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LATINO, EBRAICO E VOLGARE ILLUSTRE: LA QUESTIONE DELLA NOBILTÀ DELLA LINGUA NEL DE VULGARI ELOQUENTIA DI DANTE. 1 ALESSANDRO RAFFI Il problema di fondo attorno al quale ruotano le riflessioni del De vulgari eloquentia può essere riassunto nella domanda: in quali condizioni strutturali e a che livello del suo sviluppo storico il volgare d'Italia può assurgere al rango di lingua nobile? L'idea di nobiltà e la realtà del volgare sembrano infatti collidere in una sorta di ossimoro da cui parrebbe non esserci via d'uscita. È dalla molteplicità di implicazioni che sono legate a questa domanda che nasce la complessità del De vulgari eloquentia, un trattato polimorfo e irriducibile alla fisionomia di un determinato genere letterario, un testo di grande respiro speculativo che accoglie le istanze delle discipline più disparate: dalla poetica alla retorica, dalla grammatica alla logica, dalla esegesi esameronale, che fornisce la cornice teorica ai capitoli riguardanti l'origine del linguaggio, alla speculazione metafisica sostenuta dall'Auctoritas del Filosofo. A nostro avviso, per inquadrare correttamente la questione della nobiltà nel De vulgari eloquentia è imprescindibile una lettura approfondita del blocco costituito dai capitoli I- VIII del primo libro, che troppo spesso si 1 Le citazioni presenti nel testo fanno riferimento alle seguenti edizioni critiche: Convivio, in: Dante Alighieri, Opere Minori, tomo I parte II, a cura di C. Vasoli e D. De Robertis, Ricciardi, Milano – Napoli, 1988; De vulgari eloquentia, in: Opere

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LATINO, EBRAICO E VOLGARE ILLUSTRE: LA QUESTIONE DELLA

NOBILTÀ DELLA LINGUA NEL DE VULGARI ELOQUENTIA DI

DANTE.1 ALESSANDRO RAFFI

Il problema di fondo attorno al quale ruotano le riflessioni del De

vulgari eloquentia può essere riassunto nella domanda: in quali

condizioni strutturali e a che livello del suo sviluppo storico il volgare

d'Italia può assurgere al rango di lingua nobile? L'idea di nobiltà e la

realtà del volgare sembrano infatti collidere in una sorta di ossimoro

da cui parrebbe non esserci via d'uscita. È dalla molteplicità di

implicazioni che sono legate a questa domanda che nasce la

complessità del De vulgari eloquentia, un trattato polimorfo e

irriducibile alla fisionomia di un determinato genere letterario, un

testo di grande respiro speculativo che accoglie le istanze delle

discipline più disparate: dalla poetica alla retorica, dalla grammatica

alla logica, dalla esegesi esameronale, che fornisce la cornice teorica

ai capitoli riguardanti l'origine del linguaggio, alla speculazione

metafisica sostenuta dall'Auctoritas del Filosofo. A nostro avviso, per

inquadrare correttamente la questione della nobiltà nel De vulgari

eloquentia è imprescindibile una lettura approfondita del blocco

costituito dai capitoli I- VIII del primo libro, che troppo spesso si

1 Le citazioni presenti nel testo fanno riferimento alle seguenti edizioni critiche: Convivio, in: Dante Alighieri, Opere Minori, tomo I parte II, a cura di C. Vasoli e D. De Robertis, Ricciardi, Milano – Napoli, 1988; De vulgari eloquentia, in: Opere

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tende a considerare coma una introduzione di maniera, spiegabile col

gusto tutto medievale per le origini remote, una sorta di preludio

ornamentale al nocciolo duro del trattato. In realtà, è proprio in questi

primi otto capitoli che Dante forgia, sulla scorta di autorità teologiche

e filosofiche, gli strumenti teorici che impiegherà nelle sue analisi

successive. A partire da una duplice questione: in che cosa consista

l'essenza della lingua; e quale sia l'origine del linguaggio.

Il problema dell'essenza della lingua rinvia alla natura del segno,

costituito da un supporto sensibile, un significante, portatore di un

significato intelligibile. La duplice natura del segno linguistico

dimostra per Dante che nella compagine del cosmo “soli homini

datum fuit ut loqueretur” (De vulgari eloquentia I, iv, 1). Duplice,

infatti, è la natura dell'uomo, animale razionale in quanto sinolo di

materia e forma. È da escludersi, pertanto, l'esistenza di una lingua

degli angeli: dato che lo spirito delle intelligenze celesti non è

nascosto dallo spessore di un corpo mortale, esse non hanno bisogno

di segni sensibili per comunicare i loro pensieri. La comunicazione tra

gli angeli assume l'aspetto di una visione silenziosa da mente a mente,

dove ciascuno si rivela totalmente all'altro perdendosi nella

contemplazione dello Specchio della Sapienza di Dio (De vulgari

eloquentia I, ii, 3 - 4). Per motivi opposti, Dante esclude anche

l'esistenza di un linguaggio degli animali. In questo caso, dato che le

bestie non hanno nulla da comunicare, essendo creature prive di

ragione, i loro versi non possono essere intesi come significanti

Minori, tomo II, a cura di P.V. Mengaldo, Ricciardi, Milano – Napoli, 1979, pp. 3 –

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intenzionalmente mirati alla trasmissione di un contenuto intelligibile.

Soltanto l'uomo, in quanto creatura intermedia tra l'angelo e il bruto, è

un animale linguistico. Lo schema dal quale Dante procede costituisce

un topos dell'antropologia medievale, e ci permette di trarre diversi

corollari. Il regno degli angeli è il trionfo del Silenzio, dell'Ineffabile,

e del Significato puro che si trasmette per un atto di intuizione

intellettuale senza la mediazione di alcun significante sensibile.

Configura l'utopia di una comunicazione trasparente e senza residui

che corrisponde alla concordia assoluta in seno alla Civitas Dei. Il

regno animale è invece il trionfo del "verso", del significante

degradato a materia fonica, a manifestazione immediata dell'istinto

bruto. Tra animali della stessa specie vige una sorta di intesa

prelinguistica basata sulla conoscenza dei diversi actus et passiones

condivisi da ciascun esemplare, mentre tra animali di specie differenti

la presenza del linguaggio oltre che inutile sarebbe stata dannosa, dato

che fra loro sussiste un rapporto di costante inimicizia (De vulgari

eloquentia I, ii, 5). Le diverse specie del regno animale costituiscono

quindi l'esatto opposto della Civitas angelica, il dominio della guerra

di tutti contro tutti e della discordia assoluta. Non è difficile accorgersi

del fatto che quando Dante disegna i due poli estremi della condizione

angelica e della condizione bestiale, stia alludendo ai due possibili

termini asintotici verso i quali tende la città dell'uomo, animale

linguistico in quanto politico e viceversa. La lezione aristotelica è

altrettanto evidente. Questa possibile linea di sviluppo della riflessione

237.

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dantesca verrà esplicitamente alla luce nel momento in cui si tratterà

di esaminare le conseguenze della confusione delle lingue, punizione

divina al tentativo umano di edificare la torre di Babele.

L'essenza della lingua come insieme di segni costituiti da un

significante sensibile che rinvia a un significato ideale, discende

quindi dall'essenza della natura umana. Come l'angelo, e a differenza

dell'animale bruto, l'uomo è dotato di una mente razionale in grado di

enucleare concetti. Come il bruto, e a differenza dell'angelo, l'uomo è

dotato di un corpo materiale, ed è quindi impedito a quella

comunicazione trasparente e silenziosa che caratterizza le intelligenze

celesti. Partendo da questo presupposto, Dante procede a discutere il

problema della struttura originaria della lingua adamitica introducendo

la nozione di forma locutionis. Egli premette, innanzi tutto, che

quando Dio creò l'anima del primo uomo concreò, insieme ad essa,

una determinata forma locutionis. Il legame intrinseco che fa

dell'uomo un "animale significante" diventa ancora più perspicuo: allo

stesso modo per cui l'anima è forma e principio strutturante del corpo,

anche la lingua è costituita da una struttura formale e da un elemento

materiale. Quanto alla nozione di forma, Dante ne dà una definizione

di questo tipo: “Dico autem "formam" et quantum ad rerum vocabula,

et quantum ad vocabulorum constructionem et quantum ad

constructionis prolationem” (De vulgari eloquentia I, vi, 4).

Utilizzando formule ricorrenti nei grammatici medievali, Dante qui

delinea i tre elementi costitutivi della lingua: lessico, sintassi, e

morfologia. Possiamo affermare che la nozione di forma locutionis si

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presta a una duplice possibilità di lettura. In una accezione forte,

Dante la utilizza in riferimento alla lingua originaria parlata da Adamo

e dall'intera umanità fino alla confusione delle lingue. In una

accezione debole, la nozione di forma locutionis individua gli aspetti

strutturali potenzialmente presenti in ogni idioma storico ricreato dalle

convenzioni umane dopo Babele. Forma locutionis in senso forte fu

quindi la struttura della lingua primordiale che Dio stesso concreò

nell'anima di Adamo (De vulgari eloquentia I, vi, 4). Una struttura

perfetta, cristallina, trasparente, in cui il senso delle parole rifletteva il

senso ultimo delle cose. Com'è noto, Dante identifica la lingua

adamitica con l'ebraico, sulla scorta di una tradizione di lunga durata

risalente per lo meno a Sant'Agostino. Forma locutionis degradata, in

quanto ricostruita artificialmente da ogni popolo dopo il disastro della

torre di Babele, è da considerarsi invece la struttura "semantico -

sintattico - morfologica" degli idiomi storici, instabili e soggetti a un

continuo divenire.

A fronte di questo primo versante della ricerca "archeologica",

relativo al problema della struttura originaria della lingua, Dante

affronta la questione dell'origine del linguaggio chiedendosi quale sia

stato l'atto di parola iniziale (il primiloquium) con cui l'uomo ha

cominciato concretamente ad esprimersi. La distinzione tra il concetto

di forma locutionis - la struttura della lingua - e il concetto di actus

locutionis - che Dante introduce per individuare la dimensione del

linguaggio come estrinsecazione concreta degli atti di parola, sembra

preludere alla celebre distinzione tra langue e parole codificata dalla

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linguistica saussuriana. È a questo livello dell'analisi, all'altezza dei

capitoli quarto e quinto del primo libro del De vulgari eloquentia, che

Dante affronta la questione dell'origine del linguaggio, e lo fa

formulando una teoria innovativa, elaborata attraverso un commento

al libro della Genesi che non trova precedenti nella letteratura

esameronale. Il problema viene impostato attraverso il metodo

scolastico della quaestio disputata ed è articolato in sei punti. Occorre

chiarire chi sia stato il primo parlante nella storia dell'umanità, che

cosa disse, a chi dove e quando parlò, e in quale lingua si espresse (De

vulgari eloquentia I, iv, 1). Benché il primo atto linguistico attestato

dalla Genesi sia il dialogo intercorso tra Eva e il serpente tentatore,

Dante sostiene che sia più razionale credere che un così eccellente atto

del genere umano quale dev'essere il primiloquium, sia stato proferito

dall'essere umano plasmato dalla mano di Dio, piuttosto che dalla

donna indotta in tentazione: “Rationabiliter ergo credimus ipsi Ade

prius datum fuisse loqui ab Eo qui statim ipsum plasmaverat” (De

vulgari eloquentia I, iv, 3). In Adamo l'intera specie umana è nata al

linguaggio, prima della cacciata dall'Eden, al di qua della Storia e del

dolore. Non c'è dubbio pertanto che la prima parola proferita da

Adamo, l'evento linguistico che costituisce il nobilissimo actus

locutionis da cui ha tratto origine il linguaggio umano nella

dimensione della parole, sia stato l'esclamazione gioiosa del Nome di

Dio. Allo stesso modo per cui, dopo la cacciata dal paradiso terrestre,

ogni essere umano accede al linguaggio con un grido di dolore (“[…]

post prevaricationem humani generis quilibet exordium sue locutionis

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incipit ab "heu"”; in: De vulgari eloquentia I, iv, 4) è ragionevole

affermare che l'uomo creato in statu innocentiae, iniziasse a parlare

con una esclamazione di gioia. In virtù della logica del contrappasso

se ne deduce che l'origine ontogenetica del linguaggio umano è

l'esatto contrario della sua origine filogenetica. E poiché non vi è gioia

alcuna fuori di Dio, ne consegue che Adamo, ancor prima di proferire

qualsiasi altra parola, iniziò a parlare esclamando El, quel nome

ebraico che la tradizione medievale risalente a San Girolamo

considerava il più originario dei nomi di Dio. La risposta alla

domanda circa l'origine del linguaggio non va cercata nel livello

letterale della Genesi, che non dice nulla di esplicito a proposito di

questa esclamazione primordiale, ma può essere ricostruita

razionalmente a partire dai medesimi presupposti teologici che il testo

sacro ci offre. Se dopo la caduta "nascemmo al pianto", nel dolore

dell'esilio dalla Patria primordiale, prima della caduta Adamo inizia a

parlare nel segno della gioia, rivolgendosi direttamente al Creatore. La

distinzione dantesca tra forma e actus locutionis fornisce gli strumenti

per rispondere al duplice problema affrontato in questo primo blocco

del De vulgari eloquentia: la struttura originaria della lingua è quella

forma locutionis, concreata da Dio nell'anima di Adamo, che si

concretizzò nella lingua ebraica; l'evento primordiale che costituisce

l'origine del linguaggio umano è l'actus locutionis con cui il padre

dell'intera umanità ha esultato esclamando il Nome di Dio.2 A questo

2 Su questo punto Dante non indietreggia nemmeno nella celebre ritrattazione del ventiseiesimo canto del Paradiso, dove lo spirito di Adamo rivela a Dante che la lingua primordiale fu “tutta spenta/innanzi che a l’ovra inconsummabile/ fosse la

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punto, occorrerà adesso verificare in che misura e secondo quali

modalità, le nozioni di forma locutionis e actus locutionis vengano

riutilizzate da Dante per rispondere alla domanda circa la nobiltà del

volgare.

La domanda intorno alla nobiltà di una lingua, assieme alla

individuazione delle condizioni necessarie e sufficienti affinché tale

rango venga riconosciuto a un idioma è un problema a cui il Convivio

e il De vulgari eloquentia sembrano dare soluzioni opposte. In

Convivio I, v, 7 Dante afferma che il latino “è sovrano per nobiltà,

vertù, e bellezza”; in De vulgari eloquentia I, i, 4 egli stabilisce a mo'

di assioma: “Harum quoque duarum, nobilior est vulgaris”. Se nel

trattato italiano, il confronto si configura dualisticamente nei termini

di una tenzone tra latino e volgare del sì, le analisi compiute dal

trattato latino non possono essere lette prescindendo dai risultati

dell’indagine esameronale condotta nei capitoli introduttivi. In questo

caso il problema della nobiltà della lingua, sebbene ancora impostato

come dilemma, implica un confronto a tre. Da una parte il latino,

gente di Nembròt attenta” (Paradiso, canto XXVI, versi 125 - 126). E continua: “Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia/ I s’appellava in terra il sommo bene/ onde vien la letizia che mi fascia;/ e El si chiamò poi: e ciò convene,/ ché l’uso d’i mortali è come fronda/ in ramo, che sen va e altra vene” (Ivi, versi 133 - 138). Caduto il mito della lingua adamitica, perfetta e immutabile, ribadito il concetto della radicale storicità di tutte le lingue in quanto prodotti convenzionali dell'invenzione umana, resta saldo il principio secondo cui la funzione prioritaria del linguaggio consiste nell'invocare il Nome del Padre. Che questo nome, a differenza di quanto sostenuto nel De vulgari eloquentia, stavolta sia individuato nella vocale "I" anziché nel consueto "El", che da San Girolamo in poi tutti i medievali considerano come primum Dei nomen, non cambia nulla di essenziale. Per ulteriori approfondimenti su questo tema specifico mi permetto di rinviare al mio recente volume: A. Raffi, La gloria del volgare. Ontologia e semiotica in Dante dal "Convivio" al "De vulgari eloquentia", Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004.

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lingua veicolare della cultura e lingua ufficiale delle massime

istituzioni medievali, Impero e Chiesa; nobilitato dalla pratica degli

antichi vati che hanno prodotto i loro capolavori in questa lingua

"regolata", il latino si identifica con quella gramatica inventata allo

scopo di ricreare artificialmente, sulla base del comune consenso di

molti popoli, una lingua inalterabile nello spazio e nel tempo. Dante

chiarisce che il latino nasce dalla necessità di ancorare la

comunicazione tra i popoli ad uno strumento veicolare unico, a fronte

del proliferare dei molteplici idiomi, nazionali e locali, subentrati alla

perdita della lingua unica avvenuta dopo Babele. Il secondo termine di

paragone è il volgare illustre, una sorta di terminus ad quem distinto

dalla realtà effettuale delle quattordici parlate correnti, al di qua e al di

là della linea appenninica; nobilitato dall’esperienza poetica dei più

egregi versificatori d’Italia questa lingua ancora in gestazione, che

come una pantera nascosta irradia ovunque il suo profumo, è

comunque destinata ad assumere un'importanza sempre maggiore

rispetto al suo ruolo subalterno di mera "lingua d’amore". Il terzo

termine di paragone, che sembra rimanere sullo sfondo, è infine

l’ebraico, la lingua sacra parlata da Adamo nell’Eden, costruita su una

forma locutionis che fu Dio stesso a concreare nell’anima del primo

uomo. È ovvio che nessuno potrà mai mettere in discussione i titoli di

nobiltà della lingua adamitica: anzi, le caratteristiche peculiari di

quest’ultima ci possono fornire un paradigma e quindi dei criteri utili

proprio per dirimere la controversia tra latino e volgare. All’approccio

esclusivamente dilemmatico del primo libro del Convivio, dovuto al

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fatto che in questo caso Dante si sente chiamato a elaborare una

excusatio tesa a giustificare la scelta sovversiva del "pane di biado"

del volgare, al posto del "pane di frumento" del latino, subentra, nel

De vulgari eloquentia, un processo di ulteriore approfondimento:

sollecitato da nuove istanze speculative, il trattato latino espande lo

spazio della discussione premettendo al confronto tra latino e volgare

una trattazione sul tema della lingua originaria; e inoltre, la questione

della lingua letteraria pone altresì il problema di distinguere tra il

volgare alto e "nazionale" (definito attraverso la celebre tetrade:

illustre, curiale, cardinale e aulico) e la molteplicità dei volgari

particolari, che nella loro rudezza rimandano al localismo delle

singole parlate d'Italia.

Il ruolo che Dante assegna all'ebraico, nel tracciare i lineamenti di

una storia linguistica del genere umano, è conforme a un topos

largamente condiviso dalle Auctoritates. Che l’ebraico si identifichi

con la lingua primigenia parlata nell’Eden è stabilito da Sant'Agostino

nel sedicesimo libro del De civitate Dei, dove si legge che la lingua un

tempo condivisa dall’umanità intera prese poi il nome dalla tribù di

Eber, in seguito alla confusio linguarum con cui Dio punì l’arroganza

di quanti osarono edificare la torre di Babele. Tuttavia, mentre la

trattazione di Agostino descrive soltanto la sequenza dei fatti accaduti,

circoscrivendo il quid degli eventi della storia sacra, Dante si sforza di

introdurre una doppia eziologia adducendo una causa efficiente e una

causa finale onde spiegare la filiazione dell’ebraico dalla lingua

adamitica. In primo luogo, egli afferma che gli Ebrei non furono

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puniti in quanto deprecarono l’infame progetto babelico e si astennero

dal partecipare all’edificazione della torre. Per questi motivi il popolo

eletto si meritò un ulteriore beneficio dalla grazia divina, diventando

l’unico erede della lingua primordiale:

Quibus autem sacratum ydioma remansit nec aderant nec

exercitium commendabant, sed graviter detestantes stoliditatem

operantium deridebant. Sed hec minima pars, quantum ad numerum,

fuit de semine Sem, sicut conicio, qui fuit tertius filius Noe: de qua

quidem ortus est populus Israel, qui antiquissima locutione sunt usi

usque ad suam dispersionem (De vulgari eloquentia I, vii, 8).

Il primo blasone dell'ebraico consegue dall’identità tra l’idioma del

popolo di Israele e la lingua di Adamo, almeno fino al tempo della

diaspora. Il secondo blasone lo si evince da una lettura soteriologica

degli eventi della storia sacra: la medesima lingua in cui si era

espresso il primo uomo, creato in statu innocentiae per dimorare

accanto al Padre, sarebbe sopravvissuta alla confusione babelica in

conformità al piano della Provvidenza, onde conservarsi integra fino

all’incarnazione di Cristo. Il fulgore della lingua di Adamo si sarebbe

dispiegato nella parola del Figlio, come vangelo di salvezza per tutta

l’umanità:

Hac forma locutionis locutus est Adam; hac forma locutionis

locuti sunt omnes posteri eius usque ad edificationem turris Babel,

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que “turris confusionis” interpretatur; hanc formam locutionis

hereditati sunt filii Heber, qui ab eo dicti sunt Hebrei. Hiis solis post

confusionem remansit, ut Redemptor noster, qui ex illis oriturus erat

secundum humanitatem, non lingua confusionis, sed gratie frueretur.

Fuit ergo hebraicum ydioma illud quod primi loquentis labia

fabricarunt. (De vulgari eloquentia I, vi, 5 – 7)

Da questa ricostruzione, conforme alla strategia esegetica del

trattato latino, nel suo costante riproporsi in veste di commento alla

Genesi, si ricavano i titoli di nobiltà che sono appannaggio esclusivo

dell’ebraico, titoli non condivisi da nessun volgare. Innanzitutto

l’ebraico è l'unica lingua in cui rifulge la forma locutionis deposta da

Dio nell’anima del padre del genere umano. La forma locutionis della

lingua adamitica corrisponde a un modello di perfezione

"grammaticale" sconosciuto all’umanità posteriore, destinata a vivere

nell’oscurità della condizione postlapsaria e a parlare il caos della

confusione babelica. Ulteriore corollario, di non poco momento

quando si tratterà di confrontare latino e volgare, è il fatto che

l’ebraico si configura come una lingua pressoché immutabile, una

sorta di lingua perenne immune dal divenire. Ecco allora che il

secondo blasone di nobiltà discende dal medesimo rapporto "figurale"

esistente tra Adamo e Cristo, un tema centrale delle epistole di San

Paolo che Dante introduce per spiegare in termini provvidenzialistici

le ragioni per cui la lingua originaria si mantenne intatta presso i

discendenti di Eber. La curvatura cristologica che il problema della

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lingua adamitica assume in questo particolare segmento della

riflessione dantesca, riecheggia nuovamente i termini della

meditazione agostiniana. L’umanità muore in Adamo e risorge in

Cristo: se tramite Adamo, formato dalla terra, la morte fece ingresso

nel mondo, Cristo, alter Adam "plasmato dal cielo" ha trionfato sulla

morte ed è fonte di vita eterna.3 Per la logica del contrappasso, il

Vangelo di vita e salvezza doveva essere annunciato nella stessa

lingua in cui la morte, con le parole del serpente tentatore, aveva fatto

ingresso nel mondo. Dante procede incastonando lo stesso tema topico

della letteratura esameronale in una doppia eziologia elaborata ante

rem e post festum: l’ebraico è la protolingua ereditata dal popolo di

Israele, l’unico ad aver condannato l’impresa della torre di Babele e

ad essersi astenuto dal parteciparvi; l’ebraico è la lingua in cui sarà

annunciato il Vangelo di Cristo, essendo inconcepibile che il Figlio di

Dio, nato dalla stirpe di Davide secondo la sua umanità, annunciasse

la salvezza in una lingua di perdizione erede della confusione

babelica. La doppia eziologia, pertanto, contribuisce a rafforzare

l’idea secondo cui l’ebraico è l’unica lingua di grazia, l’unico idioma

sacro dell’umanità, là dove per la tradizione medievale le lingue sacre

sono le tre che compaiono sulla Croce: ebraico, appunto, ma anche

greco e latino.4 A questi primi due blasoni di nobiltà, che Dante

3 Prima Lettera ai Corinzi 15, 21 – 22. Il tema di Cristo come alter Adam è elaborato da Sant'Agostino nell’undicesimo libro del De civitate Dei. 4 “Tres sunt autem linguae sacrae: Hebreaea, Graeca, Latina, quae toto orbe maxime excellunt. His enim tribus linguis super crucem Domini a Pilato fuit causa eius scripta. Unde et propter obscuritatem sanctarum scripturarum harum trium linguarum cognitio necessaria est, ut ad alteram recurratur, dum siquam dubitationem nominis vel interpretationis sermo unius linguae adtulerit” (Isidoro di

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rielabora sulla base delle tradizioni esegetiche confluite nella

letteratura esameronale cristiana, se ne aggiunge un terzo, stavolta

frutto di una lettura innovativa della Genesi orientata su concezioni

ampiamente diffuse nella mistica ebraica: la lingua di Adamo è l’unica

che ha avuto inizio dalla invocazione gioiosa del Nome di Dio.5

Attraverso questo nobilissimo atto linguistico è l’umanità intera, nella

sua forma originaria di perfetta icona del Padre, che nasce alla

dimensione della parola. Adamo è terra che risponde gaudiosamente

glorificando il nome del Padre da cui ha ricevuto la luce. Adamo è

l’uomo che non è mai stato fanciullo, a cui è ignoto il balbettio

dell’infante che apprende la lingua materna imitando la nutrice. La

prossimità tra Dio e uomo che contraddistingue la condizione di

Adamo prima del peccato si riflette immediatamente nella nobiltà

dell'actus locutionis con cui la creatura comunica con il Creatore. La

risposta di Adamo all’appello del Padre che lo ha chiamato all’essere

come specie intermedia tra l’angelo e l’animale, determina l’explicatio

tantae dotis a ringraziamento per i doni ricevuti: la vita, la coscienza,

la parola e il corpo. In questo caso, le due dimensioni della langue e

della parole sono strettamente collegate: la nobiltà della lingua

edenica non deriva solo dal fatto di incarnare compiutamente la forma

locutionis concreata da Dio, ma anche dall’eccellenza del

Siviglia, Etymologiae IX, 1, 3). L’equiparazione delle tre lingue sacre, presenti sulla croce di Cristo, è tratta, come noto, dal Vangelo di Luca (Luca, 23, 38). 5 Per ulteriori chiarimenti sul possibile rapporto tra la mistica ebraica e la concezione dantesca del nome di Dio come origine del linguaggio, cfr. A. Raffi, La gloria del volgare. Ontologia e semiotica in Dante dal "Convivio" al "De vulgari eloquentia", cit., pp. 129 – 160.

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primiloquium, purissimo movimento di ritorno all'Origine con cui

Adamo accede alla dimensione del linguaggio. Se la divina solidità

della forma garantisce all’ebraico una stabilità ignota ai volgari

posteriori a Babele, la risplendente luce dell’actus originario ne fa la

più nobile lingua che sia mai esistita, la lingua del colloquio faccia a

faccia tra la creatura e il Creatore.

La cacciata dall’Eden, il diluvio universale, e la confusione delle

lingue sono le tre grandi vergogne dell’umanità, che Dante, nel

capitolo VII della prima parte del De vulgari eloquentia, raccoglie

sotto il segno di un tragico cammino di perdizione destinato a oscurare

sempre di più lo specchio luminoso della lingua primordiale. Le tre

vergogne di cui si è macchiata l’umanità sono l’emblema di un

progressivo allontanamento dal Padre: l’uomo resta pur sempre

l’essere fatto a immagine di Dio, ma nella dissomiglianza crescente,

nella selva selvaggia di una regio dissimilitudinis sempre più cupa.

Quanto più si distorce l’immagine del Padre impressa nell’anima

dell’uomo, tanto più deforme diviene il linguaggio: la purezza

dell’originaria forma locutionis è ormai compromessa, e

all'esclamazione di giubilo con cui Adamo inizia a parlare "nel nome

del Padre" subentra il vagito di dolore con cui l'infante rievoca

inconsciamente il peccato originale. All’unica lingua sacra, assicurata

dalla prossimità e dal colloquio tra Dio e Adamo, subentrano le

molteplici lingue profane della confusione, proprie di una umanità

ormai ridotta a massa dannata. Del resto, nemmeno l’antichissima

lingua originaria custodita dagli Ebrei dopo Babele può essere

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considerata eterna: nella conclusione del VII capitolo, Dante precisa

che il sacratum ydioma in cui parlarono Adamo e Cristo si mantenne

presso il popolo di Israele fino alla diaspora: “populus Israel, qui

antiquissima locutione sunt usi usque ad suam dispersionem […]” (De

vulgari eloquentia I, vii, 8). In questo modo, la storia linguistica del

genere umano appare divisibile in due sequenze simmetriche: tutte le

nazioni del mondo parlarono un solo idioma “usque ad edificationem

turris Babel” (Ivi I, vi, 5); il popolo ebraico conservò il retaggio della

lingua adamitica “usque ad suam dispersionem” (Ivi, I, vii, 8).

L’epoca compresa tra i due termini ad quem, la confusione delle

lingue e la diaspora di Israele, delimita lo spazio di sopravvivenza

della lingua adamitica presso gli Ebrei: quest’ultima può essere

considerata plurimillenaria, ma non eterna. La tragica storia del genere

umano viene sussunta sotto il segno di una incurabile coazione a

ripetere il peccato, peculiarità della creatura che in principio era stata

fatta per dimorare accanto al Padre, tra lo splendore delle coorti

angeliche e le schiere degli animali soggetti al suo dominio. La storia

acquisisce un significato unitario a partire dal progressivo

oscuramento della luce irradiata dal volgare adamitico: di questa

tragedia della fragilità umana, Babele e la diaspora sono i momenti

conclusivi. La crescente aversio a Deo, per dirla in termini

agostiniani, definisce il vettore principale della storia secondo un

duplice oscuramento, che intacca innanzi tutto l’immagine di Dio

nell’uomo, e in secondo luogo la forma locutionis concreata in

Adamo. Lo spalancarsi di una distanza crescente tra Dio e l’uomo,

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lungo il percorso che inizia dal peccato originale e culmina con

Babele, determina infatti un insieme di mutazioni antropologiche la

cui importanza non ci può sfuggire se rammentiamo la collocazione

dell’uomo come essere intermedio tra l’angelo e l’animale bruto,

termini asintotici che delimitano lo spazio esistenziale dell’unica

creatura che per Dante ha il potere di esprimersi attraverso segni.

L’angelo individua l’utopia di una comunicazione assoluta e

immediata tra esseri razionali privi di corpo, l’utopia di un significato

che si trasmette da mente a mente senza essere veicolato da un

significante sensibile. Il bruto costituisce la distopia di un significante

ridotto a "verso", inerte materia fonica che non trasmette alcun senso

intelligibile. Alla Civitas delle coorti angeliche, in cui le singole

creature razionali sono reciprocamente trasparenti e riescono a leggere

i loro pensieri nello Specchio del Verbo Divino, fa riscontro la

molteplicità delle specie animali chiuse le une alle altre da limiti che

la natura ha reso insormontabili. Leggendo la storia delle vergogne

umane alla luce di questo schema, ci accorgiamo che l’esistenza di un

unico idioma prima della confusione garantiva agli animali razionali

una situazione di reciproca trasparenza comunicativa simile a quella

delle intelligenze separate. Non si può negare infatti che l’umanità

prebabelica, parlando un solo idioma dotato della medesima forma, ci

appare più prossima agli angeli che ai bruti. D’altro canto, con la

rottura dell’unità linguistica originaria e il subentrare di una sempre

maggiore differenziazione tra gli idiomi, l’asse della medietas umana

sembra spostarsi progressivamente verso quella condizione di

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incomunicabilità reciproca che caratterizza le diverse specie animali.

L’importanza che Dante conferisce all’episodio della torre di Babele

dipende tutta dagli effetti di abbrutimento semiotico arrecati dalla

perdita dell’idioma edenico: nel momento in cui si accresce la distanza

tra Dio e uomo si incrementano, in misura corrispondente, la divisione

e l'incomprensione tra i membri del genere umano. Babele rappresenta

la più incresciosa delle tre vergogne in cui l’umanità è precipitata,

perché l’inaudito peccato di superbia che ha ispirato l’edificazione

della torre ha determinato la degradazione dell’uomo verso la

bestialità.

Vi è un altro aspetto della riflessione su Babele, che ci dimostra

quale forte valenza orientativa abbia nel pensiero dantesco lo schema

tripartito che colloca il linguaggio umano, e quindi anche la città

dell'uomo, in una sorta di oscillazione continua fra l'asintoto della

Gerusalemme celeste e l'asintoto dello "stato di natura" bestiale.

Infatti, tra la condizione propria dell'animale bruto e quella che

connota l’umanità postbabelica sussiste uno stretto isomorfismo.

Dante aveva affermato che gli animali appartenenti alla stessa specie

possono conoscersi reciprocamente in base ad atti e passioni propri,

mentre tra esemplari di specie diverse non esiste alcun mezzo di

espressione comune, dato che tra loro non si dà alcun rapporto di

negoziazione amichevole. Ora, l’effetto della confusione babelica fu la

nascita di tante comunità linguistiche, quante erano le categorie di

lavoratori che nel cantiere di Babele collaboravano alla stessa opera.

Tante erano le corporazioni dei lavoratori, tante sarebbero state le

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lingue posteriori alla punizione divina. La comunicazione trasparente

e quasi angelica assicurata dall’impiego di una sola lingua, fondata

sulla forma locutionis che Dio aveva concreato nell'anima di Adamo,

svanì per effetto di un repentino proliferare dei segni: all'originaria

corrispondenza biunivoca tra significanti e significati, sopraggiunse

una folla di significanti diversi per il medesimo significato. L’identità

linguistica che prima era patrimonio comune dell’intera umanità si

restrinse a gruppi omogenei di lavoratori:

Siquidem pene totum humanum genus ad opus iniquitatis coierat:

pars imperabant, pars architectabantur, pars muros moliebantur, […]

partesque diverse diversis aliis operibus indulgebant; cum celitus

tanta confusione percussi sunt ut, qui omnes una eademque loquela

deserviebant ad opus, ab opere multis diversificatis loquelis

desinerent et numquam ad idem commertium convenirent. Solis

etenim in uno convenientibus actu eadem loquela remansit […].

Quot quot autem exercitii varietates tendebant ad opus, tot tot

ydiomatibus tunc genus humanum disgiungitur; et quanto

excellentius exercebant, tanto rudius nunc barbariusque locuntur. (De

vulgari eloquentia I, vii, 6 – 7)

Rileggendo il mito biblico della torre di Babele, Dante traccia un

quadro storico - antropologico di sorprendente potenza. La divisione

del lavoro produce all’interno dell’umana semenza divisioni analoghe

a quelle che la natura determina tra le specie del regno animale. Se la

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differenziazione degli animali in specie va ascritta all’ordinamento

metastorico della natura, la distinzione all’interno del genere umano è

una risultante dei processi storici connessi allo sviluppo della

divisione sociale del lavoro: questi ultimi introducono in seno

all’umanità gli stessi effetti di separazione, frammentazione,

incomunicabilità, chiusura – in definitiva, di abbrutimento – che la

"naturale" divisione in specie produce nel mondo animale. Le singole

corporazioni di lavoratori dotati di un identico idioma si pongono in

analogia con le specie animali: dietro la vergogna della confusione

babelica traspare evidente la critica dantesca a Firenze, e più in

generale alla società comunale del suo tempo, divisa in fazioni che si

combattono proprio perché prive di valori e "linguaggi" condivisi. Gli

effetti bestiali della confusione babelica riaffiorano nelle discordie

della società comunale, sempre sull'orlo della guerra civile, in una

condizione di guerra permanente di tutti contro tutti. Il nesso tra storia

linguistica e prospettiva etico - politica permette a Dante di

tratteggiare i lineamenti di una storia universale dell'umanità: se per

un istante guardiamo all'insieme dell'opera dantesca abbracciando con

un solo sguardo d’insieme il tragitto che va dal De vulgari eloquentia

alla Commedia, potremmo affermare che lo spazio della barbarie

linguistica è compreso tra due estremi. Da una parte, la più nobile

delle lingue rimase l’idioma sacro di Adamo e di Cristo, retaggio dei

discendenti di Eber che si astennero dal partecipare all’impresa di

Babele; al polo opposto si colloca l’idioma del gigante Nembrot,

titanico ispiratore della scalata al cielo, che nel trentunesimo canto

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dell’Inferno verrà condannato al più completo isolamento: come una

sorta di barbarico dio del rumore, Nembrot si esprime in una lingua

che soltanto lui è in grado di intendere e parlare.6 Nell’economia

complessiva del De vulgari eloquentia la caduta della torre di Babele

segna l’inizio della storia linguistica del genere umano. I popoli del

mondo, una volta privati dell’idioma sacro che li aveva resi un’unica

comunità linguistica internazionale, simile in questo alla Civitas

angelica, furono gettati nella regio dissimilitudinis delle parlate

volgari, instabili e soggette al divenire come tutto ciò che appartiene

alla dimensione secolare. All'evento da cui sortì la perdita della lingua

originaria si sommano cause di ordine antropologico rinvianti alla

strutturale "instabilità" propria dell'animale umano:

Dicimus ergo quod nullus effectus superat suam causam, in

quantum effectus est, quia nil potest efficere quod non est. Cum

igitur omnis nostra loquela – preter illam homini primo concreatam a

Deo – sit a nostro beneplacito reparata post confusionem illam que

nil aliud fuit quam prioris oblivio, et homo sit instabilissimus atque

variabilissimum animal, nec durabilis nec continua esse potest, sed

sicut alia que nostra sunt, puta mores et habitus, per locorum

6 Inferno, XXXI, versi 77 – 81: “questi è Nembrotto per lo cui mal coto/ pur un linguaggio nel mondo non s’usa./ lasciànlo stare e non parliamo a vòto;/ ché così è a lui ciascun linguaggio/ come’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto”. Per una ricostruzione storica della leggenda medievale di Nembroth, gigante, astronomo, e architetto della Torre di Babele cfr. P. Dronke, Dante e le tradizioni latine medievali, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 65 – 96.

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temporumque distantias variari oportet. (De vulgari eloquentia I, ix,

6)

Obliata l’antica forma locutionis che Dio aveva donato ad Adamo,

gli uomini dovettero ricostruire ad placitum i loro strumenti di

comunicazione verbale. E siccome la potenza dell’effetto non supera

mai quella della causa, le lingue inventate dagli uomini risentono della

mutabilità che contraddistingue le convenzioni umane, destinate a

differenziarsi nello spazio e nel tempo come ogni costume o abitudine.

Dopo Babele l’uomo diventa l’animale simbolico abitato da una

pluralità di logoi differenti e irriducibili all’unità di una stessa, divina,

immutabile forma locutionis. Il paradiso della lingua originaria è

perduto per sempre: lo specchio primordiale si è spezzato in mille

frammenti, e il divenire ha fatto il suo ingresso anche nel mondo dei

segni. Ormai si è realizzato il definitivo trionfo dell’opacità del

significante sulla claritas del significato.

Dopo aver stabilito che la perdita dell’idioma sacro è un evento

irreversibile, conseguenza di una mutazione antropologica che ha

l’effetto di spingere l’uomo verso la dimensione dell’animale bruto,

distanziandolo in misura corrispondente dalla condizione angelica, si

presenta un problema ulteriore. Si tratta di un momento decisivo per

comprendere in che modo l’utopia della lingua originaria costituisca

per Dante un punto di riferimento fondamentale per dirimere la

controversia sulla maggiore nobiltà del latino o del volgare. Come è

possibile qui ed ora, recuperare almeno una scintilla di quella lingua di

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luce parlata dall’umanità prebabelica? Quale idioma potrà ripristinare

al meglio la condizione anteriore alla confusione delle lingue? Quale

evento "pentecostale" permetterà al genere umano di riavvicinarsi alla

dimensione angelica superando le barriere di spazio e di tempo che

dividono i popoli e le generazioni? La nozione di "lingua regolata" che

la retorica medievale consegna a Dante permette di individuare nel

latino e nel volgare illustre, entrambi nobilitati dalla pratica poetica, le

due sole strade praticabili per ricomporre la perduta universalità

linguistica del genere umano. Il latino, innanzitutto:

Hinc moti sunt inventores gramatice facultatis: que quidem

gramatica nichil aliud est quam quedam inalterabilis locutionis

ydemptitas diversis temporibus atque locis. Hec cum de comuni

consensu multarum gentium fuerit regulata, nulli singulari arbitrio

videtur obnoxia, et per consequens nec variabilis esse potest. (De

vulgari eloquentia I, ix, 11)

Il latino è la lingua veicolare che grazie ad una nomenclatura

stabilita ad placitum sulla base del consensus multarum gentium,

ristabilisce il rapporto biunivoco tra significante e significato,

condizione imprescindibile affinché si realizzi la comunicazione. In

questo caso, l’universalità dei parlanti viene ripristinata in base ad una

convenzione: istituendo una lingua severamente codificata e quindi al

riparo dall’arbitrio dei singoli parlanti, i grammatici offrono all’intera

umanità uno strumento per ripristinare la condizione anteriore alla

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confusione babelica. L’ydemptitas locutionis menzionata nel passo

citato è il surrogato dell’originaria forma locutionis propria della

lingua adamitica: se quest’ultima fu creata direttamente da Dio e

infusa nell’anima di Adamo, l’ydemptitas locutionis è una invenzione

umana, un prodotto dell’arte anziché della natura. Lo scarto esistente

tra l’ydemptitas locutionis e la forma primordiale è ciò che misura la

distanza tra l’umano e il divino, la copia e l’archetipo, il surrogato

consolatorio e il paradigma perduto. Il primo è un miserabile rimedio

del "frattempo" in cui camminiamo come viatores in attesa del

compimento dei tempi, il secondo è l’ineffabile dono che il Padre

consegnò ad Adamo nel sesto giorno della creazione, a suggello del

suo Disegno. Grazie all’adozione di una semantica univoca e di una

sintassi rigorosamente codificata la lingua latina è dotata di un elevato

grado di stabilità che rimane precluso ai volgari correnti eredi della

confusione babelica. La stabilità che caratterizza la gramatica è

appunto ciò che permette anche alla cultura di diffondersi superando

le distanze di tempo e di luogo. Proprio in virtù delle sue pecularità il

latino è in grado di fondare lo spazio della tradizione e della

comunicazione internazionale, diventando la lingua dell’Impero e

della Chiesa. Da questo punto di vista, il latino viene celebrato in

quanto si prospetta come una sorta di novello ebraico, essendo l’unica

lingua transnazionale e plurisecolare di cui possiamo avvalerci dopo

Babele. Dal "lavoro del lutto" per la perdita dell’idioma adamitico,

nasce una sorta di "lingua di copertura" che ci avvicina nuovamente

alla condizione degli angeli, a quell’aperta trasparenza del comunicare

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appannaggio delle intelligenze separate. La riflessione sul latino è

inscindibile dai presupposti teologici fissati nei paragrafi iniziali del

De vulgari eloquentia: l’utopia della comunicazione incorporea da

mente a mente fornisce al tempo stesso un limite asintotico e un

canone di interpretazione storica alla riflessione dantesca sulle lingue

postbabeliche. Tuttavia, il tentativo di ricostruire a posteriori l’identità

linguistica del genere umano attraverso l’istituzionalizzazione del

latino è una strategia che mostra fin da subito molti limiti. Un sistema

di segni istituito ad placitum con il consenso della comunità

internazionale rimane un mero surrogato consolatorio. Se è vero che

l’universalità della gramatica garantisce una comunicazione in grado

di azzerare barriere localistiche e distanze temporali, di fondare una

tradizione univoca per la Cristianità europea, e di rendere possibili gli

scambi tra gli intellettuali delle tre religioni monoteistiche, ciò non

toglie che essa rimanga prigioniera della divisione del lavoro, perché

il latino è appannaggio esclusivo dei dotti. La lingua dei clerici e

degli antichi vati permette di abbattere le barriere di tempo e di spazio

soltanto a una parte molto esigua dell’umanità: le classi emergenti di

cui Dante tesse le lodi soprattutto nel Convivio, i nuovi destinatari

della cultura filosofica e teologica, sono inesorabilmente esclusi da

ogni banchetto ammannito col pane di frumento del latino. L’adozione

della gramatica si mantiene ancora all’interno dell’orizzonte

postbabelico in quanto non solo non abbatte le barriere create dalla

divisione del lavoro, ma le rafforza, riproponendole nella forma della

separazione tra clerici e laici, dove questi ultimi tendono a restare

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esclusi dalla circolazione della cultura. In quanto lingua veicolare, la

gramatica può permetterci di ripristinare l’originaria unità prebabelica

delle genti abbattendo le barriere linguistiche tra le nazioni, ma al

prezzo di rendere ancora più rigida la separazione tra chi ha accesso ai

canali della cultura e chi ne è escluso. Sotto questo punto di vista il

latino si configura addirittura come una lingua babelica in più, che va

ad aggiungersi ai volgari restando il mezzo linguistico di cui si avvale

soltanto una parte ristretta dell’umanità. La scelta della gramatica non

fa che consolidare la "bestiale" separazione tra chi è dentro è chi è

fuori dai circuiti istituzionali del sapere. La comunità internazionale

dei dotti che si intendono con questo strumento veicolare è ben poca

cosa rispetto alla comunità dei nobili illitterati ai quali Dante si

rivolge nell’imbandire il suo convivio filosofico. L’esaltazione del

volgare e la sua adozione come strumento di diffusione del sapere

corrispondono all’esigenza di una lingua che abbatta le barriere

prodotte dalla divisione del lavoro. Su questo punto il Convivio è

esplicito fino all’irriverenza: gli uomini di lettere che scrivono

esclusivamente in latino molto spesso non sono altro che ignobili

lenoni. E a chi volesse far valere la superiorità del latino appellandosi

al fatto che quest’ultimo sarebbe servito ai molti “litterati fuori di

lingua italica” Dante risponde: “lo latino averebbe a pochi dato suo

beneficio, ma lo volgare servirà veramente a molti” (Convivio I, ix,

4). Tutto il paragrafo ix del primo libro ruota attorno alla

contrapposizione tra i “principi, baroni, cavalieri, e molt’altra nobile

gente, non solamente maschi, ma femmine”, caratterizzati da autentica

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bontà d’animo, e quegli uomini di lettere “che non acquistano la

lettera per lo suo uso, ma in quanto per quella guadagnano denari o

dignitate” (Ibidem). Se il latino risponde all’esigenza di assicurare il

più ampio grado possibile di universalità in direzione

dell’internazionalizzazione del sapere, la preferenza accordata al

volgare come mezzo di trasmissione della cultura è l’esito di una

scelta etica e politica di segno diametralmente opposto: Dante

smaschera la falsa universalità del latino in quanto funzionale al

mantenimento dei privilegi culturali dei litterati, e si schiera a favore

del volgare perché quest’ultimo incarna una diversa concezione

dell’universalità del sapere, interclassista, "popolare" nel senso

trecentesco del termine, e dunque trasversale a quelle barriere sociali

prodotte dalla divisione del lavoro intellettuale. Dopo la perdita della

lingua adamitica subentrata alla confusione babelica, l’universalità

linguistico – culturale del genere umano può essere ristabilita soltanto

attraverso due opposte strategie. Chi sceglie il latino, gramatica e

pane di frumento per i litterati, decide a favore di una circolazione

orizzontale della cultura e per l’internazionalità del sapere, incurante

dell’esclusione sociale che essa comporta, se non addirittura

favorevole a una conseguenza di questo tipo; chi sceglie il volgare,

lingua del popolo e pane di biado per i nobili illitterati decide a favore

di una circolazione verticale della cultura, che abbatta la divisione tra i

professionisti del sapere e i profani, ben sapendo che tale scelta può

costituire un ostacolo alla diffusione internazionale delle conoscenze.

Il latino e il volgare non possono cancellare gli effetti della tragedia di

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Babele, e ci mettono di fronte a un aut aut: o una lingua veicolare,

internazionale, ma specialistica; o una lingua di popolo, ma

circoscritta all'ambito di una sola nazione. L’unità originaria del

genere umano, assicurata da una lingua che era, ad un tempo,

internazionale e interclassista, non è più proponibile dopo Babele. Il

Convivio e il De vulgari eloquentia concordano entrambi nella

supremazia etico – politica del volgare – ché di questo, in definitiva si

tratta, e non certo di una mera questione di stile – con l’unica

differenza che il primo traduce in pratica sperimentale di scrittura ciò

che il secondo fonda e teorizza. È il caso di dire che per Dante il latino

è davvero una lingua morta: una lingua morta sul nascere proprio per

il suo carattere specialistico, ad onta di quella inalterabilità che

sembrerebbe privilegiarla nei confronti della pulsante storicità delle

lingue volgari. Se nell’analizzare gli effetti della confusio linguarum

abbiamo accostato, i brani del Convivio a quelli del trattato latino, lo

abbiamo fatto nell'intento di dimostrare che la riflessione dantesca sul

volgare presenta una coerenza di fondo inoppugnabile, anche in

merito alla vexata quaestio su quale delle due lingue sia la più nobile.

A questo punto siamo in grado di chiarire meglio in che senso il

dilemma latino aut volgare sottenda una riflessione tripartita che in

Dante nasce dall’assumere l’ebraico come modello di assoluta

perfezione linguistica. La confusione babelica costituisce la tragedia

che ha dato inizio alla storia degli idiomi umani. Obliata la forma

locutionis che avrebbe assicurato alla lingua originaria un carattere

imperituro, l’umanità fu costretta a trovare dei rimedi onde riparare

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agli effetti della dispersione. Il mondo della cultura ritrovò la sua

universalità sovranazionale attraverso l’istituzione del latino. Nobile

in un senso aristotelico, in quanto sottratto all’alterna vicenda di

generazione e corruzione che affligge gli enti del mondo sublunare, la

base grammaticale del latino fu assicurata da una ydemptitas

locutionis in grado di surrogare l’originaria forma donata da Dio. Se

confrontato con l’ebraico, il latino condivide due blasoni di nobiltà: la

stabilità nel tempo, e il carattere sacrale, in quanto lingua della Chiesa.

E tuttavia, la gramatica rimane un espediente consolatorio rispetto

all’unità linguistica che l'ebraico garantiva all'intero genere umano. Il

latino ha un carattere ecumenico, piuttosto che universale. È una

lingua che non ripara agli effetti della divisione del lavoro, ma anzi li

ripropone nella forma di una separazione del mondo della cultura da

quella società civile emergente alla quale è invece indirizzata l’opera

dantesca, nella convinzione che il vero segno della nobiltà sia il

desiderio di sapere proprio di ogni singolo individuo. È a questo punto

che si profila la seconda possibile via di uscita dalla dispersione

babelica, la via offerta dal volgare come canale e strumento finalizzato

all’edificazione di una cultura nazionale e popolare al tempo stesso.

L’unità dell’idioma d’Italia, superiore al localismo delle singole

parlate, si afferma innanzitutto nelle opere dei più egregi versificatori

del tempo, che attraverso il nodo poetico hanno conferito anche a

questa lingua una bellezza e una regolarità insospettate. A tal punto

che nel confronto tra lingua d’oc, lingua d’oil, e lingua del sì, Dante

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attribuisce a quest’ultima un primato proprio in considerazione delle

prove che essa ha dato di sé nel poetare dulcius subtiliusque:

Tertia quoque, <que> Latinorum est, se duobus privilegiis

actestatur praeesse: primo quidem quod qui dulcius subtilisque

poetati vulgariter sunt, hii familiares et domestici sui sunt, puta

Cynus Pistoriensis et amicus eius; secundo quia magis videntur initi

gramatice que comunis est, quod rationabiliter inspicientibus videtur

gravissimum argumentum. (De vulgari eloquentia I, x, 2) 7

Nobile nel senso della metafisica neoplatonica, in quanto lingua

atta a diffondere i benefici del sapere alla maniera del Sole

intelligibile, il volgare illustre viene esplicitamente paragonato a Dio:

[…] inter que nunc potest illud discerni vulgare quod superius

venebamur, quod in qualibet redolet civitate nec cubat in ulla. Potest

tamen magis in una quam in alia redolere, sicut simplicissima

substantiarum, que Deus est, in homine magis redolet quam in bruto,

in animali quam in planta, in hac quam in minera, in hac quam in

7 Ricordiamo che secondo l’intepretazione di Maria Corti, nel passo citato “Dante non vuol dire che il volgare del sì si modella di più sul latino; vuol dire altro. Il volgare del sì si modella, in quanto lingua poetica, di più sulla gramatica que comunis est, cioè sulla grammatica come scientia comunis di cui parlano i filosofi del linguaggio, gli speculativi, il che rationabiliter inspicientibus ("a quelli che riflettono razionalmente, che pensano filosoficamente") videtur gravissimum argumentum ("appare argomento gravissimo, di grandissimo peso")”. (M. Corti, Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante, Torino, Einaudi, 1993, p. 103).

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elemento, in igne quam in terra; […] (De vulgari eloquentia I, xvi, 4

– 5).

La divinità del volgare deriva dalla sua essenza semplicissima e

"solare", illustre nella accezione ontologica del termine: da qui il suo

valore normativo rispetto ad ogni altra realtà linguistica locale. La

ricerca induttiva operata attraverso la rassegna delle quattordici parlate

d'Italia assume quasi l’aspetto di un mistico itinerarium in Deum, un

movimento anagogico che risale dalle tracce diffuse in ogni vernacolo

peninsulare verso la semplice essenza di quel volgare latium che il

trattato latino definisce attraverso i quattro tratti distintivi: illustre;

cardinale, perché cardine attorno al quale ruotano tutti gli altri volgari

municipali; aulico, perché adatto alla reggia d’Italia ove ne esistesse

una; e curiale, “quia curialitas nil aliud est quam librata regula eorum

que peregenda sunt” (De vulgari eloquentia I, xviii, 4). Se confrontato

con l’ebraico condivide due blasoni: è una lingua che trae origine

dalla natura anziché dall’arte; e dato che la natura è opera di Dio, ne

consegue che il volgare è assimilabile a Dio in una misura che al

latino resta ignota. In secondo luogo, così come il volgare è la prima

lingua che apprendiamo dalle labbra della nutrice, esso è anche la

prima lingua parlata dal genere umano. Si ritorna ai principi

fondamentali che Dante aveva esposto all'inizio del trattato:

Harum quoque duarum nobilior est vulgaris: tum quia prima fuit

humano generi usitata; tum quia totus orbis ipsa perfruitur, licet in

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diversas prolationes et vocabula sit divisa; tum quia naturalis est

nobis, cum illa potius artificialis existat. (De vulgari eloquentia I, i,

4)

È rimarchevole il fatto che l'ebraico, pur costituendo un caso unico

nella storia linguistica dell'umanità, rientri per Dante nella categoria

dei volgari, in quanto lingua "naturale". E sebbene attualmente in tutto

il mondo vi siano tante lingue diverse per lessico e morfologia, il

volgare è quella di cui tutto il mondo fruisce (perfruitur). Dante non a

caso utilizza il termine del lessico teologico con cui si designa la

beatitudine degli angeli in Paradiso. Di fronte alla Babele di una realtà

linguistica qual è l’Europa di inizio Trecento, dominata dal

progressivo affermarsi dei volgari, gli intellettuali si trovano di fronte

a un aut aut: imboccare la via dei litterati, incapaci di vedere

alternative al dominio del latino, considerato come l’unico mezzo di

comunicazione alta; oppure eleggere il volgare, esplorando con esso la

possibilità di edificare una cultura allargata agli uomini "sanza

lettere". Tertium non datur. Come Ercole al bivio ogni intellettuale

deve scegliere se adottare ancora il latino, consolidando l’idea

ecumenica della cultura come appannaggio della comunità

internazionale dei dotti, o se affrontare le sfide del volgare,

promuovendo una concezione dell'universalismo fondata sulla natura,

sulla nazione e sul popolo.

A questo punto occorre anche rivedere l’apparente dissidio che

sembra contrapporre il Convivio al De vulgari eloquentia

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relativamente alla domanda sulla superiorità del latino rispetto al

volgare. Nel primo libro del Convivio Dante si sente chiamato ad

introdurre una excusatio per giustificare un’operazione decisamente

ardita rispetto alle convenienze letterarie dell’epoca: lo sconfinamento

del volgare nell’area della cosiddetta alta cultura, fino ad allora

indiscusso appannaggio del latino. Appellarsi al fatto che il

destinatario dell’opera è un pubblico di illitterati non è sufficiente per

motivare una scelta così radicale. La principale giustificazione addotta

da Dante si avvale di un altro argomento: il Convivio è un trattato

filosofico costruito in forma di commento a canzoni che fin da

principio sono state concepite e scritte in volgare; tra il commento e il

testo da commentare sussiste una sorta di rapporto vassallatico; dato

che il latino è sovrano in confronto all’umile volgare, ne consegue che

il commento alle canzoni dovrà essere scritto nel loro stesso idioma, a

meno che non si voglia ridurre il latino a vassallo di un suo sottoposto,

con l’esecrabile risultato di capovolgere una gerarchia dal carattere

sacro e inviolabile. In questo primo segmento del chiasmo Dante

assume un atteggiamento "ironico", nella accezione socratica del

termine: finge di assecondare il senso comune, dando per scontata la

superiorità della lingua di scuola. Poi, appellandosi a un principio

universalmente condiviso, dimostra il carattere ineluttabile della

propria scelta. Se avesse osato commentare in latino una serie di

canzoni scritte in volgare avrebbe commesso un atto di lesa maestà.

Tuttavia è soltanto nel contesto retorico di questo primo segmento

dell'excusatio che Dante fa suo il luogo comune della maggiore

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nobiltà del latino. A conclusione del percorso con cui il Convivio

introduce i lettori alla sua mensa filosofica, l'iniziale celebrazione del

latino si capovolge in un inno al volgare esaltato come la nuova fonte

di luce della cultura nascente:

Così rivolgendo li occhi a dietro, […] puotesi vedere questo pane,

col quale si deono mangiare le infrascritte canzoni, essere

sufficientemente purgato da le macule, e da l’essere di biado […].

Questo sarà quello pano orzato del quale si satolleranno a migliaia, e

a me ne soperchieranno le sporte piene. Questo sarà luce nuova, sole

nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a

coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro

non luce. (Convivio I, xiii, 11 – 12)

La transustanziazione del volgare da umile pane di biado a pane

orzato in grado di saziare migliaia di convitati, in analogia con il

miracolo evangelico della moltiplicazione dei pani, sfocia in un

climax dai toni messianici. L’inferiore capacità semantica del volgare

rispetto al latino, non va assunta come un dato aprioristico avulso

dalla storia: il primo è una lingua giovane, ancora in attesa di una

prova decisiva in cui si parrà la sua nobilitade; il secondo gode di una

tradizione plurisecolare. Dichiarandosi amico del volgare, e volendo

difenderne il valore contro quei detrattori, che magari preferiscono

scrivere in lingua d’oc privilegiando l’altrui volgare al proprio, Dante

si accinge ad accogliere i nobili convitati del banchetto filosofico

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offrendo loro la possibilità di apprezzare la lingua del sì in tutta la sua

potenza espressiva ancora inesplorata. Consapevole di aver effettuato

una scelta temeraria, Dante rivendica a se stesso un ruolo quasi

demiurgico. Come una sorta di novello Adamo, egli si accinge ad una

opera di fondazione sperimentando la potenza della nuova lingua

nell’arengo della prosa, là dove la sfida si fa più difficile e rischiosa:

Ché per questo comento la gran bontade del volgare di sì [si

vedrà]; però che si vedrà la sua vertù, sì com’è per esso altissimi e

novissimi concetti convenevolmente, sufficientemente e

acconciamente, quasi come per esso latino, manifestare; [la quale

non si potea bene manifestare] ne le cose rimate, per le accidentali

adornezze che quivi sono connesse, cioè la rima e lo ri[ti]mo e lo

numero regolato: sì come non si può bene manifestare la bellezza

d’una donna, quando li adornamenti de l’azzimare e de le vestimenta

la fanno più ammirare che essa medesima. (Convivio I, x, 12)

Il confronto tra Convivio e De vulgari eloquentia in merito alla

questione della maggiore nobiltà del latino o del volgare non può

pertanto essere affrontato giustapponendo due affermazioni isolate,

avulse dal contesto delle loro argomentazioni - rispettivamente, come

si è già visto sopra: Convivio I, v, 7, dove Dante afferma che il latino

“è sovrano per nobiltà, vertù, e bellezza”; e De vulgari eloquentia I, i,

4 dove si stabilisce: “Harum quoque duarum, nobilior est vulgaris”. I

due trattati, seppure con strategie diverse e non senza tensioni irrisolte

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a livello di coerenza speculativa, svolgono una sorta di riflessione

pentecostale sulle possibili vie attraverso le quali l'umanità possa

riparare alla perdita della lingua originaria seguita alla catastrofe

babelica. Sulle possibili vie attraverso cui si possa riscattare,

attraverso lo specchio di una lingua nobilitata dalla poesia, quella

trasparenza del comunicare che se da un lato costituisce il privilegio

assoluto delle intelligenze angeliche, dall'altro permetterebbe di

revocare l'imbarbarimento bestiale in cui l'uomo è precipitato nel

corso del tempo. La lingua illustre auspicata dal De vulgari

eloquentia, analogamente a quel pane orzato di cui si satolleranno

migliaia, profetizzato dal Convivio, ha la funzione di restituire

all'umanità l'ubi consistam che si è smarrito nella selva oscura della

storia. Seppur consapevoli del fatto che sarebbe vano illudersi di

resuscitare l'idioma adamitico, i poeti hanno il compito di redimere la

lingua e di ricostituire un doppio circuito comunicativo: tra uomo e

uomo, e tra uomo e Dio. La confusione delle lingue, infatti, ha

spezzato il legame simbolico tra Creatore e creatura nello stesso

momento in cui ha introdotto una congerie di divisioni bestiali in seno

alla stessa umanità. Affrontare la questione della lingua da questa

prospettiva, significa tornare a ripensare ancora una volta le nozioni di

forma e actus locutionis.

La coscienza di una vocazione demiurgica nei confronti di una

lingua ancor giovane, i cui precedenti letterari non sono in grado di

fondare una tradizione anche minimamente paragonabile a quella dei

vati latini, è presente in Dante fin dai tempi della Vita Nova. Questo

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atteggiamento convive senza contraddizione con l'umiltà dello scriba

ispirato che nota ciò che Amore gli detta dentro.8 La poesia ha il

compito di produrre un passaggio dalla potenza all'atto di quel volgare

illustre latente in ogni angolo della realtà linguistica peninsulare. Dal

punto di vista del "legame musaico" evocato dal Convivio i poeti

hanno il compito di plasmare una lingua che assicuri nobiltà e

stabilità alla realtà grezza e magmatica dei volgari correnti,

recuperando in tal modo un barlume di quella forma locutionis

primordiale donata da Dio al primo uomo.9 È attraverso questo

processo di fondazione che la lingua può aspirare ad essere l'elemento

unificante di una collettività non più dispersa nella bestiale divisione

dei regionalismi. Ma sotto un altro profilo i poeti devono mirare a

un'autentica opera di redenzione che restituisca alla parola la sua

dignità di mezzo espressivo attraverso cui l'uomo comunica con Dio.

È in questa prospettiva che il tema del primiloquium torna ad imporsi

in tutta la sua rilevanza: l'invocazione del nome di Dio proferita da

Adamo "in principio" è la funzione fàtica che custodisce l'essenza del

linguaggio nella sua più alta nobiltà. La parola ci è stata donata

8 “Da una sorta di equazione fra Dio che parla all'anima nell'afflato mistico e il dittatore Amore che parla al poeta può nascere, complice l'allegoria in factis adamitica, un'altra equazione tra lingua universale e naturale adamitica e lingua universale e naturale poetica” (M. Corti, Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante, cit., p. 95). 9 “E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra transmutare, sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia. E questa è la cagione per che Omero non si mutò di greco in latino, come l’altre scritture che avemo da loro. E questa è la cagione per che li versi del Salterio sono sanza dolcezza di musica e d’armonia; ché essi furono transmutati d’ebreo in greco e di greco in latino, e ne la prima transmutazione tutta quella dolcezza venne meno”. (Convivio I, vii, 14).

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innanzi tutto per lodare il Creatore riconoscendo la paternità del suo

Amore infinito, e il cantare dei poeti è intonato sulla medesima

dimensione eucologica che è risuonata nel primiloquium di Adamo,

padre di tutti i giullari di Dio. Il progenitore dell'umanità assurge ad

allegoria figurale di Davide, Salomone, e Francesco d'Assisi:

invocazione e lode, inno e preghiera, benedizione e ringraziamento,

gaudio ed esultanza, sono i poli attorno ai quali si strutturano i Salmi, i

Cantici e più in generale ogni "sacrato poema". Nella simplicitas che

lo contraddistingue il primiloquium è come un Punto che racchiude in

sé tutto ciò che si squaderna nella nobiltà del dire poetico. Ecco allora

che la poesia non è soltanto un'opera di fondazione che mira a

restaurare, per quanto possibile, la struttura della lingua sulla base di

una forma locutionis elaborata attraverso le regole del legame

musaico; essa deve bensì tenere desta la memoria dell’evento da cui il

linguaggio ha tratto origine. In questo senso poesia e redenzione

linguistica sono tutt'uno. A ben vedere, il volgare illustre così inteso è

l’unica lingua degli angeli che Dante sia disposto ad ammettere.

Alessandro Raffi

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