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    Leloquenza involgare

    diDante Alighieri

    Storia dItalia Einaudi

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    Edizione di riferimento:Leloquenza in volgare, a cura di Giorgio Inglese, BUR,Milano 1998

    Storia dItalia Einaudi II

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    Sommario

    Libro primo 1I 1II 2III 3

    IV 4V 6VI 7VII 8VIII 10IX 12X 14XI 16

    XII 18XIII 20XIV 21XV 22XVI 24XVII 25XVIII 26XIX 28

    Libro secondo 29I 29II 31III 34IV 36V 38VI 40

    Storia dItalia Einaudi III

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    VII 43VIII 45IX 47

    X 48XI 49XII 51XIII 54XIV 56

    Storia dItalia Einaudi IV

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    LIBRO PRIMO

    I

    Poich mi consta che nessuno finora ha trattato, nemme-no parzialmente, larte del dire in volgare, e poich vedobene che essa arte a tutti necessaria, come vero cheverso di lei tendono i loro sforzi non solamente gli uomi-ni ma, nei loro limiti naturali, anche le donne e i fanciul-

    li; volendo in alcun modo accendere lume di discrezio-ne in coloro che camminano come ciechi in una piazzae, per lo pi, credono di avere alle spalle ci che lorodavanti, ispirandone il Verbo dallalto dei cieli, mi pro-ver a giovare alla lingua della gente non letterata; e percolmare un vaso cos grande non baster che io attingalacqua del mio ingegno, ma vi mescoler miglior sostan-za prendendo e inframmettendo cose dette da altri, s da

    potere quindi fornire lidromele pi dolce.Ma poich ciascuna scienza deve dichiarare, anche senon dimostrare, il proprio subietto, affinch si sappia in-torno a che cosa essa si svolga, dico subito che chiamoparlata volgare quella che agli infanti insegnata, permezzo delluso, da chi sta loro vicino quando primamen-te essi cominciano ad articolare i suoni; ovvero, pi inbreve, definisco volgare quel parlare che facciamo no-stro imitando la nutrice, senza riguardo a regole. Abbia-

    mo anche, nato dopo il primo e sul presupposto di quel-lo, un altro tipo di lingua, cui i Romani dettero il nomedi grammatica. Questa lingua secondaria hanno pure iGreci e altri, ma non tutti i popoli: al suo possesso po-chi pervengono, perch delle sue regole e della sua artenon ci impadroniamo senza spendio di tempo e costanzanello studio.

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    Dante Alighieri - Leloquenza in volgare

    Delle due, pi nobile la volgare: perch per prima fuusata dal genere umano; perch tutto il mondo si servedi lei, anche se divisa per variet di forme e vocaboli;perch nostra per natura, mentre quellaltra piuttostoprodotto darte. E di questa pi nobile forma del parlareintendo occuparmi.

    II

    Questa la nostra vera prima parola. Ma non dico no-stra come se potesse darsi parola di altri che delluomo:infatti fra tutti gli esseri solamente alluomo fu attribui-to il parlare, perch a lui solo era necessario. Non agliangeli, non agli animali inferiori era necessaria la parola,e dunque sarebbe stata loro data come cosa inutile: ciche la natura veramente non vuole fare e non fa.

    Se infatti consideriamo con la dovuta attenzione quelche noi sintenda fare, quando parliamo, appare chiaroche il fine mostrare ad altri quanto dalla nostra mente

    concepito. Poich dunque gli angeli, a manifestare i lo-ro pensieri di gloria, hanno una immediata ineffabile ca-pacit intellettuale, per la quale luno allaltro si d tut-to a conoscere, o direttamente oppure attraverso quel-lo Specchio fulgidissimo in cui tutti quanti si riflettonobellissimi e ardentissimi contemplano, risulta eviden-te come non abbiano avuto bisogno di alcun segno lin-guistico. E se qualcuno mettesse avanti il caso degli spi-

    riti caduti, si potrebbe rispondere in due modi: prima,che, trattandosi qui di ci che necessario a vivere bene,dobbiamo trascurarli, come quei perversi che non volle-ro aspettare il compimento del divino beneficio; in se-condo luogo, e meglio, che gli stessi demonii, per comu-nicarsi la loro malizia, non abbisognano se non che ognu-no sappia, di ogni altro, che esiste, in quanto malvagio,e in che misura lo ; ci che effettivamente essi sanno,perch, prima della rovina, si conobbero lun laltro.

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    Dante Alighieri - Leloquenza in volgare

    Neanche agli animali inferiori, comandati dal puroistinto naturale, si dovette provvedere il parlare: infattitutti i membri della stessa specie hanno i medesimi atti epassioni, e cos uno pu conoscere quelli degli altri permezzo dei propri; mentre, fra quelli che appartengono aspecie diverse, non soltanto il parlare non era necessario,ma sarebbe stato dannoso, dal momento che nessunrapporto damicizia doveva darsi fra loro.

    E se mai si obietti, in virt del serpente che parl aEva o dellasina di Balaam, che essi animali parlarono,rispondo che un angelo, in questa, e il diavolo, in quello,

    fecero che le due bestie movessero gli organi loro cos damandar fuori suoni articolati identici a vere parole; nongi che quello fosse, per lasina, altro che ragliare, n peril serpente altro che fischiare. Se poi uno voglia ricavareargomenti contrari da ci che dice Ovidio nel quinto del-le Metamorfosi a proposito delle gazze parlanti, sostengoche egli lo dice per figura, con significato allegorico. Ese pure si affermi che le gazze tuttora, come altri uccelli,parlano, lo nego come falso, perch quellatto non par-lare, ma una certa imitazione del suono della nostra voce;in altre parole, essi cercano di imitarci in quanto emettia-mo suoni, non in quanto parliamo. Perci, se uno che adalta voce dicesse gazza si sentisse rispondere, a mo dieco, gazza, questo non sarebbe altro che la riprodu-zione o imitazione del suono emesso da colui che avevaparlato prima.

    E pertanto risulta evidente che soltanto alluomo fu

    data la parola. Ma perch a lui fosse necessaria, cerchia-mo in breve di spiegare.

    III

    Poich dunque luomo non condotto da un istinto na-turale, ma dalla ragione, e la ragione non identica inogni individuo, come discrezione, come giudizio e come

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    elezione, al punto che ogni singolo pare quasi costitui-re una specie a s, concludo che nessun uomo pu cono-scerne un altro per mezzo dei propri atti e passioni, comefanno gli animali bruti. Nemmeno accade che uno si tra-sferisca nellaltro mediante un riflesso puramente spiri-tuale, a mo di angeli, dal momento che lo spirito umano involto nella grossezza opaca della materia mortale.

    Fu pertanto necessario che il genere umano, affinch iconcetti potessero comunicarsi fra individuo e individuo,disponesse di un qualche segno razionale e sensibileinsieme: era necessario che fosse razionale, giacch deve

    ricevere qualcosa dalla ragione di uno e portarla allaragione di un altro; ed era necessario che fosse sensibile,proprio perch, da una ragione a unaltra, niente si putrasferire se non per un intermediario sensibile. Se fossesoltanto razionale, infatti, non potrebbe trasportarsi; sefosse soltanto sensibile, non potrebbe ricevere nulla dallaragione e nulla depositarvi.

    In verit, questo segno proprio il nobile subietto delnostro discorso: infatti qualcosa di sensibile, in quanto suono; ed qualcosa di razionale, daltra parte, inquanto significa alcunch secondo la volont umana, come pare.

    IV

    Al solo uomo fu data la parola, come risulta evidente

    dalle premesse. Ora penso si debba ricercare a qualeuomo primamente sia stata data la parola; e che cosa, laprima volta, egli abbia detto, e a chi e dove e quando;e infine sotto forma di quale idioma fu emesso il parlarprimigenio.

    Per quello che racconta la Genesi nel suo principio, ldove la Sacra Scrittura descrive la nascita del mondo, sitrova, a dire il vero, che prima di tutti parl la donna, lasmisuratamente presuntuosa Eva, quando al diavolo ten-

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    tatore rispose: Noi ci nutriamo con i frutti degli alberiche sono nel giardino; ma Dio ci ha ordinato di non toc-care e non mangiare il frutto dellalbero che nel cen-tro, per non morirne. Ma bench nelle scritture si troviche la donna abbia parlato per prima, nondimeno piragionevole credere che abbia parlato per primo luomo:n pare conveniente assumere che un atto cos splendi-do e proprio dellumanit sia uscito dalla femmina primache dal maschio. Secondo ragione, dunque, ritengo cheil parlare sia stato concesso anzitutto proprio a Adamo,da Colui che lo aveva test plasmato.

    Che cosa, poi, abbia pronunziato la voce del primoparlante, non dubito si presenti immediatamente a unintelletto sano che essa fu la parola significante Dio,ossiaEl, o in interrogazione o in risposta. Pare assurdo,intollerabile dalla ragione, che dalluomo sia stata nomi-nata qualunque cosa, prima che Dio, essendo stato fattoluomo da Lui e per Lui. Infatti, cos come dopo il pec-cato originale ogni uomo comincia col pianto, dicendoahi, ben ragionevole che colui, il quale nacque primadel peccato, cominciasse dalla gioia; e poich non gio-ia al di fuori di Dio, ma tutta in Dio, e Dio stesso to-talmente gioia, ne consegue che il primo parlante abbiadetto Dio, prima di tutto e avanti ogni altra cosa.

    Ora, nasce di qui la questione, avendo io dettodi sopra che luomo pu aver parlato primamente perrispondere, se tale risposta fu diretta a Dio: ma, se fudiretta a Dio, sembrerebbe che Dio avesse parlato prima

    ancora; il che evidentemente contrasta con gli argomentigi accennati. Al qual proposito, dico che Adamo potbene aver risposto a Dio, che linterrogava, e non perquesto Dio avrebbe parlato cos come noi diciamo chesi parla. Chi dubita infatti che tutto ci che esiste siapieghevole a ogni volere di Dio, da cui tutto creato,conservato e anche diretto? E dunque, se vero che,sotto il comando della Natura inferiore, che di Dio

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    Dante Alighieri - Leloquenza in volgare

    ministra e creatura, laria mossa a modificarsi tanto dapoter tuonare, fulminare, piovere, nevicare, grandinare, non forse vero che, sotto il comando diretto di Dio,essa aria potrebbe muoversi tanto da far risuonare alcuneparole? parole distinte da Colui che ben altro hadistinto! Perch no?

    Credo perci che tanto basti alla soluzione della que-stione sollevata, e di altre affini che si potrebbero porre.

    V

    Ritenendo, cos, per certi argomenti di ragione trattidalle cose dette e da quelle che diremo, che il primouomo abbia parlato primieramente rivolto a Dio stesso,dico che pure conforme a ragione che il medesimoprimo parlante abbia parlato senza indugio, subito dopoaver ricevuto in s il fiato della potenza vivificante diDio. Considero infatti pi proprio delluomo il farsisentire che il sentire, dico il farsi sentire e il sentire

    propri delluomo come essere razionale. Se dunque coluiche Fattore e Principio di perfezione e Amante, conil proprio respiro, colm di tutte le perfezioni il primodi noi, mi sembra segua, per ragione, che questi, il pinobile fra gli animali, prima si sia fatto sentire e poi abbiasentito.

    Se qualcuno poi afferma, obiettando, che Adamo nonaveva bisogno di parlare, essendo lunico uomo in quel

    momento e conoscendo, daltra parte, Dio tutti i nostrisegreti, senza bisogno di parole, anche prima che li cono-sciamo noi stessi; io dico, con la cautela timorosa chebisogna osservare quando si traggono conclusioni logi-che intorno a cose che riposano sulla volont divina, che sebbene Dio conoscesse, e conoscesse anzi in antici-po (ma scienza e prescienza sono, in Dio, il medesimo),senza bisogno di parole il concetto del primo parlante,nondimeno volle che quello parlasse, affinch nel dispie-

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    garsi di cos nobile virt fosse glorificato Colui che pergrazia laveva conferita. E appunto bisogna credere ri-flessa da Dio, in noi, la gioia che proviamo nellesercizio,a debito fine ordinato, delle nostre operazioni.

    Da qui, poi, ben possiamo ricavare dove la primaparola fosse pronunciata, giacch si provato che illuogo del primo parlare fu fuori dellEden, se luomofuori dellEden venne tratto alla vita, o fu lEden, se inquel luogo Dio lo cre.

    VI

    Poich lopera dellumanit si realizza con luso di mol-tissimi idiomi diversi, al punto che molti fra loro nonsintendono a parole meglio che senza parole, convienemettersi in traccia di quellidioma che si crede abbia usa-to luomo che non ebbe madre n nutrice, che non co-nobbe puerizia n adolescenza.

    Per questo, come per molti altri riguardi, tutto il mon-

    do Pietramala, della maggior parte degli uomini Pietra-mala patria. Infatti chiunque ha la ragione cos guastada ritenere che il proprio luogo nato sia il pi bello sottoil sole, parimenti stima il volgare proprio, o lingua mater-na, al di sopra di tutti gli altri; e per conseguenza credeche proprio esso sia stato la lingua di Adamo. Io invece,cui il mondo patria cos come lacqua ai pesci, benchabbia bevuto dellArno prima di mettere i denti e tanto

    ami Firenze che, per amor suo, soffro ingiustamente lapena dellesilio, appoggio la bilancia del mio giudiziosulla ragione e non sullaffetto. E pur se al mio piacere ealla soddisfazione del mio appetito sensitivo non si pre-sti luogo, al mondo, migliore di Firenze, io, svolgendoi volumi di poeti e altri scrittori nei quali esso mondo descritto, nel suo insieme e partitamente, e consideran-do fra me i diversi siti dei paesi e la loro posizione rispet-to ai poli e allequatore, ho ponderato e fermamente ri-

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    tengo esservi molte regioni e citt pi nobili e pi deli-ziose della Toscana e di Firenze, di cui sono originario ecittadino, e parecchi popoli e stirpi usare una lingua pigradevole e pi utile di quella che usano gli Italici.

    Ma ritornando allargomento presente, dico che unacompiuta forma di lingua stata da Dio concreata allaprima anima umana. E dico forma sia quanto ai vo-caboli relativi alle cose, sia quanto al modo di costruirecon essi un discorso, sia quanto alla norma delle declina-zioni; nella quale forma, a dire il vero, tutte le lingue deiparlanti ancora si ritroverebbero, se essa non fosse stata

    dissolta per colpa dellumana presunzione, come di sottosi mostrer.

    In questa forma di lingua parl Adamo; in questa for-ma parlarono tutti i suoi discendenti fino alla edificazio-ne della torre di Babele, che si traduce appunto tor-re della confusione; questa forma ereditarono i figli diEber, che da lui presero il nome di Ebrei. A questi so-li essa rimase, pur dopo la confusione, affinch il nostroRedentore, che da quella stirpe, come uomo, era per sor-gere, non usasse una lingua della confusione, ma la lin-gua della grazia.

    Quello realizzato dalle labbra del primo parlante fudunque lidioma ebraico.

    VII

    Ahi, quanto vergognoso rinnovare qui lignominia delgenere umano! Ma perch non posso andare avantisenza toccarne, ne tratter, sebbene il rossore salga alviso e lanimo vorrebbe rifiutarsi.

    O natura nostra sempre incline al peccato! O tu, dalprincipio e senza fine scellerata! Non era bastato alla tuacorrezione che, cacciata nella tenebra a causa della primatrasgressione, fossi esiliata dalla patria delle delizie? Nonera bastato che, per luniversale lussuria e imbestiamento

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    della tua discendenza, fosse perito nel cataclisma il tuointero dominio, a eccezione di ununica famiglia? egli animali del cielo e della terra avessero pagato peril male che tu avevi commesso? Certo, bastava. Masi dice in proverbio la terza volta si monta a cavallo;e tu, disgraziata, hai voluto montare sul cavallo delladisgrazia. E cos, lettore, luomo, dimentico o sprezzantedei castighi passati, distolti gli occhi dalle lividure chepur ancora lo segnavano, una terza volta si rizz incontroalla frusta, gonfio di presunzione per folle superbia.

    Inguaribile presunse, dunque, in cuor suo luomo, a

    ci tentato dal gigante Nembrt, di superare con lartepropria non solamente la natura, ma lo stesso naturan-te, cio Dio; e prese a edificare una torre in Sennaar, che poi fu detta Babele, ossia confusione, per mezzodella quale sperava di salire in cielo, cercando, il dissen-nato, non di eguagliare ma di superare il proprio Fatto-re. O clemenza smisurata del Signore celeste! Quale pa-dre avrebbe tollerato, da un figlio, tante aggressioni? Einvece, levato uno staffile non nemico ma paterno, e nonnuovo ai colpi, Egli inflisse al figliuolo ribelle un castigopietoso anche se indimenticabile.

    Quasi tutto il genere umano, invero, si era riunito perlopera delittuosa: alcuni comandavano, altri progetta-vano; alcuni tiravano s i muri, altri li squadravano, al-tri stendevano lintonaco; alcuni erano addetti a spacca-re rocce, altri a trasportare i macigni per via di terra oper mare; e ai diversi altri lavori diversi gruppi si dedi-

    cavano; quandecco dal cielo piomb su di loro una con-fusione s grande che, mentre prima tutti impiegandouna stessa lingua servivano lopera, dallopera, una vol-ta divisi in molte lingue, dovettero desistere, n mai pipoterono congiungersi per unimpresa comune. Infattisoltanto quelli che eseguivano il medesimo lavoro si ri-trovarono a parlare la stessa lingua: una lingua, suppo-ni, tutti gli architetti, una coloro che rotolavano i mas-

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    si, una tutti quelli che li squadravano; e cos via per ognitipo di operazione. E per quanti differenti lavori cospira-vano allopera, in tanti idiomi il genere umano viene allo-ra smembrato; e quanto pi raffinato era il compito checiascun gruppo svolgeva, tanto pi rozzo e barbaro ilsuo nuovo idioma.

    Coloro ai quali rimase lidioma consacrato non parte-cipavano allopera e non la approvavano, ma detestando-la fermamente irridevano alla follia di chi vi si era dato. Equesta parte, piccolissima di numero, per quel che pos-so congetturare era sangue di Sem, terzo figlio di No; e

    da tale parte nacque appunto il popolo dIsraele, che uslidioma pi antico, fino alla sua stessa dispersione.

    VIII

    Allora, in seguito alla confusione delle lingue appenarammentata, cos ritengo, per non lievi ragioni, perla prima volta gli uomini si dispersero in tutti i climi

    del mondo e nelle regioni abitabili di ciascun clima, fi-no agli estremi limiti. Ed essendo stata la prima radi-ce dellumana stirpe piantata nelle terre doriente, e diqui essendosi distesa da una parte e dallaltra la nostraschiatta, e diffusa in molteplici rami, e finalmente per-venuta nelle terre doccidente, forse allora per la primavolta gole di animali razionali si dissetarono nei fiumi ditutta Europa, o almeno in alcuni. Ma, vi giungessero da

    stranieri, per la prima volta, o invece rientrassero in Eu-ropa come nella loro terra dorigine, fatto sta che alloragli uomini vi portarono con s un idioma triplice; e, fraquesti che lo portavano, ad alcuni tocc in sorte la par-te meridionale dellEuropa, ad altri la settentrionale; unterzo gruppo, quelli che ora chiamiamo Greci, occupuna parte dEuropa e una parte di Asia.

    Dopo di che, da uno stesso idioma ricevuto al tem-po della vindice confusione, si originarono diversi volga-

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    ri, nel modo che sar mostrato pi avanti. Infatti, tut-to il paese che, dalle bocche del Danubio, o se si prefe-risce dalla palude Meotide, fino alle plaghe occidentalidellInghilterra, limitato dallOceano e dal confine coni Franchi e gli Italici, tocc ai parlanti un idioma unico,il quale in seguito si part in diversi volgari, degli Sla-vi, degli Ungheri, dei Teutoni, dei Sassoni, degli Angli edi molti altri popoli, rimanendo quasi a tutti in provadel comune principio questo solo fatto, che quasi tutti ipredetti affermano dicendoi. Subito a fianco di questoidioma, ossia di l dai confini degli Ungheri in direzione

    est, un altro idioma occup quanto, da quella parte, puancora chiamarsi Europa e si spinse ancora pi innanzi.

    Tutto quel che resta di Europa, sottratte le parti dette,spett a un terzo idioma, un idioma, dico, bench oraappaia diviso in tre: infatti alcuni affermano conoc, altriconoil, altri cons, e sono gli Ispanici, i Franchi e gli Ita-lici. Ma la prova del fatto che i volgari di queste tre gentivengono da un idioma stesso chiarissima, in quanto sivede che nominano molte cose per mezzo degli stessi vo-caboli, come: Dio, cielo, amore, mare, terra, essere, vive-re, morire, amare, e quasi ogni altra. Di questi, coloroche diconoococcupano la parte occidentale dellEuropameridionale, a partire dai confini dei Genovesi. Colo-ro che dicono stengono la parte orientale, dal confinepredetto, fino a quel promontorio dItalia, dove comin-cia il golfo dellAdriatico, e alla Sicilia. Quelli che diconooil, infine, sono in una certa misura settentrionali rispet-

    to agli altri: dal lato orientale hanno gli Alamanni, dailati settentrionale e occidentale sono delimitati dal mareche li separa dallInghilterra, fino ai Pirenei; verso sud,sono chiusi dai Provenzali e dal pendo delle Pennine.

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    IX

    Ma ora necessario che io metta in gioco lintelligenzadi cui dispongo, volendo indagare una materia circa laquale non posso basarmi su alcun autore, cio la trasmu-tazione di un idioma dapprincipio uno e indifferenziato.E poich si viaggia pi sicuramente e velocemente per lestrade pi familiari, proceder trattando solo dellidiomache nostro, tralasciando gli altri: infatti, quello che inun idioma, evidentemente negli altri, in forza di un mo-tivo razionale.

    Lidioma di cui si va trattando ora, dunque, come disopra dissi, diviso in tre: infatti alcuni dicono oc, alcunis, altri invece oil. Ma che esso fosse, al momento incui cominci la confusione, uno solo, ci che bisognaprovare per prima cosa, si dimostra per la concordanzadi molti vocaboli, manifesta nei maestri nellarte di dire;la quale concordanza evidentemente incompatibile conquella impossibilit dintendersi, che per volere del cielo

    cadde sui costruttori di Babele.I maestri delle tre lingue concordano in molti vocabo-li e soprattutto in quello che suonaamor. Giraut de Bor-nelh:

    Si-m sentis fezelz amics,Per Ver encusera amor;

    il Re di Navarra:

    De fin amor si vient sen et bont;

    messere Guido Guinizelli:

    N feamor prima che gentil core,N gentil cor prima che amor, natura.

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    Ma vediamo perch lidioma principale si diviso intre rami; e perch ciascuna di queste variet si divide ins stessa, per esempio la parlata del versante destro ri-spetto a quella del versante sinistro dItalia: e infatti i Pa-dovani e i Pisani parlano in modo diverso; e perch anco-ra genti di regioni limitrofe si differenziano nel parlare,come Milanesi e Veronesi, o Romani e Fiorentini; e cospopoli che appartengono alla stessa gente, come i Napo-letani e i Caietani, i Ravennati e i Faentini; e inoltre, cosache pi stupisce, membri di una stessa citt, come i Bo-lognesi di Borgo San Felice e quelli di Strada Maggiore.

    Perch si verifichino tutte queste differenze e variet dilingue, si chiarir in forza di un unico motivo razionale.

    Diciamo dunque che nessun effetto, in quanto uneffetto, pu andare al di l della propria causa, perchnessuna cosa pu produrre ci che non . Poich dun-que ogni nostra lingua e non parlo di quella concrea-ta da Dio al primo uomo stata rifatta a nostro piaci-mento dopo quella confusione, che fu, in effetti, oblivio-ne della lingua precedente; e poich luomo un animaleoltremodo instabile e variabile, segue che la lingua nonpu essere durevole e uniforme, ma come altre cose dinoi uomini, per esempio costumi e mode, non pu nonvariare per distanze di spazio e di tempo. E non pen-so debba nascere dubbio, per aver io detto di tempo,ma anzi che si debba tenerlo fermo: infatti, se vagliamole altre opere nostre, sembra bene che ci differenziamomolto pi dai nostri pi antichi concittadini che dai con-

    temporanei pi lontani. Per la qual cosa oso affermareche i pi antichi Pavesi, se ora risorgessero, parlerebbe-ro una lingua assai diversa a confronto con i Pavesi dioggi. E quello che dico non paia sorprendente, pi diquanto non sia scoprire gi cresciuto un giovane che nonvediamo crescere: infatti i movimenti molto lenti non so-no da noi percepiti, e quanto pi lungo il tempo che lavariazione della cosa richiede perch sia avvertito, tanto

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    pi quella cosa ci sembra immobile. E cos non mi stu-pisco se lopinione di uomini poco superiori ai bruti ri-tiene che una citt sia sempre vissuta come tale parlan-do la stessa invariabile lingua, giacch il mutamento del-la lingua avviene gradualmente in un tempo molto lun-go, mentre la vita umana per sua natura molto breve.Se dunque la lingua di uno stesso popolo varia, come detto, in successione di tempo, n pu in alcun modo re-stare immobile, ne consegue di necessit che essa muti evarii fra quanti vivono separati e lontani, cos come varia-no i costumi e le mode, che non sono fissati dalla natura

    n da una convenzione, ma nascono per umano arbitrioe si diffondono per prossimit nello spazio.

    Da questa situazione presero le mosse gli inventoridella grammatica: la quale nientaltro che una certa lin-gua identica, inalterabile attraverso tempi e luoghi diver-si. Essendo stata regolata di comune accordo fra mol-te genti, non soggiace allarbitrio individuale e per con-seguenza non pu cambiare. E la inventarono appuntoper evitare che, a causa della variazione della lingua, on-deggiante ad arbitrio degli individui, ci fosse impedita intutto o in parte la conoscenza dei pensieri e delle azio-ni degli antichi e di coloro che sono diversi da noi per ladiversit dei luoghi.

    X

    Essendo ora il nostro idioma diviso in tre, come di so-pra si detto, nel procedere a una valutazione compara-tiva dello stesso, secondo le tre forme in cui risuona, contanta cautela indugiamo nel bilanciarle che non osiamonel confronto anteporre questa a quella, se non in quan-to ben si trova come i facitori della grammatica abbianopresosiccome avverbio affermativo, e ci evidentemen-te attribuisce una qualche preminenza agli Italici, che di-cono appuntos.

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    Ciascuna delle parti, a dire il vero, si sostiene concospicue testimonianze. La lingua doiladduce a propriofavore il fatto che, per essere un volgare pi facile epiacevole, suo tutto quel che stato rifatto o creatoin prosa volgare: per esempio, la compilazione dellastoria sacra e dei fatti di Troiani e Romani, e anche lebellissime avventure di re Art, e parecchie altre storiee trattati. Unaltra, invece, ossia la lingua doc, portacome argomento a proprio vantaggio il fatto che gliartisti del volgare hanno poetato prima in tale lingua,considerandola pi perfetta e pi dolce: pensa a Peire

    dAlvernia e ad altri pi antichi maestri. Anche la terza,la lingua degli Italici, attesta la propria superiorit condue privilegi: primo, perch coloro che hanno compostole rime volgari pi dolci e sottili appartengono alla suafamiglia e casa, come vi appartengono Cino da Pistoia elamico suo; secondo, perch si vede che questi medesimiscrittori maggiormente si appoggiano sulla grammaticache comune, e ci pare un argomento molto forte aconsiderarlo razionalmente.

    Ma, sospeso il giudizio su tale questione e limitando ilmio trattato al volgare italico, prover a indicare le varie-t che esso contiene e a confrontarle. Dico dunque, pri-ma di tutto, che lItalia bipartita in una destra e una si-nistra. E se uno chiede quale linea divida le due parti, ri-spondo in breve che essa il crinale appenninico: comedal colmo di un tetto lacqua cola di qua e di l a diver-se grondaie, cos da quel giogo spiove di qua e di l, per

    lunghe condotte, ad opposti lidi, come scrive Lucanonel libro secondo: il lato destro ha per bacino di raccol-ta il mar Tirreno, il sinistro scende allAdriatico. Le re-gioni di destra sono la Puglia, ma non tutta, Roma,il Ducato, la Toscana e la Marca genovese; quelle di si-nistra, il resto della Puglia, la Marca anconetana, la Ro-magna, la Lombardia, la Marca trevigiana con Venezia.Il Friuli e lIstria non possono appartenere se non alla si-

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    nistra dItalia; e le isole del Tirreno, cio Sicilia e Sarde-gna, non appartengono se non alla destra dItalia, o alme-no ad essa vanno aggregate. Nelluna e nellaltra parte,e nelle terre collegate, le lingue sono diverse: quella deiSiculi dagli Apuli, quella degli Apuli dai Romani, quel-la dei Romani dagli Spoletini, la loro dai Toscani, quel-la dei Toscani dai Genovesi, quella dei Genovesi dai Sar-di; non diversamente, la lingua dei Calabri da quella de-gli Anconetani, e questi dai Romagnoli, i Romagnoli daiLombardi, i Lombardi da Trevigiani e Veneziani, que-sti dagli Aquileiensi, e la lingua di questi ultimi da quella

    degli Istriani. E credo che nessun italico possa dissentirea tal proposito.

    Appare chiaro, dunque, che la sola Italia si differenziasecondo almeno quattordici volgari. I quali tutti ancorapresentano ulteriori variet, come per esempio Senesi eAretini in Toscana, Ferraresi e Piacentini in Lombardia;e persino nella stessa citt, come ho notato nel capitoloprecedente, possiamo avvertire qualche differenza. Perla qual cosa, se volessimo calcolare le variet principali,secondarie e minime del volgare italico, in questo solopiccolissimo cantone del mondo giungeremmo a milleparlate, e anche oltre.

    XI

    Visto che il nostro volgare risuona in tante forme diverse,

    mettiamoci in cerca della parlata pi decorosa in Italiae illustre; e per avere pi libero percorso nella nostracaccia, prima togliamo via dalla selva arbusti inviluppatie rovi.

    E come i Romani pensano di dover essere anteposti aogni altro, cos meritamente li antepongo agli altri in que-sto lavoro di sradicamento, ovvero estirpazione, e procla-mo che in un ragionamento sulleloquenza volgare di lo-ro non bisognerebbe nemmeno parlare. Infatti quello dei

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    Romani il pi laido fra tutti i volgari italiani, e meglioche un volgare lo si dir un tristiloquio; cosa che non sor-prende, poich essi anche, per bruttura di usanze e mo-de puzzano pi di ogni altro. Dicono infatti: Messure,quinto dici?

    Dopo di loro, strappiamo via gli abitanti della Marcaanconetana, che dicono: Chignamente state, siate; e in-sieme tolgo di mezzo gli Spoletini. Ma non si deve di-menticare che in vilipendio di queste tre schiatte sonostate scritte parecchie canzoni: ne ho letta una, perfet-tamente regolata, che aveva composto un fiorentino di

    nome Castra; e cominciava:

    Una fermana scoppai da Cascioli,cita cita se n ga n grande aina.

    E dopo questi falciamo i Milanesi, i Bergamaschi e iloro vicini, a scherno dei quali mi rammento che uno hascritto:

    Enter lora del vesper, ci fu del mes dochiover.

    Dopo di loro, passiamo attraverso il vaglio Aquileiensie Istriani, che, accentando bestialmente, emettono: Ces

    fas tu? E, insieme con questi, via tutte le parlate di mon-tagna e di campagna, che sempre si sentono dissonare,per irregolarit di pronuncia, dalla lingua di chi abitanel centro delle citt, come ben mostrano i Casentinesie quelli di Fratta. Espello anche i Sardi, che non so-no Italici ma vanno aggregati agli Italici, perch si ve-de che essi, soli, non hanno un volgare proprio, ma imi-tano la grammatica, come le scimmie gli uomini: infattidiconodomus novaedominus meus.

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    XII

    Mondati in qualche maniera i volgari italici, mettendo aconfronto quelli che sono rimasti nel crivello, in breve,trascegliamo il pi degno donore e pi onorifico.

    E prima di tutto misuriamo lingegno occupandocidel siciliano; si vede infatti che il volgare siciliano siarroga nominanza sopra gli altri, perch tutta la poesiaitalica chiamata siciliana, e perch si trovano parecchimaestri, nativi dellisola, aver cantato con gravit; comeper esempio nelle famose canzoni

    Ancor che laigua per lo foco lassi,

    e

    Amor, che lungiamente mhai menato.

    Ma questa nominanza della Trinacria, se osserviamobene leffetto che ne risulta, ci accorgiamo che dura-ta essenzialmente a scorno dei principi italici, i quali oravivono superbamente a mo di plebei e non di magnani-mi. E davvero gli splendidi eroi Federico imperatore e ilsuo ben nato rampollo Manfredi, dispiegando la nobilte rettitudine della loro anima, finch la fortuna lo con-cesse, disdegnarono di vivere come bruti e vissero comeuomini. Per la qual cosa gli uomini di cuore gentile e do-tati da Dio di virt vollero stare vicini alla maest di prin-

    cipi cos nobili, al punto che tutto quanto, al tempo lo-ro, i migliori spiriti italici riuscivano a fare, veniva prima-mente alla luce presso la corte di s nobili sovrani. E poi-ch trono del regno era la Sicilia, avvenuto che, ognicosa i nostri maggiori producessero in volgare, si chiamisiciliana; nome che anche noi manteniamo e che i posterinon saranno capaci di scambiare.

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    Rac, rac! Che cosa suona adesso la trombadellultimo Federico? che cosa la campana di Carlo se-condo? che cosa il corno dei possenti marchesi Giovan-ni e Azzo? o i pifferi degli altri magnati? Che cosa, senon: Venite a noi, manigoldi; venite, ipocriti; venite,servi dellavidit?

    Ma meglio tornare al tema, che parlare in vano. E di-co che, se pigliamo il volgare siciliano come lo profferi-scono i locali di media condizione, dalle labbra dei qua-li bisogna ricavare la materia del giudizio, questo nonrisulta meritare lonore del primato, poich viene parlato

    con un tal quale strascico; come, per esempio, in:

    Tragemi deste focora se teste a bolontate.

    Se invece lo pigliamo come viene dalle labbra dei Si-culi eccellenti, per quanto si pu giudicare dalle preal-legate canzoni, identico al volgare pi degno di lode,come mostrer pi avanti.

    Gli Apuli, poi, parlano in modo sozzamente vizioso,

    sia per durezza propria sia per la contiguit a vicini comei Romani e i Marchigiani; dicono infatti:

    Blzera che chiangesse lo quatraro.

    Ma sebbene gli abitanti dellApulia comunementeparlino in questa maniera oscena, alcuni fra loro, uominiluminosi, si sono espressi con eleganza, scegliendo per le

    proprie canzoni i vocaboli pi curiali, come appare chia-ramente a chi osserva le loro rime; come

    Madonna, dir vi voglio,

    e

    Perfino amore vo s letamente.

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    Per tanto, chi ha preso nota delle cose dette devetenere per provato che il volgare pi bello in Italia non il siculo e non lapulo: abbiamo difatti mostratocome gli artisti nativi di entrambe le regioni si siano benallontanati dal volgare proprio.

    XIII

    Veniamo quindi ai Toschi, che, istupiditi da pazzia, pre-tendono per s il titolo del volgare illustre. E non sola-mente sragiona in questo lo zelo del popolaccio, ma sap-piamo bene che parecchi uomini di riguardo hanno so-stenuto tale idea: come Guittone aretino, che mai si volto al volgare curiale; e Bonagiunta lucchese, Gallo pi-sano, Mino Mocato senese, Brunetto fiorentino, i ver-si dei quali, ci fosse il tempo di esaminarli con cura, sitroverebbero non gi curiali ma soltanto municipali.

    E giacch i Toschi pi degli altri farneticano, in pre-da a questa ubriacatura, pare meritorio e utile umiliare

    in giusta misura, uno a uno, i volgari dei municipi tosca-ni. Parlano i Fiorentini, e dicono: Manichiamo, introc-que che noi non facciamo altro. I Pisani: Bene andonnoli fatti de Fiorensa per Pisa. I Lucchesi: Fo voto a Dio kein grassara eie lo comuno de Lucca. I Senesi: Onche rene-

    gata avesse io Siena. Che chesto? Gli Aretini: Vuo tuvenire ovelle? Di Perugia, Orvieto, Viterbo, e di CivitaCastellana, perch sono affini a Romani e Spoletini, non

    voglio discorrere. Ma bench quasi tutti i Toschi sianostorditi dal loro turpiloquio, io so che alcuni hanno mo-strato di conoscere il volgare eccellente, come appuntoGuido, Lupo e un altro, fiorentini, e Cino pistoiese, chequi ingiustamente pospongo costretto da una giusta ca-gione. E dunque, se esaminiamo le parlate toscane e con-sideriamo come quegli uomini molto onorati si sono al-lontanati dalla propria, non pu restar dubbio che il vol-

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    gare da noi ricercato sia altro da quello che appartiene alpopolo toscano.

    Se poi qualcuno ritenga che, quanto asserisco dei To-schi, non debba asserirsi pure dei Genovesi, si fissi inmente almeno questo: che se ai Genovesi accadesse didimenticare la lettera z, dovrebbero smettere affatto diparlare o farsi una nuova lingua. La z infatti parte mas-sima della loro parlata, ed una lettera che comporta unanotevole durezza di pronuncia.

    XIV

    Valicando ora le spalle selvose dellAppennino, andiamoa investigare, con la solita cura, lItalia di sinistra, apartire da est.

    Messo dunque piede in Romagna, dico che ho trova-to in Italia due volgari che si dissociano per certi carat-teri diametralmente opposti. Uno di loro suona femmi-neo, per mollezza di vocaboli e pronuncia, al punto che

    fa sembrare donna anche un uomo che pur parli con vo-ce virile. Questo proprio di tutti i Romagnoli e soprat-tutto dei Forlivesi, la cui citt, bench periferica, il veroperno di tutta la provincia. Essi, per affermare, diconodeusce, quando lusingano, oclo meoecorada mea. Fraloro tuttavia ho udito alcuni, come Tommaso da Faen-za e il compatriota Ugolino il Buccila, che nel poetaresi allontanavano dal volgare locale. E vi un altro volga-

    re, come dicevo, tanto irsuto e ispido per vocaboli e suo-ni, che per questa sua rozza asprezza, quando le donnelo parlano, non solo escon fuori dai loro termini naturali,ma addirittura ti chiederesti se non siano maschi. Que-sto il volgare di tutti quelli che dicono magara, ossiaBresciani, Veronesi e Vicentini, senza dimenticare i Pa-dovani, i quali bruttamente spezzano tutti i participi intuse i sostantivi intas, come inmerce bont. Insieme aloro metto i Trevigiani, che, similmente ai Bresciani e ai

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    loro vicini, pronuncianoflav, quando troncano la voca-le finale, come innofe vif: cosa riprovevole come gravebarbarismo.

    Neanche i Veneziani si reputano degni dellonore diquel volgare che stiamo ricercando; e se mai alcuno diloro, trafitto dallerrore, osasse vantarsene, ricordi se hamai esclamato:

    Per le plaghe di Dio tu no verras.

    Fra tutti questi, uno solo ho udito che si sforzava

    di staccarsi dal volgare materno per tendere a quellocuriale, ed Aldobrandino da Padova.Pertanto, a tutti coloro che sono comparsi dinanzi

    al giudizio del presente capitolo, d sentenza che n ilromagnolo n il suo contrapposto, come si detto, n ilveneziano si identificano con quel volgare illustre di cuiandiamo in cerca.

    XV

    Quel che resta dellitalica selva, cerchiamo di esaminaresenza indugi.

    Dico dunque che forse non erra chi attribuisce ai Bo-lognesi la parlata pi elegante, poich essi traggono qual-cosa, per il proprio volgare, dai circostanti Imolesi, Fer-raresi e Modenesi; il che suppongo facciano tutti, rispet-to ai vicini propri (come mostra Sordello per la sua Man-tova, confinante con Cremona, Brescia e Verona: il qua-le, uomo insigne nellarte del dire, abbandon il volga-re patrio non solo in poesia, ma in ogni occasione di di-scorso). I predetti, infatti, hanno dagli Imolesi la morbi-da dolcezza, dai Ferraresi e Modenesi una certa pronun-cia gutturale, tipicamente lombarda, che ritengo sia ne-gli abitanti di quella regione il lascito della mescolanzacon gli stranieri Longobardi. E questa la cagione per la

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    quale non trovo nessun vero poeta tra Ferraresi, Mode-nesi e Reggiani, i quali, abituati alla propria rauca favella,non possono raggiungere il volgare regale senza guastar-lo con quella loro certa asprezza. Il che deve affermar-si, ben pi decisamente, dei Parmensi, che diconomontoper molto.

    Se dunque i Bolognesi prendono da una parte edallaltra, come detto, ragionevole che la loro parla-ta, per la mescolanza dei suddetti opposti caratteri, con-segua il temperamento di una dolcezza pregevole: a miogiudizio, cos ritengo che sia al di l di ogni dubbio. Per-

    tanto, se coloro che concedono ai Bolognesi la palma delvolgare si limitano a una comparazione fra i volgari mu-nicipali, mi compiaccio di essere daccordo con loro; seinvece pensano che il volgare bolognese vada preferito inassoluto, allora dissento e non sono daccordo. Esso non infatti quello che chiamo volgare regale e illustre: per-ch, se lo fosse stato, mai dal volgare proprio si sareb-bero scostati Guido Guinizzelli, che il maggiore, Gui-do Ghisilieri, Fabruzzo e Onesto, e altri poeti di Bolo-gna, i quali furono maestri insigni e di finissimo giudizionelluso del volgare. Il grandissimo Guido:

    Madonna, l fino amore chio vi porto;

    Guido Ghisilieri:

    Donna, lo fermo core;

    Fabruzzo:

    Lo meo lontano gire;

    Onesto:

    Pi non attendo il tuo soccorso, amore.

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    Le quali parole, a dire il vero, sono affatto diverse daquelle che usano gli stessi Bolognesi del centro.

    E perch circa le rimanenti citt delle estreme regio-ni italiche nessuno pu nutrire dubbi, e se qualcunodubita, non merita nemmeno un chiarimento, poco miresta da discutere. E dunque io, che desidero deporre ilsetaccio al pi presto, per dare uno sguardo ai rimasuglidico che le citt di Trento, Torino e Alessandria giaccio-no cos vicine ai confini dItalia che non possono averelingue incontaminate; s che se pure il loro volgare, che sozzo, fosse bellissimo, negherei che fosse davvero ita-

    lico, data la mescolanza con volgari stranieri. Se cerchia-mo litaliano illustre, dunque, quello di cui andiamo intraccia non potr ritrovarsi in tali luoghi.

    XVI

    Siamo andati a caccia per le balze e pei pascoli dItalia,ma non abbiamo scovato la pantera inseguita: e dunque,

    per poterla trovare, dobbiamo cercarla con i mezzi dellalogica, affinch dopo attento studio si possa stringereben bene nelle nostre reti colei che manda profumo inogni luogo e in nessun luogo si d a vedere.

    Riprendendo dunque le mie armi da caccia, dico chein ogni genere di cose deve esserci una unit rispetto al-la quale tutte le cose appartenenti al genere possano rag-guagliarsi e valutarsi, e dalla quale noi possiamo ricava-

    re la misura di tutte le altre: cos nei numeri, tutti sonomisurati dallunit, e maggiori o minori si dicono secon-do che si allontanano dallunit o vi si avvicinano; e co-s nei colori, tutti sono misurati dal bianco, e pi e me-no luminosi si dicono secondo che al bianco sono pros-simi o da esso si scostano. E quel che diciamo delle co-se che posseggono quantit e qualit, possiamo anche di-re di ogni categoria, e della sostanza stessa, ossia cheogni cosa, in quanto fa parte di un genere, misurabi-

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    le da ci che, nel dato genere, lunit. E dunque nellenostre operazioni, in quanto si ripartiscano in specie, bi-sogna trovare questo segno grazie al quale esse si misuri-no. Infatti, in quanto noi operiamo come uomini, asso-lutamente, questo principio la virt, intesa in senso ge-nerale: e secondo essa virt giudichiamo luomo buonoe cattivo; in quanto noi operiamo come uomini membridi una citt, la legge, e secondo essa legge il cittadino sidice buono e cattivo; in quanto operiamo come uominiitalici, ci sono certi segni di usanze, mode e lingua, chesono le unit dalle quali si pesano e si misurano le ope-

    razioni in quanto operazioni di uomini italici. E questisegni pi nobili delle azioni degli Italici, non sono pro-pri di nessuna citt dItalia ma sono comuni a tutte; e fraquesti, si pu adesso distinguere il volgare che prima ab-biamo ricercato, il quale in ogni citt profuma ma in nes-suna fa la sua tana. Pu, s, mandar profumo pi intensa-mente nelluna che nellaltra, come la pi semplice del-le sostanze, cio Dio, pi profuma di s gli uomini che ibruti, pi gli animali che le piante, pi queste che i mi-nerali, pi questi che gli elementi, pi il fuoco che la ter-ra. E la quantit pi semplice, cio lunit, profuma di spi il numero dispari che il pari; e il colore pi semplice,che il bianco, profuma di s pi il giallo che il verde.

    Abbiamo cos afferrato quello che cercavamo, e pos-siamo chiamare illustre, cardinale, aulico e curiale volga-re dItalia, quello che di ogni citt italica eppure non di nessuna, e in virt del quale tutti i volgari cittadini

    degli Italici si misurano, si pesano e si confrontano.

    XVII

    Ora bisogna spiegare perch io dia a quel che si ritro-vato gli attributi di illustre, cardinale, aulico e curiale; intal modo lo manifester pi chiaramente per quel che .

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    Prima dunque sveliamo che cosa intendiamo conlaggettivo illustre, e perch diciamo illustre quel vol-gare. Con questo termine illustre, intendo qualche co-sa che illumina e, se illuminata, risplende; e in questamaniera chiamiamo illustri certi uomini, o perch illumi-nati dallautorit illuminano gli altri di giustizia e carit;o perch, avendo ricevuto un eccellente insegnamento,insegnino con pari eccellenza, come si pu dire di Se-neca e Numa Pompilio. E il volgare di cui parlo esalta-to sia dalla dottrina sia dal potere che gli sono propri, edesalta i suoi fedeli con onore e gloria.

    Che sia elevato in dottrina si vede bene, perch datanti incolti vocaboli usati dagli Italici, tante costruzioniconfuse, tante terminazioni irregolari, tanti accenti sgra-ziati, lo vediamo uscir fuori cos colto, cos piano, cosperfetto, cos raffinato, come mostrano nelle loro canzo-ni Cino da Pistoia e lamico suo.

    Che poi sia elevato in potere, si vede bene: che cosa prova di maggior potere, di ci, che esso pu commuo-vere i cuori umani tanto da far volere chi non voleva, edisvolere chi voleva, come ha fatto e fa?

    E che sollevi altri nellonore, evidente. Forse che isuoi fedeli non vincono per fama qualsivoglia re, mar-chese, conte e magnate? Non c bisogno di darne dimo-strazione. Quanta poi gloria conferisca ai suoi servitori,proprio io lo so, che per la dolcezza di lei del mio esilionon mi curo.

    Per tutti questi motivi, giusto che lo si proclami

    illustre.

    XVIII

    N senza ragione questo volgare illustre onoro con un se-condo attributo, ossia cardinale. Infatti, come tutta laporta segue il cardine, in modo che, come si gira il cardi-ne, si gira anche lei, piegando allinterno o allesterno,

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    sono unite da un unico principe, cos le membra diquesta sono state tenute insieme dalla luce della ragione,per grazia di Dio. Pertanto, sebbene manchiamo di unprincipe, falso dire che a noi Italici manchi la curia:abbiamo s una curia, bench fisicamente dispersa.

    XIX

    Questo volgare che si dimostrato illustre, cardinale, au-lico e curiale, dico essere quello che si chiama il volgareitalico. Infatti, come si pu trovare un certo volgare che proprio di Cremona, cos se ne pu trovare uno pro-prio della Lombardia; e come se ne pu trovare uno pro-prio della Lombardia, cos se ne pu trovare uno propriodi tutta la parte sinistra dItalia; e come possibile ritro-vare tutti questi, cos ben possibile trovare quello che proprio dellItalia intera. E come quello si chiama cre-monese, quello lombardo e il terzo semiitalico, cos que-sto, che proprio dellItalia intera, si chiama volgare ita-

    lico. Infatti questo hanno usato gli illustri maestri chehanno composto poesia volgare in Italia, siano essi Sicu-li, Apuli, Toschi, Romagnoli, Lombardi e uomini delledue Marche.

    E poich lintento mio, secondo la promessa fatta alprincipio dellopera, fornire un insegnamento sullartedi dire in volgare, comincer proprio da questo come dalvolgare pi eccellente, e dir nei libri seguenti chi, a mio

    avviso, sia degno di usarne, e per che cosa, e come, edove, e quando, e a chi debba essere rivolto. Schiaritoci, mi occuper di schiarire i volgari inferiori, a grado agrado discendendo fino a quello che di una sola famiglia proprio.

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    LIBRO SECONDO

    I

    Sollecitando nuovamente la prontezza dellingegno mioe ritornando a un cos fruttuoso lavoro della penna, pri-ma di tutto dichiaro che il volgare italico illustre pu con-venientemente attuarsi e in prosa e in verso. Ma perch iprosatori, per lo pi, lo ricevono dai poeti; e perch si ve-

    de che il volgare legato in versi resta di modello ai prosa-tori, e non accade linverso, il che evidentemente com-porta una certa supremazia, dapprima sbroglieremo lequestioni relative al volgare illustre in quanto usato poe-ticamente, trattandone secondo lordine che ho prospet-tato alla fine del primo libro.

    Cerchiamo dunque dintendere, per cominciare, setutti gli scrittori di versi volgari debbano farne uso. A

    uno sguardo superficiale parrebbe di s, poich ogniscrittore di versi deve abbellirli quanto pu; dato chenessun volgare come lillustre conferisce un ornato ec-cellente, ne seguirebbe che ogni scrittore di versi debbaricorrervi. Inoltre, se ci che ottimo, nel suo genere,viene mescolato a ci che meno buono, non gli detraenulla, ma anzi, a quanto pare, lo migliora; pertanto, se unverseggiatore, pur rozzo nel far versi, mescolasse del vol-gare illustre alla sua rozzezza, farebbe bene, anzi par-

    rebbe chiaro che egli proprio cos ha da fare: molto piabbisognano di ausilio coloro che hanno scarse capaci-t, rispetto a coloro che ne hanno molte. E cos con-cluso che a tutti i facitori di versi lecito usare il volgareillustre.

    Ma ci assolutamente falso, perch neppure i poe-ti pi eccellenti debbono sempre fare ricorso a lui, co-me si potr giudicare da argomenti che saranno offerti

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    Circa laffermazione che ciascuno debba abbellire ipropri versi per quanto pu, confermo che questo ve-ro; ma non si dir che un bue con le briglie, ovvero unmaiale sellato, abbellito: anzi, piuttosto ridiamo dellasua deturpazione, lornamento essendo infatti laggiuntadi qualche cosa conveniente. Circa laffermazione che lecose pi pregiate, aggiunte alle meno pregiate, le miglio-rano, la tengo per vera nella misura in cui la distinzio-ne fra luna e laltra venga meno, come nel caso in cuifondiamo oro con argento; ma se la distinzione perma-ne, le cose meno pregiate diventano ancora pi vili, co-

    me nel caso in cui si mescolino donne belle con brutte.Per la qual cosa, poich il concetto dei verseggiatori sicongiunge con le parole ma ne rimane ben distinguibi-le, se esso concetto non sar del grado migliore, ove siacongiunto al volgare migliore apparir peggiore, non mi-gliore, proprio come una laida femmina vestita doro odi seta.

    II

    Dopo aver dimostrato che non tutti gli scrittori di versi,ma soltanto i migliori, debbono usare il volgare illustre,ha da seguire la questione se, in tale volgare, tutti gli ar-gomenti vadano trattati oppure no; e, se no, manifestarepartitamente quali siano degni di lui.

    Al qual proposito, prima di tutto bisogna trovare quel-

    lo che intendiamo quando diciamo degno. Diciamoche degno ci che ha dignit, come diciamo nobile ciche ha nobilt; e se, conosciuto quel che riveste, si co-nosce quel che rivestito, in quanto tale, conosciutala dignit, conosceremo anche ci che degno. Orbe-ne, la dignit leffetto ovvero lesito dei meriti, cos che,quando uno ha ben meritato, diciamo che avviato a es-ser degno di bene: quando invece ha demeritato, a es-ser degno di male; per esempio, chi ben combatte sar

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    degno della vittoria: chi ben governa, del regno; e, an-che, il mentitore sar ben degno del rossore: il predo-ne, della pena capitale. Ma, facendosi fra quanti hannoben meritato, come anche fra gli altri, paragoni daiquali risulta che alcuni meritano bene, alcuni meglio, al-tri sommamente bene, alcuni male, alcuni peggio, altrisommamente male, e siffatti paragoni avvenendo sol-tanto in vista di quellesito dei meriti che chiamiamo di-gnit, come si detto, evidente che le dignit si para-gonano fra loro secondo il pi e il meno, cos che alcunesiano grandi, alcune maggiori, altre somme. E si inten-

    de, di conseguenza, che qualche cosa degna, qualchecosa pi degna, qualche altra degna in sommo grado.E perch il paragone fra le dignit non pu avvenire ri-spetto a un medesimo bene meritato, ma rispetto a og-getti diversi, cos che diciamo pi degno ci che degnodi un premio maggiore e sommamente degno ci che degno del premio massimo (infatti, nessuna cosa pidegna dunaltra, se degna del medesimo oggetto), evidente che le cose ottime sono degne di cose ottime,secondo la logica necessaria della realt. Pertanto, poi-ch quello che chiamiamo illustre il migliore dei vol-gari, ben consegue che solo le cose migliori siano degnedi essere trattate con esso, quegli argomenti, appunto,che consideriamo i pi degni fra quanti sono da trattare.

    E adesso mettiamoci a cercare quali essi siano. A benmanifestarli, bisogna sapere che luomo, come possiedeuna triplice funzione psichica, ossia la vegetativa, la

    sensitiva e lintellettiva, cos percorre una triplice via.Infatti, in quanto un vivente, ricerca il proprio utile,e questo ha in comune anche con le piante; in quanto animale, ricerca il piacere, e questo ha in comune con ibruti; in quanto razionale, ricerca lonesto, e in que-sto solo, o meglio partecipa della angelica natura. Inqualunque nostra operazione, appare chiaro, noi operia-mo in relazione a queste tre finalit; e perch in ognuno

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    di questi tre mbiti certe cose sono pi importanti e al-tre importanti in sommo grado, come tali, evidentemen-te quelle che sono in sommo grado importanti si devonotrattare nel modo migliore, e quindi nel volgare migliore.

    Ma resta da discutere quali siano le cose in sommo gra-do importanti. E, prima di tutto, nellmbito dellutile, seconsidereremo con attenzione lintento di tutti quelli cheperseguono un vantaggio, non troveremo nientaltro chela salvezza. In secondo luogo, nellmbito del piacevole,dico che soprattutto dilettevole ci che diletta per esse-re il pi pregiato oggetto del desiderio, ossia il godimen-

    to erotico. In terzo luogo, nellmbito dellonesto, nessu-no dubita che la cosa pi importante sia la virt. Pertan-to, queste tre cose, ossia la salvezza, leros e la virt, ap-paiono essere quelle cose di somma importanza che de-vono essere trattate nel modo migliore, o per dir megliodevono essere cos trattati gli argomenti che soprattuttoad esse sono intrinseci, ossia il valore delle armi, la pas-sione damore e la dirittura nel volere. E solo di tali argo-menti, se ho ben visto, trovo che hanno cantato in volga-re i poeti famosi, come Bertran de Born ha cantato le ar-mi, Arnaut Daniel lamore, Giraut de Bornelh la rettitu-dine; Cino da Pistoia lamore, il suo amico la rettitudine.Infatti Bertran dice:

    Non posc mudar cun cantar non exparia;

    Arnaut:

    Laura amarafa-l bruol brancuzclarzir;

    Giraut:

    Per solaz reveilarche ses trop endormiz;

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    Cino:

    Digno sono eo di morte;

    lamico suo:

    Doglia mi reca ne lo core ardire.

    Quanto al valore guerriero, invece, non trovo nessunitalico che ne abbia, fin qui, scritto poesie.

    Ci visto, quindi, risulta del tutto chiaro quali siano le

    materie da cantarsi nel volgare pi elevato.

    III

    E adesso proviamoci a indagare, senza perder tempo, inquale forma metrica dobbiamo contenere la trattazionedi quelle cose che sono degne di un volgare tanto nobile.

    Volendo dunque insegnare la forma nella quale questi

    argomenti conviene siano legati, prima di tutto, dico, varammentato il fatto che i poeti in volgare hanno datoalle loro composizioni varie forme: alcuni, forma dicanzoni; alcuni, di ballate; alcuni, di sonetti; altri, formeprive di legge o regola, siccome di sotto si mostrer.Ma, tra queste forme, ritengo che quella delle canzonisia la pi eccellente: pertanto, se vero che le cosepi eccellenti sono degne delle pi eccellenti, come disopra si provato, gli argomenti che sono degni del pi

    eccellente volgare sono pure degni della forma metricapi eccellente, e quindi devono essere trattati in formadi canzone.

    Che poi la forma di canzone sia tale, quale si detto,si pu riconoscere per parecchie ragioni. In primo luo-go perch, essendo qualunque versificazione in un certosenso una canzone, tal nome pure spettato soltantoalle canzoni in senso stretto: il che non pu essere acca-

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    duto, se non in forza di una decisione molto antica. An-cora: ogni cosa che, da s stessa, realizza la propria fi-nalit, chiaramente pi nobile di quelle che hanno bi-sogno di un intervento esterno; ora, le canzoni possonoda s stesse realizzare il proprio scopo, ma le ballate nonpossono, avendo bisogno dei danzatori, in funzione deiquali sono state prodotte. Da ci si deduce che le can-zoni sono da stimarsi pi nobili delle ballate, e di con-seguenza che la forma delle canzoni la pi nobile fratutte, poich nessuno pu dubitare che le ballate superi-no i sonetti nella nobilt del metro. Inoltre: si vede che

    quelle cose sono pi nobili, le quali portano pi onore alproprio facitore; ora, le canzoni dnno pi onore, ai lo-ro facitori, che non le ballate: sono esse dunque pi no-bili, e di conseguenza il loro metro pi nobile dognialtro. Inoltre: le cose pi nobili sono conservate pi ri-guardosamente; ora, fra tutto ci che si canta le canzonisono conservate pi riguardosamente, come sanno i let-tori di libri di poesia: sono dunque le canzoni nobilissi-me fra ci che si canta, e di conseguenza il loro metro il pi nobile. A questo si aggiunga che, fra le opere diunarte, quella pi nobile che esprime tutta larte; poi-ch le poesie sono opere darte, e solo nelle canzoni tut-ta larte poetica si esprime, le canzoni sono le pi nobi-li e quindi il loro metro pi nobile di tutti. Che poi nel-le canzoni si esprima tutta larte di cantare poeticamen-te, si manifesta in ci, che ogni artificio reperibile neglialtri metri, pure nelle canzoni si reperisce, ma non ac-

    cade linverso. La conferma di quanto si detto, del re-sto, immediatamente sotto i nostri occhi: infatti, solonelle canzoni si ritrova tutto ci che alle labbra dei poetiflu dalla cima delle loro splendide menti.

    Pertanto risulta chiaro, per i nostri fini, che gli argo-menti degni del volgare pi alto debbono essere trattatiin forma di canzoni.

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    IV

    Ora che ho esplicato, non senza fatica, chi e che cosa siadegno del volgare aulico, e anche la forma metrica cuiassegno tanto onore da meritare, essa sola, il volgare pielevato, prima di passare ad altro vediamo nei dettagliquesta forma di canzone, di cui molti, per quel cheappare, usano seguendo listinto pi che la regola; edischiudiamo la fabbrica dellarte a vantaggio di coleiche finora stata lasciata al caso, mentre metto da partela forma di ballate e sonetti, perch la voglio illustrare nel

    quarto libro del trattato, quando mi occuper del volgaremediocre.

    Riesaminando, dunque, il gi detto, rammento di ave-re chiamato pi volte i verseggiatori in volgare poe-ti nome che ho ardito profferire, senza dubbio, secon-do ragione, dal momento che in effetti essi sono poe-ti, solo che dirittamente si consideri che cosa poesia:nientaltro che creazione fantastica espressa secondo le

    norme della retorica e della musicalit. Differiscono non-dimeno i verseggiatori volgari dai poeti grandi, ossia re-golari, perch questi ultimi hanno poetato in una lingua esecondo unarte regolari, quelli invece a caso, come si detto. Perci avviene che noi poetiamo tanto pi corret-tamente, quanto pi da vicino imitiamo i poeti regolari.E perci io, intendendo a opera dottrinaria, ho da emu-lare la loro arte poetica in quanto gi ridotta a trattazionidottrinarie.

    Dico dunque, anzitutto, che ciascuno deve adeguare ilpeso della materia alle proprie spalle, perch non capitidi dover cadere nel fango a causa della gravezza eccessivacui la resistenza di quelle stata sottoposta. Questo quanto prescrive il nostro maestro Orazio quando,allinizio dellaPoetica, dice: Scegliete una materia conquel che segue.

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    Poi, fra quelli che si presentano come argomenti datrattare, dobbiamo distinguere se siano da cantare a modi tragedia, o di commedia, o di elegia. Per tragediaintendo lo stile pi elevato, per commedia quello me-no elevato, per elegia quello proprio degli infelici. Selargomento appare tale da doversi cantare in tragedia,allora bisogna servirsi del volgare illustre e di conseguen-za formare una canzone. Se, invece, in commedia, si scel-ga ora il volgare mediocre, ora quello pi basso: mi riser-vo di mostrare i criteri di tale scelta nel quarto libro delpresente trattato. Se, infine, in elegia, bisogna che usia-

    mo soltanto del volgare pi basso.Ma lasciamo indietro gli altri, e occupiamoci ora, co-

    me necessario, dello stile tragico. Stile tragico, in veri-t, noi usiamo allor quando, con la seriet del contenu-to, si accordano la magnificenza dei versi, lelevatezza deicostrutti e leccellenza dei vocaboli. Pertanto, essendo-si gi provato, come rammentiamo bene, che le cose pielevate sono degne delle pi elevate, ed essendo evidenteche questo, chiamato tragico, il pi elevato degli stili, siconclude che gli argomenti gi individuati come tali dadoversi cantare nella maniera pi elevata devono esserecantati in questo solo stile, dico la salvezza, lamore ela virt, e quanto si concepisce in relazione ad essi, senzaabbassarsi a considerare alcunch di contingente.

    Cautamente ognuno affronti, dunque, e comprendapunto per punto quel che dico; e quando intende cantaredi questi tre temi nella loro essenza, o anche di quel che

    immediatamente ed essenzialmente ne consegue, bevutaprima lacqua di Elicona e tese allestremo le corde dellalira, cominci allora con mano ferma a muovere il plettro.Ma far propri quella cautela e quel discernimento, comesi deve, qui sta il lavoro, qui la fatica, perch mai puavvenire senza ardore dingegno e continua applicazioneallarte e conquista delle scienze. E questi sono coloroche il Poeta, nel sesto dellEneide, parlando in modo

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    figurato, dice amati da Dio, elevati al cielo dallardoredi virt, prole divina. E sia cos riprovata la stoltezza diquelli che, affidandosi al solo ingegno come nudi di artee di scienza, si lanciano sui temi pi elevati e da cantarsinella maniera pi elevata: cessino da s gran presunzionee, se per natura o per ignavia sono oche, non sattentinodi imitare laquila che vola fino in cielo.

    V

    Circa la seriet del contenuto mi sembra di aver dettoabbastanza, o almeno di aver detto tutto quel che sirichiede per lopera presente; e perci affrettiamoci aparlare della magnificenza dei versi.

    Intorno ad essa da sapere che i nostri predecesso-ri hanno fatto uso nelle loro canzoni di versi varii, e co-s fanno anche i moderni: ma nessuno ancora ho tro-vato che, nel sillabare un verso, abbia superato la mi-sura di undici o sia sceso sotto il trisillabo. E ben-

    ch i poeti italici abbiano fatto uso del verso trisillabo,dellendecasillabo e di tutti gli intermedii, pure sono piusati il quinario, il settenario e lendecasillabo, e dopo diloro il trisillabo pi di ogni altro.

    Fra tutti questi lendecasillabo appare essere il pi ma-gnifico, sia per quanto dura nel tempo sia per quanto pucontenere di pensieri, costrutti e vocaboli, la bellezzadei quali tutti si moltiplica in lui, come risulta evidente:

    infatti, dovunque si moltiplicano le cose pesanti, si molti-plica anche il peso. E questo si vede bene che tutti i mae-stri hanno tenuto presente, dal momento che alle canzo-ni illustri hanno dato per cominciamento un endecasilla-bo; come Giraut de Bornelh:

    Ara ausirez encabalitz cantarz

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    (il quale verso, bench sembri di dieci sillabe, in effettiun endecasillabo, perch le due consonanti finali nonfanno parte della sillaba precedente: pur non avendouna vocale propria, esse non perdono tuttavia forza disillaba; prova ne sia che la rima vi si compie con una solavocale, il che non potrebbe accadere se non per effettodella seconda che vi sottintesa); il Re di Navarra:

    De fin amor si vient sen et bont

    (dove risulter chiaro che il verso endecasillabo, se si

    consideri laccento dellultima parola e il suo perch);Guido Guinizelli:

    Al cor gentil repara sempre amore;

    il Giudice delle Colonne da Messina:

    Amor, che lungiamente mhai menato;

    Rinaldo da Aquino:

    Perfino amore vo s letamente;

    Cino pistoiese:

    Non spero che giamai per mia salute;

    lamico suo:

    Amor, che movi tua virt da cielo.

    E bench questo di cui si detto meritamente appaiail pi famoso fra tutti quanti i versi, sembra levarsi pisplendidamente e pi in alto ove mai stabilisca, purtenendo il predominio, una certa forma di associazionecon il settenario: ma ci resti da spiegarsi pi avanti.

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    Aimeric de Belenoi:

    Nuls hom non pot complir addreciamen;

    Aimeric de Peguilhan:

    Si con larbres che per sobrecarcar;

    il Re di Navarra:

    Ire damor que en mon cor repaire;

    il Giudice di Messina:

    Ancor che laigua per lo foco lassi;

    Guido Guinizzelli:

    Tegno de folle empresa, a lo ver dire;

    Guido Cavalcanti:

    Poi che di doglia cor conven chio porti;

    Cino da Pistoia:

    Avegna ched el maggia pi per tempo;

    lamico suo:

    Amor che ne la mente mi ragiona.

    E non stupirti, o lettore, che tanti autori siano ricorda-ti, giacch soltanto per esempi siffatti posso indicare que-sto costrutto che dico supremo. E sarebbe forse la cosapi utile, per acquisirne labito, avere studiato i poeti re-golati, ovvero Virgilio, Ovidio nelleMetamorfosi, Stazio

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    e Lucano, e anche altri che usarono la prosa pi elevata,come Tito Livio, Plinio, Frontino, Paolo Orosio, e an-cora molti altri, a frequentare i quali amoroso interesseci sospinge. Desistano dunque i partitanti dellignoranzadallesaltare Guittone aretino e certi altri, che mai hannosmesso i loro modi plebei, sia nella scelta dei vocaboli,sia nel costrutto.

    VII

    Il passo successivo della mia graduale esposizione esigeche siano messi in chiaro, adesso, i vocaboli pi eccellen-ti, degni di prender posto nel dominio dello stile privile-giato.

    Attesto, quindi, per cominciare, che discernere fra ivocaboli non certo una lieve opera della ragione, dalmomento che, come si vede, se ne possono ritrovare pa-recchie categorie. Infatti, alcuni vocaboli sono da noisentiti come fanciulleschi, altri come donneschi, altri co-

    me virili; e fra questi, alcuni risultano selvatici, altri citta-dineschi; e tra quelli che chiamo cittadineschi, alcuni sidirebbero ben pettinati o allisciati, altri spettinati o arruf-fati. Fra i quali ultimi, in vero, i ben pettinati e i non pet-tinati sono i vocaboli che dico pi eccellenti; allisciati earruffati invece chiamo quelli in cui si sente leccesso, aquel modo che, fra le azioni grandiose, talune sono operedi autentica magnanimit, alcune soltanto di fumosa pre-

    sunzione: dove, bench in apparenza una tal quale asce-sa si dia a vedere, a chi sa ragionare risulter chiaro chenon si tratta di ascesa, ma di un precipitare lungo il de-clivio opposto, dopo che si varcata la linea che misurala virt.

    Bada bene, dunque, o lettore, quanto devi lavoraredi setaccio per trar fuori i termini eletti: infatti, se po-ni mente al volgare illustre, di cui debbono, come si detto, servirsi i poeti volgari di stile tragico, ai quali

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    intendo che questo ammaestramento sia rivolto, avraicura che solo i vocaboli pi nobili ti restino nel crivello.Nel novero dei quali non potrai comprendere i vocabo-li fanciulleschi, come mamma e babbo, mate e pate, perla loro semplicit; n i donneschi, comedolciadae place-vole, per la loro mollezza; n i selvatici, come greggia ecetra, per asprezza; n i cittadineschi allisciati o arruffa-ti, comefeminaecorpo. Soli infatti ti rimarranno, vedrai,i vocaboli cittadineschi pettinati e non pettinati, che so-no i pi nobili, le membra del volgare illustre. Chia-mo pettinati quelli che, trisillabi o prossimi a tale misura,

    senza aspirazione, senza accento finale (acuto o circon-flesso), senza le consonanti duplicizox, senza accoppia-mento delle due liquide o la posizione di una liquida su-bito dopo una muta, quelli insomma che, come leviga-ti, lasciano al parlante un senso di dolcezza: amore donnadisio virtute donare leticia salute securtate defesa...

    E dico spettinati tutti gli altri vocaboli che appaiononecessari al volgare illustre, o tali da ornarlo. Chiamonecessari quelli di cui non si pu fare a meno, come certimonosillabi:s no me te se a e i o u, le interiezioni, e pa-recchi altri. Ornamentali dico poi tutti i polisillabi che,misti coi pettinati, abbelliscono larmonia della frase, puravendo laspro dellaspirazione, dellaccento, delle du-plici, delle liquide o della troppa lunghezza: come terrahonore speranza gravitate alleviato impossibilit impossi-bilitate benaventuratissimo inanimatissimamente disaven-turatissimamente o sovramagnificentissimamente, che ha

    undici sillabe. Si potrebbe ancora trovare una parola dipi che undici sillabe, ma non sembrerebbe soggetto alpresente ragionamento in quanto eccedente la capienzadi qualunque nostro verso, come quel celebre hono-rificabilitudinitateche, in volgare, arriva a dodici sillabee in latino a tredici, in due casi obliqui.

    Il modo in cui, nei versi, si debbano armonizzare que-ste parole non pettinate con le pettinate, lo lascio a una

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    successiva lezione. E quanto si detto sulla elevatezzadei vocaboli sufficiente per chi abbia avuto da naturala virt del discernimento.

    VIII

    Preparate le verghe e le cinghie per il fascio, venuto ilmomento di legarlo insieme. Ma perch, di ogni opera,la nozione deve precedere loperazione, come la mira delbersaglio precede il lancio della freccia o del giavellotto,avanti e prima di tutto vediamo qual sia questo fascio chesi intende legare.

    Questo fascio dunque, se bene rammentiamo tuttoquel che si gi detto, la canzone; e perci vediamoche cosa sia la canzone e cosa intendiamo quando par-liamo di canzone. La canzone, in effetti, secondo il pre-ciso significato del termine, il cantare come azione ecome passione, al modo che la lezione il leggere comeazione e come passione. Ma distinguiamo quanto det-

    to, ossia se questa, che ci interessa, canzone come azio-ne o passione del cantare. E a questo proposito biso-gna considerare che il termine canzone pu prendersi indue modi: in uno, in quanto viene fatta dal suo auto-re, e allora un agire, e conformemente a questo modonel primo dellEneide Virgilio diceArma virumque cano;in un altro, in quanto, una volta fatta, viene eseguita, odallautore o da chiunque altro, con o senza intonazione

    di una melodia: e allora un patire. Infatti, nel primo ca-so agita, nel secondo invece agisce su altro, e quindi nelprimo caso lazione eseguita da qualcuno, nel secondolazione patita da qualcuno. E poich essa prima agi-ta e poi agisce, si vede che meglio, anzi necessariamente,prende nome dal fatto che agita ed azione di qualcu-no, piuttosto che dal fatto che esercita una azione su al-tri. Prova di ci, appunto, che non diciamo mai Que-

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    sta una canzone di Pietro in quanto egli la reciti, main quanto labbia fatta.

    Inoltre bisogna discutere se debba dirsi canzone lacomposizione di parole armonizzate o la musica per sstessa. Al proposito, affermo che la musica non si dicemai canzone, ma: suono, intonazione, nota, melodia.Infatti nessun suonatore di fiati, o di organo, o di cetra,chiama canzone la propria melodia, se non in quanto congiunta a una poesia in forma di canzone; mentre colo-ro che armonizzano parole ben chiamano canzoni i loroprodotti, e siffatti componimenti, anche scritti su un fo-

    glio e l deposti in assenza di recitatore, chiamiamo can-zoni. E dunque evidente la canzone non essere altroche latto compiuto di chi compone parole armonizzatein modo da potere accompagnarsi a una melodia: per laquale ragione, potremmo chiamare canzoni, sia le canzo-ni di cui ci stiamo occupando ora, sia le ballate e i sonet-ti, sia tutte le composizioni armoniche di parole, dognigenere, volgari e latine. Ma perch io solo di volgari va-do trattando, e lascio da parte quanto composto in lati-no, dico che tra le forme poetiche volgari una somma,che chiamiamo canzone per eccellenza: e che la canzonesia qualche cosa di sommo si dimostrato nel terzo ca-pitolo del presente libro. E poich la definizione offer-ta pi sopra di genere e relativa a pi specie, riprendia-mo il termine, gi definito in genere, e grazie a certe dif-ferenze distinguiamo quello che effettivamente cerchia-mo. Dico dunque che la canzone cos detta per eccellen-

    za, ossia quello di cui si va in cerca, una composizionedi stanze fra loro eguali, senza ripresa, con un significatounitario, in stile tragico, come io stesso mostro quandocanto

    Donne che avete intelletto damore.

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    (Dico composizione in stile tragico e si spiega perch,se la composizione fosse in stile comico, diremmo, conun diminutivo, che una cantilena: di cui voglio trattarenel quarto libro.)

    E cos chiaro che cosa sia la canzone, presa general-mente, e che cosa sia la canzone cos detta per eccellenza.Sembra anche sufficientemente chiaro che cosa si inten-da quando si dice canzone e, per conseguenza, che cosasia quel fascio che ci apprestiamo a legare.

    IX

    Poich, come si detto, la canzone una composizionedi stanze, ove si ignori che cosa sia una stanza necessa-riamente manca la nozione di canzone: infatti la nozio-ne di ci che viene definito risulta dalla nozione di ciche definisce. E allora, di conseguenza, bisogna trattaredella stanza, ossia indagare che cosa essa sia e che cosa sivuole intendere con questo termine.

    E al proposito da sapere che questo termine statotrovato in funzione del solo momento artistico, ovveroaffinch avesse nome di stanza il luogo in cui fosse con-tenuta tutta larte della canzone, stanza cio ricove-ro o camera capace di contenere tutta larte. Infatti co-me la canzone il ricetto dellintero significato, cos lastanza ospita lintera tecnica artistica, n alle stanze suc-cessive permesso mutare qualche cosa alla forma della

    prima stanza, ma soltanto debbono rivestirsi di quella. Eperci si manifesta che la cosa di cui stiamo parlando sa-r il ricetto ovvero lintreccio di tutti gli elementi che lacanzone trae dallarte: spiegati i quali, la descrizione checerchiamo apparir chiara.

    Unintera arte della canzone, dunque, consiste in trecose: in primo luogo, la divisione melodica; in secondoluogo, la disposizione delle parti; infine, il numero deiversi e delle sillabe. Della rima non parlo, perch non

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    Al poco giorno e al gran cerchio dombra.

    Altre invece hanno la diesis: e la diesis (secondo ilsignificato che d al termine) non ammissibile senzaripetizione della stessa melodia, prima o dopo lo stacco,o in entrambe le parti della stanza. Se la ripetizione haluogo prima dello stacco, si dice che la stanza ha piedi:di solito sono due, e solo rarissimamente tre. Se laripetizione ha luogo dopo lo stacco, si dice che la stanzaha volte. Se non v ripetizione prima dello stacco,dico che la stanza ha una fronte; se manca dopo, dico

    che ha una sirma, o coda.Nota, o lettore, quanta libert di scelta si offre a chi

    compone canzoni, e chiediti perch luso si lasciatotanto arbitrio; e se la ragione ti avr menato per la viadiritta, vedrai che la detta scelta stata concessa per soloriguardo allautorit dei nostri maestri.

    Riesce cos bastantemente chiaro il modo in cui ladivisione melodica contribuisce allarte della canzone;passiamo dunque alla disposizione.

    XI

    Questa che chiamo disposizione, mi sembra costituire laparte pi impegnativa dellarte della canzone. Infatti essaunisce la partizione melodica con lintreccio dei versi e lerispondenze in rima, e perci, chiaramente, deve essere

    trattata con attentissima cura.Anzitutto dico che nella stanza possono disporsi lunorispetto allaltro, in modo diverso, la fronte e le volte, o ipiedi e la coda (o sirma), ovvero i piedi e le volte. Infatti,talvolta la fronte , o meglio pu essere maggiore dellevolte, per sillabe e per versi: e dico pu essere giacchin effetti non ho mai visto finora questa disposizione.Talvolta pu essere maggiore in versi e minore in sillabe,come quando la fronte di cinque versi, e le volte di

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    due versi ciascuna, ma i versi della fronte sono settenarie quelli della volta endecasillabi. Talora le volte superanola fronte in sillabe e in versi, come nella mia

    Traggemi de la mente amor la stiva:

    dove la fronte era di quattro versi, tre endecasillabi e unsettenario, e non si poteva dividerla in piedi, perch necessario che i piedi siano uguali luno allaltro pernumero di versi e di sillabe, come devono essere ugualifra loro le volte. Quanto ho detto della fronte, dico

    anche a proposito delle volte: queste infatti potrebberosuperare la fronte per versi ed essere superate per sillabe,se, per esempio, le volte fossero due, ciascuna di tre versisettenari, e la fronte fosse composta di cinque versi, dueendecasillabi e tre settenari.

    Talvolta poi i piedi soverchiano la coda in versi e insillabe, come nella mia

    Amor, che movi tua virt da cielo.

    Talaltra, i piedi sono dalla sirma soverchiati sotto ogniriguardo, come nella canzone da me scritta:

    Donna pietosa e di novella etate.

    E come ho detto della fronte, che pu risultare supe-riore in numero dei versi ma inferiore in sillabe, e vice-versa, cos dico della sirma.

    Anche i piedi possono superare numericamente levolte, oppure esserne superati: infatti la stanza pu averetre piedi e due volte, o tre volte e due piedi; e non siamocostretti da questi limiti, ma consentito intessere piedie volte, del pari, in numero anche maggiore. E quanto hoil gi detto circa la prevalenza in versi e sillabe nelle altrecombinazioni, vale anche per il rapporto tra piedi e volte,che possono al medesimo modo prevalere o cedere.

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    Devo far osservare che noi usiamo il termine piediin un senso opposto a quello usato per i poeti regolati:per loro un verso composto di piedi; per noi, come del tutto evidente, un piede composto di versi. Edevo anche ribadire che i piedi, luno rispetto allaltro,devono presentare lo stesso numero di versi e di sillabenel medesimo ordine, poich altrimenti la ripetizionedella melodia non potrebbe aver luogo. Il che affermodoversi osservare allo stesso modo fra una volta e laltra.

    XII

    Come si detto di sopra, vi anche un certo ordine daconsiderare quando si intrecciano versi: fissiamo dunqueuna norma in proposito, riportandoci anzitutto a quelche si gi detto dei versi.

    Nelluso dei poeti italici, tre versi sopra tutti gli altrigodono evidentemente il vantaggio di una maggior fre-quenza: lendecasillabo, il settenario, il quinario; ho gi

    affermato che il trisillabo subito li segue. Fra essi, quan-do ci misuriamo nella poesia di stile tragico, il privile-gio di primeggiare nel tessuto metrico tocca certamenteallendecasillabo, per una sua forma di eccellenza. Si dinfatti un tipo di stanza che risplende dellesser fatta disoli endecasillabi, come in quella canzone del fiorenti-no Guido, che comincia

    Donna me prega, perchio voglio dire;

    e anchio cos canto in:

    Donne chavete intelletto damore.

    Anche gli Ispani, e chiamo Ispani i poeti in linguadoc, hanno usato questo schema: per esempio Aimericde Belenoi, in

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    funzione della rima interna, come si trova nella canzonedel fiorentino Guido

    Donna me prega,

    e in quella che io ho scritto e comincia

    Poscia chAmor del tutto mha lasciato.

    Ma qui non assolutamente un verso a s, sibbenesoltanto parte di un endecasillabo, rispondente come

    uneco alla rima del verso che precede.Per quanto della disposizione dei versi, occorre ba-dare bene che, inserito un settenario nel primo piede, inuna certa sede, se ne trovi, in esatta corrispondenza, unaltro nel secondo: per esempio, se in un piede di tre ver-si il primo e lultimo verso sono endecasillabi e il secon-do settenario, anche laltro piede ha da avere il secon-do verso settenario e gli estremi endecasillabi: altrimentinon si rende possibile la ripetizione identica della melo-

    dia, in funzione della quale sono strutturati i piedi, comesi detto, e quindi non si pu nemmeno parlare di piedi.E quanto ho detto dei piedi ridico delle volte: infatti pie-di e volte differiscono solo per la posizione, definendo-si per essere gli uni anteriori, le altre posteriori allo stac-co nella stanza. E ancora quanto ho affermato a propo-sito di un piede di tre versi, si estende a tutti gli altri tipidi piede; e ci che vale per un settenario, vale anche per

    pi settenari e per il quinario e per ogni altro verso.Tanto, o lettore, ti pi che sufficiente a ricavare conquali versi si debba strutturare la stanza, e a intenderela norma per la disposizione dei versi che deve esseretenuta presente.

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    XIII

    Occupiamoci anche del riscontro fra le rime, senza direnulla della rima in s stessa: ne rimando infatti la trat-tazione specifica a pi tardi, al momento in cui parlerdella poesia di grado mediocre.

    Sul principio di questo capitolo, conviene sgombrareil campo da alcuni casi particolari. Uno la stanza senzarima, ossia quella in cui non vige alcuno schema di rime;di siffatte stanze us molto spesso Arnaut Daniel, peresempio in

    Se-m fos Amor de ioi donar;

    e anchio ho usato in

    Al poco giorno.

    Un altro la stanza in cui tutti i versi rimano allo stessomodo, dove chiaramente vano cercare uno schema.Restano dunque i casi di rime intrecciate e su questi sideve insistere.

    Anzitutto si ha da sapere che in questo campo quasitutti si concedono unassai ampia libert, e che da questofattore pi che da ogni altro si vuole ottenere la dolcezzaarmoniosa dellintero. Vi sono alcuni, infatti, che talvoltanon fanno rimare tutti i versi nella stessa stanza, maalcune rime ripetono solo nelle altre stanze: come stato

    di Gotto mantovano, che mi fece ascoltare molte suebelle canzoni in cui sempre inseriva nella stanza un versoirrelato, che chiamava chiave;