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La vera Rivoluzione Seminario su James Hillman Alessandro Defilippi ARPA, 2017 Ad uso degli allievi e candidati ARPA PARTE SECONDA 1

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La vera Rivoluzione Seminario su James Hillman

Alessandro DefilippiARPA, 2017

Ad uso degli allievi e candidati ARPA

PARTE SECONDA

1

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1. Psicologia archetipica1 e psiche politeistica

La psicologia archetipica non è una psicologia degli archetipi. La sua attività primaria non consiste

nel far corrispondere temi della mitologia e dell’arte ad analoghi temi della vita.

L’idea è piuttosto vedere come mito e come poesia ogni frammento della vita e ogni sogno.

T. Moore

«Gli déi sono diventati malattie», scrisse Jung (vol. XIII, pag. 47). Intendeva dire che «siamo posseduti dai nostri contenuti psichici autonomi come se essi fossero divinità» (ib.)2 3. Quei contenuti che un tempo venivano proiettati all’esterno e visti quindi come déi ci possiedono oggi dall’interno e ci si presentano come sintomi: incapaci di riconoscere gli déi li abbiamo convertiti in sintomi, cioè in segni, coincidenze4, denotanti e non connotanti, elementi che indicano solo un oggetto senza associarvi le sue risonanze affettive ed emotive. La coincidenza impedisce l'eccedenza di senso propria del simbolo5 e permette la nascita di una tecnica, la semeiotica, medica e chirurgica, che risale dai sintomi al loro significato. Si tratta di significati che tendono a essere univoci e non eccedenti, irriducibili e infiniti come le 1 Francesco Donfrancesco mi ha fatto notare come «psicologia archetipica [sia] una definizione che Hillman non ha introdotto per definire il suo pensiero, ma quello di Jung: compare nel sottotitolo della rivista Spring nel 1970.2 Jung riconosceva autonomia ai complessi, ponendosi altresì la domanda se e quanto essi potessero sviluppare una loro forma di coscienza». 3 «[…] Jung ha avuto l'enorme merito di aver ridefinito, di pari passo alla percezione dei mutamenti culturali in atto nel suo tempo, l'evoluzione dei rapporti tra conscio e inconscio, e di riflesso, anche le relazioni tra umano e divino, che attraverso la scoperta della complessità della psiche si sono sicuramente ravvicinati, ma proprio per questo anche più differenziati. Il Sé infatti riequilibra la distanza che si era creata tra l'Io, – la coscienza razionale occidentale giunta all’apice del suo sviluppo – e Dio, una distanza che nascondeva però, come insegna la vicenda di Nietzsche, il rovescio di una folle identità. Il divino che viene recuperato attraverso la speculazione di Jung, a partire dalla complessità della psiche, ha i molti volti della mitologia e riflette il politeismo della cultura antica. Sarà poi James Hillman, a un’ulteriore distanza epocale dal maestro, ad accogliere l’eredità “pagana” di Jung e a mettere a frutto ermeneutico il suo lascito, spingendosi oltre il fronte dell''eresia” nei confronti del cristianesimo, nella direzione di una rivendicazione piena della tradizione classica. Hillman registrerà un nuovo stadio di trasformazione della coscienza che, sottratta definitivamente alla costellazione dell'Io (con cui l'Occidente l'ha a lungo identificata, avendo come modello il filosofico ego cogito cartesiano), è ricondotta infine alla variegata costellazione dell'anima politeista; l'effetto gnoseologico di questa ulteriore riflessione è l'assunzione ancora più forte nel pensiero contemporaneo dell'eredità e del valore della cultura 'pagana', capace di ricomprendere in sé (più ancora di quanto non abbia fatto il Sé junghiano) la pluralità dei volti del divino che il cristianesimo aveva rimosso». (D. Sacco, Sulla via di quel che ha da venire, Presentazione di C. G. Jung, Il Libro rosso, Bollati Boringhieri, Torino, 2010,in: http://www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=719).4 Sintomo dal greco symptoma, coincidenza: una cosa al posto di un'altra.5 Coincidenza (etimologicamente il cadere dentro insieme) in matematica significa sovrapposizione, identità; e la sovrapposizione non lascia spazio per altro.2

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risonanze simboliche, e che si inscrivono nel cosiddetto paradigma del sospetto6. D'altro canto, paradossalmente, il sintomo ci avvicina al concetto dell'omeostasi, in contrapposizione alle caratteristiche antiomeostatiche del simbolo. Il segno/sintomo può essere considerato come potenzialmente omeostatico, in quanto spinge alla sua risoluzione (chiarificazione/esplicitazione su un piano denotativo) e comunque a un atteggiamento riduttivo e letteralizzante (scarpa-vagina; fucile-pene...), in vista di una non meglio precisata “normalità” che, se è un dato chiaro dal punto di vista biologico e medico (normale è l'organo non malato, che funziona regolarmente), non lo è altrettanto sul piano psichico. All'opposto, il simbolo -l'esposizione al simbolo o, hillmanianamente, l’ascolto del dio- spinge alla trasformazione, esplicando una funzione costantemente antiomeostatica.

Esiste del resto una parola, entusiasmo/enthusiasm, tuttora presente nelle lingue italiana e inglese, che si ricollega all’idea che l’ingresso del dio, e quindi potremmo dire il ritiro della proiezione, sia una condizione di invasamento, di possessione da parte del dio stesso, caratteristica dei sacerdoti e dei vati. Deriva dal greco en theos, il dio dentro, essere pieni del dio. Questo essere pieni del dio oggi invece lo consideriamo un sintomo nevrotico e cerchiamo di liberarcene, senza provare ad ascoltare che cosa ci dica e dove ci conduca. Non abbiamo oracoli cui rivolgerci e che ci portino la parola del dio; ci affidiamo pertanto al terapeuta che tenta di interpretare i sintomi, sovente più per liberarcene (conducendoci pertanto nei territori dell’omeostasi) che per mostrarci che cosa essi ci dicano (in chiave antiomeostatica e quindi trasformativa).

Siamo abitati dagli déi, dunque: Hillman si spinge ancora più avanti, affermando che gli déi, in quanto immagini archetipiche, sono gli elementi fondanti della nostra psiche. L’archetipo, afferma Hillman «è soprattutto paragonabile a un dio» Revis., pag. 20). E gli déi e quindi gli archetipi abbagliano la coscienza con il loro «effetto ossessivo ed emotivo» (Revis., pag. 20). In realtà a essere «i dati basilari della vita psichica» (ib.) sono le immagini. La nostra psiche è composta di immagini, di fantasia; si fonda pertanto su una base fantastica, poiché «ogni enunciato ha una base fantastica» (FB, 41). Ogni enunciato: ogni pensiero, quindi, ogni sogno, ogni elaborazione psichica di un evento e quindi ogni esperienza. Tutto ciò parte e approda a un’immagine interna. Ed è attraverso le immagini che noi possiamo entrare in contatto con la 6 E' Paul Ricoeur ad affiancare all'ermeneutica del sospetto un'ermeneutica dell'ascolto, dove «comprendere significa comprendersi davanti al testo, vale a dire non imporre al testo la propria limitata capacità di capire, bensì esporsi al testo per ricavarne una più ampia dimensione di sé...» ( Il conflitto delle interpretazioni, p. 77). Potremmo aggiungere che l'ermeneutica dell'ascolto cerca dunque il senso, attraverso l'esposizione al simbolo e non attraverso il tentativo di capirlo razionalmente. In termini diltheyani è pertanto una forma di Verstehen, e non di Erklärung.3

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nostra anima, come vedremo più avanti, con un meccanismo di riflessione. È questo imperniarsi della psiche sulle immagini e quindi sulla fantasia che Hillman definisce come «base poetica della mente» (FB 42), ipotizzando una psiche che si fondi sui processi dell’immaginazione. Ed ecco pertanto che la psicologia archetipica tenderà non a richiamare gli eventi a temi mitologici attraverso processi che ben conosciamo e che definiamo associazione e amplificazione, ma piuttosto, come scrive Thomas Moore, a «vedere come mito e come poesia ogni frammento della vita e ogni sogno», riconoscendo, potremmo dire, quale dio parla in quel momento. Afferma Hillman. «[…] la nostra vita non è tanto la risultante di pressioni e di forze, quanto piuttosto l’attuazione di scenari mitici» (Revis., pag. 64). E, in quanto mito e in quanto poesia, la nostra psiche pertanto finirà con il muoversi con un andamento narrativo: «Per andare alla radice dell’ontologia umana, alla sua verità, alla sua essenza e natura, ci si deve allora muovere nello stile narrativo e si devono usare strumenti poetici» (LSCC, 47).

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Leggiamo ora quel che Hillman scrive in Revisione della psicologia, pagina 16:

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L’immagine ci riporta all’archetipo, attraverso il meccanismo del ta ‘wil, il “ritorno” alla realtà, l’approdo al mondo immaginale, archetipico, alle forme primarie che stanno “dietro” le immagini che noi possiamo fantasticarne. Il mondo intermedio del metaxù, definito da Platone nel Simposio come il tramite fra due mondi: «[…] tra sapienza e ignoranza […] tra mortale e immortale»7. Il mondo, ci insegna Henry Corbin, tra intelligibile e sensibile, tra spirito e materia. Il mondo, evidentemente, dell’anima, un luogo che è sempre una soglia, uno stare sospesi tra opposti. Non si va da alcuna parte, si sta nel metaxù, tanto che Hillman può affermare: «La meta è sempre adesso». E ciò avviene tramite il ta ‘wil che Henry Corbin definisce il «ricondurre qualcosa al suo principio, dal simbolo al simbolizzato» (L’immaginazione creatrice, pag. 13).

Siamo abitati, abbiamo detto, da déi e daimones. Da una molteplicità di déi e di daimones: una psiche pertanto politeistica e non monoteistica, in cui la totalità ha la medesima importanza della frammentazione e non un valore maggiore. Siamo di fronte a un relativismo radicale e la frammentazione ci permette diversi modelli divini con i quali leggere la nostra storia, i nostri sintomi. La depressione potrà essere sotto il segno del gelo saturnino, del Senex, una depressione infera in cui sarà l’immobilità a mostrarci parte della nostra anima. Potrà invece essere vissuta sotto il segno del Cristo, in una tensione verso la resurrezione e quindi verso la risalita dal mondo infero, caratteristica del nostro essere

7 A questo proposito e per accennare all’aspetto clinico, riportiamo quel che dice Hillman in una famosa intervista: «Io mi limito a seguire la via delle immagini, la via fenomenologica: accettare un’esperienza come si presenta, e lasciarla parlare» (Il linguaggio della vita, pag. 27). Si potrebbe dire in questo senso che Hillman, contrariamente a Trevi è antiermeneutico o perlomeno ermeneutico sui generis. 6

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«cristiani in psicologia». Oppure ancora sotto il segno profetico, malaugurante e autodistruttivo del corvo nero di Apollo8. Una psiche politeistica, che come tale permette più e diversi modi del processo individuativo, poiché esso non sarà necessariamente solo quello legato all’Io, ma potrebbe essere l’evoluzione di una qualsiasi delle parti che ci affollano. Una psiche politeistica che implica una modalità altra di coscienza e di autocoscienza. E’ una psiche in cui il solve alchemico ha la medesima importanza del coagula: una psiche dissociata, in cui a ogni dio va attribuita la dignità della parte che gli compete. La diversità ha pari valore dell’unità, venendosi così a negare la superiorità dell’idea della funzione integrativa dell’Io. Un superamento pertanto dell’idea della centralità della coscienza egoica, che nel mondo occidentale siamo abituati a considerare il fulcro della nostra personalità. Quella egoica è una coscienza legata al pensiero indirizzato e a una visione eroica, di centratura e di uniformità psicologica, sia in senso spaziale (Io come coordinatore unitario della psiche), sia in senso temporale (la continuità dell’Io). Si può piuttosto pensare a un’autocoscienza basata sull’anima e su quello che Hillman definisce fare anima (soul making), mutuando l’espressione e il concetto dalla lettera di John Keats. Hillman intende l’anima come una prospettiva sulle cose, un modo di vederle oltre l’apparenza, o meglio «in trasparenza», di vedere cioè quel che sta dietro di esse, «l’ontologia umana, [la] sua verità, [la] sua essenza e natura». Una prospettiva che permette di coglierle direi nel mondo immaginale che, come abbiamo visto, sta fra il mondo intelligibile del pensiero e il mondo sensibile. Una prospettiva riflessiva –vedremo tra poco in che senso- e mediatrice, che ci permette un contatto con le parti più profonde. Fare anima è un processo esperienziale e digestivo, che permette «la trasformazione degli eventi in esperienze» e quindi in memoria, in immaginazione, in storia dell’anima. Nella nostra narrazione. E noi della narrazione abbiamo bisogno: «abbiamo bisogno della narrativa perché siamo condannati alla morte»9. La narrazione e la nostra narrazione ci permettono di attribuire senso, di trasformare le menti, le scintille di cui parla Keats, in anima. Perché in realtà «[…] l’anima non è data, bisogna costruirla a partire dalla tradizione in cui ci si trova» (Il linguaggio dell’anima, pag. 32).8 Vale la pena accennare a questo punto al mito dell’amore tra Apollo e Coronide. Apollo s’innamorò di una fanciulla umana, Coronide, figlia di Coroneo, re della Focide. Ma un giorno dovette assentarsi e pose un corvo –bianco a quel tempo- a guardia della fanciulla, perché gli riferisse se mai lo avesse tradito durante la sua lontananza. Coronide giacque con Ischi, ospite del padre e il corvo volò a riferire l’accaduto al Dio. Apollo, furioso, fece uccidere Coronide dalle frecce di Artemide ma, al momento di spirare, la fanciulla gli rivelò che portava in grembo un figlio suo. Prima di porre il cadavere sulla pira funeraria, Apollo ne estrasse il bimbo, Asclepio, e lo affidò al centauro Chirone. Poi maledisse il corvo, portatore di malaugurio e trasformò le sue penne in nere. 9 Scarlett Thomas7

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Se gli eventi semplicemente ci accadono noi reagiamo a essi e basta. Ho fame e mangio, ho sete e bevo, provo dolore e piango: rimaniamo sempre sulla superficie del mondo sensibile. Oppure ne tentiamo una spiegazione intelligibile, attraverso il pensiero indirizzato: questa situazione mi fa star male, quindi la devo evitare. Oscilliamo così tra il mondo sensibile e quello intelligibile e in questo modo viene a mancare l’insight, l’illuminazione, la comprensione immaginale. Illuminare d’altronde significa anche miniare, illustrare, creare immagini: Les illuminations di Rimbaud, la poesia del Veggente, reca come sottotitolo Coloured plates, miniature colorate. Se manca l’immagine l’evento non ci muta ma ci lascia uguali a noi stessi. Invece nel fare anima è come se vi fosse una sospensione tra l’evento e la nostra azione, uno spazio –immaginale, fatto di immagini e di fantasia- in cui avviene qualcosa di fondamentale, in cui noi “digeriamo”, trasformiamo l’evento in altro.

Ci troviamo pertanto di fronte a una visuale altra delle cose, una visuale che implica una consapevolezza delle fantasie, consce e inconsce, delle parti politeistiche che compongono la psiche, e anche l’accettazione che la realtà egoica stessa non è che una fra di esse. Una prospettiva che pertanto racchiude una forma estrema di rovesciamento, una dislocazione dell’Io da centro unificatore della psiche a centro potenziale tra altri centri. E rimanda da un altro punto di vista alle teorie costruttivistiche, basate non sull’esistenza di una verità oggettiva ma sull’esperienza del mondo da parte dal soggetto.

Quest’autocoscienza animica è dunque legata al fare anima, a una sospensione tra evento e azione. Con le parole di Hillman: «Tra noi e gli eventi, tra l’agente e l’azione, c’è un momento riflessivo e fare anima significa differenziare questa zona intermedia» (Hillman, Re-visione, 16). Si tratta di una metaazione, un metaevento che si colloca tra noi - l’agente, il mondo intelligibile- e il mondo sensibile che influenziamo con l’azione; nella metaxù quindi del mondo immaginale in cui percepiamo l’immagine di ciò che non possiamo percepire direttamente. Gilbert Durand parla di una rappresentazione indiretta del mondo: «[…] quando la cosa non può presentarsi in carne e ossa alla sensibilità [...] in tutti questi casi di coscienza indiretta, l’oggetto assente viene ri-presentato alla coscienza da un’immagine» (Durand, L’immaginazione simbolica, pag. 9). Coscienza e autocoscienza indirette perché riflettute e riflesse. In questo spazio e in questo tempo, in questa pazienza, sta la possibilità riflessiva del fare anima. Di quel fare anima attraverso le circostanze di cui parla Keats, che permette alle menti di scoprire e costruire la propria individualità divenendo pertanto anime.

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Significa quindi il poter accedere alla profondità dell’anima. In quello iato «tra noi e gli eventi, tra l’agente e l’azione», si manifesta una doppia riflessione, nel senso sia del riflettere su qualcosa che nel riflettere qualcosa (noi stessi). La riflessione che ci porta all’immagine. Questo iato diviene da un lato intervallo da colmare ma è anche un orifizio che permette la visione, che ci conduce al contatto con l’anima, alla sua prospettiva. Ecco il momento in cui noi riflettiamo e ci riflettiamo e nel rifletterci possiamo entrare un po’ più in profondo dentro di noi. L’orifizio diviene l’incrinatura attraverso la quale il nostro sguardo può spiare per qualche secondo la parte celata. È un momento di sospensione, un intra-vedere attraverso un varco una realtà diversa. È il momento in cui può avvenire l’insight, quella comprensione immediata e istintiva, emotiva più che razionale; il momento dell’eureka. Abbiamo trovato qualcosa, abbiamo visto qualcosa.

Il fatto che questo processo del fare anima attenga alla depressione mi pare –forse per la mia struttura tipologica- intuitivo. Solo la depressione o meglio la tristezza (o, come vorrei dire io, la malinconia) che ne deriva con il fare anima ci dà una piena centratura. Essa «dà rifugio, confini, centro, gravità, peso e umile impotenza» (Re-vis., 180). In altri termini, conducendoci in profondità, ci offre una maggiore percezione della nostra identità e del nostro luogo nel mondo.

Dunque è attraverso il passaggio fra depressione e tristezza –la sofferenza- che si verifica il fare anima. Keats, nella sua lettera, ricordiamo, scrive: «Non vedi quanto sia necessario un mondo di sofferenza e di affanni per educare un’intelligenza e farne unn’anima?». E dunque ancora dovremo però accettare che quello stesso centro che viene a crearsi con il fare anima sia un centro dinamico, legato al politeismo psicologico, in cui ogni parte psichica ha un ruolo di importanza pari alle altre, e quindi al fatto che di volta in volta quel centro, mobile, potrà porsi sotto l’egida di Atena o nell’arco di Apollo o nel cratere di Dioniso o nell’elmo invisibile di Ade.

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2. Personizzazione In Re-visione della psicologia, Hillman dedica un denso capitolo alla

differenza tra personificazione e personizzazione, due concetti in apparenza simili ma in realtà lontani e per certi versi antitetici. La personificazione –così nella traduzione italiana: Hillman adopera il termine personization- è, secondo il GDU di Tullio De Mauro, il «rappresentare un concetto, un’astrazione o un essere inanimato attribuendogli aspetto e caratteristiche umani». Un’operazione pertanto che tiene dell’allegoria, in cui attribuiamo volontariamente un’immagine a un concetto. Un’operazione razionale, tipica del pensiero indirizzato, come quando raffiguriamo la giustizia come una dea con una bilancia in mano. Un’operazione lontana dalla duplice riflessione del fare anima. Personizzare (Hillman utilizza il termine personifying) invece significa «dare soggettività e intenzionalità a un sostantivo», che così «assume coscienza, diviene personificato» (Revis., pag. 29). E «fare anima dipende dalla capacità di personificare, il che a sua volta dipende dall’anima.» (ib., pag. 32). Con il processo di personizzazione Hillman dona così realtà alle immagini personificate: i sostantivi non sono solo flatus vocis, ma persone, esterne e interne a noi, dotate di una realtà animica, maschere abitate da un dio, come le immagini dei nostri sogni. È necessario dunque guardare le cose con un occhio immaginale, ascoltarne la voce con un orecchio immaginale. Ci ritroviamo così all’interno di quella contesa tra nominalismo e realismo che percorre la storia della cultura occidentale.

A questo proposito, sappiamo bene come centrale sia per Hillman il pensiero platonico e neoplatonico rinascimentale. E, nella disputa medievale sugli universali (XII secolo), analizzata da Jung nella prima parte di Tipi Psicologici, Hillman si sarebbe schierato dal lato platonico, a fianco di Anselmo di Canterbury e di Abelardo, realisti, in contrapposizione al nominalista Roscellino. Per i nominalisti, gli universali e quindi i concetti non hanno un’esistenza autonoma, una realtà oggettiva (scrive Roscellino: Nomina sunt flatus vocis, e Dante: Nomina sunt consequentia rerum). Per i realisti invece i concetti, come le idee platoniche, hanno un’esistenza ante rem, prima della cosa concreta, e il concetto, come dice Anselmo, non potest esse in intellectu solo. La stessa idea di Dio pertanto, presente nella mente umana, ne implica la realtà, fornendone la prova, la cosiddetta, basilare, prova ontologica. Quel che è nella nostra mente ha un’esistenza reale e noi lo rappresentiamo con immagini personizzate.

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Gli archetipi, gli universali per eccellenza, sono reali per Jung e tali restano per Hillman che come abbiamo visto li pone a fondamento della propria metafora psicologica. In realtà però Hillman ancora una volta si spinge oltre e passa dal nominalismo all’immaginazione. «La percezione è subordinata all’immaginazione», che sola vede in trasparenza, che sola vede la realtà ontologica delle cose, e sola permette una vera conoscenza. Così sfuggiamo alle pastoie della letteralizzazione e alla miopia del concretismo.

La personizzazione attribuisce realtà ai nomi, rivelandone il significato archetipico. Personae sono i personaggi dei sogni, non solo riflesso di esseri viventi, né solo aspetti, parti della nostra psiche, ma Numina, Daimones. Lo stesso lavoro sulle immagini dei sogni passa attraverso la comprensione e la personizzazione del loro nome; la personizzazione permette una comprensione emotiva ed immaginale e un conseguente “vedere in trasparenza”.

Attraverso la personizzazione noi attribuiamo dei nomi alle nostre parti, le poniamo anche fuori di noi. Si tratta di una rivoluzione rispetto allo statuto stesso della parola che, personizzata, diventa numinosa e portatrice di anima: «Abbiamo bisogno di ricordare l’aspetto angelico della parola, di riconoscere le parole come portatrici autonome di anima tra una persona e l’altra» (Revis. pag. 43). Il linguaggio diventa pertanto veicolo dell’anima, parola dell’anima, complesso, attivatore di complessi, comunicazione tra anime. E la parola dell’anima deve sostituirsi anche al linguaggio psicologico, che brulica invece di tecnicismi oggettivanti e concretistici, che ispira distanza e permette allo psicologo di difendersi dal contatto con l’anima.

Ci vuole però cautela per distinguere personizzazione e personificazione. La personificazione è uno psicologismo, legato al meccanismo proiettivo, che esclude la realtà autonoma di ciò che è personificato. Conduce all’allegoria, isterilendo le risonanze simboliche delle parole e delle immagini che le abitano. È un atteggiamento comunque nominalistico, mentre personizzare significa accettare la realtà delle parole e delle immagini, accettarle come parti nostre o come altro da noi, dotate di un potere numinoso. La presenza del dio non è un atto di fede: essa semplicemente è, come lo stesso Jung afferma in un’intervista del 1955. «[…] io non credo all’esistenza di Dio per fede. Io so10 che esiste» (Jung parla, pag. 319). Quindi personizzare significa non creare attraverso il pensiero delle immagini personificate, ma farne esperienza in quanto precedenti il pensiero, dotate di una realtà animica autonoma.

10 Corsivo dell’autore.11

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È molto evidente per me il discorso di Hillman a questo proposito, in particolare quando parla dei personaggi di uno scrittore. Per un certo di tipo di scrittore, almeno, è del tutto manifesta la realtà dei suoi personaggi: essi si muovono e parlano con una autonomia che lo sorprende. E a me personalmente accade di capire che un libro funziona quando i suoi personaggi mi stupiscono con i loro comportamenti e i loro discorsi, spingendomi a domandarmi se davvero essi o almeno alcuni di essi non abbiano un’anima che li rende altro da me, altro di cui non posso che fare esperienza e narrare la storia. Personizzazione d’altronde è anche quella operata da Jung nel Libro Rosso e descritta da Hillman come un «[…] passo radicale, sconvolgente –teologico, epistemologico, ontologico […]» (LSCC, p. 70). Il fatto però che personizzare significhi fare esperienza e non creare con il pensiero o attribuire realtà a un’idea o a un’immagine, implica che non siamo noi in verità ad avere un’attività di personizzazione, ma che le immagini, le persone, accadono, come nella coscienza mitica: «Per la coscienza mitica le persone dell’immaginazione sono reali» (Revis., pag. 54). E ancora. «Non siamo noi che personifichiamo. Sono le immagini che giungono a noi come epifanie». Che si manifestano.

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3. PatologizzazioneFondamentale nel pensiero di Hillman è il passaggio del concetto di

psicoterapia dal curing al caring. Non è curare l’anima nella sua sofferenza il punto focale della psicoterapia, come pretende la tradizione occidentale, compresa quella psicoanalitica almeno fino a Jung, bensì il prendersene cura, esserne servi, anche nella sua sofferenza. D’altronde, è quello il luogo cui ci conduce l’etimologia della parola: servizio reso all’anima, servitù verso l’anima11. Questo implica una caduta del modello medico della psicoterapia, con la sua nosografia letteralizzante, il suo furor sanandi e la sua pretesa di porsi come scienza; e anche della tentazione umanistica e di quella trascendente, che puntano entrambe a spiritualizzare l’anima, a spingerla a un cambiamento di sesso, trasformandola da dolente, umida, femminile, variegata, infera, in vittoriosa, secante, logica e aerea. Cercando di spingerla dalla narrazione emozionale nei territori della riflessione razionale o della fede, dal basso verso l’alto.

La metafora hillmaniana implica dunque il rifiuto della medicalizzazione e della fantasia di guarigione. Una fantasia ascendente, questa, un essere, come dice esplicitamente Hillman, psicologicamente cristiani, un pensare cioè che fermarsi in basso, nella sofferenza e nella patologia sia sempre sbagliato e che ci si debba invece muovere costantemente verso l’alto, verso leopardiane «magnifiche sorti e progressive». Hillman nega pertanto la fantasia onnipotente del progresso, del miglioramento senza fine e questo assume naturalmente anche una valenza sociale e politica. Propone invece un’accettazione della patologizzazione come fantasia archetipica e pertanto come costituente dell’identità. Ciascuno di noi patologizza sempre, sempre a suo modo, sempre ricadendo nello spazio animico, anche nel minuto commercio della vita: «La possibilità di massima coscienza animica sta dove più inconsciamente siamo coinvolti: pettegolezzi, risentimenti meschini, ripicche, conti in sospeso, bronci».

La patologizzazione è perciò uno dei modi della psiche di guardare alla vita: «La psicopatologia [è] una prospettiva che adottiamo verso certi tipi di esperienze, talché può, a sua volta, aprirsi a una nuova intuizione psicologica» (Revis., 23). La nostra patologizzazione diventa così una lente, un punto di vista, una visuale che ci permette una maggiore conoscenza di noi stessi. Negarla, negarne la nostra specifica modalità, significa pertanto rinunciare a conoscerci e a uno degli aspetti della nostra identità.

11 E noi sappiamo, con Alberto Savinio che: «L’etimologia è una psicologia del linguaggio».13

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Ma cosa intende Hillman con questo termine? Da un lato la capacità dell’anima di creare malattie e sofferenze in ogni aspetto del suo comportamento. La sua tendenza pertanto alla sofferenza, all’essere costantemente in rapporto con la morte e con il mondo infero dell’inconscio: «Le anime annusano in basso, verso l'Ade», scrive Eraclito. Dall’altro canto, la capacità di avere esperienza della vita attraverso questa prospettiva. Esiste dunque una necessità della patologizzazione, addirittura: «La psiche non esiste senza patologizzazione12». Tramite il sintomo parla la nostra sofferenza e ci introduce nel mondo «digestivo» della depressione. Allo stesso modo ci parlano le immagini oniriche o quelle delle fantasticherie, in particolar modo quelle più fosche e impaurenti, quelle che viviamo come psicopatologiche: le immagini di putrefazione, di malattia, di morte, di smembramento. Sono loro a indicarci, anche attraverso il senso di colpa che sempre si accompagna alla percezione di essere vittime, malati, morenti, qual è la persona numinosa, la parte, la figura archetipica che ci sta parlando, rivelandoci il debito che abbiamo verso di essa e a cui essa ci richiama. Le immagini peggiori ci conducono nel profondo dell’anima, negli Inferi, e pertanto Hillman potrà chiamarle le migliori, in quanto sono quelle che ci permettono di vedere in trasparenza, di psicologizzare, di fare anima: «Il passaggio dalla prospettiva materiale a quella psichica si accompagna spesso a immagini oniriche di malattia o di morte» (ISEIMI, pag. 56). E ancora, in modo definitivo: “Le immagini “peggiori” sono perciò le migliori, giacché sono quelle che restituiscono a una figura il suo originario potere di persona numinosa attiva nell’anima» (Revis., pag. 41). Ci riconsegnano quindi agli archetipi, agli déi che le abitano.

La patologizzazione ci consente così la riflessione, un cambiamento di visione, il passaggio da sintomo a simbolo. In poche parole ci consente di fare anima, poiché il fare anima è «[…] un’operazione digestiva» (LSCC, pag.34). D’altronde, «La regressione appartiene al modo digestivo del fare anima, per cui una buona dose di rimembranza, la sua pena e la sua vergogna, sono ricapitolazioni, sono ulteriori revisioni del capitolo prima di poterlo chiudere». La psicoterapia diventa uno dei modi, come lo stesso patologizzare, di trasformare gli eventi in esperienze e, «[…] se sapessimo esperire di più, ci sarebbe un minor bisogno di avvenimenti e avrebbe fine lo scorrere troppo rapido del tempo» (ib., pag. 35). Non saremmo più sommersi da eventi che ci impediscono di cogliere il senso, ma gli eventi sarebbero psicologizzati, diventerebbero nutrimento, sostanza dell’anima.

12 Corsivo dell’Autore14

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In tutto questo diviene evidente la funzione centrale della narrazione. La patologizzazione, come il sogno, è uno degli stili narrativi della psiche, una delle maniere con cui la psiche si racconta. E la psicoterapia è la rinarrazione –a due, paziente e terapeuta- di una storia clinica e di una storia dell’anima, che procede attraverso la duplice riflessione del fare anima e attraverso la lente della patologizzazione. «Una terapia riuscita è quindi una collaborazione tra narrazioni, una revisione della storia in una trama più intelligente, più immaginativa, che implichi altresì il senso del mythos in ogni parte della storia» (ib., pag. 21). Patologizzazione, narrazione, politeismo psichico… tutto contribuisce a una costruzione di senso che prescinde dalla centralità di un Io visto come garante della continuità e della sanità, garante dell’ordine e di una “normalità” impossibile.

L’anima è invece molteplice e profonda e ci viene rivelata dalla patologizzazione. Così noi prendiamo contatto con il mondo infero: «Poiché la patologizzazione è spaventosa, siamo obbligati a seguire la paura, non con coraggio, bensì come un sentiero che ci conduce verso un centro di reverente timore per ciò che avviene nelle profondità dell’anima». (Revis., pag. 142). La paura fa parte del processo di psicologizzazione, del «see trough», tradotto in italiano con «vedere in trasparenza». D’altronde già Goethe diceva che «L’orrore è la parte migliore dell’uomo. Quanto più il mondo ne rafforza la percezione tanto più profondamente egli è turbato dal portento». Parlando di uno degli aspetti del numinoso, a proposito del tremendum –il terrificante- Rudolf Otto scrive: «[…] l’inorridire non è un timore naturale e ordinario, bensì un primo apparire del misterioso sullo schermo dei sentimenti, un primo avvertirlo, seppure nella forma rudimentale dell'inquietante». A questo apparire del mistero è legato il significato profondo del paradossale piacere della paura, del nostro cercare, in letteratura, nel cinema, nel mito, le “immagini peggiori”. In questo senso la paura si configura come una “via regia”, secondo la definizione di Freud applicata al sogno, verso l’inconscio e quindi verso la nostra verità più profonda, annidata negli Inferi.

La domanda, mi viene da dire, è anche: dobbiamo liberarci dall’angoscia o l’angoscia, come la depressione, è necessaria all’anima? Se ci apre una prospettiva altra sulla vita, allora dobbiamo accettarla come parte di noi. Si potrebbe obiettare sul piano quantitativo: qual è il livello di angoscia che dobbiamo essere in grado di sopportare per accedere all’anima? Quando quindi dovremmo intervenire “contro” di essa? Credo che il punto sia l’aspetto di consapevolezza e di evoluzione che apre l’angoscia, come la depressione, anche se evoluzione è un termine che a Hillman non sarebbe piaciuto. L’angoscia e la depressione 15

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sono antiomeostatiche: determinano comunque un cambiamento, un approfondimento. Solo quando esse diventano destruenti, potremmo pensare, ha senso tentare di lenirle anziché “stare” e accedere alla conoscenza che ci portano. Si aprirebbe anche il tema dell’estremo, del suicidio, che è comunque faccenda dell’anima. La fantasia del suicidio ci conduce agli Inferi, quindi alla profondità (bathun secondo Eraclito) dell’anima. Ci guida in quel Laborintus di cui accenna Edoardo Sanguineti nell’omonimo poemetto, citando Everardus Alemannus, che dice di una sua opera: Titulus est Laborintus quasi laborem habens intus. Gli Inferi e l’anima come un labirinto in cui è contenuto il dolore. Quello stesso dolore di cui ci parla la patologizzazione.

4. Psicologizzazione e linguaggio psicologicoPersonizzare attiene alla phantasia della psiche, quella che Jung

chiama imaginatio vera. Personizzando insediamo le parole nello spazio immaginale, impariamo a vedere le persone della psiche e il loro contenuto archetipico –gli déi- nel loro movimento e nel loro emergere, che determinano lo stile della nostra psiche, la prospettiva in cui di volta in volta vediamo la vita. Facciamo esperienza immaginale delle nostre fantasie archetipiche e possiamo entrare in relazione con esse.

Patologizzando entriamo invece nel campo del pathos, della sofferenza, delle emozioni, tra quelle circostanze che, come scrive Keats, insieme a cuore e intelligenza, sole possono trasformare la mente in identità.

Ma fare anima richiede anche un’attività intellettuale, la psicologizzazione, che si muove nel regno delle idee. Richiede l’usare le idee nello spazio immaginale, il non pensare che debbano sempre avere un’utilità concreta, un’applicazione pratica, che non siano che un mero preludio all’azione. D’altronde noi sappiamo che talora agire è un modo per non vedere, per non riflettere, come ci è evidente nei passaggi all’atto compiuti dai nostri pazienti o che noi stessi ci sorprendiamo a fare.

Avere idee è agire, agire nello spazio immaginale. E l’anima si fa e si cerca psicologizzando, ossia cercando se stessa nelle idee e nelle immagini, riflettendo -riflettendosi- costantemente su se stessa e in se stessa. Psicologizzare è il see through, il vedere in trasparenza, percepire le fantasie archetipiche che presiedono alle idee e che tramite esse ci possiedono. E il see through è «[…] un processo di deletteralizzazione e una ricerca dell’immaginale nel cuore delle cose per mezzo di idee […]» (Revis., pag. 239).

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Ma psicologizzare significa anche accettare che la psicologia è una prospettiva onnicomprensiva, una prospettiva sulla vita, senza peraltro cadere nello psicologismo che riduce tutto alla psicologizzazione. Sarebbe un grave errore trasformare la realtà, le asserzioni filosofiche e quelle scientifiche in meri enunciati psicologici: «Ridurre tali asserzioni interamente alla psicologia equivale a cadere nell’errore psicologico o “psicologismo”» (Revis., pag. 234). Le asserzioni possono avere «[…] contenuto, merito e valore nella sfera della loro espressione letterale» (ib.). I risultati della scienza restano tali, le affermazioni filosofiche non perdono il loro senso. Il vaso che cade sulla nostra automobile nuova rimane un vaso di gerani. Potremo poi psicologizzare l’evento, digerirlo. Quindi, «[…] psicologizzazione non significa trasformare gli eventi in psicologia, ma fare psiche degli eventi –fare anima» (ib., pag. 235). Esperirli, potremmo dire, sperimentarli, rifletterli e riflettervi, fantasticarli, soffrirli: logos, phantasia, pathos, affinché, attraverso quel ruminare digestivo della psiche gli eventi diventino anche anima. «[…] se sapessimo esperire di più, ci sarebbe un minor bisogno di avvenimenti e avrebbe fine lo scorrere troppo rapido del tempo» (LSCC., pag. 35). Gli antichi leggevano dieci libri e non mille e ne traevano nutrimento per l’anima psicologizzando.

Psicologizzare necessita però di un linguaggio, un linguaggio che non può essere letteralizzante ma metaforico e non è certo un’attività limitata all’esercizio della psicoterapia, poiché l’anima noi dovremmo servirla in ogni attività, in ogni situazione. Ecco perché Hillman contrappone la parola dell’anima al linguaggio psicologico. Già Jung, nell’introduzione a Simboli della trasformazione, aveva parlato di un pensiero per immagini e di un pensiero indirizzato, ponendo così le basi per la distinzione tra due tipi di linguaggio. Il linguaggio della psicologia, abbiamo detto, si pone oggi come un linguaggio razionale, indirizzato e “scientifico”. Ho virgolettato quest’ultimo aggettivo riferendomi alla confusione epistemologica cui ho accennato in principio, legata al tentativo, positivistico e deterministico, di inserire la psicologia all’interno delle cosiddette hard sciences, in contrapposizione alle soft sciences e collegandola al metodo sperimentale e alla riproducibilità dei risultati, senza tener conto ad esempio dell’aporia rappresentata dal fatto che in psicologia osservatore e osservato sono la stessa cosa13 14. 13 Scrive Wolfgang Pauli a Jung: […] ogni “osservazione dell’inconscio”, ossia ogni assurgere aa coscienza di contenuti inconsci, esercita una reazione incontrollabile su questi stessi contenuti inconsci […] questa reazione incontrollabile del soggetto osservante sull’inconscio limita il carattere obiettivo della sua realtà e le attribuisce al tempo stesso una soggettività» (OC, VIII, pag. 246, nota 127). E Jung, più avanti: «La misurazione esatta di quantità è sostituita nella psicologia da una definizione approssimata di intensità, definizione per cui si ricorre […] alla “funzione di sentimento” (valutazione)» (ib., pag. 250).14 Per approfondire il tema si veda D. Sacco: Al di là delle colonne d’Ercole, Bergamo, 2013, in particolare pag. 29.17

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Un tale approccio determina una sorta di reductio ad nihil, eliminando, con la letteralizzazione, l’oggetto stesso della psicologia, ossia l’anima nella sua sfuggente multiformità. L’intervento è andato bene ma il paziente è morto, si potrebbe dire.

Ho parlato di positivismo e determinismo e d’altronde, come argomenta Hillman, la psicologia e la psicopatologia moderne nascono negli anni in cui l’illuminismo apre la strada a questi due atteggiamenti oggettivanti e letteralizzanti. Il linguaggio stesso della psicologia diviene oggettivante e letteralizzante; malato, dice Hillman e noi «siamo resi malati perché quel linguaggio è malato» (IMDA, pag. 133). E ancora: «Un linguaggio che non reca in sé la metafora trasferisce la pulsione metaforica […] all’azione diretta. Il corpo diviene il luogo delle metafore dell’anima, e chiunque si volga al corpo per trovarvi la salvezza viene subito spinto all’azione immediata –posture, atteggiamenti, gesti, stili- del comportamento psicopatico» (ib., pag. 135).

5. La psiche infera; sogni, depressione, depersonalizzazione, morte

Cominciamo con una citazione da Hillman (ISEIMI pag. 30).

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È la stessa psicologizzazione nel suo fare anima che spinge ad andare oltre le apparenze, e il suo vedere attraverso (il see through) ci guida pertanto verso la profondità, verso quell’espressione profonda dell’anima di cui parla Eraclito: «I confini dell’anima, nel tuo andare, non potrai scoprirli, neppure se percorrerai tutte le strade: così profonda è l’espressione (logos) che le appartiene» (Eracl., 14 [A55]). Ma ancora Eraclito ci dice che «le anime annusano giù verso l’Ade» (ib, 14, [A47]) e così la profondità dell’anima corrisponde mitologicamente e archetipicamente all’Ade, il territorio del dio invisibile, quegli Inferi dove ha sede la morte, tanto che secondo Hillman lo «[…] spontaneo desiderio di comprendere psicologicamente sembrerebbe simile a quello che Freud ha chiamato pulsione di morte15 e che Platone ha presentato come desiderio di Ade» (ISEIMI, pag. 32). Psicologizzazione, vedere attraverso, Inferi, pulsione di morte: il movimento della comprensione, quindi della psicologizzazione e dell’anima, è un movimento verso il basso, un annusare l’Ade, metaforicamente una vocazione per la morte. Una discesa agli inferi e un movimento verso l’inconscio poiché «il mondo infero è finito nell’inconscio: è addirittura diventato l’inconscio» (ISEIMI, pag. 66). Come gli déi che ci abitano: se gli déi sono diventati malattie, così il mondo infero, il luogo della morte, è diventato anche il luogo della rimozione della morte stessa e ci visita ogni notte nei nostri sogni.

La morte quindi, come già per Jung non è solo la fine (finis) ma anche il fine (telos) e ogni esperienza dovrebbe essere vista in rapporto con la 15 Corsivo dell’Autore19

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propria morte: che cosa significa questa cosa per la mia morte? Ma di quale morte stiamo parlando? Di quella concreta, letteralizzata nel mondo occidentale al punto da aver perso le sue valenze simboliche? Questa letteralizzazione è quella che confina la morte negli ospedali, che la rende un evento espropriato al morente stesso. Non è però di questa morte che Hillman ci parla: «Stiamo ben attenti» -ammonisce- «a non considerare questa vocazione come la morte letterale […]» ma piuttosto come «[…] quel senso di scopo che subentra ogniqualvolta parliamo dell’anima». D’altronde, la morte, «[…] questa meta inconoscibile, è l’unico evento assolutamente certo della condizione umana». Noi siamo destinati a essa ed essa è il nostro destino, il fine cui tende tutta la nostra vita se letta in chiave metaforica e non evoluzionistica. Ma se la morte è finis e telos, allora non importa quando sopraggiunge il finis, perché contemporaneamente a esso avremo comunque raggiunto il telos e la nostra vita sarà compiuta, avendo raggiunto la sua meta che sta, sappiamo con Jung, nella valle da cui il movimento esistenziale è partito: «La meta è sempre adesso», scrive Hillman. Pertanto, «[…] vivere in piena conseguenza la concezione finalistica significa portare la prospettiva di Ade e del mondo infero a ogni evento psichico» (ISEIMI, pagg. 35-36).

Stiamo qui sfiorando uno dei cardini del pensiero hillmaniano: la profonda vicinanza della psiche alla morte. D’altronde, «Anima porta con sé la nostra morte; la nostra morte abita nell’anima» (An., pag. 41). La psiche è dunque infera, profonda e finalistica, orientata verso la morte e verso le sue immagini. Le «immagini peggiori», cui abbiamo già accennato. Sono proprio queste immagini, legate alla patologizzazione, a rivelarci più profondamente il significato archetipico delle nostre fantasie. Le immagini dei sogni saranno pertanto legate alla morte e al mondo di Ade: non ci sarà nei sogni un commento sulla vita, né un suggerimento, né una compensazione dell’atteggiamento cosciente, «[…] quanto piuttosto un’asserzione da parte delle profondità ctonie –lo stato immutabile, denso, freddo […]. Non possiamo più guardare al sogno con la speranza di progresso, di trasformazione, e rinascita» (ISEIMI, pag. 44). I sogni ci dicono dove siamo e in essi l’anima incontra la morte, il grande rimosso della nostra cultura, e si riconosce nelle sue immagini provandone angoscia: «[…] tutto ciò che appare ferito o malato o morente può essere inteso come quel contenuto che guida il sognatore nella Dimora di Ade16. […] Sono queste immagini che determinano in noi un cambiamento […] e il lavoro che svolgono è dunque quello dello psicopompo17» (ISEIMI, pagg. 138-139). D’altronde, Kore stessa deve 16 Si tratta di immagini della patologizzazione (vedi sopra).17 Corsivo dell’Autore.20

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trasformarsi in Persefone e risiedere negli Inferi, ossia passare dalla prospettiva materiale alla prospettiva psichica, in una parola al fare anima. Un fare anima che corrisponde alla fase della putrefactio alchemica. La nostra risposta stessa, la risposta psicoterapeutica, non può che essere nel fare anima con il paziente: alle immagini dei sogni si può rispondere solo con l’immaginazione, terapeuta e paziente abitando entrambi nel metaxù, il mondo immaginale. Non interpretazione, pertanto, bensì immaginazione condivisa, condivisione nel fare anima.

Come abbiamo visto la psiche infera ci riconduce al tema della patologizzazione e in particolare agli aspetti depressivi dello stare in basso, nel profondo. Quel che Hillman critica, oltre all’atteggiamento positivistico del progresso è anche l’idea cristiana della psicologia, legata sempre a un movimento verso l’alto, che esclude il senso dello scendere, del rimanere in basso, in una parola della depressione. E invece, «[…] è attraverso la depressione che entriamo nelle profondità e nelle profondità troviamo l’anima. […] Essa inumidisce l’anima arida e asciuga quella troppo umida. Dà rifugio, confini, centro, gravità e umile impotenza. Essa tien vivo il ricordo della morte. La vera rivoluzione comincia nell’individuo che sa essere fedele alla propria depressione» (Revis., pagg. 179-180).

In questo fondamentale passo Hillman adopera la parola depressione, spogliandola però di una risonanza clinica troppo forte. Infatti scrive anche, a proposito di una nuova coscienza dell’anima legata alla depressione e al tema alchemico: «L’intervallo azzurro nella transizione tra nero e bianco è come la tristezza che emerge dalla disperazione man mano che questa procede verso la riflessione» (FB, pag. 228). Come a dire che è il passaggio alla malinconia, di cui abbiamo già parlato, a permettere la riflessione.

Diverso dal meccanismo depressivo con il suo movimento verso l’anima è invece quello della depersonalizzazione o derealizzazione. Noi sappiamo che per depersonalizzazione s’intende quella situazione in cui ci sentiamo estranei a noi stessi e al mondo esterno, come osservatori distaccati della nostra psiche e del nostro corpo: «[…] il soggetto non si riconosce più in una personalità. Le sue azioni gli appaiono automatiche» (P. Schilder, 1914, in: An., pag. 133). È questa un’esperienza comune, legata a momenti in cui ci appare che nulla abbia senso, che nulla sia fonte di interesse. Il mondo è deserto e noi non siamo più gli stessi, «[…] un’esperienza comune quando finisce una storia d’amore» (An., pag. 139). Ci troviamo di fronte a quella che Jung e Hillman definiscono una «perdita d’anima […] l’anima smarrita di Demetra, quando Kore è rapita da un’invisibile potenza oscura, fa sì che tutto quanto il mondo della natura si arresti» (ib.). Ho definito altrove questa esperienza come una 21

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scissione animica, che potrebbe essere apparentata al meccanismo del lutto e della melanconia descritto da Freud: quando non riusciamo a separarci dall’oggetto perduto, allora perdiamo con esso anche una parte di noi stessi, che rimane legata all’oggetto. È Augusto Romano che mi ha fatto notare come talora, anche quando le proiezioni vengono ritirate dell’oggetto, quella parte animica sprofondi nell’inconscio, continuando a lasciarci in una situazione analoga a quella della depersonalizzazione. L’anima, «[…] qualcosa che ha vita propria e che ci fa vivere […]» (C.G. Jung, Opere, IX, 1, pag. 25) è ora lontana da noi. Siamo privi del ponte che ci unisce all’inconscio. Siamo poveri. Non siamo morti perché l’anima è collegata alla morte, ma non vivi.

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6. Fatalismo ed entelechia: il destino, un’appendice junghianaDi recente, in un seminario dedicato a Mario Trevi, Augusto Romano ha

parlato, a proposito di Hillman, di una sorta di determinismo non dissimile da quello freudiano o meglio di un «pessimismo fatalistico» dove l’individuo è «determinato dalle dominanti archetipiche». Come afferma Romano, nella posizione che la libido occupa nella teoria psicoanalitica, Hillman porrebbe invece l’archetipo, con la stessa funzione vincolante e centrale. Ed è proprio questo aspetto vincolante dell’archetipo che connoterebbe quello hilmmaniano come un pensiero deterministico. Noi siamo improntati fin dalla nascita da quell’immagine fondamentale, quel dio verso cui abbiamo un debito: «[…] ciascuno è responsabile di fronte a un’immagine innata, i cui contorni va riempiendo nella sua biografia» (ICDA, pag. 19). Si tratta della ghianda di cui Hillman parla ne Il codice dell’anima, la forma che ci prefigura in un modo ineluttabile: «La nostra persona non è un processo o un evolversi. Noi siamo quell’immagine fondamentale […]. Come disse Picasso: “Io non mi evolvo. Io sono”» (ICDA, pag. 22). Noi siamo pertanto ciò che siamo, sin dall’inizio. Nella ghianda è contenuto il tutto, senza possibilità di deviazione. Discorso difficile da accettare se portato alle sue estreme conseguenze, poiché sembra abolire la casualità: non vi sono eventi devianti, se mai eventi che possono arrestarci o ritardarci nello sviluppare ciò che nella ghianda è dato: nulla di più, nulla di meno. La libertà parrebbe quindi abolita, in favore di una destinalità assoluta e lo stesso processo individuativo perde il valore che ha nel pensiero junghiano. Di Jung invece Romano ricorda: «L'accento posto sul finalismo distingue nettamente Jung da Freud (Freud guarda gli eventi psichici riportandoli tutti a una singola causa, il dispiegarsi della libido sessuale; pertanto la sua posizione è deterministica e, per così dire, "fatalistica"). Jung insiste sulla nozione kantiana di possibilità e colloca l'uomo nella doppia dimensione dei nessi causali che precedono l'individuo e delle intenzioni finalistiche verso cui l'individuo tende. In altri termini, il futuro si presenta come una possibilità che presuppone la libertà umana».

In effetti l’individuazione come possibilità della libertà umana, cuore della teoria evolutiva junghiana, ha nell’ opera di Hillman un peso molto minore. Basti pensare che in Fuochi Blu, antologia preparata da Thomas Moore su disegno dello stesso autore, la voce Individuazione nell’indice analitico presenta sei ricorrenze contro le quattordici di Archetipo. Da questo punto di vista il pensiero hillmaniano può essere considerato collegato a un principio deterministico, come quello freudiano, e non a un concetto di evoluzione, ben evidente invece in Jung. Non c’è peraltro da stupirsi: Hillman critica più volte l’atteggiamento evolutivo, legato a

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un’idea di progresso e di miglioramento che gli è estranea, e tale estraneità, al di là del giudizio che ne possiamo dare, non ci sorprenderà se avremo seguito con attenzione la sua evoluzione.

Destino e libertà: ci troviamo di fronte comunque all’eterno problema del rapporto tra destino e libertà individuale, o meglio tra un destino “esterno” e uno “interno” e la nostra libertà parrebbe essere solo quella di adattarci al destino dettatoci dagli archetipi. Dove Hillman è platonico, collocando la causa in archetipi esistenti autonomamente, Jung potrebbe definirsi aristotelico. Cerchiamo di spiegarci meglio. Aristotele introduce il termine entelechia per designare una finalità interiore, la «vita in potenza», dove l’atto si sviluppa dalla potenza o meglio diremmo oggi, dalla potenzialità. La parola deriva dalla locuzione greca en télei ekhen, essere giunto a compimento. E di compimento, di realizzazione, parla Jung, che afferma: «[…] è di una importanza assoluta essere in questo mondo, realizzare davvero la propria entelechia, il germe di vita che si è […]» (La psicologia del kundalini-yoga, pag. 75). Il fine dello sviluppo per Jung è il raggiungimento –paradossalmente e ossimoricamente irraggiungibile- della totalità.

La destinalità, sottolineata da Hillman soprattutto ne Il codice dell’anima, pare in effetti talora presentarsi come qualcosa di simile alla fede, rassicurante come la fede. Noi siamo portatori di un destino che percepiamo come futuro. Non dovremo quindi preoccuparci di ciò che ci avverrà, si potrebbe dire: ogni cosa è già definita e fa parte della necessità (ananke). «La meta è sempre adesso» potremmo ripetere. La sofferenza e la morte stessa non sono che: l’una, ciò che ci necessita per approfondire la nostra crescita verso il basso, verso l’anima; e l’altra il compimento, il fine della nostra vita. Siamo animali destinali. Ma potremmo dire che la libertà insita nel concetto di processo individuativo, una libertà per così dire verticale, è presente in senso orizzontale in Hillman proprio nella frammentazione della psiche e nei molti déi che di volta in volta ci abiteranno, nei molti stili esistenziali cui potremo di volta in volta corrispondere.

Ma d’altro canto, è così vero affermare che nel pensiero junghiano la categoria del destino è meno presente che in quello hillmaniano?

La riflessione sul rapporto tra storia individuale e mito, questo “essere posseduti” come dice Jung dalle immagini mitiche, apre in realtà la strada al concetto di destino. Sisifo dovrà morire, Edipo ucciderà suo padre e sposerà sua madre, Odisseo lascerà la divina Calypso e tornerà a Itaca da quella stessa Troia dove Achille ha trovato la morte, nonostante i tentativi fatti per salvarlo da Teti, la Nereide che lo ha partorito. Stiamo parlando al futuro e al passato, ma potremmo parlare indifferentemente anche al presente, perché ci troviamo in quel tempo mitico che è il 24

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nostro tempo pur non essendo il nostro tempo. O meglio è il tempo, circolare, in cui psicologicamente s’inscrive il nostro lineare tempo umano. Riconoscendo di essere posseduti dalle immagini mitiche noi non facciamo altro che riconoscere il nostro destino.

Ma che cosa intendiamo con questa parola? Pier Francesco Pieri scrive che esso: «[…] è fondamentalmente indicato attraverso la nozione del Sé nella sua accezione di depositario dell’essere e del divenire individuali […è…] ciò che condiziona e limita la possibilità, ovvero la libertà e la progettualità umane» (Pieri, pagg. 206-207). In questo modo, Pieri pone il destino come un polo di una sizigia, la coppia di opposti complementari, di cui l’altro è la nostra libertà. Ed è nella tensione tra questa coppia di opposti che muove il processo individuativo.

Ritorniamo a Odisseo. Il suo destino, uno dei poli della sizigia, è ritornare a Itaca. A proteggerlo nel suo viaggio è Atena, che lo aiuta contro il volere di Poseidone e il nostos, il ritorno, è il risultato finale. Il destino dunque è compiuto. Ma, nel suo viaggio per Itaca sono evidenti le deviazioni che gli impongono il desiderio di conoscenza e di libertà e le sfide che la metis dell’eroe si trova a fronteggiare. In una parola, la sua volontà di autodeterminarsi.

Il destino dell’Ulisse dantesco, d’altronde diventa, ossimoricamente, proprio la scelta della libertà (come d’altronde la sua libertà è il suo destino): “[…] Quando / mi diparti’ da Circe, che sottrasse / me più d’un anno là presso a Gaeta, / prima che sì Enëa la nomasse, / né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né ’l debito amore / lo qual dovea Penelopè far lieta, / vincer potero dentro a me l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore; / ma misi me per l’alto mare aperto / sol con un legno e con quella compagna / picciola da la qual non fui diserto “ (Inferno, XXIII, 90-102).

La fine è nota: “Noi ci allegrammo, / e tosto tornò in pianto; / ché de la nova terra un turbo nacque / e percosse del legno il primo canto. / Tre volte il fé girar con tutte l’acque; / a la quarta levar la poppa in suso / e la prora ire in giù, com’altrui piacque, / infin che ’l mar fu sovra noi richiuso".(ib., 136-142).

Il libero arbitrio di Odisseo si rivela nella lettura che ne fa Dante un comportamento di hybris e il risultato, ancora una volta è lo sprofondare negli Inferi.

Proviamo a essere più chiari pensando a quelle che Jaspers definisce situazioni-limite, come la morte, la lotta, il dolore.

Se nelle situazioni-limite ci troviamo a confrontarci con schemi mitici, con modelli o forme che determinano il nostro agire, se ci ritroviamo a scoprire, in altre parole, quale sia il mito che conduce la nostra vita, potremmo sentire che la nostra libertà è coartata o perlomeno limitata. 25

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Al di là del fatto che la liberta non può non essere limitata, se non nel gesto estremo del disporre della propria vita attraverso il suicidio, il punto centrale è che noi quel destino, quel mito dobbiamo riconoscerlo ed entrare con esso in una relazione dialettica e talora conflittuale. In questa dialettica, miticamente ravvisabile nella lotta di Giacobbe con l’Angelo del Signore, si costituisce la relazione con il Sé da cui prende le mosse il processo individuativo. Noi sappiamo che per Jung esso è, con le parole di Pindaro, il «diventa ciò che hai appreso di essere». E sappiamo anche che il suo richiamo non arriva per tutti. Jung ne parla accennando a una voce interiore, a un demone: «C’era dentro di me un demone, e alla fine la sua presenza si è dimostrata decisiva» (Ricordi, sogni, riflessioni, pag. 416). Ma aggiunge, poche righe, sotto: «Dovevo ubbidire a una legge interna che mi s’imponeva senza lasciarmi libertà di scelta. Naturalmente non sempre le ho obbedito. Chi potrebbe vivere senza mai essere incoerente?» (ib., pag. 417). Ecco l’atto di libertà.

Se noi obbediamo completamente alla nostra voce interiore, al mito che ci domina, vi affonderemo dentro, naufragando nell’inconscio. Il nostro destino diverrà allora la catastrofe esistenziale, magari psicotica. Se invece ci muoviamo all’interno della tensione degli opposti tra la chiamata del Sé e la nostra coscienza, possiamo, imperfettamente, incompletamente, procedere lungo la strada del processo individuativo. Dobbiamo ricordarci, da terapeuti e da esseri umani, che, come «avere un’anima è propriamente il rischio della vita» (Jung, IX, 1, 25), anche ricevere il dono avvelenato di non poterci accontentare dell’adattamento alla vita e invece avvertire la chiamata del Sé è, al tempo stesso, un rischio e una responsabilità.

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