Walter Benjamin Per una critica della violenza UNA CRITICA DELLA...In una conferenza del 1989 Force...

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Titolo originale: Zur Kritik der Gewalt. Questo testo è stato pubblicato per la prima volta sulla rivista Archiv fürSozialwissenschaft und Sozialpolitik, vol.47, anno 1920-1921.Prima edizione agosto 2020.©asterios abiblio editore, Trieste 2019.Traduzione dal tedesco a cura della redazione.

volantiniasterios.it è una pubblicazione della Asterios Abiblio Editore diretta da Asterios Delithanassis.www.volantiniasterios.it • www.asterios.it •posta: [email protected]: 9788893131803FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI AGOSTO 2020 DA PRINTBEE - NOVENTA PADOVANA

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Benjamin, Derrida e la violenza

In una conferenza del 1989 Force de loi: le fondementmystique de l’autorité, Derrida evidenzia come l’espres-sione “forza di legge” in apparenza molto tranquillizzantee rassicurante, sia invece in sé contraddittoria, mettendoassieme due istanze problematiche: come può manife-starsi infatti la legge in modo assolutamente violento, col-lidendo con quelle istanze che dovrebbe sosteneresocialmente? E, d’altra parte, è possibile l’applicazionedi una legge senza una forza intrinseca che la renda effi-cace e, soprattutto, indipendente da qualsiasi potere so-

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Note a marginedi Emiliano Bazzanella

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vrano e che sia, pertanto, assolutamente autonoma?“Dato che l’origine dell’autorità, la fondazione o il fon-damento, la posizione della legge, per definizione, in de-finitiva possono basarsi solo su se stesse, esse sono a lorovolta una violenza senza fondamento” (Derrida, 1994,p. 63). È una zona limite che Derrida definisce addirit-tura “mistica”, in quanto al di fuori delle nostre capacitàdi interpretazione razionale, mentre anche un approccioprettamente giuridico sembra sfaldarsi e perdere i proprifondamenti: Derrida può così affermare che “il dirittonon è la giustizia. Il diritto è l’elemento del calcolo, ed ègiusto che vi sia diritto, ma la giustizia è incalcolabile,esige che si calcoli con l’incalcolabile; e le esperienzeaporetiche sono delle esperienze tanto improbabiliquanto necessarie della giustizia, cioè di momenti in cuila decisione fra il giusto e l’ingiusto non è mai garantitada una regola” (ivi, p. 66). La giustizia è “impossibile”,“sempre-a-venire”, l’“ad-vento”, ma il diritto è la sua rea-lizzazione pratica, è la trasformazione di un ideale inprassi; nello stesso tempo il diritto che realizza la giustizianon può non essere che violento, ossia una “forzatura”che nella misura in cui si può fondare su un giudizio “in-giusto” diviene “illegittimo”. Siamo innanzi ad un’apo-ria, ad una via senza uscita nella quale siamo giocoforzaingabbiati: “una esperienza è una traversata, come indicail nome, essa passa attraverso e viaggia verso una desti-

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nazione per la quale trova il passaggio. L’esperienza trovail suo passaggio, essa è possibile. Ora in questo senso,non può esserci piena esperienza dell’aporia, di ciò checonsente il passaggio. Aporia è un non-cammino. La giu-stizia sarebbe da questo punto di vista l’esperienza di ciòdi cui non possiamo fare esperienza. (...) Ma credo chenon ci sia giustizia senza questa esperienza per quantoimpossibile, dell’aporia. La giustizia è una esperienzadell’impossibile” (ibidem): per tali ragioni, la conferenzaderridiana ha di mira soprattutto il saggio di Walter Ben-jamin – Zur Kritik der Gewalt del 1921 – nel quale assi-stiamo ad una vera e propria fenomenologia dellaviolenza. Essa è intrinseca nell’istituzione della legge edella sua legittimità universale, epperò deve essere a pro-pria volta sorretta e suffragata da un’ulteriore violenza,una violenza “conservatrice”: “la tautologia non è, forse,la struttura fenomenica di una certa violenza del dirittoche si pone decretando che è violento, questa volta nelsenso di fuori legge, tutto ciò che non lo riconosce?” (ivi,p. 98). L’eccesso della violenza conservatrice conducecon una sorprendente naturalità al cosiddetto stato di ec-cezione che a sua volta declina verso un’esuberanza dellostato di polizia in cui la violenza diviene “autonoma” efine a se stessa. Non è un meccanismo così distante dallenostre realtà politiche definite imprecisamente “demo-cratiche”: “la violenza dell’autorità o del potere è dunque

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normale, conforme alla sua essenza, alla sua idea, al suospirito. Nella democrazia, al contrario, la violenza non èpiù concessa allo spirito della polizia. In ragione dellapresunta separazione dei poteri, essa si esercita in modoillegittimo, soprattutto quando invece di applicare lalegge, la fa. (...) Nella monarchia assoluta, per quanto ter-ribile possa essere, la violenza poliziesca si mostra cosìcom’è e così come deve essere nel suo spirito, mentre laviolenza poliziesca delle democrazie nega il suo proprioprincipio legiferando in modo surrettizio, nella clande-stinità. Doppia conseguenza e doppia implicazione. 1) lademocrazia sarebbe una degenerazione del diritto, dellaviolenza, dell’autorità o del potere del diritto; 2) non c’èancora una democrazia degna di questo nome. La demo-crazia resta a venire: da produrre o da rigenerare” (ivi, p.118). Non ci soffermiamo qui sulle riflessioni di Derridain merito al carattere messianico della democrazia e al suocarattere intrinsecamente fallimentare. Sia nell’ambito diun potere sovrano esercitato assolutisticamente, sia nelcaso di un potere apparentemente democratico, la vio-lenza si manifesta come necessaria e ineludibile, è nellostesso modo l’espressione di una monarchia, così comedi una democrazia avanzata. In certe manifestazioni re-pressive delle autorità di polizia durante il lock downdella pandemia COVID 19, in effetti, si è notato come laviolenza, talvolta tanto illegittima da apparire un sopruso,

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è stata interpretata come l’unica via di salvezza perun’umanità assillata dalla malattia. Una certa infatuazioneper la violenza la si nota d’altra parte nello stesso Benja-min, allorquando traspare una certa fascinazione per lo“sciopero” (anche nel suo senso di “violenza passiva” oastensione dal lavoro) e per la violenza “pura”, la “vio-lenza rivoluzionaria” in grado di sovvertire un determi-nato stato di cose. Quest’apparente “terza via” dellaviolenza, talvolta sovrapponibile alla “violenza istitutrice”che pone le leggi, sembra cortocircuitare e contraddirsi:“essa non riconosce il diritto esistente nel momento incui ne fonda un altro. Fra i due termini di questa contrad-dizione, c’è la questione di quell’istante rivoluzionarioinafferrabile, di quella decisione eccezionale che non ap-partiene ad alcun continuum storico e temporale ma nelquale tuttavia la fondazione di un nuovo diritto gioca, percosì dire, su qualcosa di un diritto precedente che essaestende, radicalizza, deforma, metaforizza e metoni-mizza; e questa figura prende qui i nomi di guerra o disciopero generale. Ma questa figura è anche una conta-minazione. Essa cancella o confonde la distinzione purae semplice tra fondazione e conservazione. Inscrive l’ite-rabilità nell’originarietà” (ivi, p. 109). In altre parole,prevale in Benjamin l’ideale di una “violenza pura” qualeunico antidoto al dominio della violenza conservatricereazionaria e quale elemento propulsore primario per un

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moto rivoluzionario e rinnovatore. Ma una violenza so-verchiante un’altra violenza a che cosa conduce? Non do-vremmo considerare forse anche altri fattori per così direparadigmatici, come il fallimento, il fallere di ogni attoviolento in quanto espressione di un’impotenza più ori-ginaria? Insomma, un atto rivoluzionario fondato sullaviolenza colta nella sua purezza platonica finisce per tra-dursi nel proprio opposto e il suo destino è la legittima-zione della medesima violenza nella sua declinazioneconservatrice e poliziesca.

J. DERRIDA, Force de loi. Le “Fondement mystique de l’autorité”, Galilée,Paris 1994; tr. it. di A. Di Natale, Forza di legge. Il “fondamento misticodell’autorità”, Boringhieri, Trino 2003.

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Si può circoscrivere il compito della critica della violenzaesponendo il rapporto tra violenza da una parte e giustiziae diritto dall’altra. Infatti, una causa effettiva diventa sem-pre violenta, nel senso pregnante della parola, soloquando incide sui rapporti morali. La sfera di questi rap-porti è data dai concetti di diritto e giustizia. Per quantoriguarda il diritto è chiaro in primo luogo che ogni ordi-namento giuridico si fonda sul rapporto più elementaretra fini e mezzi. In secondo luogo è altrettanto chiaro chela violenza può trovarsi solo nell’ambito dei mezzi e nondei fini. Già queste constatazioni rappresentano per lacritica della violenza qualcosa di più e di diverso di quantonon sembri a prima vista. Infatti, ammesso che la violenzasia un mezzo, sembrerebbe che il criterio della sua criticasia già dato. Si pone il problema se in determinati casi laviolenza sia sempre mezzo per fini giusti o ingiusti. In unsistema di fini giusti la sua critica sarebbe data implicita-mente. Ma non è così. Infatti, anche ammettendo che siaal riparo da ogni dubbio, tale sistema conterrebbe nontanto un criterio della violenza stessa come principioquanto un criterio per i casi di applicazione. Rimarrebbeaperto il problema se in generale e in linea di principiosia morale la violenza in sé come mezzo per realizzare fini

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giusti. Per decidere la questione occorre un criterio piùstringente, una differenziazione all’interno della sfera deimezzi, indipendentemente dai fini cui servono.

L’esclusione di questa più esatta impostazione del pro-blema caratterizza una grande corrente di filosofia del di-ritto, di cui costituisce forse il tratto distintivo piùspiccato: il diritto naturale. Nell’impiego di mezzi violentia fini giusti esso vede tanto poco un problema quantol’uomo che si sente in “diritto” di muovere il propriocorpo verso la meta cui tende. Secondo tale concezione(che servì da base ideologica al terrorismo della rivolu-zione francese) la violenza è un prodotto della natura, unasorta di materia prima, il cui uso non presenta problemi,finché non diventa un misuso per fini ingiusti. Se nellateoria giusnaturalistica dello Stato le persone rinuncianoa tutto il loro potere a favore dello Stato, ciò avviene nelpresupposto, esplicitamente stabilito per esempio da Spi-noza nel Trattato teologico-politico [capp. XVI e XVII],che il singolo in sé e per sé e prima della conclusione diquesto contratto adeguato alla ragione eserciti anche dejure ogni e qualsiasi potere che detenga de facto. Forsequeste concezioni sono state successivamente fatte rivi-vere dalla biologia di Darwin, che in modo completa-mente dogmatico, secondo il principio della selezionenaturale, considera la violenza solo come strumento ori-ginario e adeguato a tutti i fini vitali della natura. La vol-garizzazione della filosofia darwiniana ha mostrato spessoquanto sia piccolo il passo che separa questo dogma na-

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turalistico da quello ancora più rozzo della filosofia deldiritto, secondo cui la violenza adeguata quasi esclusiva-mente a scopi naturali è anche giuridicamente legittima.

Diametralmente opposta alla tesi giusnaturalisticadella violenza come dato naturale è quella del diritto po-sitivo, che intende il potere come fatto che diviene nellastoria. Come il diritto naturale può giudicare ogni di-ritto esistente criticando gli scopi, così il diritto positivopuò giudicare ogni diritto in divenire criticando i suoimezzi. Se la giustizia è il criterio dei fini, la legalità è ilcriterio dei mezzi. Ma, nonostante questo contrasto, ledue scuole si ritrovano d’accordo sul comune dogma dibase: fini giusti possono essere raggiunti con mezzi le-gittimi, mezzi legittimi possono essere applicati a finigiusti. Attraverso la giustizia dei fini il diritto naturaletende a “giustificare” i mezzi; attraverso la legittimitàdei mezzi il diritto positivo tende a “garantire” la giu-stizia dei fini. L’antinomia si rivelerebbe insolubile qua-lora il comune presupposto dogmatico fosse falso e imezzi legittimi, da una parte, e i fini giusti, dall’altra,stessero in inconciliabile contrasto. La comprensionesarebbe qui impossibile finché non si abbandoni il cir-colo vizioso e non si pongano principi reciprocamenteindipendenti per fini giusti e mezzi legittimi.

Per ora da questa ricerca resta escluso il campo dei finie, quindi, la questione del criterio di giustizia. Al centrosi pone, invece, il problema della legittimità di certi mezziche costituiscono violenza. I principi giusnaturalistici

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non possono decidere su questo problema ma solo spo-starlo in una casistica senza fine. Infatti, mentre il dirittopositivo è cieco per l’incondizionatezza dei fini, il dirittonaturale è cieco per la condizionatezza dei mezzi. Percontro si può assumere come punto di partenza della ri-cerca la teoria positiva del diritto perché presuppone unadifferenziazione di fondo dei vari tipi di violenza, indi-pendentemente dai casi di applicazione. La distinzioneha luogo tra violenza riconosciuta storicamente, la cosid-detta violenza sancita [come potere], e violenza non san-cita. Anche se le prossime meditazioni prendono lemosse da questa distinzione, naturalmente ciò non signi-fica che le violenze date siano automaticamente classifi-cate come sancite o non. Infatti, nella critica dellaviolenza il criterio di diritto positivo non può subire unapura e semplice applicazione, ma molto di più un giudiziosu di sé. Si tratta di vedere quali conseguenze per l’es-senza della violenza derivino dalla possibilità di fissare ingenerale tale criterio o differenza, o in altri termini sitratta di stabilire quale sia il senso di tale distinzione didiritto positivo. Infatti, vedremo abbastanza presto cheessa è sensata, perfettamente fondata in se stessa e nonsostituibile da alcun altra, ma al tempo stesso sarà fattaluce su quella sfera in cui solamente essa può aver luogo.Insomma, se il criterio stabilito dal diritto positivo puòessere analizzato solo secondo il suo senso, la sua sferadi applicazione va criticata secondo il valore di tale distin-zione. Per tale critica occorre quindi trovare un criterio

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esterno sia alla filosofia positiva del diritto sia al dirittonaturale. Stabiliremo in che misura solo la trattazione deldiritto dal punto di vista della filosofia della storia possafornire tale criterio.

Il senso della distinzione tra violenza legittima e illegit-tima non è immediatamente a portata di mano. Bisognadecisamente guardarsi dall’equivoco giusnaturalista, chericonduce tutto il senso alla differenza tra violenza perscopi giusti e ingiusti. Piuttosto si era già accennato alfatto che il diritto positivo esige da ogni potere l’attestatodella sua origine storica, da cui a certe condizioni ottienela legittimità e la sanzione. Dato che il riconoscimentodei poteri giuridici si dimostra nel modo più tangibile nel-l’assoggettamento fondamentalmente senza resistenze ailoro fini, come base ipotetica per la suddivisione dei po-teri si potrebbe porre la presenza o l’assenza del ricono-scimento generale dei loro scopi. I fini che mancano ditale riconoscimento potranno esser detti di natura, glialtri fini di diritto. E la diversa funzione della violenza, aseconda che serva a fini di natura o di diritto, si può svi-luppare nel modo più evidente sulla scorta di qualunquesistema di rapporti giuridici determinati. Per semplicitàle considerazioni che seguono si riferiranno agli attualirapporti europei.

Per quanto riguarda la singola persona come soggettodi diritto, tali rapporti giuridici si caratterizzano per latendenza a non ammettere per la persona singola fini dinatura in tutti i casi in cui potrebbero essere all’occasione

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perseguiti con la violenza. Vale a dire che, in tutti i campiin cui i fini delle singole persone potrebbero essere per-seguiti coerentemente con la violenza, questo ordina-mento giuridico tende a imporre il perseguimento di finigiuridici che possono essere realizzati in questo modosolo dal potere giuridico. Anzi impone la riduzione a finigiuridici anche in quei campi, come nell’educazione,dove in linea di principio i fini naturali sono consentitientro ampi limiti, non appena essi vengano perseguiticon un grado eccessivo di violenza, come nelle leggi suilimiti della punizione educativa. Per le legislazioni euro-pee vigenti si può enunciare la seguente massima gene-rale: quando vengano perseguiti con violenza più o menogrande, tutti i fini naturali delle singole persone devononecessariamente entrare in collisione con i fini giuridici.(La contraddizione del diritto alla legittima difesa do-vrebbe spiegarsi da sé nel corso della trattazione se-guente.) Dalla massima consegue che l’ordinamentogiuridico considera pericoloso il diritto nelle mani dellasingola persona. Sarebbe il pericolo di vanificare i finigiuridici e l’esecutivo giuridico? Certo che no, perché al-lora non sarebbe condannata la violenza allo stato puroma solo quella rivolta a fini contrari a quelli giuridici. Sidirà che un sistema di fini giuridici non potrebbe mante-nersi, se in qualche punto i fini naturali potessero essereancora perseguiti con la violenza. Ma per ora questo èsolo un dogma. Per contro si dovrebbe forse prendere inconsiderazione la sorprendente possibilità che l’interesse

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del diritto a monopolizzare la violenza rispetto alla sin-gola persona non si spieghi con l’intenzione di difenderei fini giuridici ma il diritto stesso. La violenza non in manoal diritto vigente lo minaccia non per i fini che essa per-segue ma per la mera esistenza fuori del diritto. La stessacongettura si raccomanda ancora meglio ricordandoquante volte già, per quanto ripugnanti abbiano potutoessere i suoi fini, la figura del “grande” delinquente hasuscitato la segreta ammirazione popolare. Non può es-sere per le sue azioni ma per la violenza di cui testimo-niano la possibilità. In questo caso la violenza, che ildiritto tenta di sottrarre al singolo in tutti i suoi campi diattività, insorge minacciosa e, pur soccombendo nel pro-cesso giudiziario, suscita la simpatia della folla contro ildiritto. Per quale funzione la violenza possa – con valideragioni – apparire al diritto tanto minacciosa da esseretemuta, apparirà chiaro proprio nel caso in cui le è con-sentito di dispiegarsi anche nell’ordinamento giuridicoattuale.

È questo il caso che si verifica nella lotta di classe nellaforma di diritto di sciopero garantito ai lavoratori. L’or-ganizzazione dei lavoratori è oggi accanto agli Stati pra-ticamente l’unico soggetto giuridico cui spetti un dirittoalla violenza. Contro questa concezione è naturalmentepronta l’obiezione che l’omissione dell’azione, il nonagire, come lo sciopero ultimamente è, non dovrebbe es-sere definita violenza. Tale considerazione ha facilitatoal potere statale la concessione del diritto di sciopero,

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quando era ormai inevitabile. Ma, non essendo incondi-zionata, tale concessione non vale illimitatamente. Certo,l’omissione di un’azione, o anche di un servizio, quandoequivalga semplicemente a “rottura di rapporti”, può es-sere un puro mezzo, affatto privo di violenza. E come, se-condo la concezione dello Stato (o del diritto), con ildiritto di sciopero viene riconosciuto alle organizzazionidei lavoratori non tanto un diritto alla violenza, quanto disottrarvisi quando sia indirettamente esercitata dal datoredi lavoro, così di quando in quando può naturalmente ve-rificarsi un caso di sciopero che vi corrisponde e vuolesolo mostrare “distacco” o “estraniamento” dal datore dilavoro. Ma in tale omissione il fattore di violenza inter-viene di necessità, precisamente come ricatto, soloquando si produce all’interno della disponibilità di prin-cipio a riprendere come prima l’esercizio dell’azione so-spesa, a certe condizioni che o non hanno nulla a che farecon essa o la modificano solo esteriormente. In questosenso, secondo la concezione dell’organizzazione dei la-voratori, che si contrappone a quella dello Stato, il dirittodi sciopero configura il diritto a usare la violenza per im-porre certi scopi. La contrapposizione delle due conce-zioni è nettissima nello sciopero generale rivoluzionario.Là l’organizzazione dei lavoratori si richiamerà costan-temente al proprio diritto di sciopero. Lo Stato rispon-derà che tale richiamo è un abuso, perché il diritto allosciopero non va inteso “così”, ed emanerà i propri de-creti speciali. Infatti, lo Stato è libero di dichiarare ille-

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