vox anno x 2011 n 2

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Poste Italiane SpA Spedizione in abbonamento postale 70% - L'Aquila ROC 9312 VOX MILITIAE VOX MILITIAE Anno X N° 2 Maggio 2011 CAVENDO TUTUS UN MONDO DI IDEE E MOVIMENTI DIROMPENTI

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forze armate, italia

Transcript of vox anno x 2011 n 2

Poste Italiane SpA – Spedizione in abbonamento postale – 70% - L'Aquila – ROC 9312

VOX MILITIAEVOX MILITIAE

Anno X – N° 2 Maggio 2011

CAVENDO TUTUS

UN MONDO DI IDEE E MOVIMENTI DIROMPENTI

2

VM Maggio 2011

L’ Altare della patria

Simbolo dell’unità

Nazionale e assolu-

ta dedizione al Do-

vere

Monumento

ai caduti

di tutte

le guerre

“Fratelli d’Italia”, pro-

clama il poeta, finalmente

l’Italia è pronta per la

lotta alla libertà contro

l’Austria, ha già indossa-

to l’elmo di Scipio, sim-

bolo di certezza di vitto-

ria dell’Italia sugli op-

pressori. Si richiama a

Scipione l’Africano, il

vincitore di Zama, che

rompendo con il tradizio-

nalismo aveva rafforzato

il primato di Roma, ri-

scattando il popolo roma-

no dalla sconfitta.

―Le porga la chioma”,

con riferimento all’antica

usanza di tagliare le

chiome alle schiave per

distinguerle dalle donne

libere che invece portava-

no i capelli lunghi; ―La

vittoria” deve porgere la

chioma all’Italia in segno

di totale asservimento.

Questo è il volere di Dio

che l’ha accumunata

all’impero di Roma.

Fratelli d’Italia “Il canto degli italiani”, divenuto successivamente “Fratelli d’Italia” ed inno nazionale il 12 ottobre 1946, composto dal “repubblicano”

Goffredo Mameli, fu cantato per la prima volta il 10/12/1847, l’ “anno delle costituzioni”, a Genova, 101° della insurrezione antiaustriaca

(quella del “ragazzo di Portoria” secondo la tradizione Giambattista Perasso detto Balilla, anche se nulla lo identifica esattamente). Un con-

densato di simboli e riferimenti, di una serie di citazioni degli antecedenti storici della rivoluzione nazionale. Il compositore genovese Michele

Novaro, appena avuto il testo lo musicò immediatamente.

Il “canto degli italiani” nacque negli anni in cui i poeti gareggiavano nell’esternare l’ardore dei sentimenti nell’azione politica.

Fratelli d’Italia

L’Italia s’è desta,

dell’elmo di Scipio

S’è cinta la testa,

Dov’è la vittoria?

La porga la chioma

Che schiava di Roma

Iddio la creò.

Stringiamoci a coorte,

Siam pronti alla morte

L’Italia chiamò.

Noi fummo da secoli

calpesti e derisi,

perché non siam popolo

Perché siam divisi:

Raccolgaci un’unica

Bandiera, una speme:

Di fonderci insieme

Già l’ora suonò.

Stringiamoci a coorte,

Siam pronti alla morte

L’Italia chiamò.

L’Italia era divisa in sette

stati e nessuno rispettava

gli italiani. Il nome Italia

rappresen tava so lo

un’espressione geografi-

ca. Per acquistare la di-

gnità di nazione occorre

riconoscersi in una sola

bandiera ed unirsi in una

speranza comune.

Dall’Alpi a Sicilia

Dovunque è Legnano

Ogni uomo di Ferruccio

Ha il cuore e la mano

I bimbi d’Italia

Si chiaman Balilla,

Il suon d’ogni squilla

I Vespri suonò.

Stringiamoci a coorte,

Siam pronti alla morte

L’Italia chiamò.

In una sola strofa sette

secoli di storia contro il

dominio straniero:

primo riferimento è alla

battaglia di Legnano

(1176) dove Alberto da

Giussano sconfisse Fe-

derico Barbarossa;

Poi la guerra di Firenze

contro l’impero di Carlo

V, di cui fu simbolo

Francesco Ferruccio;

Segue il ricordo del

Balilla, 1746, che lanciò

un sasso contro il nemi-

co e diede inizio alla

cacciata degli austriaci

da Genova;

Infine, ―il suon di ogni

squilla‖ significa ―ogni

campana‖ con riferimen-

to alle campane palermi-

tane che, la sera del 30

marzo 1282, chiamarono

i l p o p o l o

all’insurrezione contro i

francesi di Carlo

D’Angiò.

“I Vespri siciliani”.

Uniamoci, uniamoci

L’unione e l’amore

Rivelano ai popoli

Le vie del Signore,

Giuriam di far libero

Il suolo natio:

Uniti per Dio

Chi vincer ci può?

Stringiamoci a coorte,

Siam pronti alla morte

L’Italia chiamò.

Son giunchi che piegano

Le spade vendute:

Ah! L’Aquila d’Austria

Le penne ha perdute

Il sangue d’Italia,

Il sangue polacco

Bevè col cosacco

ma il cuor le bruciò.

Stringiamoci a coorte,

Siam pronti alla morte

L’Italia chiamò.

Uniamoci, nel nome

di Dio, ―per Dio‖, un

francesismo che sta a

significare attraverso

Dio saremo invincibi-

li.

In questa strofa, il poeta

fa riferimento alle lotte

del popolo polacco

contro il dominio della

Russia e dell’Austri -

Ungheria. Si rivolge con

sdegno e disprezzo alla

p o l i t i ca au s t r i aca

(l’Aquila d’Austria) che

per costruire il loro

impero si avvalse di

truppe mercenarie: i

cosacchi equiparati a

giunchi, che si flettono

facilmente, indice di

debolezza. Insieme ai

cosacchi l’Austria bev-

ve il sangue italiano e

quello polacco (con

riferimento allo smem-

bramento del Regno

polacco ) e si compiace

per il trasformarsi del

sangue in veleno che

d i l a n i a l ’ A q u i l a

d’Austria.

La Polonia nel Risorgi-

mento si associava ai

destini dell’Italia op-

pressa.

Goffredo MAMELI Michele NOVARO

La ―Coorte‖ (composta da fanti dotati di armamento

pesante), unità tattica della ―Legione‖, Grande Unità di

Fanteria con cui l’Esercito romano riuscì a prevalere in

battaglia.

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VM Maggio 2011

Anche io lontana migliaia di chilometri

dall’Afganistan, che ogni mattina vado a lavo-

rare nel mio ufficio e mi occupo della mia

famiglia, riesco ad immaginare dopo la morte

di Alessandro la dinamica dell’azione milita-

re: gli incursori del Col Moschin, muoversi

fianco a fianco mentre l'elicottero con il por-

tellone aperto ondeggia sopra la sabbia e le

pietraie e si avvicina a semicerchio sui taleba-

ni. Stringono il mitragliatore e si piegano in

avanti sul pianale pronti a lanciarsi fuori, con

il casco di kevlar, il giubbotto antiproiettile e

qualche migliaio di colpi addosso insieme alle

bombe deflagranti e alla radiotrasmittente. È

l'alba, l'aria ancora pungente, ma sotto quella

corazza si cola di sudore e tensione. Mancano

trecento metri, forse duecento al bersaglio.

Una raffica dal basso, una grandinata di colpi

dei talebani e l'elicottero italiano vira brusca-

mente. Non si sono sentite neppure le grida di

dolore dei feriti soffocate dai rotori che anda-

vano a mille.

Il tenente Alessandro Romani della Task

Force 45 è morto così, con gli occhi velati

dalla polvere e dall'argilla di Farah sollevata

dalle pale dell'elicottero.

Anche una donna come me ha capito che la

Task Force 45 è l'élite delle nostre forze spe-

ciali. Ufficialmente non esiste, soldati invisi-

bili che non sono neppure conteggiati nel

contingente dei 3.500 uomini schierati in Af-

ghanistan e nella provincia di Herat dove han-

no il comando gli italiani della brigata alpina

Taurinense del generale Claudio Berto. I fan-

tasmi della Task Force 45 sono incaricati di

bloccare le incursioni dei talebani dal confine

pakistano e dalla turbolenta provincia

dell'Helmand. Ma sono anche in prima linea a

nord, nella vallata di Bala Murghab e ancora

più su, quando ci si avvicina alle vette acumi-

nate al confine con il Tagikistan e l'Iran.

Quanti sono? Forse 200, selezionati tra le fila

del 9° Reggimento d'assalto paracadutisti Col

Moschin, eredi degli Arditi del Grappa della

prima guerra mondiale, e integrati da incursori

della Marina del Comsubin, carabinieri del

Gis e forze speciali dell'Aviazione. Sono mili-

tari addestrati alla sopravvivenza in ogni con-

dizione, anche in quelle più estreme e disuma-

ne, dove le facoltà mentali e nervose devono

essere pari almeno a quelle fisiche.

All'insaputa di gran parte degli italiani gli

uomini della Task Force hanno partecipato, in

stretto coordinanento con le altre forze alleate,

a scontri importanti e sanguinosi. A Farah

sono schierati da quattro anni: è una delle

zone più insidiose sotto il comando italiano.

Tutte le guerre hanno una loro vita segreta e

quella degli incursori della Task Force è una

delle meno conosciute. Nel tentativo di rac-

contare le strategie e le forze profonde che

animano un conflitto spesso sfuggono aspetti

essenziali della realtà quotidiana. «Bombe,

trappole esplosive, anche rudimentali – ci

spiegavano, sempre in toni generali, i colleghi

di Alessandro - sono insidie micidiali e a volte

la tecnologia non basta. Se i talebani impiega-

no ordigni elettronici

sofisticati per far sal-

tare una bomba, ab-

biamo i mezzi per

anticipare la minaccia.

Ma con una semplice

miccia o una mina a

pressione aggirano

anche i detector più

sofisticati». Questo è

il problema della

guerra asimmetrica,

termine che noi fami-

liari abbiamo dovuto

imparare! Il caricatore

di un kalashnikov a

breve distanza può

abbattere un elicotte-

ro da milioni di euro,

una bomba improvvi-

sata da pochi soldi

distruggere un veico-

lo blindato come il

Lince.

Qualche tempo fa gli

uomini della Task Force 45 con Alessandro si

acquartierarono nel fortino di Delaram, un

avamposto dalle mura sbreccate dove negli

anni Ottanta stava l'Armata Rossa: da qui

sono partiti e partono gli incursori per tenere a

bada gli insorti di Bakwa nel distretto di Bala

Baluk. Un crocevia strategico, un'area dal

nome poetico agli occhi di un parente di un

valoroso militare caduto: il Giardino dei Fiori,

che oggi per noi ha il ricordo terribile della

tragedia.

Alessandro vive nei cuori della sua famiglia

che è orgogliosa di lui e che lavora costante-

mente per legare la sua memoria alla vita,

come quella dei bimbi malati oncologici

dell’Associazione Peter Pan Onlus, attraverso

donazioni in sua memoria ed all’immagine

dell’uomo ―giusto‖ caduto per difendere il

supremo valore della libertà dei popoli, verso

il quale ognuno di noi anche nella più piccola

delle sfere private, deve tendere.

Emanuela Mariani zia del capitano Ales-

sandro Romani, morto il 17 settembre

2010 in Afghanistan, ricorda il nipote.

Un albero di ulivo delle colline di Gerusalemme è stato piantato nel

cuore di Villa Toronia in memoria del capitano Alessandro Romani,

donato dal Comune di Roma e dall'associazione Keren Kayemeth

Leisrael Italia". Una targa incastonata in una roccia, posta ai piedi

dell'albero, proveniente dalle montagne dell'Abruzzo.

Tenente Massimo RANZANI

Ultimo caduto in Afghanistan

- 28 febbraio 2011 -

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VM Maggio 2011

Il cammino dell’Abruzzo verso l’Unità

Il viaggio verso l’Unità in Abruzzo dura qua-

ranta anni, ed ha una data d’inizio precisa:

sette marzo 1821, come troviamo scritto poco

prima di Antrodoco, su un cartello turistico

posto lungo la strada statale che da L’Aquila

porta a Rieti.

Ci troviamo nel Regno delle Due Sicilie (il

più esteso stato italiano), quasi ai confini con

lo Stato della Chiesa, nell’Abruzzo Ulteriore

Secondo, con capoluogo Aquila (l’articolo

determinativo sarà aggiunto con il fascismo);

le altre divisioni erano l’Abruzzo Ulteriore

Primo (con capoluogo Teramo) e l’Abruzzo

Citeriore (capoluogo Chieti). In quel sette

marzo si affrontarono nelle gole di Antrodoco

le truppe al comando del generale calabrese

Guglielmo Pepe, definito dal De Sanctis

‖Padre della Rivoluzione italiana‖, che difen-

deva la rivoluzione napoletana del 1820, e le

milizie austriache del generale Johann Maria

Philipp Frimont, chiamate da Ferdinando I,

costretto un anno prima a concedere la costitu-

zione, ma pronto a rimangiarsi la parola e ad

instaurare un regime reazionario. Allo scontro

si era arrivati dopo proclami dalle due parti,

che invitavano da un lato il popolo alla difesa

della libertà, e dall’altro lo minacciavano di

dure repressioni. Lo stesso Pepe aveva scritto

un inno di guerra. Le truppe rivoluzionarie

vennero sconfitte, e la repressione fu durissi-

ma, ma questo non impedì la diffusione nella

regione degli ideali di libertà.

Come nel resto d’Italia, anche in Abruzzo

erano presenti carbonari e liberali, costretti ad

agire nella clandestinità, già protagonisti di

rivolte come quella di Pescara del 1814, o

quella di Napoli del 1820. I carbonari utilizza-

vano codici di riconoscimento e rituali segreti,

e diffondevano gli ideali di libertà con biglietti

che ai nostri occhi appaiono ingenui, ma che

rendono testimonianza di quale fosse il clima

repressivo dell’epoca.

Intorno al 1830-31, in coincidenza con la

fondazione della ―Giovine Italia‖ di Mazzini,

anche in Abruzzo, pur se in misura minore

rispetto ad altre aree, si tentarono sollevazioni.

In questa fase si distinsero tra gli altri perso-

naggi come i pennesi Nicola e Domenico De

Caesaris (già protagonista della sommossa di

Città S.Angelo del 1814, e comandante del

presidio di Penne nel 1820), gli aquilani Gia-

como Dragonetti e Pietro Marrelli , il sulmo-

nese Panfilo Serafini. Le pagine più eclatanti

delle rivolte abruzzesi si ebbero a partire dal

1837, quando, occasionali epidemie di colera,

scoppiate nel regno delle Due Sicilie, furono

sfruttate dai liberali come occasione di som-

mossa, accusando il governo di avere diffuso

ad arte la pestilenza, o quanto meno di non

averla saputa combattere. La plebe appoggiò

questi moti. A Penne il 23 luglio 1837 un

gruppo di patrioti (tra i quali Filippo Forcella

e Raffaele Castiglioni) si impadronì della

caserma e delle armi incitando la città alla

sollevazione, a cui aderirono anche Farindola,

Moscufo, Cappelle e Spoltore. Contro i rivol-

tosi mossero diverse compagnie comandate da

Gennaro Tanfano il quale riuscì a occupare la

città, arrestando decine di rivoltosi e costrin-

gendone diversi altri alla fuga. Il processo che

ne seguì si concluse con varie condanne al

carcere e nove a morte, eseguite nella piazza

della cittadella di Teramo il 21 settembre. La

vendetta contro Tanfano non si fece attendere

molto: quattro anni. Nel 1841, l’otto settem-

bre, fu la volta dell’Aquila a sollevarsi, in

coincidenza con la festa di Piedigrotta. Alle

ventidue vennero accoltellati a morte il colon-

nello Tanfano, comandante della piazza, e il

suo attendente Scannella. I rivoltosi, capeggia-

ti dallo stesso sindaco, il barone Ciampella, da

Marrelli, da nobili quali Luigi Falconi, Luigi

Dragonetti, Giuseppe Cappa, occuparono

dapprima porta Rivera poi iniziarono degli

scontri a fuoco nelle vie della città con le trup-

pe borboniche. La scarsa capacità organizzati-

va contribuì però alla sconfitta dei rivoltosi.

La repressione al solito fu immediata e portò

all’incriminazione di 192 persone, in preva-

lenza artigiani, che furono quelli più duramen-

te colpiti. Vi furono otto condanne a morte, di

cui tre eseguite sui bastioni del forte spagnolo

(gli assassini di Tanfano) e le altre cinque

commutate nell’ergastolo, oltre a 90 condanne

al carcere. Questo avvenimento ebbe grande

eco in Italia, tanto che si disse che ispirò

l’azione calabrese dei fratelli Bandiera del

1844, e quelle successive del ’48 e del ’59.

Davide ADACHER

Coccarde dei Carbonari

Sonetto Carbonaro

Volantini Carbonari

Antrodoco

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VM Maggio 2011

E finalmente ―avvenne un quarantotto‖

In seguito ai fatti di Palermo, l’undici febbraio

1848 re Ferdinando II fu costretto a concedere

la Costituzione. Tornarono dall’esilio i vecchi

rivoluzionari del ’37: Domenico De Caesaris,

Salvatore Tommasi e Francesco De Blasis

furono eletti rappresentanti abruzzesi nel nuo-

vo parlamento.

Scoppiarono rivolte in tutta Italia, tra cui quel-

le di Milano e di Venezia: iniziò la prima

guerra d’indipendenza. La risposta reazionaria

borbonica non si fece attendere: Ferdinando

ripristinò l’assolutismo, represse i moti, so-

spese il parlamento, cancellò la costituzione.

Ad Aquila con l’intendente Mariano d’Ayala,

aperto alle idee liberali, si tentò inutilmente di

organizzare un’altra insurrezione, così come a

Teramo: protagonisti tra i quali Marrelli, Fa-

bio Cannella, Giuseppe Pica, Luigi Dragonet-

ti, Luigi Spaventa e lo stesso D’Ayala, furono

costretti all’esilio o arrestati e incarcerati a

Procida, Pozzuoli, Pescara, dove i prigionieri

tentarono invano una rivolta nel febbraio

1853, anno in cui salì al trono Francesco II.

Da quell’anno, in cui scoppiò anche la guerra

di Crimea, non vi furono episodi particolari in

Abruzzo.

La scintilla finalmente si riaccese nel 1860

con la notizia della spedizione di Garibaldi e

dei mille, fra cui vi era un abruzzese, Pietro

Baiocchi di Atri, morto in combattimento a

Palermo nel mese di giugno. Francesco II

inutilmente il 25 giugno ripristinò la costitu-

zione del ’48; in Abruzzo i patrioti, evasi dalle

galere o ritornati dall’esilio, si organizzarono

per l’azione. Clemente De Caesaris ebbe

l’incarico come prodittatore di Garibaldi per

le province d’Abruzzo; catturato e rinchiuso

nel carcere di Pescara, venne liberato su inter-

vento diretto di Garibaldi che telegrafò: ―Guai

a chi lo tocca. Spedisco un’armata sulle ali‖,

ed inviò due navi che si ancorarono al largo di

Pescara. Liberato, De Caesaris costrinse alla

resa il forte e proclamò il governo provviso-

rio. La mattina dell’otto settembre da Napoli

giunse un telegramma:‖Il Dittatore Garibaldi è

giunto in Napoli alla mezza tra lo entusiasmo

generale di tutta la popolazione. Tutto è festa

e tranquillità‖.

La notizia ebbe immediate ripercussioni: ad

Aquila venne dichiarato decaduto il governo

borbonico e fu costituito un governo provviso-

rio con un triumvirato composto

dall’intendente Federico Papa, dal sindaco

Fabio Cannella e da Angelo Pellegrini. Lo

stesso avvenne in altre località della regione,

dove la guardia nazionale si mise sotto le armi

e al posto dello stemma borbonico apparve

quello sabaudo.

Il 25 settembre una delegazione si recò nelle

Marche dai generali Fanti e Cialdini per sol-

lecitare l’intervento delle truppe sardo-

piemontesi, anticipando l’arrivo di Vittorio

Emanuele II che partì da Torino verso Ancona

il 29.

Il cinque ottobre una deputazione, guidata da

Salvatore Tommasi si incontrò col re, portan-

do anche i risultati del plebiscito per convin-

cerlo a varcare il confine, posto lungo il Tron-

to. La mattina del 15 ottobre il re sabaudo

attraversò il confine nei pressi di Martinsicu-

ro, per raggiungere Garibaldi il quale prose-

guiva la conquista della Campania, dopo avere

messo in fuga Francesco II, rifugiato a Gaeta.

Nello stesso giorno il maggiore Luigi Ascio-

ne, comandante della guarnigione di stanza

nella fortezza di Civitella del Tronto, dichiara-

va lo stato d’assedio.

La fortezza resistette fino al 20 marzo 1861,

dopo terrificanti bombardamenti. Molti difen-

sori dell’ultimo baluardo borbonico furono

deportati nelle carceri piemontesi di Savona e

Fenestrelle da dove non fecero più ritorno. Le

fortezze di Civitella e di Pescara vennero poi

distrutte.

Segue: Il cammino dell’Abruzzo verso l’Unità

GAMBA Enrico (Torino, 1831 - 1883): Il voto di annessione dell'Abruzzo, Plebiscito nella campagna

romana. Olio su tela, cm 105 x 209,5. Galleria d'Arte Moderna, Genova

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VM Maggio 2011

Il viaggio di Vittorio Emanuele II in Abruzzo

Il viaggio di Vittorio Emanuele II in Abruzzo

fu trionfale, con generali accoglienze festose:

il re passò per Giulianova, Roseto, Castellam-

mare Adriatico, Pescara, Chieti, Popoli, Sul-

mona, Pettorano, Rocca Valle Oscura

(ribattezzata Rocca Pia, in onore della figlia

del sovrano), Roccaraso e, finalmente, Castel

di Sangro, dove gli venne annunciato il plebi-

scito.

La strada verso il Volturno era quasi libera,

ma per ricongiungersi con le truppe prove-

nienti da sud fu necessario combattere il 20

ottobre una battaglia nei pressi del Macerone.

In quei mesi in Abruzzo diversi furono gli

episodi meno gloriosi del risorgimento, come

l’eccidio di Scurcola, avvenuto il 23 gennaio

1861 con 140 morti filoborbonici, o le azioni

del generale Pinelli che incendiò quattordici

paesi in pochi giorni.

Il cammino verso l’unità era comunque segna-

to; da lì a poco, il 26 ottobre vi sarebbe stato

l’incontro detto di Teano, che avrebbe posto

fine alla spedizione dei Mille.

In realtà la strada era ancora lunga: Roma

sarebbe stata ricongiunta al resto dell’Italia

solo nel 1870; dovevano ancora compiersi i

tentativi garibaldini del 1862, la terza guerra

di indipendenza del ’66, le battaglie di Mon-

terotondo e Mentana del ’67, sacrifici di pa-

trioti, tra i quali quelli dei fratelli Cairoli a

Villa Glori, a Roma della Tavani Arquati e di

Monti e Tognetti decapitati nel 1868.

Ma, come si disse, fatta l’Italia, bisognava

fare gli Italiani, e questo riguardò direttamen-

te, e talvolta tragicamente, anche gli abruzze-

si.

La regione, centrale, ma considerata meridio-

nale, versava in gravi condizioni di povertà,

acuite dalle guerre e dalle tasse imposte dal

governo unificato: gli abitanti di Pianella do-

vettero vendere in un’asta i loro utensìli do-

mestici per pagare il dazio sul vino.

Il pittore di Castel di Sangro Teofilo Patini,

che aveva militato nei garibaldini ―cacciatori

del Gran Sasso‖ e nella Guardia Nazionale,

dipinse la triste realtà abruzzese del tempo.

Egli fu anche impegnato nella repressione del

brigantaggio, che già era - si può dire - ende-

mico, ma che ricomparse e si diffuse anche

con caratteri di appoggio politico alla reazione

borbonica e di protesta sociale.

Il governo piemontese apparve, specialmente

alle masse contadine, come un nuovo usurpa-

tore. Un senatore aquilano, Giuseppe Pica,

che era stato arrestato per aver partecipato ai

fatti del maggio 1848, dette il nome alla fami-

gerata legge pubblicata il 15 agosto 1863, che

stabiliva la competenza dei tribunali militari

per i reati di brigantaggio: in base ad essa la

repressione fu durissima, e la lotta al brigan-

taggio ebbe termine solo nel 1870, con un

bilancio tragico di centinaia di morti, oggetto

anche di giustizia sommaria, e migliaia di

arrestati e deportati. Gli altri problemi legati a

quella che fu definita ―questione meridionale‖

portarono col tempo migliaia di abruzzesi ad

emigrare.

Il cammino verso l’unità era destinato ad esse-

re ancora lungo ed impervio.

Segue: Il cammino dell’Abruzzo verso l’Unità

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Aprile e Ottobre 2007: Missione

Min. D’Alema

VM Maggio 2011

L’UNITA’ D’ITALIA

La nascita del Regno d’Italia, 17 marzo 1861, passa necessaria-

mente per la fine dell’assedio di Gaeta. Io come tutti noi, ero e

sono ancora pronto a difendere la Patria a costo della vita, ma

questo non mi impedisce di ricordare con rispetto anche coloro

che sono caduti nella difesa di una fortezza che, fino al 13 febbra-

io 1861, fu una delle più terribili d’Europa. Non sono un tipo

originale e sono in buona compagnia: nel 1868 il generale Lanza-

vecchia di Buri pose questa lapide in quella che fu la Batteria

Philipstad a Gaeta.

Il Re che difendeva il suo regno era Francesco

II di Borbone, Franceschiello… si proprio

lui, ma forse non era tanto ridicolo se i suoi

uomini ricevettero l’onore delle armi

dell’Armata Sabauda comandata dal Generale

Enrico Cialdini (poi Duca di Gaeta) , che ,

per la verità , non era uno tanto morbido ! Con

il Re c’era la giovane Regina Maria Sofia ( la

sorella di Sissi, l’Imperatrice d’Austria) che

visse tanto da andare a trovare i prigionieri

italiani in Austria durante la I GM per cercare

i napoletani e parlare il loro dialetto. Qualcu-

no dice che anni prima aveva finanziato Gae-

tano Bresci, ma questa e’ un’altra storia. Co-

me dice la targa innumerevoli furono gli atti

di valore da entrambe le parti ma i cannoni

Piemontesi erano rigati, forse per la prima

volta nella Storia militare, e i proiettili esplo-

devano in aria schizzando schegge da tutte le

parti; la Storia aveva già deciso e il povero

Francesco riuscì a fermarla solo dal 7 settem-

bre 1860 al 13 febbraio dell’anno dopo. E dire

che il 7 settembre Garibaldi aveva avuto il

coraggio di entrare da solo a Napoli e si era

presentato in carrozza in quella che oggi è

Piazza Plebiscito: gli artiglieri di servizio ai

cannoni di Castel S. Elmo lo vedevano bene

ma Franceschiello aveva detto di non sparare

perchè non voleva morte e distruzioni a Napo-

li, lui! E così agli allievi della Nunziatella e al

Colonnello De Liguoro, che comandava la

guarnigione di Castel Nuovo (leggi Maschio

Angioino), non restò che andare anche loro a

Gaeta con i tamburi e le Bandiere in testa.

Fino al mese di novembre le operazioni si

svolsero intorno a Capua, sul Volturno e a

Mola di Gaeta ove la Bandiera del 1° Rgt,

Granatieri fu decorata con la Medaglia d’Oro

al V.M. Anche sul Volturno le sorti della Bat-

taglia furono a lungo incerte e solo il carisma

di Garibaldi consegnò la Vittoria alle Camicie

Rosse. I resti dell’Esercito borbonico si rac-

colsero in parte davanti alle mura di Gaeta ed

in parte varcarono il confine con lo Stato Pon-

tificio, per poi sciogliere i Reparti. A metà

novembre la forza dell’Esercito Borbonico

chiuso a Gaeta sommava a 934 Ufficiali e 12

mila uomini di truppa. Con essi, a dividere

fatiche e pericoli, oltre il Re e la Regina, erano

i membri della Corte, il Nunzio Apostolico ed

il Corpo Diplomatico ancora accreditato.

L’artiglieria contava 506 pezzi, ma di questi

solo 329 potevano esser messi in batteria e

moltissimi erano scarsamente utili per gittata e

precisione. Solo 4 erano rigati.

A novembre il Corpo d’Armata Sabaudo con-

tava 808 Ufficiali, 15.755 uomini di truppa,

1669 cavalli e 42 cannoni. Al 1 gennaio 1861

l’artiglieria contava 166 pezzi, con grossi

cannoni Cavalli, suddivisi in 23 batterie. Di

questi 153 fecero fuoco simultaneamente negli

ultimi giorni. Gli episodi significativi durante

l’assedio furono una sortita effettuata con

circa 2000 uomini dal Gen. Bosco ed una

successiva azione per sgombrare il campo di

tiro del fronte di terra. Per gli assediati la gior-

nata peggiore fu quella di Natale quando piov-

vero sulla città 500 cannonate. Oltre

l’artiglieria dovettero sopportare anche una

epidemia di tifo che provocò numerose vitti-

me, tra militari e civili, senza distinzione di

eta’, censo e grado. In queste condizioni si

ebbero episodi pittoreschi di marinai napole-

tani che, sugli spalti e sotto il fuoco, giocava-

no a tresette o ballavano la tarantella per

scherno agli assedianti.

La capitolazione avvenne quando, tra la fine

di gennaio e l’inizio di febbraio, si verificaro-

no spaventose esplosioni provocate da precisi

colpi che centrarono alcuni depositi di polveri

con stragi immani.

Al termine delle operazioni i colpi sparati

furono 56.727 da parte Sabauda e 35.244 da

parte Napoletana. Le perdite furono di 46

morti e 321 feriti tra i Piemontesi e 826 morti

e 569 feriti oltre 200 dispersi e 800 malati tra

gli assediati. Non e’ stato mai possibile risali-

re alle perdite dei civili e ancora agli inizi del

900 i Gaetani chiedevano gli indennizzi per i

danni di guerra subiti . Di questa questione ho

avuto modo di vedere un vecchio resoconto

dell’attività parlamentare svolta per risolvere

questa annosa problematica.

Durante l’assedio fu la giovane Regina che

animò i difensori accorrendo ove più intensa

era la battaglia e si meritò l’affetto dei soldati

e l’ammirazione nelle corti straniere: anche

l’Armata Sarda riconobbe il coraggio e

l’abnegazione di Maria Sofia.

Nell’armata Sabauda fu il Comandante, Gene-

rale Cialdini, l’animatore instancabile solleci-

tando e indirizzando i suoi Ufficiali a portare

avanti l’azione che doveva essere si efficace

ma senza inutile ferocia perché ―Noi combat-

temmo contro Italiani, e fu questo necessa-

rio, un doloroso ufficio. Epperò non potrei

invitarvi a dimostrazioni di gioia, non po-

trei invitarvi agli insultanti tripudii del

vincitore …….. Il soldato di Vittorio Ema-

nuele combatte e perdona .‖

Giovanni PAPI

8

VM Maggio 2011

Francesca Bocchi

I barbari, per i Romani, erano ―quelli che

balbettavano‖ e questa definizione la dice

lunga sulla grande considerazione nella quale

si tenevano e quanto poco considerassero

l'altro da sé.

Tutto il mondo conosciuto fu attratto nell'orbi-

ta dei Latini, colonizzato o se non altro forte-

mente influenzato da loro, con strascici di

morte e distruzione ma anche di civiltà e pro-

gresso.

Purtroppo, la morte e distruzione costituisco-

no inevitabili prodromi alla civiltà ed al pro-

gresso, soprattutto quando un popolo pretende

la preminenza sulla base di non meglio identi-

ficata presunzione di potere: siamo migliori,

possiamo insegnarvi la democrazia e la liber-

tà. Ma a che prezzo?

Forse è ciò che sta prendendo forma in questi

giorni nel Mediterraneo, la storia in un certo

senso si sta ripetendo (ma dei corsi e ricorsi

storici non era assertore Vico?) con i Buoni

che combattono i Cattivi. Ma CHI può definir-

li tali e sulla base di cosa i Buoni dovremmo

essere noi?

Più domande che risposte, lo so!

Le notizie che rimbalzano da una parte all'al-

tra ci confondono e ci stordiscono, anche per-

ché non sono disgiunte da quanto ci perviene

dall'altro lato dell'Emisfero Nord – il Giappo-

ne.

Fra emergenza nucleare da un lato e venti di

guerra che spirano alle soglie di casa nostra

non c'è da stare allegri né tranquilli. D'altron-

de, la prossimità geografica è un'aggravante,

ci preoccupa più del nucleare perché fra noi

ed il Giappone c'è di mezzo almeno l'Oceano!

L'Occidente vive ormai nell'ozio e gode di una

comoda e pigra indolenza, non è più abituato

ai sacrifici ed è avvezzo ad una lunga situazio-

ne di stabilità e pace oltre che di prosperità,

nonostante la recente, forte crisi economica.

E' ovvio, quindi, che le immagini che vediamo

e le notizie che ci bombardano sono inquietan-

ti: cosa attendersi dal domani? Una ―bomba‖

di migranti promessa da Gheddafi? Forse

sarebbe da augurarselo...

Certo, è importante garantire ai popoli una

propria autodeterminazione, consentire a tutti

di potersi scegliere una forma di Governo

consona e rispettosa dei basilari diritti umani.

Peraltro, ciò comporterebbe, come conseguen-

za, che i popoli non sentirebbero più l'esigen

za di migrare, di abbandonare la propria terra

in cerca di fortuna altrove, ma avrebbero l'op-

portunità di vivere un'esistenza

altrettanto dignitosa nella terra

in cui sono nati. Questo po-

trebbe realizzarsi anche con

strumenti meno invasivi se

solo si pensa ad un Progetto

semplice ma rivoluzionario quale è quello sul

―microcredito‖, del quale è stato ispiratore

Muhammad Yunus, Nobel per la Pace 2006.

―Pace‖: mai parola fu più breve, facile da

pronunciare, ma difficilissima, faticosissima

in quanto a contenuti!

E' una missione, una sorta di vocazione quella

che ti conduce a perseguire la pace e, soprat-

tutto, a mantenerla e coltivarla, compito ben

più arduo che, come moderna ―levatrice‖,

dovrebbe vedere impegnato sempre e comun-

que il nostro pigro mondo occidentale.

Qualche volta si riesce; altre volte si fallisce,

ma l'importante sarebbe almeno provarci: si

premierebbe il tentativo se il risultato finale

fosse deludente!

―Occhio per occhio … e il mondo diventa

cieco‖ Gandhi

IL MEDITERRANEO

culla di civiltà e barbarie

Il 18 dicembre 2010, Mohamed Bouazizi, un ambulante tunisino, per

protestare contro la confisca da parte della polizia del suo banchetto di

frutta abusivo, si dà fuoco davanti al palazzo del governo a Sidi Bou-

zid, località nel centro della Tunisia. Il disperato gesto dell’uomo ha

innescato la protesta contro il carovita e la disoccupazione che si è

allargata al resto del Paese; il 27 dicembre 2010, la protesta arriva alle

strade di Tunisi.

Dalla Tunisia il germe della rivolta, in pochi giorni, ha contagiato tutto

il mondo arabo del Nord Africa e del Medio Oriente. Segno evidente

che il ―virus‖ covava dentro da tempo ed è esploso inaspettato ed inar-

restabile in nome dei principi di ―Libertà‖, ―Uguaglianza‖ e

‖Giustizia‖. I governi dei ―regimi arabi moderati‖, sostenuti

dall’occidente per contrastare il fenomeno del fondamentalismo isla-

mico, hanno mostrato la loro natura dispotica ed illiberale. Con essi in

nome di una realpolitik sono stati fatti accordi economici e politici

tendenti a stabilizzare il quadro internazionale. Tutti sapevano, ma a

nessuno interessava il carattere fondante di quei regimi. L’Occidente,

ora, sarà costretto a fare nuove scelte che tengono conto delle richieste

delle popolazioni in rivolta, ma sempre attento a non favorire l’islam

radicale o Al Qaeda.

Ancora una volta, dopo la caduta del muro di Berlino, l’equilibrio si è

rotto e, inevitabilmente, seguiranno lotte per il ristabilimento di un

nuovo equilibrio.

La gente si aspetta le riforme per cui si è battuta, ma nessun politologo

osa azzardare una previsione sullo sviluppo degli eventi. Ogni ipotesi

può essere giusta o sbagliata, ma molto dipenderà dalla capacità delle

popolazioni disposte a continuare la lotta in nome dei principi di

―Libertà‖, ―Uguaglianza‖ e ―Giustizia‖. Se guardiamo quanto avvenuto nella storia recente del continente afri-

cano e del mondo arabo, in particolare, non c’è da farsi molte illusioni.

L’esempio più eclatante è la rivoluzione iraniana alla fine degli anni

settanta: oggi l’Iran si ritrova governato da una teocrazia islamica

costretta a reprimere giornalmente le richieste di libertà e di democra-

zia.

In Algeria, le libere elezioni del 1990, vinte dal Fronte Islamico di

Salvezza (FIS) hanno portato ad una guerra civile che ha prodotto

migliaia di vittime; nel gennaio del 1992 l'esercito ha preso il potere

con un colpo di stato determinando un brusco arresto del processo di

democratizzazione.

Nella striscia di Gaza, Hamas, Organizzazione paramilitare per la

Resistenza Islamica, dopo una cruenta lotta armata contro l’altra fazio-

ne palestinese Al- Fatah, Organizzazione facente parte del Movimento

per la Liberazione della Palestina (OLP), ha preso il controllo effettivo

del Territorio.

In Libano gli Hezbollah (Partito di Dio), altro movimento estremista

che si propone l’eliminazione di Israele, siedono in parlamento.

TEMPESTA NEL MONDO ARABO

Tutto ha inizio con la disperazione

di un giovane tunisino

Raffaele SUFFOLETTA

9

VM Maggio 2011

La rivolta in Libia

Dopo le rivolte che hanno interessato i Paesi

del Nord Africa, iniziate nel dicembre 2010,

che erano riuscite a far cadere regimi consoli-

dati, sembrava che la Libia potesse restare

indenne dal vento della protesta. A supporto

di tale tesi si portavano argomentazioni di

carattere socio – economico dovute alle mag-

giori risorse petrolifere ed al tenore di vita

della popolazione, superiore ai Paesi confi-

nanti. Peraltro, nel quarantennale potere di

Gheddafi di rivolte e tentativi di rovesciarlo ce

ne sono stati diversi: tutti risolti con la repres-

sione più spietata.

Dal 17 febbraio le cose sono cambiate. Benga-

si, la città simbolo dell’opposizione tribale a

Gheddafi, seguita da altre province importanti

sono cadute in mano ai rivoltosi. Le manife-

stazioni hanno raggiunto anche Tripoli. Molti

esponenti di spicco del regime, militari e poli-

tici, hanno preso le distanze dal rais. Gheddafi

sembrava fosse sul punto di cedere le armi.

Ma la rivolta si è spenta e, come al solito,

Gheddafi ha represso la protesta nel sangue,

ed ha sferrato la sua controffensiva riconqui-

stando gran parte delle posizioni perdute im-

piegando la potenza di fuoco delle Forze Ar-

mate contro la popolazione inerme. Ma questa

volta ha trovato un’opinione pubblica mondia

le e condizioni politiche generali che hanno

iniziato a stigmatizzare la sua condotta contro

la popolazione civile.

La comunità internazionale è intervenuta con

la forza. Dopo il solito iniziale tentennamento

il Consiglio di Sicurezza dell’ ONU ha delibe-

rato all’unanimità due risoluzioni: la 1970 (26

febbraio 2011) e la 1973 (17 marzo 2011)

aventi come obiettivo da raggiungere:

l’immediato cessato il fuoco, la fine delle

violenze con lo scopo di andare incontro alle

legittime aspettative della popolazione e di

assicurare il rispetto dei diritti umani e del

diritto internazionale umanitario.

Le delibere, prese sulla base del capitolo VII

delle Statuto dell’ONU, hanno adottato diversi

provvedimenti in merito a: protezione di civi-

li, zona di non volo, imposizione

dell’embargo sulle armi, interdizione ai voli,

congelamento dei beni di Gheddafi, ma esclu-

dendo categoricamente il dispiegamento di

"una forza di occupazione straniera di qualsia-

si forma e in qualsiasi parte del territorio libi-

co‖.

L’iniziativa militare contro Gheddafi è stata

attuata tempestivamente da Francia, Gran

Bretagna e USA, ma senza una linea strategi-

ca definita. Solo successivamente il coordina

mento, comando e controllo delle Operazioni

è passato alla NATO.

Da quanto accaduto è apparso dubbio che

l’intervento militare occidentale avesse natura

umanitaria e forse nasconde l’importanza del

controllo delle risorse energetiche libiche, del

Nord Africa e dell’intero continente africano,

sempre più terra dei cinesi (neo-colonialismo).

La crisi ha evidenziato, qualora ce ne fosse

ancora bisogno, l’assoluta mancanza della

capacità di intervento dell’ Unione Europea

incapace di attuare una politica comunitaria di

solidarietà. Sono del tutto mancate scelte coe-

se e decisioni politiche comuni sia nel trattare

la rivolta in Libia, sia nel problema

dell’accoglienza dei migranti in afflusso in

massa sulle coste italiane di Lampedusa. I

singoli Stati in nome dei propri interessi na-

zionali il problema della politica comune non

se lo sono posto e non hanno neanche salvato

le apparenze. Peraltro, i Paesi Europei si sono

lasciati sorprendere dagli avvenimenti.

Quale scenario politico si può configurare per

il Nord Africa è difficile prevedere. La situa-

zione permane di grande incertezza e l’Italia

deve fare molta attenzione perché se da un

verso rischia di perdere il vantaggio di partner

economico di rilievo (la Libia è il nostro pri-

mo fornitore di petrolio, il quarto di gas ed

investitori libici sono attivi in molti settori

della nostra economia) dall’altro verso avere

ai confini nuove Democrazie potrebbe avere

riflessi positivi sull’intera Area.

Il giorno della carneficina a DARAA e HOMS, circa 30

morti.

Traduzione: a sinistra ―Proteste‖. A destra

―Commissione di Accoglienza‖.

Autore: Habib Haddad

Fonte: al-Hayat, Londra—Beirut, 8 aprile 201

Vignetta scelta e tradotta da Lorenzo Trombetta.

Tratta dal sito di ―Limesonline‖.

La rivolta in Siria

Il regime siriano di Bashar el Assad continua a reprimere nel sangue le

proteste della popolazione.

Francia, Gran Bretagna, Germania e Portogallo hanno chiesto al

Consiglio di Sicurezza dell’ONU di condannare la violenza del governo

Siriano e il Segretario Generale Ban Ki-moon ha avviato un’inchiesta,

mentre gli Stati Uniti stanno considerando di imporre delle nuove san-

zioni alla Siria.

I giornalisti stranieri sono stati allontanati dal Paese e quelli ancora

presenti non possono recarsi liberamente nei luoghi delle manifestazioni.

La Siria ha chiuso le frontiere con la Giordania .

In campo anche l’Esercito, con carri armati e mezzi blindati, per

soffocare le proteste contro il governo che continuano a scoppiare in

tutto il Paese e, secondo l’organizzazione per i diritti, Sawasiah, circa

500 attivisti sono stati arrestati, mentre le vittime dall’inizio delle

proteste sarebbero 400, scoppiate nella città di Daraa, nel sud del Pae-

se, il 18 marzo scorso. L’Alto commissario delle Nazioni Unite per i

diritti umani, Navi Pillay, ha chiesto l’ arresto immediato degli omicidi

in Siria giudicando inaccettabile la ―reazione irregolare e violenta del

governo siriano di fronte a manifestazioni pacifiche‖. ―Il governo ha

l’obbligo internazionale di proteggere i manifestanti pacifici e il diritto

di manifestare pacificamente‖ ha aggiunto.

Raffaele SUFFOLETTA

Informazioni tratte dal sito ―www.italnews.info

10

Febbraio 2003: Trattato Amici-

zia, Buon Vicinato e Cooperazio-

ne

VM Maggio 2011

GIAPPONE-ITALIA

destino inaspettato e comune di due mondi a parte

Francesca Bocchi

11 marzo 2011: un terribile terremoto –

20.000 volte quello dell'Aquila – colpisce il

Nord del Giappone seguito dallo tsunami ed è

tregenda.

Il mondo assiste sgomento ed attonito alla

potenza della Natura per poi essere soggio-

gato da una tragedia nella tragedia: il peri-

colo nucleare.

Ancora adesso la situazione resta indefinita,

con notizie contrastanti che si susseguono e

si rincorrono, ora rincuorandoci ora facen-

doci piombare in una specie di buco nero,

di incubo dal quale ci piacerebbe svegliarci

presto e bene.

Ciò che è successo e sta succedendo nel

lontano Oriente (non a caso lo si definisce

―Estremo‖) era inimmaginabile, la realtà,

come spesso accade, ha superato di molto

la fantasia e tutti i possibili scenari apoca-

littici che i più visionari registi di Hollywo-

od siano stati in grado di inventarsi.

La Natura, Dea-madre pericolosissima e

potentissima, ci ha mostrato tutta la sua

potenza distruttrice dandoci l'ennesima prova

della nostra futilità: siamo granelli di sabbia

che con un soffio si disperdono, ma che con

altrettanta facilità si coagulano altrove.

La nostra Terra è come un enorme formicaio

nel quale ognuno di noi si affatica, corre, si

prodiga come una minutissima formica, ma

basta un filo d'erba per disperdere la fila di

insetti e distruggere più vite con un'unica

folata di vento.

I nostri antenati erano molto più consapevoli

di noi di tale futilità: la Natura era adorata

come una divinità, spesso tremenda, della

quale avere rispetto e paura. Dalle sue intem-

peranze bisognava guardarsi, ma il senso di

rassegnazione e di impotenza verso l'imper-

scrutabile, l'imprevedibile aiutava a superare

ed andare avanti.

Oggi, l'uomo si sente (o – forse – si mostra)

invincibile, si fregia di una invulnerabilità che

denuncia solo ignoranza e presunzione, cre-

sciute con l'aumento di una ―supposta‖ cono-

scenza scientifica, che però continua a mostra-

re le sue falle: restano imprevedibili i terremo-

ti e gli tsunami; restano imprevedibili risvegli

di Vulcani pur rimasti silenti da secoli; so-

pravvivono leggende che servono solo a tenta-

re di dare una spiegazione soprannaturale a

fenomeni tanto più terribili in quanto natura-

lissimi.

Il problema è la mancanza di certezze, la sen-

sazione di essere

letteralmente in balìa delle onde, il che ci dà il

senso della nostra piccolezza e procura sensi

di vertigine.

La salvezza sta nel farsi prendere dai mille

problemi del quotidiano, piccoli ed irrisori ma

salvifici e vivificanti: li risolviamo e ci sentia-

mo vivi, capaci di affrontare tutto senza essere

sopraffatti, certi del nostro essere umani e

terreni. Insomma, la nostra salvezza sta nel

quotidiano, proprio quello che è venuto a

mancare a noi Aquilani la mattina del 6 aprile

di due anni fa!

La notte fra il 5 ed il 6 aprile 2009 ha segnato

un punto di svolta epocale che ha colpito tra-

sversalmente più generazioni, dilaniando quel

tessuto sociale tanto vituperato perchè provin-

ciale eppure oggi tanto rimpianto.

A distanza di due anni assistere a qualcosa di

ancora più grande di quello che ha colpito noi

è dirompente: le ferite, che si stavano lentissi-

mamente rimarginando, tornano a sanguinare;

il dolore riprende il sopravvento; i ricordi ci

travolgono come un fiume in piena. Credeva-

mo di aver superato, di essere in cima al crina-

le che riporta a valle e invece no, non è ancora

così! Siamo scossi, ancora addolorati e tristi,

forse troppo tristi per intraprendere un cammi-

no di rinascita e ricostruzione.

Poi, un amico ci comunica di essere divenuto

padre, con una fotografia inviata via mail ed è

la vita a prendere il sopravvento sul dolore, a

mostrarci come, nonostante tutto, la vita stessa

va avanti e la Natura con una mano toglie e

con l'altra ci dona bellezza, amore, serenità.

Chiudo con un aforisma di Albert Einstein

―Non penso mai al futuro. Arriva così presto!‖

11

VM Maggio 2011

L'AQUILA 332

Francesca Bocchi

Un filo rosso unisce gli uomini ed i Continen-

ti, rosso come il sangue versato da vittime

innocenti della barbarie degli uomini contro

gli uomini ma anche della violenza della Na-

tura scatenata contro i propri figli.

Un ritornello crudele ed agghiacciante acco-

muna realtà tanto diverse, Fukushima, la Li-

bia, L'Aquila: il 6 aprile di due anni fa rim-

bomba nei cuori degli Aquilani, evocando

ricordi di morte e distruzione, che le notizie

provenienti dal mondo accentuano anziché

placare.

A due anni esatti da quella notte le domande

restano sempre uguali ed ugualmente inevase,

domande cariche di speranza e timore, sospese

a mezz'aria.

Il coraggio sta nel rimanere; il coraggio sta nel

coricarsi ogni notte con un velo di tristezza e

paura, in una città bombardata e ferita; il co-

raggio sta nell'alzarsi ogni mattina e vivere il

quotidiano, nonostante e a dispetto dei mille

ostacoli, piccoli e grandi, che ci si parano

dinanzi.

Il vero terremoto è ―dopo‖, quando subentra la

piena consapevolezza di ciò che è accaduto,

quando è piena la comprensione di ciò che era

e non è più, né lo sarà!

Camminando per le strade della città, vuote e

silenziose, i fantasmi della vita passata pren-

dono forma, odori e rumori tornano alla me-

moria, vividi e forti come se nulla fosse acca-

duto e nulla mai cambiato.

Sotto i Portici passeggiano i ―soliti noti‖, in

Piazza sostano i soliti gruppi di uomini ed è

un sollievo trovarli di nuovo lì.

La parola d’ordine è ricostruire: le case, le

chiese, gli opifici e le persone, riannodare le

fila di rapporti sociali ormai sfilacciati, di un

tessuto connettivo sparpagliato lungo una

direttrice centrifuga che fa fatica a tornare

centripeta.

Ricostruire, già, ma da dove? E come? Inizia

un balletto di frasi e sentenze, tutti si sentono

in diritto di dire la propria, perché la Città è

dei Cittadini, di quelli che da sempre hanno

fruito del suo essere a misura d’uomo e, pur

criticandola, l’hanno sempre amata ed apprez-

zata, magari non riconoscendolo.

Sentenziando, però, si rischiano spaccature e

contrasti, laddove la forza è nell’unione. Il

segreto sta nella coesione di quel corpo socia-

le che non è più unito ma vuole tornare ad

esserlo.

Ed è di nuovo primavera, periodo di rinnova-

mento per la Natura e per gli uomini, forse

anche per la Città. Il circuito del Castello è di

nuovo tutto percorribile; qualche negozio in

Centro ha riaperto, aperto contro tutto e tutti,

luci solitarie e sporadiche in un deserto silen-

zioso. Gli alberi germogliano ed i fiori sboc-

ciano, si è anche riassorbito il puzzo di muffa

lungo il Corso...

Nel cuore le sensazioni si rincorrono come le

domande nella mente e, su tutto, un senso di

sospeso, di attesa, come dentro una bolla di

sapone in cui i rumori arrivano soffusi e ci si

sente della stessa densità dell'aria.

Eppure è di nuovo e ancora primavera: nel

cielo del colore dei lapislazzuli nuotano come

orche le montagne, ancora chiazzate di neve; i

mandorli inebriano di odori la Città ed il con-

tado; la luce... la luce è sempre la stessa, dora-

ta e rassicurante, che, incuneandosi fra i vicoli

ed il Corso, colora ed inonda le mura ed i

Palazzi del Centro.

Sì, ancora primavera! La vita prosegue, si

rinnova, ci sospinge avanti e due anni sono già

trascorsi...

―Domani è un altro giorno!‖

L’Italia e L’Aquila, il terremoto di una divisione di Stefano Torelli

LIMES –Rivista Italiana di Geopolitica—Gruppo Editoriale l’Espresso, in occasione del primo anniversario del sisma, il 6 aprile

2010, ha pubblicato un articolo di Stefano Torelli sull’Italia e sul sisma che ha sconvolto l’Abruzzo; una riflessione sul futuro del capoluogo e

sul vertice del G8 ivi tenutosi nel 2009. Per il secondo anniversario, il 6 aprile 2011, l’articolo è stato ripubblicato perché ritenuto sempre di

attualità. Di seguito uno stralcio integrale della prima parte dell’articolo .

A L’Aquila si parla sempre meno del sisma e della ricostruzione e sempre più di politica. Se la tragedia di Messina del 1908 unì il paese, quel-

la abruzzese rimarca la divisione dell'Italia: da una parte o dall’altra della barricata politico-mediatica. La geopolitica della costruzione: si

torna ai castelli fuori città senza un centro, come prima della fondazione della città.

Esiste l’Italia? A L’Aquila una parte di Italia

sicuramente c’è e si può vedere. L’Italia spac-

cata, divisa in due, contraddittoria, confusa.

Quell’Italia per cui qualsiasi argomento, ogni

evento, ogni parola detta, viene ricondotta

alla competizione politica che spacca il Paese

da un quindicennio a questa parte. A L’Aquila

l’Italia sembra esserci. Il clima che si respira

è quello di una città che ha perso la propria

identità, distrutta sotto i colpi di una tragedia

naturale (e poi, sociale, economica, ambienta-

le…) troppo grande per poter essere affronta-

ta da sola, ma in cui sono riconoscibili benis-

simo i segni di un’Italia che, laddove meno te

l’aspetti, si manifesta in tutte le sue caratteri-

stiche. Il terremoto è servito a far schierare i

cittadini aquilani da una parte o dall’altra

della barricata politico-mediatica, non certo a

unire le proprie forze e mostrare segni di

compattezza e aggregazione o di consenso.

Al contrario: da subito dopo il sisma, i citta-

dini hanno cominciato ad approvare senza

giudizio o, al contrario, a condannare senza

appello, qualsiasi decisione presa per il terri-

torio dall’alto. Con o contro. Lo spaesamento

e il dolore per una città in macerie non hanno

contribuito a fare quel passo in avanti verso

nuove linee di pensiero, ma hanno anzi ripor-

tato l’Italia a L’Aquila. Ecco in che misura

esiste l’Italia nel capoluogo abruzzese: esiste

perché vi è stato trasferito lo spirito che ne

muove il (non-)dibattito socio-politico. Esiste

al prezzo di una città che, invece, non esiste

più. L’Italia sta sopravvivendo a L’Aquila.

………………………………………………………

………………………………………………………

12

L’Associazione Culturale VOX MILITIAE

si propone di:

Catalizzare le persone che condividono i Valo-

ri della Società Militare;

Diffondere la cultura e il ruolo dei militari

nella Nazione che cambia;

Condividere momenti di vita (Solidaristico-

Ricreativo) con persone che hanno identicche

motivazioni;

Fornire ai soci assistenza e consulenza giuridi-

ca e amministrativa.

La partecipazione è aperta a tutti coloro che vo-

gliono far sentire la loro voce. Gli articoli investo-

no la diretta responsabilità degli autori e ne ri-specchiano le idee personali, inoltre devono essere

esenti da vincoli editoriali. Di quanto scritto da

altri o di quanto riportato da organi di informazio-ne occorre citare la fonte. La redazione si riserva

di sintetizzare gli scritti in relazione agli spazi

disponibili; i testi non pubblicati non verranno restituiti.

Contattateci tramite telefono: 320.1108036;

E-Mail: [email protected].

ASSOCIAZIONE CULTURALE

VOX MILITIAE

QUOTA ASSOCIATIVA

ANNO 2011 € 25,00

CI SI ASSOCIA INVIANDO DOMANDA, CORREDATA DEI DATI ANAGRAFICI A:

ASSOCIAZIONE CULTURALE

VOX MILITIAE

Via Puglia, 18 – 67100 L’AQUILA

Il versamento della quota associativa per i

nuovi soci ed il rinnovo della tessera per gli associati può essere effettuato sul C/C Bancario

n. 104934 intestato a :

―Associazione Culturale VOX MILITIAE‖ CARISPAQ di L’Aquila, sede Centrale

CODICE IBAN

IT71I0604003601000000104934

VOX MILITIAE

DIRETTORE GENERALE

Raffaele Suffoletta

DIRETTORE RESPONSABILE

Alessia Di Giovacchino

COORDINATORE

Gianluca Romanelli

Hanno collaborato

Adacher Davide, Bocchi Francesca, Mariani

Emanuela, Papi Giovanni,

Impaginazione e grafica

TIPOGRAFIA

LA ROSA – Via Costa di Bagno Piccolo 67042 L’Aquila

Autorizzazione Tribunale di L’Aquila N. 480 del 21.11.2001

VOX MILITIAE

Tel. 320.11.08.036

Stampato il 2 maggio 2011

Spedito il 5 maggio 2011

VM Maggio 2011

La pirateria, fenomeno antichissimo, è consi-

derata un crimine nel diritto internazionale.

Nella Convenzione delle Nazioni Unite del

1982 (cosiddetta di Montego Bay) viene defi-

nita: ogni atto di abbordaggio di qualsiasi

nave privata con l’intento di commettere un

furto o altro delitto, con uso della forza nel

corso dell’azione, per ricavarne profitto.

Dietro la moderna pirateria c’è la problemati-

ca legata alla situazione fallimentare dei co-

siddetti stati falliti dove regna forte instabilità

e condizioni economiche ed ambientali dispe-

rate nei cui territori trovano rifugio i pirati.

Tuttavia, i nuovi predoni utilizzano tecnologia

satellitare e armi dell’ultima generazione. Le

tecniche di abbordaggio sono simili a quelle

del passato: attaccano navi mercantili disar-

mate, ma non possono essere escluse barche

da crociera, e quindi inoffensive con barche

veloci. Rubano, depredano saccheggiano e

possono anche uccidere i componenti

dell’equipaggio.

Il fenomeno della pirateria moderna assume

importanza fondamentale per le nostre econo-

mie poiché per le rotte marittime transitano

l’80% del traffico commerciale e il 50% del

petrolio mondiale. Nicolò Carnimeo (docente

universitario e viaggiatore), autore del libro

Nei mari dei pirati, nell’introduzione scrive

“La pirateria è una guerra silenziosa: si sti-

ma che negli ultimi venticinque anni nelle sole

acque del Sudest asiatico siano state attaccate

più di diciassettemila navi, con una media di

settecento all’anno. Tutto ciò ha costi econo-

mici e sociali altissimi.

La pirateria è un fenomeno mondiale, i pirati

si concentrano nei punti di obbligato passag-

gio per le navi, stretti (Bab El Mandeb, Hor-

muz, …) o canali, facili da essere bloccati e

sfruttano la situazione critica degli stati falliti

o economicamente deboli.

Le rotte marittime che passano vicino al Cor-

no d’Africa, golfo di Aden, dirette verso il

Mediterraneo attraverso il canale di Suez,

risultano strategicamente rilevanti per i Paesi

Europei e per l’Italia in particolare. Gli attac-

chi armati a cargo, petroliere e navi da diporto

da parte dei nuovi Jin (diavoli, predoni) so-

mali sono classificati ―atti di pirateria‖ poiché

da essi non si rilevano altre motivazioni al di

fuori del profitto. Ma il confine tra la pirateria

e gli atti di terrorismo marittimo non è poi

così netto come appare con rilevanti questioni

giuridiche sull’applicazione delle misure atte a

debellare il fenomeno.

La convenzione ONU richiamata, attribui-

sce ampi poteri alle navi da guerra o ad-

detti a tale scopo con simboli ben ricono-

scibili nell’abbordare, catturare e dirottare

in porto nazionale la nave dirottata, sem-

preché ciò avvenga al di fuori delle acque

territoriali. Per quanto riguarda, in partico-

lare il dibattito sulla pirateria nel Golfo di

Aden, l’ONU, nelle varie risoluzioni adottate,

riconoscendo il fenomeno una “minaccia alla

pace ed alla sicurezza internazionale‖, ha di

fatto legato la pirateria al terrorismo autoriz-

zando così gli Stati ad intervenire con la forza,

impiegando navi da guerra, anche nelle acque

territoriali e sul suolo somalo, ma, soprattutto,

ad intervenire in aiuto e scorta di qualsiasi

Unità navale lo richieda, indipendentemente

dalla bandiera.

A seguito delle risoluzioni ONU sono state

avviate le operazioni navali OCEAN SHIELD

della NATO e ATALANTA dell’Unione Eu-

ropea per prevenire e reprimere gli atti di

pirateria marittima lungo le coste della Soma-

lia in sostegno alle Risoluzioni

1814,1816,1838 e 1846 adottate nel 2008 dal

Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il

mandato consiste nel proteggere le navi mer-

cantili che transitano da e per il Mar Rosso e

svolgere attività di scorta alle navi mercantili

del Programma Alimentare Mondiale delle

Nazioni Unite, incaricate di consegnare aiuti

alimentari in Somalia. Le navi dell’Unione

Europea operano in una zona che comprende

il Golfo di Aden, il Corno d'Africa e l’Oceano

Indiano fino alle Isole Seychelles. Tutto que-

sto sembra non bastare, gli attacchi dei pirati

continuano ininterrotti.

Per combattere il fenomeno occorrerebbe

sradicare a monte le cause che lo determinano,

nel caso del golfo di Aden risiedono nella

totale assenza di uno stato in Somalia

dall’inizio degli anni novanta, e, nel contem-

po, applicare senza alcuna remora l’articolo

100 della convenzione dell’ONU, ovvero

colare a picco le imbarcazione dei pirati, cosa

che le navi da guerra cinesi e indiane fanno

senza remore, ma le altre missioni internazio-

nali hanno qualche remora ad applicare.

I PIRATI DEL CORNO D’AFRICA: UNA SFIDA DA VINCERE

Raffaele SUFFOLETTA