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IL PROCESSO PENALE L'ORDINAMENTO GIUDIZIARIO § I tribunali comunali Dalla fine del XII secolo l’amministrazione della giustizia è collegata alla nascita dei comuni e dunque alla fine dei poteri giudiziari dei vescovi-conti (conti: titolari del potere di governo nelle contee in cui era ripartito l’impero carolingio e post-carolingio, spesso la carica era assegnata ai vescovi), titolari dell’amministrazione della giustizia nell’altomedioevo carolingio e post-carolingio. Nasce così il tribunale consolare che, una volta sorto (legalmente o abusivamente), funzionò sempre, benché non mancarono i tentativi dei vescovi-conti di accordarsi coi consoli per spartirsi le funzioni giudiziarie, anche dopo che la Pace di Costanza (1183) aveva riconosciuto ai consoli la giurisdizione esclusiva nelle cause sia criminali che civili, sia di prima che di seconda istanza. Dal Duecento il tribunale del vescovo (episcopalis audientia) si limitava ormai all’esame delle sole cause di diritto canonico. I consoli erano dunque la magistratura cittadina, una magistratura collegiale competente sia nel civile che nel penale, con una pratica (ma non ufficiale) divisione interna delle attribuzioni, dedicandosi alcuni alle cause civili e gli altri a quelle criminali, ma sempre nell’ottica ideale di un’amministrazione collegiale e congiunta della giustizia, cosicché anche quando un solo console seguiva il processo, la sentenza era sempre pronunciata in nome di tutti (“in concordia aliorum consulum”). La giurisdizione dei consoli cittadini comprendeva sia la città che il contado circostante e si estendeva anche ai forestieri presenti nel territorio comunale (secondo il principio di territorialità), mentre ne erano esentati gli ecclesiastici titolari del privilegio del foro ecclesiastico anche per le cause secolari. Presto sorsero però altri tribunali speciali in favore dei mercanti (tribunali commerciali), dei militari (tribunali militari) e degli studenti universitari (giudicati a loro scelta dai professori o dal vescovo a partire dall’Autentica Habita di Federico Barbarossa del 1155). I consoli, nell’esercizio delle loro funzioni giudiziarie, erano assistiti da legum periti (detti anche causidici o consiliarii), dei conoscitori del diritto che esercitavano professioni giuridiche ma non giuristi laureati (chi aveva studiato all’Università per un certo tempo ma senza poi laurearsi), la cui presenza era resa necessaria da quell’ignoranza del diritto che era caratteristica tipica dei giudici comunali, esperti di politica, di guerra e di diplomazia, ma non altrettanto del diritto. Tra XII e XIII secolo si affermò nei comuni la carica podestarile in sostituzione dei consoli e l’ordinamento giudiziario divenne più complesso e articolato: aumentò il numero dei giudici, che

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IL PROCESSO PENALE

L'ORDINAMENTO GIUDIZIARIO

§ I tribunali comunali

Dalla fine del XII secolo l’amministrazione della giustizia è collegata alla nascita dei comuni

e dunque alla fine dei poteri giudiziari dei vescovi-conti (conti: titolari del potere di governo nelle

contee in cui era ripartito l’impero carolingio e post-carolingio, spesso la carica era assegnata ai

vescovi), titolari dell’amministrazione della giustizia nell’altomedioevo carolingio e post-carolingio.

Nasce così il tribunale consolare che, una volta sorto (legalmente o abusivamente), funzionò

sempre, benché non mancarono i tentativi dei vescovi-conti di accordarsi coi consoli per spartirsi le

funzioni giudiziarie, anche dopo che la Pace di Costanza (1183) aveva riconosciuto ai consoli la

giurisdizione esclusiva nelle cause sia criminali che civili, sia di prima che di seconda istanza. Dal

Duecento il tribunale del vescovo (episcopalis audientia) si limitava ormai all’esame delle sole

cause di diritto canonico.

I consoli erano dunque la magistratura cittadina, una magistratura collegiale competente sia

nel civile che nel penale, con una pratica (ma non ufficiale) divisione interna delle attribuzioni,

dedicandosi alcuni alle cause civili e gli altri a quelle criminali, ma sempre nell’ottica ideale di

un’amministrazione collegiale e congiunta della giustizia, cosicché anche quando un solo console

seguiva il processo, la sentenza era sempre pronunciata in nome di tutti (“in concordia aliorum

consulum”).

La giurisdizione dei consoli cittadini comprendeva sia la città che il contado circostante e si

estendeva anche ai forestieri presenti nel territorio comunale (secondo il principio di territorialità),

mentre ne erano esentati gli ecclesiastici titolari del privilegio del foro ecclesiastico anche per le

cause secolari. Presto sorsero però altri tribunali speciali in favore dei mercanti (tribunali

commerciali), dei militari (tribunali militari) e degli studenti universitari (giudicati a loro scelta dai

professori o dal vescovo a partire dall’Autentica Habita di Federico Barbarossa del 1155).

I consoli, nell’esercizio delle loro funzioni giudiziarie, erano assistiti da legum periti (detti

anche causidici o consiliarii), dei conoscitori del diritto che esercitavano professioni giuridiche ma

non giuristi laureati (chi aveva studiato all’Università per un certo tempo ma senza poi laurearsi), la

cui presenza era resa necessaria da quell’ignoranza del diritto che era caratteristica tipica dei giudici

comunali, esperti di politica, di guerra e di diplomazia, ma non altrettanto del diritto.

Tra XII e XIII secolo si affermò nei comuni la carica podestarile in sostituzione dei consoli e

l’ordinamento giudiziario divenne più complesso e articolato: aumentò il numero dei giudici, che

vennero distinti per competenza, e si creò un ordine gerarchico di giudici presieduto dal podestà. Il

podestà era infatti essenzialmente un uomo d’armi che dunque, al momento dell’assunzione della

suprema carica cittadina all’interno di un comune, portava con sé persone esperte di diritto cui

assegnava in sua vece la funzione di giudici (assessori o consoli di giustizia), soprattutto nelle cause

di diritto civile, irte di maggiore tecnicismo; altre volte, invece, secondo le varie e diverse previsioni

statutarie, i giudici che aiutavano il podestà erano eletti dal popolo o estratti a sorte tra gli iscritti al

collegio cittadino dei giuristi, una delle più potenti corporazioni di mestiere. Questi magistrati

duravano in carica un anno, come il podestà, ed erano sottoposti alla fine del loro mandato a giudizio

di sindacato; questo comportava un controllo del loro operato – in caso di rimostranze da parte dei

cittadini – da parte della magistratura dei “sindacatori” abilitata a comminare sanzioni in caso di

irregolarità.

Quanto ai requisiti che gli assessori e i consoli di giustizia dovevano possedere, era

caldeggiata ovviamente la conoscenza del diritto, benché non fosse facile avere dei giudici istruiti,

anche perché il ruolo di giudice era temporaneo e poco retribuito, quindi poco ambito dai giuristi

laureati. Pertanto spesso la carica era ricoperta da non professionisti del diritto, e tale difetto si

verificò specialmente nell’Italia meridionale (dove vi erano effettivamente meno Università, oltre

tutto di epoca più tarda, e dunque un minor numero di laureati) che ebbe una magistratura di persone

non esperte di diritto ma scelte semplicemente per la buona reputazione.

A rimediare a tale inconveniente si introdusse dal Duecento la facoltà e talvolta l’obbligo per

il giudice di chiedere un consiglio a giuristi laureati: il consilium sapientis iudiciale. E’ vero che

l’assistenza di pratici del diritto non era mai mancata neppure prima, poiché i legum periti (o

causidici: pratici del diritto che avevano studiato all’Università per un certo tempo ma senza poi

laurearsi) affiancavano i consoli nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali fin dalla prima età

comunale. Tuttavia nel Duecento si diffuse nella prassi il consilium sapientis, cioè del giurista

laureato, e i doctores furono così chiamati a rivestire una rilevante funzione nell’amministrazione

della giustizia.

Il giudice era sempre autorizzato a chiedere il consilium, mentre era obbligato a chiederlo,

come stabilivano gli statuti, in caso di sua ignoranza del diritto (imperitia), e di richiesta delle parti,

in entrambi i casi con l’obbligo per il magistrato di rispettare nella sentenza il parere ricevuto.

In età podestarile si ripristinò dunque il sistema romano del giudice unico, con l'abolizione

dei collegi giudicanti operativi nella prima età comunale quando la giustizia veniva amministrata dai

consoli collegialmente. Dal Duecento prima il podestà e poi il signore cittadino attribuirono

l'amministrazione della giustizia civile e criminale ai singoli giudici, ciascuno con la sua competenza

e la sua insegna (volta a distinguerli per competenza), disposti in scala gerarchica.

Si esigevano nei giudici i fondamentali requisiti di un'adeguata cultura e dell'età minima di

30 anni, e si cercò di assicurarne l’indipendenza di giudizio, imponendo che il magistrato non fosse

un ecclesiastico, che non fosse del luogo né con parentela nel distretto, così da non subire alcun tipo

di condizionamento a scapito dell’obiettività di giudizio.

Si teneva infatti molto alla correttezza dei giudici, nella consapevolezza che varie

deformazioni del sistema giudiziario potevano incidere negativamente sugli esiti

dell'amministrazione della giustizia, in particolare la venalità delle cariche (dunque acquistabili con

denaro e non per merito), la breve durata delle medesime (generalmente annuale) e le scarse

retribuzioni cui era connessa la possibilità di pretendere doni dai litiganti (le c.d. sportulae che

rappresentavano la parte più consistente dei loro introiti).

In particolare la pratica delle retribuzioni compiute direttamente dalle parti litiganti, che

spesso consistevano in derrate alimentari (da cui anche la denominazione di esculenta -cibo - e

poculenta – bevande -), era un’evidente fonte di corruzione dei giudici, indotti inevitabilmente a

favorire la parte che si era mostrata più generosa e prodiga nei loro confronti.

Nel Trecento, con l'intensificarsi della vita economica e il conseguente aumento delle liti, ai

magistrati vennero affiancati degli aiutanti che presero il nome di (assessores o) auditores, nominati

dalle università (spesso tra studenti prossimi alla laurea), a differenza degli assessori podestarili che

erano nominati direttamente dal podestà tra persone di sua fiducia.

In sottordine vi erano poi i notai incaricati di redigere per iscritto le deposizioni dei testimoni

e tutti gli atti della causa, nonché di conservarli e archiviarli: posta la scrittura a base del

procedimento e dovendo tutto risultare da atti scritti, la figura del notaio divenne assolutamente

indispensabile. Anche la carica di notaio era alienabile e dunque acquistabile con denaro e divenne

persino ereditaria (all’interno di famiglie dedite da generazioni al notariato); gli statuti richiedevano

che avessero la fama di persone oneste, che fossero istruiti nel diritto (attraverso la frequentazione

delle scuole di specializzazione nel notariato), e buoni conoscitori del latino (gli atti processuali

erano infatti tutti scritti in latino e sarà così fino alla fine del Seicento).

Vi erano poi i messi pubblici (nuntii), incaricati di eseguire gli ordini del giudice al di fuori

del tribunale: era ad esempio loro compito procedere all’arresto dei sospettati, notificare alle parti gli

atti processuali e compiere gli atti di esecuzione materiale delle sentenze; poiché dovevano essere

sempre pronti e disponibili ad ogni richiesta del giudice, gli statuti esigevano che abitassero entro le

mura cittadine. Le loro dichiarazioni sulla corretta esecuzione delle mansioni loro affidate faceva

fede, ma i loro atti dovevano essere accompagnati da alcune formalità: erano in particolare tenuti ad

indossare un abito tipico che fosse in grado di distinguerli, una sorta di divisa, che il più delle volte

si limitava ad una sciarpa rossa al collo; dovevano poi avere sempre con sè il testo del Vangelo per

ricevere i giuramenti quando richiesti dalle norme processuali.

§ Le corti signorili e i tribunali normanno-svevi

La nascita delle signorie produsse alcune innovazioni nell’ordinamento giudiziario. La

principale novità era legata al fatto che nel territorio delle signorie erano compresi più comuni,

perciò, dove risiedeva il signore, cioè nella città dominante all’interno del territorio, si istituirono i

tribunali centrali.

Si formano così nel corso del Trecento i tribunali superiori, cioè il foro della città dominante.

Il tribunale centrale aveva competenza esclusiva (in un unico grado di giudizio) per le cause penali

più gravi (reati da punire con la pena di morte o con pene corporali) e per quelle civili di elevato

valore economico. Le cause minori erano invece trattate in primo grado dai tribunali dei singoli

comuni, mentre al tribunale centrale spettava la competenza in appello; il magistrato locale, prima di

essere investito dell’ufficio che gli veniva conferito, prestava pertanto giuramento di rinviare alla

corte centrale tutte le cause in appello. Era inoltre vietato ai tribunali locali di risolvere le liti che i

loro abitanti avevano con i cittadini della città dominante, riservate anch’esse al tribunale centrale.

Erano inoltre riservate al tribunale superiore tutte le cause pubbliche, di interesse dello stato.

Nell’Italia meridionale i Normanni avevano invece fondato una monarchia accentrata in cui il

re era al vertice dell’amministrazione giudiziaria. Subito al di sotto del re c’erano il Gran Giustiziere,

responsabile della giustizia penale, il Gran Camerario, responsabile della giustizia civile, la giustizia

militare era amministrata dal Grande Ammiraglio e quella ecclesiastica e feudale dal Gran

Cancelliere: erano tutti funzionari di nomina regia.

Il Gran Giustiziere aveva comunque una preminenza sulle altre cariche, investito anche del

ruolo di protettore delle vedove, dei poveri, degli orfani e delle chiese, col compito di visitare ogni

anno città e province, anche per reprimere le guerre private tra signori feudali e lo stato di anarchia

che ne derivava.

Al di sotto di queste quattro supreme magistrature vi erano i giudici inferiori, dislocati nelle

varie province del regno: i giustizieri, competenti per le cause penali maggiori (relative a reati da

punire con la pena di morte o pene corporali) e per quelle feudali e fiscali; i camerari, titolari della

giustizia civile d’appello; i baiuli, investiti delle cause penali minori (per reati cioè da punire con

pena pecuniaria) e di quelle civili di primo grado. Erano tutti di nomina regia, scelti tra persone dalla

moralità indiscussa, non originari della provincia alla quale venivano assegnati, né possessori di beni

ove ricoprivano il loro ufficio, nè abilitati a ricevere doni dalle parti processuali; tutti pronunciavano

le sentenze in nome del re.

Al di sopra di tutti i giudici c’era la Magna Curia, presieduta dal re (o in sua vece dal Gran

Giustiziere), e composta dai grandi ufficiali del regno, un’istituzione al tempo stesso politica e

giudiziaria, in quest’ultimo caso competente per tutte le cause nell’ultimo grado di giudizio, in caso

di denegata giustizia da parte dei giudici inferiori e per le liti tra i vassalli del re.

§ I Grandi tribunali

Tra Quattro e Cinquecento nel territorio italiano si formano i principati e le monarchie, che

non apportarono innovazioni sostanziali nel campo della giustizia, ma si limitarono a regolare

meglio la gerarchia dei tribunali con l’istituzione dei Grandi tribunali, nell’ottica di una

riorganizzazione della giustizia accentrata nelle mani del sovrano, realizzata dai sovrani assoluti nei

secoli d’Ancien Régime. Questi tribunali supremi vennero creati o ristrutturati sulla base dei

precedenti tribunali centrali signorili, e poi ampiamente potenziati dai sovrani tra Quattro e Seicento,

vennero dotati di competenze in un unico grado di giudizio per le cause riguardanti direttamente il

potere centrale (cause regie e cause demaniali), e di una generale competenza d’appello sulle

sentenze dei tribunali inferiori dello Stato. Vennero inoltre forniti di cospicui poteri discrezionali ed

equitativi che consentivano un’applicazione non rigorosa e letterale delle norme giuridiche ai casi

concreti, per facilitare il funzionamento del sempre più complesso e intricato sistema delle fonti del

diritto comune, così da evitare la paralisi del sistema.

Il Senato di Milano e il Sacro Regio Consiglio di Napoli, come il Parlamento di Parigi, erano

tra l’altro dotati anche di potere normativo, in quanto abilitati ad emettere regolamenti con efficacia

normativa all’interno della propria giurisdizione, e dotati del diritto di controllo della legittimità

degli atti normativi sovrani e della loro approvazione in vista della loro registrazione, il c.d. diritto di

interinazione, che contribuì indubbiamente ad accrescere il potere politico e il prestigio di queste

supreme magistrature di antico regime.

LA COMPETENZA

Alle origini dei comuni l’unico tribunale ordinario era quello dei consoli, competente per

tutte le cause. Successivamente, in età podestarile, si divisero le competenze e vennero istituiti

giudici ordinari per la materia civile, per quella penale, per le liti relative ai beni mobili, per quelle

sugli immobili e così via: i limiti di competenza erano fissati per legge, ma nella pratica, per il gran

numero di tribunali, i conflitti di competenza erano continui, per l’incertezza sulle linee di confine

tra una competenza e l’altra.

A modificare le regole sulla competenza interveniva anche il fatto che ogni persona di

condizione sociale umile in lite con un nobile, un potente, poteva rifiutare il giudice ordinario di

primo grado e richiedere di sottoporre direttamente la causa al giudice superiore dopo aver giurato di

avere timore dell’avversario, cioè la c.d. “perhorrescientia adversarii”, il timore che la posizione

particolarmente influente dell’avversario potesse condizionare il giudice locale, per cui si chiedeva

direttamente l’intervento del giudice superiore, del tribunale centrale, reputato meno facilmente

influenzabile in quanto non radicato su quel territorio.

§ Il tribunale ecclesiastico

Accanto ai tribunali ordinari vi erano poi i tribunali speciali che sottraevano determinate

categorie di persone e determinate materie alla competenza dei giudici ordinari, a cominciare dai

tribunali vescovili per gli ecclesiastici. I tribunali speciali aumentarono quando le classi e i ceti in cui

si frazionava la società tardo-medievale pretesero propri tribunali speciali; aumentati così i tribunali,

i conflitti di competenza tra essi si moltiplicarono, non essendo sempre di chiarezza immediata quale

fosse il giudice competente.

Fin dai suoi primi secoli di vita la Chiesa aveva cercato di sottrarre gli ecclesiastici al

tribunale ordinario e di sottoporre al tribunale del vescovo tutte le cause civili e penali riguardanti gli

ecclesiastici. L’attuazione di questo principio fu di lunga elaborazione nel corso dei primi secoli del

medioevo e trovò la sua consacrazione definitiva nel Decreto di Graziano e nelle successive raccolte

di decretali, e anche il riconoscimento ufficiale del potere imperiale attraverso l’Authentica

Statuimus di Federico II: secondo la costituzione, infatti, “nullus ecclesiasticam personam in

criminali quaestione vel civili trahere ad iudicium saeculare praesumat contra constitutiones

imperiales et canonicas sanctiones. Quod si actor fecerit, a iure suo cadat, iudicatum non teneat et

iudex ex tunc potestate iudicandi privetur”.

Da quel momento fu pacificamente ammesso dalla dottrina giuridica il diritto della Chiesa al

foro esclusivo, inserito a pieno titolo tra le prerogative ecclesiastiche. Il tribunale del vescovo era

così competente per le liti civili e criminali dei chierici tra di loro, dei laici contro i chierici e dei

chierici contro i laici (specialmente quando questi ultimi si trovavano al servizio di religiosi). Era un

privilegio della Chiesa nel suo complesso e non delle singole persone degli ecclesiastici, perciò ad

esso non si poteva rinunciare.

§ Gli altri tribunali speciali

Erano previsti giudici speciali anche per le controversie che sorgevano nelle fiere e nei

mercati, tra i frequentatori delle medesime, in occasione di contratti conclusi in quei contesti e di

reati commessi in quelle occasioni. I comuni italiani diedero infatti grande incremento ai mercati

periodici, che costituivano una manifestazione caratteristica dell’economia urbana e punti di ritrovo

per i commercianti delle merci di maggiore utilizzo.

A richiedere giudici speciali era il carattere particolare di quelle riunioni che esigevano una

soluzione velocissima, poiché al chiudersi del mercato, che durava pochi giorni, ognuno doveva

essere libero di recarsi altrove, in luoghi dove sarebbero stati diversi i giudici e diverse le leggi e le

consuetudini da osservare. Questa è la ragione giustificativa dei tribunali delle fiere nati nel XII

secolo, fin dalle origini dei comuni cittadini, come rinuncia dei titolari della giustizia ordinaria a

favore di giudici speciali nominati dagli organi pubblici (consoli o podestà), che dirimevano

immediatamente le controversie tra compratori e venditori e le vertenze originate da reati, in modo

che, terminato il mercato, non rimanessero strascichi di litigi.

Altra categoria di persone titolari di magistrature speciali erano gli ebrei cui era riconosciuta,

già dal diritto giustinianeo, la facoltà di vivere secondo la legge mosaica e di ricorrere alla

giurisdizione dei rabbini per le controversie interne tra ebrei. Questa prassi si conservò per tutta l’età

intermedia nelle numerose colonie ebraiche presenti in varie città dell’Italia settentrionale e centrale,

attribuendo ad un tribunale speciale gestito dai rabbini la soluzione delle controversie interne tra

ebrei, sia civili che penali.

Tribunale assolutamente speciale fu poi quello concesso agli studenti universitari da Federico

Barbarossa nel 1155 con l’Authentica Habita che, tra i vari privilegi attribuiti agli studenti

dell’università di Bologna, incluse quello che gli stessi fossero giudicati “coram domino vel

magistro suo vel ipsius civitatis episcopo”; questa costituzione si ispirava ad una prescrizione di

Giustiniano che aveva imposto al vescovo e ai professori di esercitare vigilanza e disciplina sugli

studenti. Il privilegio federiciano venne poi applicato dalla dottrina estensivamente a tutte le

università italiane e fondò il tribunale degli studenti; i professori, però, si trovarono presto in

difficoltà nell’esercizio della giurisdizione penale, per la mancanza dei mezzi idonei al suo esercizio,

e conservarono, per lo più, solo quella civile, gestita dal rettore, scelto tra i professori. L’esecuzione

delle sentenze (sia del rettore che del vescovo) era però riservata ai giudici ordinari.

AVVIO DEL PROCESSO PENALE

L’alto medioevo ha trasmesso all’età comunale due modi di persecuzione dei reati: l’accusa

privata (già prevista dal diritto romano e contemplata anche dai diritti germanici), e l’inchiesta ex

officio del giudice. La prima era la forma ordinaria di processo e piaceva particolarmente alla

popolazione, perché, una volta venuta meno la faida (la vendetta privata) di origine barbarica e col

tempo vietata dalle stesse leggi germaniche, si sentiva così investita di un mezzo legale per incitare

i pubblici poteri, tramite una denuncia, a dare all’offeso quella soddisfazione che non poteva più

prendersi da solo con l’autogiustizia.

L’inchiesta ex officio del giudice era stata praticata nel regno longobardo e in quello franco

nei confronti dei soli reati più gravi, a cominciare dalla lesa maestà, e rimase in vita nei comuni

cittadini, anche perché i consoli, all’assunzione della carica, prestavano giuramento di inquirere (di

indagare) sui reati. Questo mezzo di avvio dei processi era destinato a divenire, a partire dal 200, il

mezzo ordinario di avvio di un processo, in linea con l’acquisizione di sempre più cospicui poteri

politici da parte degli ordinamenti cittadini e delle monarchie che stavano sorgendo nel contesto

europeo.

§ Il procedimento per accusa e per denunzia

In base agli statuti cittadini più antichi l’accusa doveva essere presentata con le forme e le

caratteristiche proprie del processo civile. Così dichiaravano anche le Consuetudini di Milano del

1216: non si faceva nessuna differenza tra la richiesta di ottenere la punizione del colpevole di un

reato o la richiesta in via civile di un risarcimento del danno. Anche negli statuti di Bergamo,

Brescia e Pistoia si accomunavano (sotto le stesse rubriche) attore e accusatore, reato e negozio

giuridico. Di conseguenza il processo per accusa iniziava con la presentazione del libello

introduttivo della lite contenente la pretesa dell’accusatore e con la citazione del reo. Nel giorno

fissato per la prima udienza l’accusatore ripeteva le sue affermazioni e l’accusato rispondeva,

secondo il classico schema della litis contestatio romana.

Il libello accusatorio era concepito come quello del processo civile: Titius est fur, latro,

homicida, e venivano elencate le prove. Tuttavia queste formalità civilistiche non resistettero a

lungo e si arrivò ben presto ad un rito accusatorio speciale e semplificato per cui, in seguito alla

presentazione dell’accusa, bastava la semplice iscrizione del nome dell’imputato nel “libro dei rei”

del comune.

Non tutti potevano accusare: erano esclusi gli incapaci di intendere e di volere, gli eretici, gli

ebrei, i poveri, i malfamati per delitti commessi. Se l’accusatore in corso di causa desisteva

dall’accusa il processo non si estingueva ma veniva portato avanti dal fisco, interessato al

versamento della pena pecuniaria.

Una volta ricevuta l’accusa da parte del notaio del Comune, il messo pubblico citava il reo a

comparire, per tre volte consecutive entro 9 giorni, a voce in tribunale, o con atto scritto consegnato

al domicilio, o con citazione pubblica nella pubblica piazza o in chiesa durante la messa.

L’accusatore era tenuto a presentare le prove di quanto asserito, altrimenti veniva a sua volta

perseguito per calunnia ai danni dell’accusato. Il reo si difendeva invece con le eccezioni, di cui era

tenuto a provare il contenuto, e con le allegazioni del suo avvocato. La sentenza veniva letta

pubblicamente.

Oltre al processo per accusa, gli statuti cittadini prevedevano l’obbligo per i pubblici

ufficiali di denunciare i reati di cui erano venuti a conoscenza attraverso la denunzia.

§ Il procedimento inquisitorio o d’ufficio.

A partire dal 200 l’inquisizione venne imposta ai consoli per i reati più gravi, quali lesa

maestà, ladroni di strada, grassatori (rapinatori), lenoni, sacrileghi e falsari, ma non tardò ad

estendersi a tutti i reati.

L’inquisizione si articolava in due forme: quella singolare o speciale, contro una specifica

persona indicata per nome; quella generale, detta anche preparatoria o solenne, quando il giudice

indagava circa un reato al fine di raccogliere gli indizi e di sentire la voce pubblica affinché

emergesse il nome di un indiziato per cattiva fama (infamatus). Per provare la cattiva fama

(infamia) dell’inquisito bastavano due o tre testimoni di buona fama, e l’inquisito avrebbe poi

potuto opporre che quelle voci partivano da suoi nemici, al fine di inficiarle.

Contro l’indiziato veniva poi istruita l’inquisizione speciale, condotta per iscritto, poiché la

regola era che gli indizi, le testimonianze e la voce pubblica venissero redatti per iscritto. In una

prima fase in cui il processo accusatorio rappresentava ancora il processo ordinario, il giudice,

prima di procedere con l’inquisizione speciale doveva chiedere alla parte offesa se intendeva

procedere con l’accusa oppure no.

L’inquisito doveva essere citato e dovevano essergli consegnati i capitoli dell’inchiesta (che

ne indicavano l’oggetto). In una prima fase storica che arriva fino al XV secolo veniva comunicato

all’inquisito anche l’elenco dei nomi dei testimoni, per consentirgli di opporre le relative eccezioni

e doveva essere citato anche all’audizione dei testi per poter sollevare eccezioni anche contro le

deposizioni. Era dunque prevista una discreta serie di garanzie e un certo diritto di difesa.

L’imputato di reati particolarmente gravi (atroci) o recidivo o su cui gravavano pesanti

indizi o testimonianze di almeno due persone di buona fama veniva incarcerato, mentre negli altri

casi godeva di libertà provvisoria prestando le dovute cauzioni con cui si impegnava a non fuggire.

Nei reati più gravi, quali eresia, omicidio, furto, incendio si procedeva in tempi brevissimi:

si comunicava all’imputato l’atto di inchiesta ma non gli si comunicavano i nomi dei testimoni; non

c’era alcuna pubblicità del giudizio, tutto era coperto da segretezza, e non era neppure prevista

l’assistenza di un avvocato negli interrogatori. Soltanto prima della sentenza l’imputato poteva

presentare la sua difesa e produrre suoi testimoni.

§ Il procedimento criminale a Napoli e in Sicilia.

La dominazione normanna introdusse nell’Italia meridionale alcuni istituti procedurali tipici

della Francia settentrionale.

Il procedimento ordinario era quello accusatorio, ma i Normanni introdussero anche il

procedimento straordinario per inquisizione, visto come potere generale del giustiziere di

investigare sulle condizioni della criminalità all’interno della sua provincia: non si trattava dunque

dell’inchiesta relativa ad un singolo fatto, ma di una generalis inquisitio circa i reati commessi in

una determinata provincia: bastava la pubblica fama circa la commissione di delitti nella zona, e se

emergeva qualche notizia concreta, il giustiziere era obbligato a procedere contro l’indiziato.

Accanto a questa inquisitio generalis era poi prevista anche un’inquisitio specialis, però nei

soli casi tassativamente stabiliti dalla legge, in relazione ai reati più gravi tra cui la lesa maestà. Per

praticarla era inoltre necessario l’autorizzazione del re, al quale si dovevano comunicare gli estremi

del reato, il nome del delatore e le persone dei testimoni.

Gli Angioini e gli Aragonesi che succedettero ai Normanni sui troni ormai sdoppiati di

Napoli e di Palermo mantennero le due inquisizioni: quella generale che dovevano compiere ogni

anno i giustizieri nella loro provincia, e quella speciale che veniva disposta con ordine del re contro

gli imputati di gravi crimini, ma le estesero a tal punto da suscitare le proteste della popolazione,

spaventata da questa procedura segreta, arbitraria, che nasceva da denunce anonime e da delazione,

senza diritto alla difesa, spesso strumento di vendette personali e di persecuzioni politiche. Si può

dire che ormai l’inquisizione era divenuto il processo ordinario, a differenza da quanto sancito dalla

precedente legislazione normanna.

§ La parte civile.

L’origine dell’istituto della parte civile è certamente italiana. L’azione civile apparteneva –

come ora – al danneggiato dal reato e poteva essere esercitata davanti allo stesso giudice e nello

stesso tempo dell’esercizio dell’azione penale (in alternativa ad un’autonoma azione civile da

proporre dopo la pronuncia della sentenza penale), al fine di ottenere il risarcimento del danno a lui

derivante dal reato. Il privato danneggiato poteva intervenire non solo nel processo accusatorio ma

anche in quello avviato d’ufficio dal giudice col rito inquisitorio.

§ Il procedimento penale dal sec. XVI alla fine del sec. XVIII.

In Italia, sotto le monarchie e le dominazioni straniere che si affermano dal XVI secolo, la

giustizia penale fu dominata dalla ragione di Stato, divenne cioè onnipotente per la quasi totale

mancanza di garanzie processuali, e si rafforzò attraverso gli strumenti dell’intimidazione e della

segretezza propri del rito inquisitorio. Il processo penale risentì in sostanza di tutti i difetti tipici

degli ordinamenti di antico regime, privi di regole certe, caratterizzati dall’arbitrio dei pubblici

funzionari e dai privilegi di ceto. Ciò che occorreva era punire il delitto, ne crimina maneant

impunita.

In sostanza, dal XVI sec., dominava il principio che lo Stato dovesse difendersi e garantire

l’ordine sociale con tutti i mezzi, e principalmente con l’inquisizione segreta.

§ Avvio del processo.

Appena il reato era scoperto o denunciato, anche in forma anonima, il giudice iniziava la sua

inchiesta segreta: doveva interrogare le persone potenzialmente al corrente del reato attraverso

un’inchiesta generale da cui doveva scaturire il nome del diffamato, anche sulla base di due sole

testimonianze o della pubblica voce attestata anch’essa dalla testimonianza di due persone di buona

fama.

Si passava poi all’inquisizione speciale, nella quale si obbligavano i testimoni a presentarsi

davanti al giudice e rendere la loro deposizione: tutto ciò avveniva in segreto ma se ne redigeva

processo verbale. Sulla base delle deposizioni raccolte dai testimoni, ai quali si poteva anche

applicare la tortura se reticenti, il giudice decideva se citare il reo o disporne l’arresto.

La citazione veniva intimata con le forme proprie del processo civile. La citazione poteva

essere fatta a voce, dal giudice al reo, se questi era presente in tribunale; la regola era però quella

della comunicazione scritta della citazione presso il domicilio del reo, e ripetuta per tre volte a

intervalli regolari (in genere di 3 giorni), con indicazione del termine perentorio nel quale

comparire, in genere a distanza di 10 giorni, in un giorno non festivo. Le tre citazioni obbligatorie

potevano anche essere eseguite contestualmente, e si prestava fede alla relazione del messo

pubblico che dichiarava di averle eseguite correttamente. La citazione doveva essere eseguita in un

giorno non festivo, dall’alba al tramonto. Qualora il messo non trovasse il citando nella sua

abitazione, affiggeva l’atto di citazione sulla porta di casa. Era possibile anche la consegna dell’atto

di citazione non direttamente al reo ma a persona di famiglia presente nel domicilio del reo.

Vi era poi la citazione pubblica, detta per edictum (edictalis), cioè per proclama affisso in

luogo pubblico (alla porta del tribunale o in altro luogo pubblico), o anche letto pubblicamente nella

chiesa cattedrale o nella piazza principale, con gli stessi effetti di una comunicazione fatta al

domicilio. Questa modalità era utilizzata per citare le persone giuridiche (le associazioni di

persone), gli ecclesiastici, che venivano chiamati in giudizio con affissione della citazione in chiesa,

considerata loro domicilio, i latitanti (fuggitivi), di cui si ignorava il domicilio, e infine tutti quei

soggetti di cui era nota la prepotenza e l’aggressività, che si temeva avrebbero minacciato o

addirittura aggredito il messo pubblico in caso di citazione al domicilio.

Se il citato compariva in giudizio, il citato riceveva comunicazione dei capitoli dell’inchiesta

condotta contro di lui, dopo di che o veniva rimesso in libertà (con o senza cauzioni), oppure veniva

arrestato.

Il mandato di cattura era lasciato all’arbitrio del giudice, che poteva disporlo anche in

presenza di deboli indizi a carico dell’indagato.

A questo punto iniziava l’esame dell’inquisito, attraverso il suo interrogatorio, preceduto dal

giuramento de veritate dicenda: le domande e le risposte dovevano essere messe per iscritto in

forma non abbreviata; le domande dovevano essere formulate dal giudice in modo non suggestivo

delle risposte e senza minacce né promesse di impunità; in questa fase non si applicava la tortura.

Terminato l’interrogatorio, l’imputato, anche arrestato, poteva chiedere la libertà provvisoria

(abilitazione), salvo che il reato fosse punito con la pena di morte, il reo avesse confessato

spontaneamente durante l’interrogatorio o fosse stato preso in flagrante. La libertà provvisoria

veniva concessa dietro il versamento di una cauzione.

IL PROCESSO PENALE CONTUMACIALE

L’inosservanza della citazione a comparire in giudizio per rispondere di un delitto era

considerata una disobbedienza agli ordini del magistrato e pertanto era reputata a sua volta un

delitto e la sanzione stabilita dagli statuti comunali era in genere il bando (bannum), l’esilio.

Se il contumace colpito da bando non si presentava davanti al giudice entro 10 giorni

incorreva nella confisca dei beni. Per i citati per i crimini più gravi, quelli puniti con la pena

capitale, la mutilazione o il carcere perpetuo, e rimasti contumaci, era disposto che chiunque

potesse ucciderli impunemente perché la contumacia era equiparata a confessione; per lo stesso

motivo, se cadevano nelle mani dell’autorità, la pena nei loro confronti veniva immediatamente

eseguita. Erano perciò denominati forgiudicati, perché venivano giudicati al di fuori di ogni rito e

forma giudiziaria.

LE PROVE

La dottrina delle prove legali negava il libero convincimento del giudice, tenuto ad attribuire

alle prove il preciso valore stabilito per legge, senza la facoltà, propugnata a partire dall’età

illuministica, di valutarle liberamente.

Le prove erano legali nel senso che erano prestabilite dalla legge. Si dividevano dunque in

prove piene e prove semipiene, le prime in grado di fondare una sentenza di condanna, le altre

necessitanti del concorso di altri elementi di prova, in mancanza dei quali, però, l’imputato non

veniva assolto ma incorreva in una pena inferiore stabilita ad arbitrio del giudice (pena arbitraria).

Tutto ciò per dare una qualche parvenza di garanzia all’imputato, di fronte ai tanti vizi della

procedura quali l’uso della tortura e il segreto inquisitorio.

Il principio della prova legale è presente nelle regole relative al numero e alla qualità dei

testimoni e dei periti, ai requisiti dei documenti per essere efficaci, al numero degli indizi necessari e

così via.

Il principio basilare era che il giudice dovesse trarre la sua decisione dalla stretta osservanza

della legge. Unico suo compito era verificare se la confessione resa dall’imputato presentava i

requisiti richiesti dalla legge oppure no, se i testimoni erano idonei o no, se i documenti erano

autentici e degni di fede o meno: se questi requisiti erano rispettati, al giudice non rimaneva che

applicare la pena, anche quando la sua convinzione personale era diversa.

§ Il giuramento purgatorio e il duello.

A partire dall’anno Mille vennero progressivamente abbandonate le prove ordaliche (i giudizi

di Dio) di origine germanica e si ritornò alle prove razionali (cioè non fondate su elementi

metafisici) già previste dal diritto romano e praticate anche nell’alto-medioevo dai tribunali della

Chiesa, che ovviamente avversava le prove ordaliche volte a strumentalizzare il potere divino e a

sollecitarne a comando una manifestazione nelle vicende umane.

Tuttavia non fu facile l’abbandono delle prove materiali, poiché rispondevano ancora alla

mentalità dominate nei primi tempi dei comuni. Si conservò così in alcune località il giuramento

purgatorio, con cui un accusato di delitto si liberava dall’accusa, se mancavano testimoni oculari del

delitto, giurando davanti a Dio la sua innocenza. Era però necessario che l’imputato non fosse di

cattiva fama e che gli indizi contro di lui fossero debolissimi, tali cioè da escludere il ricorso alla

tortura, o che questa non fosse comunque praticabile per ragioni di età o di classe sociale. Talvolta

era previsto che, insieme all’imputato, giurassero altre persone disposte a giurare circa la sua

innocenza.

Eredità del processo barbarico furono anche i giudizi di Dio tra cui il duello, ai quali fecero

ricorso specialmente le città della Lombardia fino al 300, soprattutto per i reati puniti con la pena di

morte, quali l’omicidio, il falso e l’incendio, nell’ambito del processo accusatorio. L’accusato poteva

così sfidare a duello l’accusatore il quale, per non essere punito per calunnia, doveva accettarlo.

Erano poi ancora praticate, ad esempio in Liguria, la prova ordalica del ferro rovente e quella

dell’acqua gelida, con cui l’accusato, se resisteva, si liberava dall’accusa..

Nell’Italia meridionale il duello venne invece vietato da Federico II agli inizi del 200, salvo

che ai nobili quando non fossero esperibili altri mezzi di prova.

§ La prova testimoniale.

La prova per testimoni costituiva indubbiamente la prova di più ampio utilizzo. Nel processo

accusatorio la parte che intendeva avvalersene doveva compiere la publicatio testium, cioè

comunicare per iscritto al giudice i nomi dei testimoni e i capitoli (i punti) dell'interrogatorio che

sarebbe poi stato condotto dal magistrato.

Circa il numero dei testimoni, vigeva la regola che unus testis nullus testis (est), cioè vox

unius vox nullius, secondo un principio giuridico che affondava le sue radici nell'Antico Testamento

(Libro del Deuteronomio) e che trovò conferma anche nel Codice e nel Digesto di Giustiniano e

nelle Decretali di Gregorio IX. Pertanto due testimoni costituivano prova piena in grado di fondare la

sentenza, uno solo costituiva invece una prova semipiena.

I testimoni, per essere considerati degni di fede e dunque attendibili, dovevano presentare

requisiti di sexus, aetas, discretio (capacità di discernimento, cioè di intendere e di volere), ma anche

di conditio (condizione sociale idonea), fama (buona fama) e fortuna (condizione patrimoniale

adeguata, perché si riteneva, non necessariamente a ragione, che la persona nullatenente potesse farsi

comprare facilmente), valutati attentamente dal giudice. In certi casi era rilevante anche la fides (la

fede religiosa professata).

Quanto all’età, nei processi penali era richiesta l’età di 18 o 20 anni (a seconda degli statuti).

Per mancanza di buona fama, erano esclusi i condannati, i banditi (esiliati) e gli usurai (qualunque

prestito ad interesse, poiché il mutuo era contratto gratuito); per la religione professata, erano esclusi

gli ebrei e gli arabi dal testimoniare contro i cristiani, e in generale gli eretici e gli scomunicati.

Per presunta mancanza di imparzialità non erano ammessi a testimoniare i parenti delle parti,

l’amico (a favore) e il nemico (contro), i soci e l'avvocato.

Per quanto riguarda la testimonianza delle donne, hanno dominato a lungo i pregiudizi tipici

di una società di stampo militare e feudale che reputava la figura femminile sotto svariati profili

inferiore all’uomo. Con particolare riguardo alla capacità di testimoniare la dottrina giuridica

metteva in risalto l’asserita facile mutevolezza di pensiero delle donne, la così detta leggerezza

d’animo, la debolezza non solo fisica ma anche emotiva, elementi tutti che rendevano le donne poco

degne di fede nelle aule giudiziarie. La testimonianza femminile valeva se mai come prova

semipiena (come indizio), da completare dunque con altri elementi di prova.

A differenza di quanto avveniva nel processo accusatorio, nell’inquisitorio l’esame dei

testimoni rimaneva segreto all’imputato, che dunque non presenziava, come neppure il suo avvocato.

Le deposizioni dei testi rese al giudice rimanevano così segrete per tutta la durata del processo. I

testimoni reticenti venivano sottoposti a tortura.

I testimoni dovevano deporre in aula, in presenza del giudice (e non di semplici scrivani), a

meno che non adducessero l’impossibilità a presentarsi di persona per infermità o malattia, o

facessero valere privilegi legati allo status di nobili o di dignitari ecclesiastici ed essere così ascoltati

nelle loro case o quanto meno nel loro distretto; così le donne, secondo alcuni statuti, dovevano

essere interrogate in chiesa alla presenza del sacerdote, a tutela del loro onore e della loro

rispettabilità.

§ La prova documentale.

Per quanto riguarda le prove documentali, rilevanti soprattutto nel delitto falso (in cui

costituivano il corpo del reato), il massimo valore era attribuito al documento pubblico, cioè redatto

da un notaio, la cui professione aveva carattere di ufficialità, che faceva piena fede (costituiva prova

piena) se era stato redatto secondo le formalità richieste dalla legge: la rogatio, cioè la chiamata

delle parti interessate davanti al notaio, la presenza e la sottoscrizione dei testimoni, il sigillo del

notaio e infine la data e il luogo di confezione dell’atto. Il sigillo del notaio era qualificato la vox

mortua del documento, mentre le sottoscrizioni dei testimoni erano la vox viva del documento.

Rientravano tra gli atti pubblici anche gli scritti redatti in giudizio, quelli conservati in un

archivio pubblico e ancora, secondo il diritto canonico, gli atti emessi dagli ecclesiastici

nell'esercizio delle loro funzioni; di questi ultimi non si poteva neppure addurre la falsità se erano

muniti del sigillo dell’autore, che si reputava sempre autentico negli atti rientranti nel suo ufficio.

L’importanza assegnata agli atti pubblici giustificava le sanzioni previste contro chi deteneva

un documento pubblico che ad altri interessava e si rifiutava di esibirlo. La mancanza o

l’insufficienza degli archivi pubblici imponeva difatti severe sanzioni affinché non fossero sottratte

prove utili all’accertamento in giudizio della verità; così gli statuti autorizzavano i giudici a far

perquisire le case e a fare arrestare chi non consegnava le scritture richieste.

Le scritture private erano, invece, le lettere dei privati, i registri delle corporazioni di arti e di

mestieri e i registri parrocchiali (che contenevano indicazioni relative a nascite, battesimi, morti,

matrimoni), e avevano valore di prova se erano munite della firma dell’autore e di quella di tre

testimoni, o, in mancanza, se l’autore le riconosceva come sue o si provava diversamente che le

aveva scritte. Ad esse era comunque riconosciuta un’efficacia probatoria inferiore a quella dell'atto

pubblico.

§ Il notorio

Tra i mezzi di prova c’era anche il notorio o la fama, cioè la circostanza che un determinato

un reato fosse noto a molte persone e fosse quindi innegabile, stando sotto gli occhi di tutti.

La fama di un reato, per costituirne una prova in giudizio, doveva a sua volta essere provata

da testimoni, disposti ad attestare l’esistenza di una pubblica voce relativa ad un crimine: bastavano

in genere quattro testimoni sulla pubblica fama per condannare a morte un omicida.

§ Gli indizi.

Venivano poi gli indizi e le presunzioni, che, presi singolarmente erano prove semipiene,

necessitanti dunque, di essere integrati da altri elementi di prova al fine di costituire una prova piena,

in base al fondamentale principio che governava tutta la materia probatoria secondo cui “quae

singula non prosunt collecta iuvant”: singoli elementi di prova di per sé insufficienti possono

contribuire, se assommati ad altri, a creare una prova piena.

In base alla loro qualità gli indizi si distinguevano in dubitati (cioè dubbi) e indubitati (cioè

fortemente probabili: ad esempio in materia di furto si reputavano indizi indubitati il rinvenimento

presso l’indagato della refurtiva, la sua condizione di povertà e l’aver cominciato a spendere molto,

essere stato visto nascondere cose sotto i vestiti); prossimi e remoti a seconda del loro grado di

approssimazione al reato (ad es. era indizio prossimo di omicidio la presenza dell’imputato armato

sul luogo del delitto, e indizio remoto un litigio tra lui e la vittima qualche giorno prima

dell’omicidio); gravi o lievi; anteriori e posteriori al delitto; connessi alla persona dell’indiziato o al

fatto.

§ La perizia.

In caso di ferite e lesioni era previsto il ricorso a periti, cioè a persone competenti, il cui

parere veniva confrontato dal giudice con le risultanze probatorie. In realtà il perito non era

considerato fonte di prova ma un ausiliario del giudice che era libero di attenersi al responso oppure

di respingerlo.

Col tempo si affermò però l’orientamento di considerare la perizia una forma di

testimonianza, che quindi doveva sottostare alle regole relative alla prova testimoniale: erano

pertanto necessarie due perizie di due diversi periti, e in caso di discordanza il giudice poteva o

attenersi ad uno dei due, o non seguirli entrambi o nominare un terzo perito. La loro deposizione era

accompagnata da giuramento de credulitate (cioè di buona fede).

§ La confessione.

La confessione, giudiziale (quella extragiudiziale doveva essere però provata da testimoni),

aveva invece la più completa efficacia probatoria e si presentava come prova piena in pregiudizio di

chi confessava, definita pertanto “optima regina probationum”: ottenuta la confessione dell'imputato,

non era più necessario il ricorso ad altre prove. Era però necessaria la capacità di agire del soggetto,

che non doveva essere minore d’età o insano di mente.

Si può dire che il processo penale era tutto preordinato al fine di ottenere la confessione

dell’imputato: da ciò l’uso della tortura. Era però necessario che ci fossero anche degli indizi contro

l’imputato che rendeva la confessione,

La confessione, anche quella ottenuta con la tortura, doveva essere chiara, consapevole,

verosimile, probabile e specifica.

§ La tortura.

La tortura fece il suo ingresso nei processi quando papa Innocenzo IV, nel 1252, con la bolla

Ad exstirpanda, ne approvò l’uso in materia di eresia, per indurre gli eretici a confessare. Da quel

momento anche le autorità civili vi fecero ricorso per i reati più gravi, contro assassini, banditi, ladri,

per poi estenderne l’uso anche ai reati puniti con pena pecuniaria: vi si procedeva in assenza di una

prova piena (reo convinto) o se l’imputato non confessava spontaneamente durante l’interrogatorio

(reo negativo).

Per procedere alla tortura era necessaria la presenza di indizi contro l’imputato (indicia ad

torquendum), non così forti e fondati però come quelli richiesti per sostenere una sentenza di

condanna (indicia ad condemnandum): bastava ad esempio un rapporto di inimicizia personale tra

l’indagato e la vittima del reato, o aver visto l’imputato nei pressi del luogo del delitto poco prima o

poco dopo il delitto, o semplicemente la sua cattiva fama.

La tortura si divideva in gradi di durezza, a seconda della qualità del fatto, della persona e

della natura degli indizi contro l’imputato.

La tortura più praticata, specialmente dal 500, era la corda, i tratti di corda, che finivano col

comportare lo slogamento delle ossa delle braccia: si legavano le mani dell’imputato dietro la

schiena con una fune che passava attraverso una carrucola infissa nel soffitto e lo si sollevava in aria

per poi lasciarlo cadere giù di colpo, dandogli in tal modo quelli che si definivano i tratti di corda, o

scosse; per rendere il tormento più penoso si potevano anche legare ai piedi dei ferri pesanti.

Prima di procedere alla tortura, però, veniva fatta un’ammonizione, se non sortiva effetto si

passava alla territio, cioè alla semplice visione degli strumenti di tortura nella stanza dei tormenti; se

anche questa non sortiva effetto si procedeva con la tortura. Tutti i decreti di tortura dovevano essere

notificati all’imputato in quanto erano appellabili, salvo che fossero stabiliti da tribunali supremi.

Le risposte dell’imputato venivano raccolte durante il tormento, che veniva interrotto se

l’inquisito dichiarava di voler confessare. Vi assistevano il giudice, il cancelliere, un medico pronto

a curare le ossa slogate o altre ferite, ma non l’avvocato o il procuratore del reo. Il giudice doveva

tenere conto del tempo di applicazione della tortura e annotarne la durata, ma senza rendere

l’orologio visibile al torturato.

Il grado più lieve di tortura era inflitto ai minori d’età e, in caso di gravi reati, ai nobili e ai

dottori, normalmente eccettuati dall’uso della tortura: in tal caso si procedeva a tratti di corda per

sette minuti e senza sconquassamento delle braccia.

Il secondo livello veniva inflitto a persone di umile condizione o di cattiva fama, accusati di

delitti gravi e con indizi indubitati: durava da 15 a 60 minuti con sconquassamento delle braccia. Il

terzo e ultimo livello si applicava per delitti atrocissimi in presenza di gravi indizi.

In materia di tortura fu sicuramente sperimentato quanto di più crudele potesse immaginare la

mente umana: si andava dal digiuno alla veglia protratta, dal fuoco alle piante dei piedi al

soffocamento con l’acqua; c’era poi la c.d. tortura della capra che consisteva nel bagnare con acqua

salata i piedi dell’imputato che venivano così leccati da una capra fino a scarnificarli e raggiungere

le ossa; aputazione degli organi della vista e dell’udito e così via.

La confessione così estorta, però, non portava alla condanna, perché doveva essere

confermata lontano dal luogo del tormento a distanza di 24 ore, davanti al giudice. Se la confessione

veniva revocata, si procedeva nuovamente con la tortura fino ad una terza volta ma solo in presenza

di indizi indubitati; se anche a questo punto la confessione estorta non veniva ratificata, qualunque

delitto fosse, l’imputato non poteva che essere condannato ad una pena straordinaria, dunque più

mite, quale il remo o l’esilio. La pena veniva dunque ugualmente comminata perché si era in

presenza di indizi indubitati contro l’imputato.

La tortura, oltre che agli inquisiti, si applicava anche ai testimoni reticenti o sospettati di

falso, sia nel processo accusatorio che, soprattutto, in quello inquisitorio.

Non erano sottoponibili alla tortura gli anziani sopra i 63 anni, i malati e gli infermi, le donne

in stato di gravidanza o che avessero partorito da pochi mesi, gli ecclesiastici e i titolari di cariche

pubbliche.

Al reo che avesse già confessato si applicava la tortura per strappargli la confessione relativa

ad altri delitti da lui commessi o i nomi dei complici.

LE DIFESE

Una volta istruito il processo, il giudice fissava all’inquisito il termine per produrre le sue

difese, le sue prove a discolpa, termine variabile in base alla natura del delitto. Prima però di venire

alle difese, venivano ripetute le prove testimoniali contro l’indagato che assisteva (repetitio testium

requisito reo): in questa fase i testimoni ad accusa ratificavano le loro prime deposizioni, altrimenti

venivano incarcerati, torturati e puniti come spergiuri.

Una volta esaurite anche le difese dell’indagato, attraverso la produzione di mezzi di prova

(specialmente testimonianze) a sua discolpa, il processo veniva reso pubblico al difensore cosicché

potesse esaminarlo (pubblicazione del processo): gli si dava copia degli atti processuali, con le

deposizioni dei testimoni (i c.d. testimoni fiscali) e con le risposte dell’imputato all’interrogatorio

prima e durante la tortura.

La fase difensiva era talmente compromessa dall’andamento della fase istruttoria da perdere

praticamente la sua ragione d’essere: nel caso di rei confessi all’avvocato non restava che sostenere

che la confessione era stata estorta o non era sufficientemente circostanziata, e non è difficile

immaginare il successo di una simile linea difensiva... I rei negativi, cioè che non avevano

confessato nemmeno in seguito a tortura, non potevano che sperare nell’assoluzione o almeno in una

condanna a pena ordinaria, a prescindere dall’intervento dell’avvocato.

LA SENTENZA

Espletata anche questa pratica, il giudice emetteva la monitio ad sententiam, in mancanza

della quale la sentenza sarebbe stata nulla. Tale monizione conteneva l’indicazione del giorno in cui

la sentenza sarebbe stata pronunciata.

La sentenza doveva essere scritta e letta dal giudice, di giorno, pubblicamente in un’aula del

tribunale. In via consuetudinaria si affermò però la prassi di far leggere la sentenza dal cancelliere.

La condanna era alla pena ordinaria stabilita dalla legge se il giudice riteneva raggiunta la

prova legale (reo convinto) o se il reo aveva confessato in seguito alla tortura (reo confesso);

altrimenti si condannava ad una pena straordinaria più mite, stabilita dal giudice a suo arbitrio, in

casa di mancato raggiungimento della prova legale.

La sentenza doveva poi contenere la condanna alle spese processuali, poste a carico del

condannato, o dell’accusatore in caso di assoluzione. Ma la sentenza di assoluzione era molto

difficile da ottenere: dovevano esserci solo deboli indizi e assenza di confessione anche in seguito

alla tortura.

La sentenza di condanna passava immediatamente in giudicato come anche quella di

assoluzione con formula piena, cioè per provata innocenza dell’imputato: in tali casi non erano

ammessi ulteriori gradi di giudizio In caso invece di assoluzione per mancanza di prove (sentenza

absolutoria stantibus rebus prout stant, o anche absolutoria ab observatione iudicii), il processo

avrebbe potuto essere ripetuto fino a tre volte nell’arco di 10 o 20 anni a seconda dei reati e delle

previsioni statutarie in materia di prescrizione delle azioni.

LA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA

La motivazione della sentenza non era obbligatoria: le leggi e la dottrina, infatti, non la

richiedevano, e sarebbe stato pericoloso per il giudice formularla ugualmente, poiché la sentenza

avrebbe potuto essere dichiarata nulla in un successivo grado di giudizio se la motivazione fosse

stata trovata errata; pertanto i giudici scelsero, per lo più, di non motivare le proprie pronunce sia

nelle cause civili che in quelle penali, e qui con conseguenze ancora più devastanti per le più gravi

implicazioni.

L’obbligo della motivazione della sentenza verrà invece strenuamente sostenuto e difeso

dalla dottrina illuministica settecentesca, per liberare le parti dall’arbitrio dei giudici e per sottoporre

i giudici a controllo e alle conseguenti responsabilità per scorretta amministrazione della giustizia;

verrà così introdotto nelle legislazioni italiane e più in generale europee a partire dalle moderne

codificazioni ottocentesche.

RIMEDI CONTRO LE SENTENZE

Formalmente era prevista, sia dagli statuti che dalla dottrina processualistica, la possibilità di

appello contro la sentenza di condanna, che spettava non solo al condannato ma anche ai suoi parenti

e addirittura a chiunque fosse a conoscenza di un motivo per invalidare la sentenza, per ragioni di

solidarietà umana. E l’appello avrebbe sospeso l’esecuzione della sentenza di primo grado, ma il

condannato non sarebbe stato posto in libertà provvisoria.

Nonostante ciò fosse vero in linea di principio, la pratica negava il diritto di appello contro le

sentenze penali, per arginare la grande criminalità, perseguire spietatamente gli accusati e gli

inquisiti, per prevenire i reati attraverso l’intimidazione di condanne immediatamente eseguite.

Era invece ammesso l’appello del fisco contro le sentenze assolutorie per mancanza di prove.

LA QUERELA DI NULLITA'

Più facilmente percorribile era la via della quaerela nullitatis, se ne ricorrevano i

presupposti.

La querela (già prevista dal diritto romano ma perfezionata nell'età del diritto comune),

veniva utilizzata nei confronti di sentenze particolarmente viziate per la presenza di errori

macroscopici, grossolani, nell'applicazione della legge o per forme e solennità obbligatorie non

osservate.

Dunque, rendevano nulla la sentenza la palese (grossolana) violazione della legge (e

l’interpretazione palesemente falsa della legge) e i vizi procedurali, quali ad esempio l’incompetenza

del giudice, la mancanza della citazione dell’imputato in giudizio, la non stesura per iscritto della

sentenza e la corruzione del giudice.

Il giudizio sulla nullità veniva proposto davanti al giudice di secondo grado, il quale poteva

quindi annullare la sentenza e sostituirla con una nuova pronuncia.

I RIMEDI STRAORDINARI CONTRO LE SENTENZE

Tra i rimedi meno usuali cui ricorrere contro le sentenze c’era la restitutio in integrum, cui

poteva ricorrere il minore d’età in relazione ad un delitto grave o gravissimo per il quale avesse

confessato, poiché non si riteneva verosimile la commissione di tali reati da parte di un minore. Ciò

però non era consentito in caso di indizi indubitati contro di lui.

Anche la revocazione era un mezzo straordinario di impugnazione, volto ad ottenere una

riforma migliorativa della sentenza di primo grado da parte dello stesso giudice che l’aveva

pronunciata: il fine era dunque quello di ottenere una pena più mite. La revocatio andava chiesta

entro due anni dalla sentenza, in presenza di nuovi elementi di prova; se ciò non sortiva l’effetto

voluto, la pena non solo veniva mantenuta ma persino aggravata.

LA GRAZIA

Il rimedio supremo contro le sentenze penali era però la gratia, come ricorso al principe, al

sovrano svincolato dall’osservanza delle leggi, dunque un rimedio dipendente dalla benignità del

sovrano. Essa trovava il suo fondamento sia nelle norme romanistiche che prevedevano il ricorso

all’imperatore quale fonte del diritto, sia in quelle canonistiche che statuivano analogamente con

riguardo ai poteri del pontefice.

Tale istituto rappresentava l’unico rimedio offerto al reo per tentare di ribaltare l’esito di

una sentenza di condanna o almeno di mitigarne la pena, posta la generale inappellabilità della

sentenza penale, coerente col ruolo di deterrenza svolto dalla macchina giudiziaria, cui faceva

difetto qualunque effettivo meccanismo di garanzia, inclusi i mezzi di impugnazione.

La grazia accordata dal principe, generalmente in seguito a supplica del condannato o di un

suo familiare, costituiva dunque il solo mezzo capace di sottrarre il reo all’esecuzione della pena,

con cui il sovrano provvedeva a ripristinare, con equità e arbitrio, le esigenze della giustizia o le

istanze etiche che l’ordinamento non era stato in grado di assicurare.

Le forme tecnicamente assunte da questo esteso potere di grazia, nelle sue molteplici

manifestazioni pubbliche, furono numerosissime: lettere di abolizione, di remissione, di perdono,

riscatto di bando e di galera, commutazione di pena e riabilitazione: una clemenza regia che

trovava particolare incremento in occasione delle felici circostanze della casa reale o del fastoso

ingresso di principi e sovrani nelle città sottoposte.

C’erano poi le concessioni di commutazione delle pene volte ad ottenere incrementi di

risorse da parte del potere regio, basti pensare alla commutazione, diffusissima in tutta Europa fino

alle soglie dell’Ottocento, tra pena e servizio militare, tra pena capitale e invio al remo sulle galere

destinate alla pirateria o alla guerra, o ancora tra pena e collaborazione alla cattura di altri rei,

spesso appartenenti a bande armate. La complicata recita del potere di stampo assolutistico, che

oscillava tra clemenza e rigore, tra esemplarità e perdono, spiega questi singolari istituti tipici della

giustizia punitiva di antico regime.

Nel Ducato di Milano, sotto la corona spagnola degli Asburgo (XVI-XVII sec.), erano tre i

protagonisti della concessione delle grazie, come chiarito anche nelle Novae Constitutiones

Dominii Medionalensis di Carlo V del 1541: il sovrano spagnolo, il Governatore del Ducato e il

Senato milanese, la suprema corte di giustizia del Ducato.

Il diritto di concedere le grazie spettava al sovrano, poiché solo lui era sciolto dal vincolo di

osservanza delle leggi. Unico limite per la concessione delle grazie da parte del sovrano era la

legge divina: le pene che trovavano il loro fondamento nella legge divina non potevano essere

condonate e questo accadeva in primo luogo in caso di omicidio premeditato.

Altro limite era quello che il sovrano non potesse concedere grazie per delitti futuri, non

ancora commessi, perché questo avrebbe costituito un chiaro invito a delinquere.

Nella pratica, nel Ducato di Milano il potere di concedere le grazie era esercitato, in luogo

del sovrano, dal Governatore, che era il rappresentante del sovrano (residente in Spagna) all’interno

del Ducato.

La richiesta di grazia rivolta al Governatore doveva innanzitutto specificare il delitto

commesso, se il delinquente si trovava in prigione e se era già stato condannato o graziato per altri

reati. Requisito fondamentale per la concessione della grazia era che il condannato avesse ottenuto

il perdono della parte offesa o dei suoi eredi: la c.d. pace privata o remissio. Era poi necessario che

la grazia non comportasse pregiudizio per terze persone e che non andasse contro l’interesse

pubblico.

Una volta ottenuta la grazia dal Governatore, l’interessato doveva presentarla al Senato

entro il termine di un anno, al fine di ottenerne l’approvazione: era questo il delicatissimo momento

dell’interinazione, attraverso cui il Senato controllava l’assenza di vizi di nullità della grazia

concessa dal Governatore: questi vizi potevano derivare o dall’inosservanza dei requisiti richiesti

per la sua concessione (assenza di premeditazione nell’omicidio, rispetto dei diritti dei terzi e del

pubblico interesse), oppure da vizi già presenti nella supplica rivolta dal condannato che potevano

consistere o in affermazioni false fatte dal supplicante (obreptio) o in omissioni di verità

(subreptio). Se venivano riscontrati vizi che rendevano la grazia nulla, il Senato non la approvava

e se il vizio era già presente nella supplica il richiedente poteva essere ucciso impunemente da

chiunque. In caso di grazia ottenuta da un omicida (purché non ci fosse premeditazione), il Senato

generalmente disponeva nei confronti del reo l’esilio annuale o biennale.