venuta meno la faida (la vendetta privata) di origine barbarica e col
tempo vietata dalle stesse leggi germaniche, si sentiva così investita di un mezzo legale per incitare
i pubblici poteri, tramite una denuncia, a dare all’offeso quella soddisfazione che non poteva più
prendersi da solo con l’autogiustizia.
L’inchiesta ex officio del giudice era stata praticata nel regno longobardo e in quello franco
nei confronti dei soli reati più gravi, a cominciare dalla lesa maestà, e rimase in vita nei comuni
cittadini, anche perché i consoli, all’assunzione della carica, prestavano giuramento di inquirere (di
indagare) sui reati. Questo mezzo di avvio dei processi era destinato a divenire, a partire dal 200, il
mezzo ordinario di avvio di un processo, in linea con l’acquisizione di sempre più cospicui poteri
politici da parte degli ordinamenti cittadini e delle monarchie che stavano sorgendo nel contesto
europeo.
§ Il procedimento per accusa e per denunzia
In base agli statuti cittadini più antichi l’accusa doveva essere presentata con le forme e le
caratteristiche proprie del processo civile. Così dichiaravano anche le Consuetudini di Milano del
1216: non si faceva nessuna differenza tra la richiesta di ottenere la punizione del colpevole di un
reato o la richiesta in via civile di un risarcimento del danno. Anche negli statuti di Bergamo,
Brescia e Pistoia si accomunavano (sotto le stesse rubriche) attore e accusatore, reato e negozio
giuridico. Di conseguenza il processo per accusa iniziava con la presentazione del libello
introduttivo della lite contenente la pretesa dell’accusatore e con la citazione del reo. Nel giorno
fissato per la prima udienza l’accusatore ripeteva le sue affermazioni e l’accusato rispondeva,
secondo il classico schema della litis contestatio romana.
Il libello accusatorio era concepito come quello del processo civile: Titius est fur, latro,
homicida, e venivano elencate le prove. Tuttavia queste formalità civilistiche non resistettero a
lungo e si arrivò ben presto ad un rito accusatorio speciale e semplificato per cui, in seguito alla
presentazione dell’accusa, bastava la semplice iscrizione del nome dell’imputato nel “libro dei rei”
del comune.
Non tutti potevano accusare: erano esclusi gli incapaci di intendere e di volere, gli eretici, gli
ebrei, i poveri, i malfamati per delitti commessi. Se l’accusatore in corso di causa desisteva
dall’accusa il processo non si estingueva ma veniva portato avanti dal fisco, interessato al
versamento della pena pecuniaria.
Una volta ricevuta l’accusa da parte del notaio del Comune, il messo pubblico citava il reo a
comparire, per tre volte consecutive entro 9 giorni, a voce in tribunale, o con atto scritto consegnato
al domicilio, o con citazione pubblica nella pubblica piazza o in chiesa durante la messa.
L’accusatore era tenuto a presentare le prove di quanto asserito, altrimenti veniva a sua volta
perseguito per calunnia ai danni dell’accusato. Il reo si difendeva invece con le eccezioni, di cui era
tenuto a provare il contenuto, e con le allegazioni del suo avvocato. La sentenza veniva letta
pubblicamente.
Oltre al processo per accusa, gli statuti cittadini prevedevano l’obbligo per i pubblici
ufficiali di denunciare i reati di cui erano venuti a conoscenza attraverso la denunzia.
§ Il procedimento inquisitorio o d’ufficio.
A partire dal 200 l’inquisizione venne imposta ai consoli per i reati più gravi, quali lesa
maestà, ladroni di strada, grassatori (rapinatori), lenoni, sacrileghi e falsari, ma non tardò ad
estendersi a tutti i reati.
L’inquisizione si articolava in due forme: quella singolare o speciale, contro una specifica
persona indicata per nome; quella generale, detta anche preparatoria o solenne, quando il giudice
indagava circa un reato al fine di raccogliere gli indizi e di sentire la voce pubblica affinché
emergesse il nome di un indiziato per cattiva fama (infamatus). Per provare la cattiva fama
(infamia) dell’inquisito bastavano due o tre testimoni di buona fama, e l’inquisito avrebbe poi
potuto opporre che quelle voci partivano da suoi nemici, al fine di inficiarle.
Contro l’indiziato veniva poi istruita l’inquisizione speciale, condotta per iscritto, poiché la
regola era che gli indizi, le testimonianze e la voce pubblica venissero redatti per iscritto. In una
prima fase in cui il processo accusatorio rappresentava ancora il processo ordinario, il giudice,
prima di procedere con l’inquisizione speciale doveva chiedere alla parte offesa se intendeva
procedere con l’accusa oppure no.
L’inquisito doveva essere citato e dovevano essergli consegnati i capitoli dell’inchiesta (che
ne indicavano l’oggetto). In una prima fase storica che arriva fino al XV secolo veniva comunicato
all’inquisito anche l’elenco dei nomi dei testimoni, per consentirgli di opporre le relative eccezioni
e doveva essere citato anche all’audizione dei testi per poter sollevare eccezioni anche contro le
deposizioni. Era dunque prevista una discreta serie di garanzie e un certo diritto di difesa.
L’imputato di reati particolarmente gravi (atroci) o recidivo o su cui gravavano pesanti
indizi o testimonianze di almeno due persone di buona fama veniva incarcerato, mentre negli altri
casi godeva di libertà provvisoria prestando le dovute cauzioni con cui si impegnava a non fuggire.
Nei reati più gravi, quali eresia, omicidio, furto, incendio si procedeva in tempi brevissimi:
si comunicava all’imputato l’atto di inchiesta ma non gli si comunicavano i nomi dei testimoni; non
c’era alcuna pubblicità del giudizio, tutto era coperto da segretezza, e non era neppure prevista
l’assistenza di un avvocato negli interrogatori. Soltanto prima della sentenza l’imputato poteva
presentare la sua difesa e produrre suoi testimoni.
§ Il procedimento criminale a Napoli e in Sicilia.
La dominazione normanna introdusse nell’Italia meridionale alcuni istituti procedurali tipici
della Francia settentrionale.
Il procedimento ordinario era quello accusatorio, ma i Normanni introdussero anche il
procedimento straordinario per inquisizione, visto come potere generale del giustiziere di
investigare sulle condizioni della criminalità all’interno della sua provincia: non si trattava dunque
dell’inchiesta relativa ad un singolo fatto, ma di una generalis inquisitio circa i reati commessi in
una determinata provincia: bastava la pubblica fama circa la commissione di delitti nella zona, e se
emergeva qualche notizia concreta, il giustiziere era obbligato a procedere contro l’indiziato.
Accanto a questa inquisitio generalis era poi prevista anche un’inquisitio specialis, però nei
soli casi tassativamente stabiliti dalla legge, in relazione ai reati più gravi tra cui la lesa maestà. Per
praticarla era inoltre necessario l’autorizzazione del re, al quale si dovevano comunicare gli estremi
del reato, il nome del delatore e le persone dei testimoni.
Gli Angioini e gli Aragonesi che succedettero ai Normanni sui troni ormai sdoppiati di
Napoli e di Palermo mantennero le due inquisizioni: quella generale che dovevano compiere ogni
anno i giustizieri nella loro provincia, e quella speciale che veniva disposta con ordine del re contro
gli imputati di gravi crimini, ma le estesero a tal punto da suscitare le proteste della popolazione,
spaventata da questa procedura segreta, arbitraria, che nasceva da denunce anonime e da delazione,
senza diritto alla difesa, spesso strumento di vendette personali e di persecuzioni politiche. Si può
dire che ormai l’inquisizione era divenuto il processo ordinario, a differenza da quanto sancito dalla
precedente legislazione normanna.
§ La parte civile.
L’origine dell’istituto della parte civile è certamente italiana. L’azione civile apparteneva –
come ora – al danneggiato dal reato e poteva essere esercitata davanti allo stesso giudice e nello
stesso tempo dell’esercizio dell’azione penale (in alternativa ad un’autonoma azione civile da
proporre dopo la pronuncia della sentenza penale), al fine di ottenere il risarcimento del danno a lui
derivante dal reato. Il privato danneggiato poteva intervenire non solo nel processo accusatorio ma
anche in quello avviato d’ufficio dal giudice col rito inquisitorio.
§ Il procedimento penale dal sec. XVI alla fine del sec. XVIII.
In Italia, sotto le monarchie e le dominazioni straniere che si affermano dal XVI secolo, la
giustizia penale fu dominata dalla ragione di Stato, divenne cioè onnipotente per la quasi totale
mancanza di garanzie processuali, e si rafforzò attraverso gli strumenti dell’intimidazione e della
segretezza propri del rito inquisitorio. Il processo penale risentì in sostanza di tutti i difetti tipici
degli ordinamenti di antico regime, privi di regole certe, caratterizzati dall’arbitrio dei pubblici
funzionari e dai privilegi di ceto. Ciò che occorreva era punire il delitto, ne crimina maneant
impunita.
In sostanza, dal XVI sec., dominava il principio che lo Stato dovesse difendersi e garantire
l’ordine sociale con tutti i mezzi, e principalmente con l’inquisizione segreta.
§ Avvio del processo.
Appena il reato era scoperto o denunciato, anche in forma anonima, il giudice iniziava la sua
inchiesta segreta: doveva interrogare le persone potenzialmente al corrente del reato attraverso
un’inchiesta generale da cui doveva scaturire il nome del diffamato, anche sulla base di due sole
testimonianze o della pubblica voce attestata anch’essa dalla testimonianza di due persone di buona
fama.
Si passava poi all’inquisizione speciale, nella quale si obbligavano i testimoni a presentarsi
davanti al giudice e rendere la loro deposizione: tutto ciò avveniva in segreto ma se ne redigeva
processo verbale. Sulla base delle deposizioni raccolte dai testimoni, ai quali si poteva anche
applicare la tortura se reticenti, il giudice decideva se citare il reo o disporne l’arresto.
La citazione veniva intimata con le forme proprie del processo civile. La citazione poteva
essere fatta a voce, dal giudice al reo, se questi era presente in tribunale; la regola era però quella
della comunicazione scritta della citazione presso il domicilio del reo, e ripetuta per tre volte a
intervalli regolari (in genere di 3 giorni), con indicazione del termine perentorio nel quale
comparire, in genere a distanza di 10 giorni, in un giorno non festivo. Le tre citazioni obbligatorie
potevano anche essere eseguite contestualmente, e si prestava fede alla relazione del messo
pubblico che dichiarava di averle eseguite correttamente. La citazione doveva essere eseguita in un
giorno non festivo, dall’alba al tramonto. Qualora il messo non trovasse il citando nella sua
abitazione, affiggeva l’atto di citazione sulla porta di casa. Era possibile anche la consegna dell’atto
di citazione non direttamente al reo ma a persona di famiglia presente nel domicilio del reo.
Vi era poi la citazione pubblica, detta per edictum (edictalis), cioè per proclama affisso in
luogo pubblico (alla porta del tribunale o in altro luogo pubblico), o anche letto pubblicamente nella
chiesa cattedrale o nella piazza principale, con gli stessi effetti di una comunicazione fatta al
domicilio. Questa modalità era utilizzata per citare le persone giuridiche (le associazioni di
persone), gli ecclesiastici, che venivano chiamati in giudizio con affissione della citazione in chiesa,
considerata loro domicilio, i latitanti (fuggitivi), di cui si ignorava il domicilio, e infine tutti quei
soggetti di cui era nota la prepotenza e l’aggressività, che si temeva avrebbero minacciato o
addirittura aggredito il messo pubblico in caso di citazione al domicilio.
Se il citato compariva in giudizio, il citato riceveva comunicazione dei capitoli dell’inchiesta
condotta contro di lui, dopo di che o veniva rimesso in libertà (con o senza cauzioni), oppure veniva
arrestato.
Il mandato di cattura era lasciato all’arbitrio del giudice, che poteva disporlo anche in
presenza di deboli indizi a carico dell’indagato.
A questo punto iniziava l’esame dell’inquisito, attraverso il suo interrogatorio, preceduto dal
giuramento de veritate dicenda: le domande e le risposte dovevano essere messe per iscritto in
forma non abbreviata; le domande dovevano essere formulate dal giudice in modo non suggestivo
delle risposte e senza minacce né promesse di impunità; in questa fase non si applicava la tortura.
Terminato l’interrogatorio, l’imputato, anche arrestato, poteva chiedere la libertà provvisoria
(abilitazione), salvo che il reato fosse punito con la pena di morte, il reo avesse confessato
spontaneamente durante l’interrogatorio o fosse stato preso in flagrante. La libertà provvisoria
veniva concessa dietro il versamento di una cauzione.
IL PROCESSO PENALE CONTUMACIALE
L’inosservanza della citazione a comparire in giudizio per rispondere di un delitto era
considerata una disobbedienza agli ordini del magistrato e pertanto era reputata a sua volta un
delitto e la sanzione stabilita dagli statuti comunali era in genere il bando (bannum), l’esilio.
Se il contumace colpito da bando non si presentava davanti al giudice entro 10 giorni
incorreva nella confisca dei beni. Per i citati per i crimini più gravi, quelli puniti con la pena
capitale, la mutilazione o il carcere perpetuo, e rimasti contumaci, era disposto che chiunque
potesse ucciderli impunemente perché la contumacia era equiparata a confessione; per lo stesso
motivo, se cadevano nelle mani dell’autorità, la pena nei loro confronti veniva immediatamente
eseguita. Erano perciò denominati forgiudicati, perché venivano giudicati al di fuori di ogni rito e
forma giudiziaria.
LE PROVE
La dottrina delle prove legali negava il libero convincimento del giudice, tenuto ad attribuire
alle prove il preciso valore stabilito per legge, senza la facoltà, propugnata a partire dall’età
illuministica, di valutarle liberamente.
Le prove erano legali nel senso che erano prestabilite dalla legge. Si dividevano dunque in
prove piene e prove semipiene, le prime in grado di fondare una sentenza di condanna, le altre
necessitanti del concorso di altri elementi di prova, in mancanza dei quali, però, l’imputato non
veniva assolto ma incorreva in una pena inferiore stabilita ad arbitrio del giudice (pena arbitraria).
Tutto ciò per dare una qualche parvenza di garanzia all’imputato, di fronte ai tanti vizi della
procedura quali l’uso della tortura e il segreto inquisitorio.
Il principio della prova legale è presente nelle regole relative al numero e alla qualità dei
testimoni e dei periti, ai requisiti dei documenti per essere efficaci, al numero degli indizi necessari e
così via.
Il principio basilare era che il giudice dovesse trarre la sua decisione dalla stretta osservanza
della legge. Unico suo compito era verificare se la confessione resa dall’imputato presentava i
requisiti richiesti dalla legge oppure no, se i testimoni erano idonei o no, se i documenti erano
autentici e degni di fede o meno: se questi requisiti erano rispettati, al giudice non rimaneva che
applicare la pena, anche quando la sua convinzione personale era diversa.
§ Il giuramento purgatorio e il duello.
A partire dall’anno Mille vennero progressivamente abbandonate le prove ordaliche (i giudizi
di Dio) di origine germanica e si ritornò alle prove razionali (cioè non fondate su elementi
metafisici) già previste dal diritto romano e praticate anche nell’alto-medioevo dai tribunali della
Chiesa, che ovviamente avversava le prove ordaliche volte a strumentalizzare il potere divino e a
sollecitarne a comando una manifestazione nelle vicende umane.
Tuttavia non fu facile l’abbandono delle prove materiali, poiché rispondevano ancora alla
mentalità dominate nei primi tempi dei comuni. Si conservò così in alcune località il giuramento
purgatorio, con cui un accusato di delitto si liberava dall’accusa, se mancavano testimoni oculari del
delitto, giurando davanti a Dio la sua innocenza. Era però necessario che l’imputato non fosse di
cattiva fama e che gli indizi contro di lui fossero debolissimi, tali cioè da escludere il ricorso alla
tortura, o che questa non fosse comunque praticabile per ragioni di età o di classe sociale. Talvolta
era previsto che, insieme all’imputato, giurassero altre persone disposte a giurare circa la sua
innocenza.
Eredità del processo barbarico furono anche i giudizi di Dio tra cui il duello, ai quali fecero
ricorso specialmente le città della Lombardia fino al 300, soprattutto per i reati puniti con la pena di
morte, quali l’omicidio, il falso e l’incendio, nell’ambito del processo accusatorio. L’accusato poteva
così sfidare a duello l’accusatore il quale, per non essere punito per calunnia, doveva accettarlo.
Erano poi ancora praticate, ad esempio in Liguria, la prova ordalica del ferro rovente e quella
dell’acqua gelida, con cui l’accusato, se resisteva, si liberava dall’accusa..
Nell’Italia meridionale il duello venne invece vietato da Federico II agli inizi del 200, salvo
che ai nobili quando non fossero esperibili altri mezzi di prova.
§ La prova testimoniale.
La prova per testimoni costituiva indubbiamente la prova di più ampio utilizzo. Nel processo
accusatorio la parte che intendeva avvalersene doveva compiere la publicatio testium, cioè
comunicare per iscritto al giudice i nomi dei testimoni e i capitoli (i punti) dell'interrogatorio che
sarebbe poi stato condotto dal magistrato.
Circa il numero dei testimoni, vigeva la regola che unus testis nullus testis (est), cioè vox
unius vox nullius, secondo un principio giuridico che affondava le sue radici nell'Antico Testamento
(Libro del Deuteronomio) e che trovò conferma anche nel Codice e nel Digesto di Giustiniano e
nelle Decretali di Gregorio IX. Pertanto due testimoni costituivano prova piena in grado di fondare la
sentenza, uno solo costituiva invece una prova semipiena.
I testimoni, per essere considerati degni di fede e dunque attendibili, dovevano presentare
requisiti di sexus, aetas, discretio (capacità di discernimento, cioè di intendere e di volere), ma anche
di conditio (condizione sociale idonea), fama (buona fama) e fortuna (condizione patrimoniale
adeguata, perché si riteneva, non necessariamente a ragione, che la persona nullatenente potesse farsi
comprare facilmente), valutati attentamente dal giudice. In certi casi era rilevante anche la fides (la
fede religiosa professata).
Quanto all’età, nei processi penali era richiesta l’età di 18 o 20 anni (a seconda degli statuti).
Per mancanza di buona fama, erano esclusi i condannati, i banditi (esiliati) e gli usurai (qualunque
prestito ad interesse, poiché il mutuo era contratto gratuito); per la religione professata, erano esclusi
gli ebrei e gli arabi dal testimoniare contro i cristiani, e in generale gli eretici e gli scomunicati.
Per presunta mancanza di imparzialità non erano ammessi a testimoniare i parenti delle parti,
l’amico (a favore) e il nemico (contro), i soci e l'avvocato.
Per quanto riguarda la testimonianza delle donne, hanno dominato a lungo i pregiudizi tipici
di una società di stampo militare e feudale che reputava la figura femminile sotto svariati profili
inferiore all’uomo. Con particolare riguardo alla capacità di testimoniare la dottrina giuridica
metteva in risalto l’asserita facile mutevolezza di pensiero delle donne, la così detta leggerezza
d’animo, la debolezza non solo fisica ma anche emotiva, elementi tutti che rendevano le donne poco
degne di fede nelle aule giudiziarie. La testimonianza femminile valeva se mai come prova
semipiena (come indizio), da completare dunque con altri elementi di prova.
A differenza di quanto avveniva nel processo accusatorio, nell’inquisitorio l’esame dei
testimoni rimaneva segreto all’imputato, che dunque non presenziava, come neppure il suo avvocato.
Le deposizioni dei testi rese al giudice rimanevano così segrete per tutta la durata del processo. I
testimoni reticenti venivano sottoposti a tortura.
I testimoni dovevano deporre in aula, in presenza del giudice (e non di semplici scrivani), a
meno che non adducessero l’impossibilità a presentarsi di persona per infermità o malattia, o
facessero valere privilegi legati allo status di nobili o di dignitari ecclesiastici ed essere così ascoltati
nelle loro case o quanto meno nel loro distretto; così le donne, secondo alcuni statuti, dovevano
essere interrogate in chiesa alla presenza del sacerdote, a tutela del loro onore e della loro
rispettabilità.
§ La prova documentale.
Per quanto riguarda le prove documentali, rilevanti soprattutto nel delitto falso (in cui
costituivano il corpo del reato), il massimo valore era attribuito al documento pubblico, cioè redatto
da un notaio, la cui professione aveva carattere di ufficialità, che faceva piena fede (costituiva prova
piena) se era stato redatto secondo le formalità richieste dalla legge: la rogatio, cioè la chiamata
delle parti interessate davanti al notaio, la presenza e la sottoscrizione dei testimoni, il sigillo del
notaio e infine la data e il luogo di confezione dell’atto. Il sigillo del notaio era qualificato la vox
mortua del documento, mentre le sottoscrizioni dei testimoni erano la vox viva del documento.
Rientravano tra gli atti pubblici anche gli scritti redatti in giudizio, quelli conservati in un
archivio pubblico e ancora, secondo il diritto canonico, gli atti emessi dagli ecclesiastici
nell'esercizio delle loro funzioni; di questi ultimi non si poteva neppure addurre la falsità se erano
muniti del sigillo dell’autore, che si reputava sempre autentico negli atti rientranti nel suo ufficio.
L’importanza assegnata agli atti pubblici giustificava le sanzioni previste contro chi deteneva
un documento pubblico che ad altri interessava e si rifiutava di esibirlo. La mancanza o
l’insufficienza degli archivi pubblici imponeva difatti severe sanzioni affinché non fossero sottratte
prove utili all’accertamento in giudizio della verità; così gli statuti autorizzavano i giudici a far
perquisire le case e a fare arrestare chi non consegnava le scritture richieste.
Le scritture private erano, invece, le lettere dei privati, i registri delle corporazioni di arti e di
mestieri e i registri parrocchiali (che contenevano indicazioni relative a nascite, battesimi, morti,
matrimoni), e avevano valore di prova se erano munite della firma dell’autore e di quella di tre
testimoni, o, in mancanza, se l’autore le riconosceva come sue o si provava diversamente che le
aveva scritte. Ad esse era comunque riconosciuta un’efficacia probatoria inferiore a quella dell'atto
pubblico.
§ Il notorio
Tra i mezzi di prova c’era anche il notorio o la fama, cioè la circostanza che un determinato
un reato fosse noto a molte persone e fosse quindi innegabile, stando sotto gli occhi di tutti.
La fama di un reato, per costituirne una prova in giudizio, doveva a sua volta essere provata
da testimoni, disposti ad attestare l’esistenza di una pubblica voce relativa ad un crimine: bastavano
in genere quattro testimoni sulla pubblica fama per condannare a morte un omicida.
§ Gli indizi.
Venivano poi gli indizi e le presunzioni, che, presi singolarmente erano prove semipiene,
necessitanti dunque, di essere integrati da altri elementi di prova al fine di costituire una prova piena,
in base al fondamentale principio che governava tutta la materia probatoria secondo cui “quae
singula non prosunt collecta iuvant”: singoli elementi di prova di per sé insufficienti possono
contribuire, se assommati ad altri, a creare una prova piena.
In base alla loro qualità gli indizi si distinguevano in dubitati (cioè dubbi) e indubitati (cioè
fortemente probabili: ad esempio in materia di furto si reputavano indizi indubitati il rinvenimento
presso l’indagato della refurtiva, la sua condizione di povertà e l’aver cominciato a spendere molto,
essere stato visto nascondere cose sotto i vestiti); prossimi e remoti a seconda del loro grado di
approssimazione al reato (ad es. era indizio prossimo di omicidio la presenza dell’imputato armato
sul luogo del delitto, e indizio remoto un litigio tra lui e la vittima qualche giorno prima
dell’omicidio); gravi o lievi; anteriori e posteriori al delitto; connessi alla persona dell’indiziato o al
fatto.
§ La perizia.
In caso di ferite e lesioni era previsto il ricorso a periti, cioè a persone competenti, il cui
parere veniva confrontato dal giudice con le risultanze probatorie. In realtà il perito non era
considerato fonte di prova ma un ausiliario del giudice che era libero di attenersi al responso oppure
di respingerlo.
Col tempo si affermò però l’orientamento di considerare la perizia una forma di
testimonianza, che quindi doveva sottostare alle regole relative alla prova testimoniale: erano
pertanto necessarie due perizie di due diversi periti, e in caso di discordanza il giudice poteva o
attenersi ad uno dei due, o non seguirli entrambi o nominare un terzo perito. La loro deposizione era
accompagnata da giuramento de credulitate (cioè di buona fede).
§ La confessione.
La confessione, giudiziale (quella extragiudiziale doveva essere però provata da testimoni),
aveva invece la più completa efficacia probatoria e si presentava come prova piena in pregiudizio di
chi confessava, definita pertanto “optima regina probationum”: ottenuta la confessione dell'imputato,
non era più necessario il ricorso ad altre prove. Era però necessaria la capacità di agire del soggetto,
che non doveva essere minore d’età o insano di mente.
Si può dire che il processo penale era tutto preordinato al fine di ottenere la confessione
dell’imputato: da ciò l’uso della tortura. Era però necessario che ci fossero anche degli indizi contro
l’imputato che rendeva la confessione,
La confessione, anche quella ottenuta con la tortura, doveva essere chiara, consapevole,
verosimile, probabile e specifica.
§ La tortura.
La tortura fece il suo ingresso nei processi quando papa Innocenzo IV, nel 1252, con la bolla
Ad exstirpanda, ne approvò l’uso in materia di eresia, per indurre gli eretici a confessare. Da quel
momento anche le autorità civili vi fecero ricorso per i reati più gravi, contro assassini, banditi, ladri,
per poi estenderne l’uso anche ai reati puniti con pena pecuniaria: vi si procedeva in assenza di una
prova piena (reo convinto) o se l’imputato non confessava spontaneamente durante l’interrogatorio
(reo negativo).
Per procedere alla tortura era necessaria la presenza di indizi contro l’imputato (indicia ad
torquendum), non così forti e fondati però come quelli richiesti per sostenere una sentenza di
condanna (indicia ad condemnandum): bastava ad esempio un rapporto di inimicizia personale tra
l’indagato e la vittima del reato, o aver visto l’imputato nei pressi del luogo del delitto poco prima o
poco dopo il delitto, o semplicemente la sua cattiva fama.
La tortura si divideva in gradi di durezza, a seconda della qualità del fatto, della persona e
della natura degli indizi contro l’imputato.
La tortura più praticata, specialmente dal 500, era la corda, i tratti di corda, che finivano col
comportare lo slogamento delle ossa delle braccia: si legavano le mani dell’imputato dietro la
schiena con una fune che passava attraverso una carrucola infissa nel soffitto e lo si sollevava in aria
per poi lasciarlo cadere giù di colpo, dandogli in tal modo quelli che si definivano i tratti di corda, o
scosse; per rendere il tormento più penoso si potevano anche legare ai piedi dei ferri pesanti.
Prima di procedere alla tortura, però, veniva fatta un’ammonizione, se non sortiva effetto si
passava alla territio, cioè alla semplice visione degli strumenti di tortura nella stanza dei tormenti; se
anche questa non sortiva effetto si procedeva con la tortura. Tutti i decreti di tortura dovevano essere
notificati all’imputato in quanto erano appellabili, salvo che fossero stabiliti da tribunali supremi.
Le risposte dell’imputato venivano raccolte durante il tormento, che veniva interrotto se
l’inquisito dichiarava di voler confessare. Vi assistevano il giudice, il cancelliere, un medico pronto
a curare le ossa slogate o altre ferite, ma non l’avvocato o il procuratore del reo. Il giudice doveva
tenere conto del tempo di applicazione della tortura e annotarne la durata, ma senza rendere
l’orologio visibile al torturato.
Il grado più lieve di tortura era inflitto ai minori d’età e, in caso di gravi reati, ai nobili e ai
dottori, normalmente eccettuati dall’uso della tortura: in tal caso si procedeva a tratti di corda per
sette minuti e senza sconquassamento delle braccia.
Il secondo livello veniva inflitto a persone di umile condizione o di cattiva fama, accusati di
delitti gravi e con indizi indubitati: durava da 15 a 60 minuti con sconquassamento delle braccia. Il
terzo e ultimo livello si applicava per delitti atrocissimi in presenza di gravi indizi.
In materia di tortura fu sicuramente sperimentato quanto di più crudele potesse immaginare la
mente umana: si andava dal digiuno alla veglia protratta, dal fuoco alle piante dei piedi al
soffocamento con l’acqua; c’era poi la c.d. tortura della capra che consisteva nel bagnare con acqua
salata i piedi dell’imputato che venivano così leccati da una capra fino a scarnificarli e raggiungere
le ossa; aputazione degli organi della vista e dell’udito e così via.
La confessione così estorta, però, non portava alla condanna, perché doveva essere
confermata lontano dal luogo del tormento a distanza di 24 ore, davanti al giudice. Se la confessione
veniva revocata, si procedeva nuovamente con la tortura fino ad una terza volta ma solo in presenza
di indizi indubitati; se anche a questo punto la confessione estorta non veniva ratificata, qualunque
delitto fosse, l’imputato non poteva che essere condannato ad una pena straordinaria, dunque più
mite, quale il remo o l’esilio. La pena veniva dunque ugualmente comminata perché si era in
presenza di indizi indubitati contro l’imputato.
La tortura, oltre che agli inquisiti, si applicava anche ai testimoni reticenti o sospettati di
falso, sia nel processo accusatorio che, soprattutto, in quello inquisitorio.
Non erano sottoponibili alla tortura gli anziani sopra i 63 anni, i malati e gli infermi, le donne
in stato di gravidanza o che avessero partorito da pochi mesi, gli ecclesiastici e i titolari di cariche
pubbliche.
Al reo che avesse già confessato si applicava la tortura per strappargli la confessione relativa
ad altri delitti da lui commessi o i nomi dei complici.
LE DIFESE
Una volta istruito il processo, il giudice fissava all’inquisito il termine per produrre le sue
difese, le sue prove a discolpa, termine variabile in base alla natura del delitto. Prima però di venire
alle difese, venivano ripetute le prove testimoniali contro l’indagato che assisteva (repetitio testium
requisito reo): in questa fase i testimoni ad accusa ratificavano le loro prime deposizioni, altrimenti
venivano incarcerati, torturati e puniti come spergiuri.
Una volta esaurite anche le difese dell’indagato, attraverso la produzione di mezzi di prova
(specialmente testimonianze) a sua discolpa, il processo veniva reso pubblico al difensore cosicché
potesse esaminarlo (pubblicazione del processo): gli si dava copia degli atti processuali, con le
deposizioni dei testimoni (i c.d. testimoni fiscali) e con le risposte dell’imputato all’interrogatorio
prima e durante la tortura.
La fase difensiva era talmente compromessa dall’andamento della fase istruttoria da perdere
praticamente la sua ragione d’essere: nel caso di rei confessi all’avvocato non restava che sostenere
che la confessione era stata estorta o non era sufficientemente circostanziata, e non è difficile
immaginare il successo di una simile linea difensiva... I rei negativi, cioè che non avevano
confessato nemmeno in seguito a tortura, non potevano che sperare nell’assoluzione o almeno in una
condanna a pena ordinaria, a prescindere dall’intervento dell’avvocato.
LA SENTENZA
Espletata anche questa pratica, il giudice emetteva la monitio ad sententiam, in mancanza
della quale la sentenza sarebbe stata nulla. Tale monizione conteneva l’indicazione del giorno in cui
la sentenza sarebbe stata pronunciata.
La sentenza doveva essere scritta e letta dal giudice, di giorno, pubblicamente in un’aula del
tribunale. In via consuetudinaria si affermò però la prassi di far leggere la sentenza dal cancelliere.
La condanna era alla pena ordinaria stabilita dalla legge se il giudice riteneva raggiunta la
prova legale (reo convinto) o se il reo aveva confessato in seguito alla tortura (reo confesso);
altrimenti si condannava ad una pena straordinaria più mite, stabilita dal giudice a suo arbitrio, in
casa di mancato raggiungimento della prova legale.
La sentenza doveva poi contenere la condanna alle spese processuali, poste a carico del
condannato, o dell’accusatore in caso di assoluzione. Ma la sentenza di assoluzione era molto
difficile da ottenere: dovevano esserci solo deboli indizi e assenza di confessione anche in seguito
alla tortura.
La sentenza di condanna passava immediatamente in giudicato come anche quella di
assoluzione con formula piena, cioè per provata innocenza dell’imputato: in tali casi non erano
ammessi ulteriori gradi di giudizio In caso invece di assoluzione per mancanza di prove (sentenza
absolutoria stantibus rebus prout stant, o anche absolutoria ab observatione iudicii), il processo
avrebbe potuto essere ripetuto fino a tre volte nell’arco di 10 o 20 anni a seconda dei reati e delle
previsioni statutarie in materia di prescrizione delle azioni.
LA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA
La motivazione della sentenza non era obbligatoria: le leggi e la dottrina, infatti, non la
richiedevano, e sarebbe stato pericoloso per il giudice formularla ugualmente, poiché la sentenza
avrebbe potuto essere dichiarata nulla in un successivo grado di giudizio se la motivazione fosse
stata trovata errata; pertanto i giudici scelsero, per lo più, di non motivare le proprie pronunce sia
nelle cause civili che in quelle penali, e qui con conseguenze ancora più devastanti per le più gravi
implicazioni.
L’obbligo della motivazione della sentenza verrà invece strenuamente sostenuto e difeso
dalla dottrina illuministica settecentesca, per liberare le parti dall’arbitrio dei giudici e per sottoporre
i giudici a controllo e alle conseguenti responsabilità per scorretta amministrazione della giustizia;
verrà così introdotto nelle legislazioni italiane e più in generale europee a partire dalle moderne
codificazioni ottocentesche.
RIMEDI CONTRO LE SENTENZE
Formalmente era prevista, sia dagli statuti che dalla dottrina processualistica, la possibilità di
appello contro la sentenza di condanna, che spettava non solo al condannato ma anche ai suoi parenti
e addirittura a chiunque fosse a conoscenza di un motivo per invalidare la sentenza, per ragioni di
solidarietà umana. E l’appello avrebbe sospeso l’esecuzione della sentenza di primo grado, ma il
condannato non sarebbe stato posto in libertà provvisoria.
Nonostante ciò fosse vero in linea di principio, la pratica negava il diritto di appello contro le
sentenze penali, per arginare la grande criminalità, perseguire spietatamente gli accusati e gli
inquisiti, per prevenire i reati attraverso l’intimidazione di condanne immediatamente eseguite.
Era invece ammesso l’appello del fisco contro le sentenze assolutorie per mancanza di prove.
LA QUERELA DI NULLITA'
Più facilmente percorribile era la via della quaerela nullitatis, se ne ricorrevano i
presupposti.
La querela (già prevista dal diritto romano ma perfezionata nell'età del diritto comune),
veniva utilizzata nei confronti di sentenze particolarmente viziate per la presenza di errori
macroscopici, grossolani, nell'applicazione della legge o per forme e solennità obbligatorie non
osservate.
Dunque, rendevano nulla la sentenza la palese (grossolana) violazione della legge (e
l’interpretazione palesemente falsa della legge) e i vizi procedurali, quali ad esempio l’incompetenza
del giudice, la mancanza della citazione dell’imputato in giudizio, la non stesura per iscritto della
sentenza e la corruzione del giudice.
Il giudizio sulla nullità veniva proposto davanti al giudice di secondo grado, il quale poteva
quindi annullare la sentenza e sostituirla con una nuova pronuncia.
I RIMEDI STRAORDINARI CONTRO LE SENTENZE
Tra i rimedi meno usuali cui ricorrere contro le sentenze c’era la restitutio in integrum, cui
poteva ricorrere il minore d’età in relazione ad un delitto grave o gravissimo per il quale avesse
confessato, poiché non si riteneva verosimile la commissione di tali reati da parte di un minore. Ciò
però non era consentito in caso di indizi indubitati contro di lui.
Anche la revocazione era un mezzo straordinario di impugnazione, volto ad ottenere una
riforma migliorativa della sentenza di primo grado da parte dello stesso giudice che l’aveva
pronunciata: il fine era dunque quello di ottenere una pena più mite. La revocatio andava chiesta
entro due anni dalla sentenza, in presenza di nuovi elementi di prova; se ciò non sortiva l’effetto
voluto, la pena non solo veniva mantenuta ma persino aggravata.
LA GRAZIA
Il rimedio supremo contro le sentenze penali era però la gratia, come ricorso al principe, al
sovrano svincolato dall’osservanza delle leggi, dunque un rimedio dipendente dalla benignità del
sovrano. Essa trovava il suo fondamento sia nelle norme romanistiche che prevedevano il ricorso
all’imperatore quale fonte del diritto, sia in quelle canonistiche che statuivano analogamente con
riguardo ai poteri del pontefice.
Tale istituto rappresentava l’unico rimedio offerto al reo per tentare di ribaltare l’esito di
una sentenza di condanna o almeno di mitigarne la pena, posta la generale inappellabilità della
sentenza penale, coerente col ruolo di deterrenza svolto dalla macchina giudiziaria, cui faceva
difetto qualunque effettivo meccanismo di garanzia, inclusi i mezzi di impugnazione.
La grazia accordata dal principe, generalmente in seguito a supplica del condannato o di un
suo familiare, costituiva dunque il solo mezzo capace di sottrarre il reo all’esecuzione della pena,
con cui il sovrano provvedeva a ripristinare, con equità e arbitrio, le esigenze della giustizia o le
istanze etiche che l’ordinamento non era stato in grado di assicurare.
Le forme tecnicamente assunte da questo esteso potere di grazia, nelle sue molteplici
manifestazioni pubbliche, furono numerosissime: lettere di abolizione, di remissione, di perdono,
riscatto di bando e di galera, commutazione di pena e riabilitazione: una clemenza regia che
trovava particolare incremento in occasione delle felici circostanze della casa reale o del fastoso
ingresso di principi e sovrani nelle città sottoposte.
C’erano poi le concessioni di commutazione delle pene volte ad ottenere incrementi di
risorse da parte del potere regio, basti pensare alla commutazione, diffusissima in tutta Europa fino
alle soglie dell’Ottocento, tra pena e servizio militare, tra pena capitale e invio al remo sulle galere
destinate alla pirateria o alla guerra, o ancora tra pena e collaborazione alla cattura di altri rei,
spesso appartenenti a bande armate. La complicata recita del potere di stampo assolutistico, che
oscillava tra clemenza e rigore, tra esemplarità e perdono, spiega questi singolari istituti tipici della
giustizia punitiva di antico regime.
Nel Ducato di Milano, sotto la corona spagnola degli Asburgo (XVI-XVII sec.), erano tre i
protagonisti della concessione delle grazie, come chiarito anche nelle Novae Constitutiones
Dominii Medionalensis di Carlo V del 1541: il sovrano spagnolo, il Governatore del Ducato e il
Senato milanese, la suprema corte di giustizia del Ducato.
Il diritto di concedere le grazie spettava al sovrano, poiché solo lui era sciolto dal vincolo di
osservanza delle leggi. Unico limite per la concessione delle grazie da parte del sovrano era la
legge divina: le pene che trovavano il loro fondamento nella legge divina non potevano essere
condonate e questo accadeva in primo luogo in caso di omicidio premeditato.
Altro limite era quello che il sovrano non potesse concedere grazie per delitti futuri, non
ancora commessi, perché questo avrebbe costituito un chiaro invito a delinquere.
Nella pratica, nel Ducato di Milano il potere di concedere le grazie era esercitato, in luogo
del sovrano, dal Governatore, che era il rappresentante del sovrano (residente in Spagna) all’interno
del Ducato.
La richiesta di grazia rivolta al Governatore doveva innanzitutto specificare il delitto
commesso, se il delinquente si trovava in prigione e se era già stato condannato o graziato per altri
reati. Requisito fondamentale per la concessione della grazia era che il condannato avesse ottenuto
il perdono della parte offesa o dei suoi eredi: la c.d. pace privata o remissio. Era poi necessario che
la grazia non comportasse pregiudizio per terze persone e che non andasse contro l’interesse
pubblico.
Una volta ottenuta la grazia dal Governatore, l’interessato doveva presentarla al Senato
entro il termine di un anno, al fine di ottenerne l’approvazione: era questo il delicatissimo momento
dell’interinazione, attraverso cui il Senato controllava l’assenza di vizi di nullità della grazia
concessa dal Governatore: questi vizi potevano derivare o dall’inosservanza dei requisiti richiesti
per la sua concessione (assenza di premeditazione nell’omicidio, rispetto dei diritti dei terzi e del
pubblico interesse), oppure da vizi già presenti nella supplica rivolta dal condannato che potevano
consistere o in affermazioni false fatte dal supplicante (obreptio) o in omissioni di verità
(subreptio). Se venivano riscontrati vizi che rendevano la grazia nulla, il Senato non la approvava
e se il vizio era già presente nella supplica il richiedente poteva essere ucciso impunemente da
chiunque. In caso di grazia ottenuta da un omicida (purché non ci fosse premeditazione), il Senato
generalmente disponeva nei confronti del reo l’esilio annuale o biennale.