verità e giustizia

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13 aprile 2012 La newsletter di liberainformazione n.88 verità e giustizia Liberare i beni confiscati

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Supplemento di approfondimento di Libera Informazione

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13 aprile 2012

La newsletter di liberainformazione

n.88

veritàegiustizia

Liberare i beni confiscati

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Beni confiscati e non assegnati

di Santo Della Volpe

>>editoriale

Perché una parte così ampia dei beni confisca-ti alle mafie non torna ai cittadini e non viene

riutilizzata? La nostra newslet-ter di oggi cerca di dare una risposta a questa domanda. E non è facile,perché i nodi che il quesito ripropone ogni volta che si affronta l’argomento ‘beni confiscati’ sono molti e pieni di sfaccettature legali. C’è da ren-dere più incisiva l’azione delle Istituzioni,perché sia chiaro l’in-tento sociale della restituzione alla collettività di quei beni che le mafie hanno sottratto con la violenza. E soprattutto per non ingenerare nelle persone che vi-vono a contatto con questi beni (case,terreni,ville, appartamen-ti sparsi ecc.) l’impressione che se fossero restati nelle mani dei mafiosi avrebbero comunque fruttato o “dato lavoro”, mentre tornate alla collettività si deperi-scono rapidamente. Entra quindi in scena il ruolo degli enti locali, delle istituzioni che devono ra-pidamente procedere all’uso dei beni, decidendo cosa farne ed a chi assegnarli.

C’è poi il ruolo della società civile: fornire proposte operative e concrete di utilizzo, smasche-rando anche i tentativi di molti amministratori o istituzioni di la-varsene le mani,in modo subdolo e sornione. Tutto ciò può essere comunque superato, con il lavoro che, per altro, Libera sta facendo nei territori con molto impegno.

Il vero problema sorge quando quei beni hanno ipoteche banca-rie che ne bloccano la confisca ed assegnazione: e sono il 65% del totale dei beni sequestrati!

Qui urge un intervento legi-slativo, una soluzione politica che metta d’accordo gli interessi

della collettività con gli interessi (talvolta ma non sempre…) legit-timi delle Banche. Il Parlamento come può intervenire per evita-re l’empasse? E la Banca D’Italia può regolamentare la questione spinosa delle ipoteche su quei beni sequestrati? C’è un percorso percorribile affinché le Istituzioni risolvano il problema? E’ a questi interrogativi che abbiamo pro-vato a rispondere con esponenti delle istituzioni e tecnici del set-tore in questa newsletter. Ma non vogliamo che la discussione sia solo accademia: perché il cosid-detto codice antimafia Alfano non ha risolto il problema. Anzi,lo ha pesantemente aggravato: infatti le richieste di sequestro di gran-di aziende colluse con le mafie da Milano a Trapani sono ferme da mesi nelle cancellerie dei tribuna-li. Perché i giudici temono che il loro intervento si trasformi nella sconfitta dello Stato: le nuove re-gole infatti rischiano di provocare il licenziamento dei dipendenti in caso di sequestro. E quindi rendo-no l’azione dei magistrati non un trionfo della legalità a danno del-le cosche, ma una condanna per aziende e lavoratori che così fini-rebbero per rimpiangere i padrini. Come se non bastasse obbliga i giudici a confiscare i beni entro due anni e mezzo dall’avvio del procedimento, e nel caso in cui il termine venga superato prevede che si debba restituire il bene al mafioso, impedendone per sem-pre la confisca.

Tocca quindi al governo Monti ed al ministro Guardasigilli Seve-rino prendere l’iniziativa ed ap-prontare una soluzione. I tempi stringono: per evitare che poi alla fine ,si prenda la scorciatoia che è sempre stata dietro l’angolo e nel retro pensiero di molti politici

e uomini della finanza privata e pubblica. Che cioè alla fine si fi-nisca per mettere all’asta ciò che non si riesce a sbloccare dando così alle mafie (che di soldi liquidi ne hanno in abbondanza in questo periodo),la possibilità di ripren-dersi sotto prestanome e persone di fiducia, gli stessi beni che era-no stati loro sottratti. Unendo così al danno la beffa, nei confronti di chi con molta fatica ha lottato per ottenerne il sequestro e la confi-sca . E non si ceda alla tentazione, avanzata da qualche “furbetto” in cattiva e buona fede, di fare cas-sa con quei beni in tempo di cri-si economica. Non solo perché il gioco non vale la candela,visto che non saranno quei beni non assegnati a risolvere il deficit dei conti italiani; ma soprattutto per non cedere giudiziariamente e politicamente alle mafie; perché di cedimento si tratterebbe,visto anche che il confine tra mafio-si e ‘zona grigia’ dell’economia è sempre più labile. Ed in questo momento politico contrassegna-to da uno sforzo, almeno negli intenti conclamati, di affermazio-ne della legalità sarebbe un vero controsenso. Piuttosto,ci viene da dire, non sarebbe ora di ripristina-re l’originaria dicitura della legge promulgata sull’onda della rac-colta di 1 milione di firme di quel lontano 1995 e applicare anche ai corrotti la legge ora usata solo la mafia? Sarebbe un buon deterren-te alla corruzione: restituire alla collettività i soldi sottratti con tangenti,bustarelle e quant’altro, anche quelli presi ”a loro insapu-ta”. Soldi pubblici, soldi nostri, soldi che dovrebbero tornare nella disponibilità delle finanze pubbliche. Questo si che sarebbe un buon modo,una buona prassi anche per fare cassa.

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«In Sicilia risultati al di là delle più rosee aspettative»

di Gaetano Liardo

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E' stata istituita due anni fa nel ten-tativo di razionalizzare la gestione dei beni sequestrati e confiscati ai boss, con l'obiettivo di snellire la burocrazia e rendere più forte la ri-sposta dello Stato nell'aggressione ai patrimoni delle mafie. L'Agenzia nazionale sui beni confiscati ha re-centemente pubblicato il suo secon-do rapporto annuale. Tanti punti di forza, ma anche alcune criticità, e comunque dei miglioramenti. Ne parliamo con chi ci lavora in prima linea da Palermo, una delle sedi di-staccate dell'Agenzia. Il colonnello della Guardia di Finanza Marco Leti-zi, responsabile dell'Agenzia a Paler-mo, appare subito schietto e profes-sionale, sicuramente soddisfatto dei risultati ottenuti nella culla di Cosa nostra.

Colonnello Letizi, iniziamo da Palermo. Il capoluogo siciliano si presenta come la città in Ita-lia con il maggio numero di beni confiscati. Questo dato può essere letto come segnale di reazione da parte dello Stato che toglie il ter-reno sotto i piedi dei boss, oppure come segno della perdurante pe-ricolosità di Cosa nostra? Su Pa-lermo possiamo fare una lettura di-cotomica. I tanti patrimoni sottratti alla criminalità organizzata sono il segno della presenza mafiosa nella zona, con investimenti anche im-portanti, ma anche l'impegno della magistratura e delle forze dell'ordine nell'identificarli e sequestrarli

Uno dei punti critici nell'azione di sequestro e poi confisca dei beni mafiosi riguarda le aziende,

in che modo opera l'Agenzia? Sulle aziende il lavoro dell'Agenzia nazio-nale dei beni sequestrati e confiscati si sviluppa in due fasi. Nella fase uno si analizzano i dati economici e la ti-pologia dell'azienda in questione. Nel-la fase due si produce una relazione particolareggiata dove si evincono i punti di forza e di debolezza dell'a-zienda. Si deve capire, cioè, con un'a-nalisi particolareggiata se la società è in grado di sopravvivere nel mercato legale. Se non è in grado, perchè ci stava soltanto grazie alla forza inti-midatrice del boss, oppure sfruttando commesse ottenute in modo illecito, o abbassando i costi di gestione con il lavoro nero, o ancora perchè forte di grosse somme di denaro frutto di pro-venti illeciti, in questo caso l'azienda va tolta dal mercato. Serve il coraggio di mettere in mobilità i dipendenti, perchè è sempre meglio fare pulizia. Se invece una società ha problemi, penso al sequestro, derivanti da dif-ficoltà giudiziarie, ma ha le caratteri-stiche per stare sul mercato, allora si capisce dove si può incidere. Un caso tipico è quello della razionalizzazione dei costi: si abbattono i costi di ge-stione, si riduce la manodopera per continuare a sopravvivere. Inoltre, si incide sugli istituti bancari che sono chiamati a dare maggior credito alle imprese sottratte ai boss e recuperate dallo Stato. Appositi tavoli sono sta-ti istituiti dall'Agenzia nazionale dei beni confiscati in Sicilia con impor-tanti istituti di credito e con le sezioni dei Tribunali delle misure di preven-zione.

Quindi, serve intervenire a monte nel processo di sequestro... Guardi

parliamo di un rapporto prodromi-co: tanto più è proficua l'analisi pre-liminare svolta con l'amministratore giudiziario, tanto più è proficua l'in-terlocuzione con i vari soggetti isti-tuzionali responsabili, quanto è più proficuo il risultato finale. Tanto più si lavora bene sul soggetto economi-co a partire dal sequestro, tanto più solido questo arriverà alla confisca definitiva. In questo modo, grazie al lavoro fatto in precedenza, la società resterà sotto la gestione dell'Agenzia nazionale il minor tempo possibile.

Dopo due anni di attività come giudica il lavoro dell'Agenzia na-zionale? Posso parlare del caso della Sicilia dove, nonostante siamo po-chissimi, sono state fatte cose inim-maginabili. Abbiamo risolti problemi vecchi di trent'anni, penso a Verbum-caudo. Stiamo lavorando molto con i Consorzi sviluppo e legalità per la gestione dei terreni dove sono nate le cooperative, come quelle di Libera Terra, e dove altre cooperative stanno nascendo, come ad Agrigento. Parlia-mo di centinaia di ettari di terreno sequestrate dal giudice “ragazzino” (il giudice Rosario Livatino ucciso da Cosa nostra nel 1990). Penso anche alle numerose destinazioni di immo-bili. La prima destinazione è stata, ad esempio, la casa dei “cento passi” confiscata a Tano Badalamenti a Ci-nisi. Penso pure alla casa del fratello di Provenzano a Corleone. Parliamo di circa cinquecento destinazioni di beni nella sola Sicilia, più l'impegno internazionale con le misure di se-questro anche all'estero. Un lavoro che in due anni ha dato risultati ben al di là di ogni più rosea previsione.

Il responsabile dell'Agenzia di Palermo, il Colonnello della Guardia di Finanza Marco Letizi, parla dei successi nella gestione dei beni sottratti ai boss. Un lavoro difficile, nel tentativo di rendere tangibile la risposta dello Stato, a partire dalle aziende sequestrate

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>> beni confiscati

Lo scorso 7 marzo 2012 la legge 109/96 ha compiuto sedici anni, nel trentennale dall’approvazione della legge

Rognoni La Torre del 1982. In questi sedici anni Libera ha lavorato per:

a) assicurare pubblicità e trasparen-za alle informazioni sui beni confi-scati;b) organizzare la formazione sulle procedure di destinazione e gestio-ne dei beni;c) far diventare i beni confiscati un patrimonio comune di conoscenza e di opportunità;d) fornire alle amministrazioni co-munali quegli strumenti per la cor-retta e più rapida assegnazione dei beni (attraverso procedure di evi-denza pubblica);e) verificare l’effettivo riutilizzo dei beni e la denuncia di situazioni di non corretta gestione dei beni (per finalità pseudo sociali o con presta-nome degli stessi mafiosi), grazie ai rapporti con le Prefetture, la magi-stratura e le forze investigative;f ) creare le condizioni più favorevoli alla nascita delle cooperative sociali costituite da giovani del territorio;g) proporre modifiche legislative per rendere più efficaci le procedure previste. Le esperienze positive

Le cooperative Libera Terra – nate con i protocolli sottoscritti nelle Prefetture e mediante bando pub-blico per la selezione dei singoli soci - coltivano oggi più mille ettari di terra con un fatturato complessivo che supera i 5 milioni di euro, dando lavoro a più di 150 occupati regolari, oltre a tutti i lavoratori stagionali.Nel 2012 nasceranno tre nuove coo-perative Libera Terra, in collabora-zione con il Progetto Policoro della Conferenza episcopale italiana. A Crotone la cooperativa lavorerà sui terreni sottratti al clan Arena, ad Agrigento nascerà la cooperativa Le Terre di Rosario Livatino – Libera Terra, a Trapani la cooperativa Le Terre di Rita Atria – Libera Terra.È questo un patrimonio che oggi non va disperso ma rafforzato. Le criticità ancora da risolvere

Fra le criticità che ancora oggi ral-lentano o in alcuni casi ostacolano il pieno riutilizzo dei beni confiscati, possiamo ricordare:

- la metà dei beni ancora in gestione all’Agenzia nazionale e quindi anco-ra da destinare allo Stato o agli Enti territoriali sono gravati da ipoteche bancarie;- le occupazioni abusive dei beni da parte anche dei familiari degli stessi mafiosi;- le confische per quote indivise che necessitano quindi di un procedi-mento di separazione volontaria o giudiziale;- incidenti di esecuzione per la riso-luzione di pendenze giudiziarie;

- il difficile accesso al credito per le cooperative sociali che gestiscono progetti di riutilizzo con finalità pro-duttive e lavorative, che richiedereb-be la creazione di uno specifico Fon-do di garanzia.

Questi sedici anni hanno visto impegnata Libera nel difendere i principi della legge n.109 del 1996 contro diversi tentativi di snaturarla e di vendita incondizionata dei beni confiscati. La vendita non è un dogma ma deve rimanere un’ipotesi residuale di destinazione, dopo aver cercato tutte le strade possibili di riutilizzo sociale, nel rispetto della volontà di quel milione di cittadini che hanno messo la propria firma nel 1995.

Liberare i beni dalle ipoteche bancarie, migliorare le procedure per il loro riutilizzo sociale. Con un occhio particolare alle aziende che oggi devono tornare in attività. Le proposte di Libera, sedici anni dopo l'approvazione della legge 109/96

di Davide Pati

Le ragioni di un impegno

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Le aziende

Dall’analisi dei dati emerge che mol-te aziende arrivano alla confisca de-finitiva ormai prive di reali capacità operative, anche quando si tratta di imprese attive in settori come quelli delle costruzioni, del calcestruzzo, dei trasporti, turistico alberghiero, della grande distribuzione, dei servi-zi e della sanità.Per evitare la chiusura o il fallimento delle aziende, occorre sicuramente promuovere e sostenere di più le op-portunità di affittare le aziende e le imprese confiscate a cooperative di lavoratori dell’azienda stessa, oppure a cooperative sociali di giovani, for-mando professionalità e sviluppando le più innovative forme di imprendi-torialità giovanile.In tal senso risulta fondamenta-le prevedere che i fondi strutturali dell’Unione europea (importante è stato lo strumento del PON Sicurez-za del Ministero dell’interno) gestiti anche dalle Regioni siano orientati nel finanziamento dei progetti sui beni immobili e sulle aziende confi-scate alla mafia.Non è possibile garantire il pieno ri-utilizzo dei beni confiscati quando, per ragioni di bilancio, si continua a inserire nelle leggi la formula “senza nuovi o maggiori oneri a carico dello Stato”.La nostra proposta è quella di poter utilizzare una quota del Fondo unico

giustizia, dove confluiscono il dena-ro e le liquidità confiscati alle stesse organizzazioni criminali.Le alleanze e la reteLa gestione dei beni (mobili, immo-bili e aziendali) richiede professiona-lità e un’organizzazione di procedu-re, scelte e pianificazione che devono vedere protagoniste le migliori ener-gie e sane forze economiche e sociali del nostro Paese.Penso a Legacoop e alla nascita di Cooperare con Libera Terra – Asso-ciazione per lo sviluppo cooperati-vo e la legalità, una rete di soggetti del mondo cooperativo che fornisce un’assistenza qualificata per le pro-duzioni biologiche, i piani aziendali e la distribuzione dei prodotti certi-ficati con il marchio Libera Terra.Penso alle Organizzazioni professio-nali agricole (Confederazione italia-na agricoltori, Coldiretti, Confagri-coltura, Copagri, Acli Terra) che si stanno impegnando nella coltivazio-ne dei terreni confiscati.Penso al Corpo forestale dello Stato per il supporto nei sopralluoghi dei terreni confiscati e nelle attività di formazione sui temi della legalità ambientale.Penso al Consiglio nazionale dei geometri per l’assistenza nella pro-gettazione, nelle stime, nei computi metrici e per il riconfinamento dei terreni.Penso ad Unioncamere e al sistema delle Camere di Commercio con cui firmeremo presto una convenzione

nazionale che permetterà di svilup-pare il modello di governance e di check up delle aziende confiscate.Penso a Confcooperative e al sistema del credito cooperativo per il soste-gno e il tutoraggio allo start up delle cooperative Libera Terra ed ai pro-getti di riutilizzo dei beni confiscati. Le proposte alla politica

Libera ha sempre esercitato una for-te azione di proposte emendative e migliorative di disegni di leggi in di-scussione nelle commissioni e aule parlamentari:il disegno di legge anticorruzione ve-drà la nostra proposta per rafforzare anche le norme in materia di confi-sca dei beni ai corrotti e per il loro riutilizzo sociale;il codice delle leggi antimafia dovrà subire delle modifiche migliorative all’attuale testo;- l’Agenzia nazionale per l’ammini-strazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla crimina-lità organizzata va sostenuta, garan-tendo quei fondi necessari per il suo funzionamento e le giuste professio-nalità e competenze per la gestione dei beni confiscati;abbiamo già contribuito a modifi-care l’articolo 56 della legge di con-versione del decreto sulle semplifi-cazioni nella parte in cui prevedeva la concessione dei beni confiscati per finalità turistiche a cooperative di giovani under 35, a titolo oneroso, in netta contrapposizione con il co-modato a titolo gratuito previsto sin dal 1996. A sedici anni di distanza tanti sono ancora i punti all’ordine del giorno. È necessario:

a) mantenere alta la giusta attenzio-ne al tema della confisca dei beni e al loro riutilizzo sociale;b) fare memoria della storia e delle ragioni che hanno fatto nascere la prima legge dell’antimafia sociale nel nostro Paese;c) valorizzare il positivo che è stato realizzato con il contributo di tutti coloro che hanno fortemente credu-to in questo strumento di sviluppo sociale ed imprenditoriale.

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Le ipoteche bancarie sono la spada di Damocle che pende sulla testa della maggior parte dei beni sequestrati e poi con-

fiscati ai boss e in attesa di riutilizzo sociale. In attesa di libertà. « 3500 beni non possono essere destinati perché sono sotto ipoteca bancaria. La politi-ca deve cercare di sbloccare una situa-zione paradossale – ha dichiarato Don Luigi Ciotti – nelle giornate di Genova in memoria delle vittime delle mafie». Una situazione che è confermata an-che nell'ultima relazione dell'Agenzia nazionale per i beni sequestrati e con-fiscati alle mafie. Un aspetto delicato, quello delle ipoteche, che interroga di-rettamente il sistema bancario, la sua trasparenza e la legalità. I beni in pos-sesso dei boss sono gravati da ipote-che perché le banche hanno concesso mutui ai proprietari, ovvero a mafiosi o prestanome di mafiosi. Oggi quel de-bito che grava sul bene finisce per es-sere una palla al piede per i destinatari di questi immobili, molto spesso enti locali o associazioni, che dovrebbero metterli a disposizione della colletti-vità. Il condizionale è d'obbligo viste le numerose difficoltà cui si va in con-tro, nell'iter della destinazione e del riutilizzo sociale un tempo acquista-ti con soldi “sporchi” dai mafiosi. Ma fra tante storie di mancato riutilizzo sociale, alcune persino di vendita dei beni, in particolare, delle aziende, ci sono anche alcune storie positive. Che passano anche attraverso sinergie e collaborazioni fra enti locali, l'Agenzia nazionale per i beni confiscati e loro: le banche. In Sicilia, capofila delle re-gioni con maggior numero di beni confiscati e riutilizzati come previsto dalla legge 109/96, il caso del feudo Verbumcaudo, potrebbe fare da capo-fila di un diverso atteggiamento e una migliore collaborazione fra istituzioni, banche e società civile.

In provincia di Palermo, grazie alla collaborazione fra il gruppo Unicredit e le istituzioni, il feudo Verbumcaudo, che un tempo era del boss Michele Greco, tornerà alla collettività. Luigi Ciotti: «serve liberare i beni gravati da ipoteche bancarie. Ma anche capire chi continua a prestare soldi ai boss»

Quando le banche fanno la propria parte

di Norma Ferrara

«A distanza di un anno e mezzo la proposta di de-liberazione giace in qual-che ufficio dell’Ammini-

strazione senza aver compiuto alcun iter amministrativo». Così in una nota i com-ponenti dell’ Assemblea Capitolina Paolo Masini, Gemma Azuni, Andrea Alzetta, Alessandro Onorato, Gianluca Quadrana,

Salvatore Vigna, Umberto Marroni si rivol-gono al prefetto di Roma, Giuseppe Peco-raro, per chiedere da un lato che qualcosa si muova sul versante del riutilizzo sociale dei beni confiscati in città e dall'altro che fine abbiano fatto le due proposte di istitu-zione di un Osservatorio sulle mafie e della figura di un delegato alla lotta alla crimi-nalità in città. «Proprio in questi giorni il

L'allora Banco di Sicilia, infatti, aveva erogato a favore dei Greco, una ipo-teca sull’ex feudo per un totale di cir-ca 2,4 milioni di euro. La Banca aveva dato l'ipoteca ad una società di recu-pero crediti Banco di Sicilia sino a che nel 1984, in applicazione della legge

La Torre il feudo viene confiscato per mafia e poi assegnato al Comune di Polizzi Generosa. All'ente locale arriva il bene e anche il debito. «Il problema del feudo Verbuncaudo – sottolinea Bertola – è comune a molti beni confi-scati poiché si tratta di far coesistere il

Beni confiscati a Roma, tutto tace

>> beni confiscatiIL

CA

SO

di Norma Ferrara

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Presidente della Repubblica Napolitano ha conferito, in occasione dell’incontro “Pio La Torre 30 anni dopo” promosso dalla Fondazione della Camera dei Deputati a Montecitorio, la Medaglia d’Oro al Merito Civile alla memoria dell’on. le Pio La Tor-re, vittima il 30 aprile del1982 a Palermo di un agguato di stampo mafioso – scrivono i consiglieri.

A distanza di 30 anni, il fenomeno mafia è ancora in primo piano e la proposta per l’istituzione della figura di un delegato alle mafie nonché di un osservatorio che si occupi della gestione, assegnazione e mo-nitoraggio dei beni confiscati alle mafie in una città come Roma riveste, anche alla luce degli ultimi episodi criminali avvenuti in città negli ultimi mesi, una particolare

valenza». «Ci appelliamo dunque alla S.V. certi della sua sensibilità su un argomento così delicato – concludono - che vede lo sforzo continuo e infaticabile delle forze dell’ordine per il rispetto della legalità, an-che per onorare la memoria di chi 30 anni fa ha perso la vita nella difesa della legali-tà. Poiché a tutt’oggi non si hanno notizie in merito […] all'iter e alla proposta fatta»

diritto del creditore in buona fede con esigenze sociali di utilizzo del bene. Tengo a sottolineare – precisa nell'in-verno scorso in una nota - come nel nostro caso una pronuncia della Cor-te di Cassazione del 2003 e poi una sentenza del Tribunale di Palermo nel 2010 abbiano accertato la buona fede del Banco di Sicilia dichiarando di fat-to l’efficacia dell’ipoteca iscritta sul bene e la sua opponibilità all’erario, confermando così il comportamento legittimo e trasparente della banca sin dal momento dell’erogazione del credito». Per la “liberazione” di que-sto feudo si è battuto in prima linea il sindacalista, Vincenzo Liarda, e la

partita non è ancora chiusa perché i mafiosi continuano a fargli arriva-re minacce e intimidazioni. La mafia non si rassegna a perdere i propri beni, segno che proprio quello è l'elemento cardine della battaglia antimafia. Alle banche passa quindi la responsabilità di rafforzare o ignorare questo aspet-to decisivo nella lotta antimafia. Al-tri gruppi bancari e fondazioni ( fra le altre, Unipolis) sono impegnate in investimenti di sostegno ad attività di riutilizzo dei beni confiscati. Ma si tratta ancora di piccoli numeri rispet-to al vasto universo del mondo eco-nomico e finanziario dentro il quale si infiltrano i capitali illeciti dei boss.

Le ultime inchieste della magistratu-ra, sempre più spesso al Nord, restitu-iscono un quadro a tinte fosche legato alla circolazione e l'investimento di capitali “sporchi” spesso realizzato con l'avvallo (consapevole o meno) di banche e agenzie finanziarie. Servo-no quindi parole chiare, a monte e a valle, per così dire e anticorpi in grado di rispondere prontamente ai tenta-tivi di penetrazione dell'economia da parte di finti imprenditori, prestano-me e talvolta direttamente dei boss, in Italia e all'estero. Sempre Luigi Ciotti, presidente di Libera ha infatti posto l'interrogativo diretto: «chi continua a prestare soldi ai mafiosi?».

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Distribuzione geografica degli immobili confiscati al 31 dicembre 2010

Finalità delle assegnazioni

Distribuzione geografica delle aziende confiscate al 31 dicembre 2010

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Beni immobili in gestione: criticità

Fonte: Relazione annuale Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata - 31 dicembre 2011

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A d Erice una casa confisca-ta al capo mafia Francesco Pace diventerà sede di un centro di documentazione

contro le mafie. A Castellammare del Golfo l’amministrazione comunale ha assegnato all'Associazione Castello libe-ro onlus un bene confiscato alla mafia in contrada Crociferi. A Salemi l’associazio-ne onlus “Fraternità della Misericordia” l’ha spuntata contro l’ex sindaco Vittorio Sgarbi che a suo tempo gli aveva revocato l’assegnazione di un vasto terreno agrico-lo confiscato al narcotrafficante Totò Mi-celi. Sono le notizie che arrivano da uno dei fronti più caldi della lotta alla mafia, quello della provincia di Trapani, dove re-sta ancora latitante il sanguinario assas-sino Matteo Messina Denaro, il numero uno di Cosa Nostra in Sicilia, l’uomo che con le mani usate per compiere stragi e delitti, ha saputo da ultimo tenere le fila di una vasta holding imprenditoriale, interessandosi a diversi settori, dall’edi-lizia al turismo sino alle energie alterna-tive. Qui in provincia di Trapani la mafia aveva pensato bene di riprendersi alcuni beni confiscati, ma questo fu impedito da un prefetto coraggioso, Fulvio Sodano che fu sfidato fin dentro il suo ufficio in prefettura dai mafiosi in grisaglia, quelli appartenenti alla cosidetta “zona grigia”, e poi a sventare ogni piano ci pensarono gli investigatori antimafia della Squadra Mobile all’epoca guidata dal dirigente Giuseppe Linares. Sembrano racconti di tempi andati e invece sono fatti appena di ieri. Si sono pagati prezzi altissimi ma il fronte dell’antimafia è andato avanti nonostante sindaci come Sgarbi che da Salemi, regno del “puparo” Pino Giam-marinaro, ex deputato regionale della Dc, capo degli andreottiani trapanesi, uomo del sistema mafioso, ogni giorno ci veniva a dire che era l’antimafia che determinava l’esistenza della mafia, e lo diceva proprio lui che aveva in casa gli uomini della ma-fia, tanto che il Viminale ha sciolto la sua amministrazione per inquinamento ma-fioso. Sgarbi è citato (con tanto di inter-cettazione) in un passaggio dell’indagine che ha riguardato Giammarinaro proprio per il terreno confiscato a Miceli. C’era da determinarne l’assegnazione, ma in effetti la volontà vera (del puparo?) era quella di non assegnarlo a nessuno quel terreno, così che il messaggio fosse chiaro, quel terreno, circa 70 ettari, tolto a Miceli nel-le mani dello Stato restava improduttivo. Il terreno fu tolto alla onlus “Fraterni-

tà della Misericordia”, fu assegnato alla “Fondazione San Vito onlus” ma anche in questo caso intervenne la revoca: Sgarbi è contro i preti e le associazioni religiose che possono gestire i beni confiscati; sulla carta venne dato a Slowfood, ma questa rinunciò perché venne meno la parte-cipazione dell’associazione Libera che avrebbe dovuto partecipare: il sindaco

venne sentito dirsi contrariato rispetto alla ipotesi ventilata di coinvolgimento di Libera, “a quelli di don Ciotti no”, e poi parlando con un assessore è stato sentito dire, “Pino che ne pensa?”, Pino (Giam-marinaro ndr) pensava di darlo all’Aias, ma anche questa cosa si arenò. Adesso una sentenza del tar fa riemergere la pos-sibilità dell’assegnazione alla Fraternità

di Rino Giacalone

Trapani, una nuova stagione per i beni confiscati

A Castellammare del Golfo l'immobile un tempo del boss Salvatore Palazzolo sarà gestito per 30 anni dall'associazione Castello Libero, in collaborazione con Agesci, Libera e l'associazione antiracket. A Erice la casa del capo mandamento Ciccio Pace sarà un centro di documentazione

>> dai territori

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della Misericordia e all’Aias, ma il terreno è tornato nel possesso dell’agenzia nazio-nale dei beni confiscati. A Castellammare del Golfo l’ex immobile di proprietà del boss Salvatore Palazzolo, sara' gestito per trent’anni dall’associazione Castello libe-ro, in partenariato con l'Agesci, l’Associa-zione Libera e l'Associazione antiracket di Castellammare. Per l’assegnazione del

bene confiscato alla mafia l’amministra-zione ha pubblicato a febbraio un bando di selezione pubblica. ''La legalita' si attua lavorando giornalmente nell’interesse della collettivita'. Il cammino di legalita' intrapreso, fin dal proprio insediamento da questa amministrazione comunale - ha detto il vicesindaco Carlo Navarra, all’atto dell’assegnazione - si concretizza

oggi con la restituzione, alla cittadinanza, di un bene sottratto alla criminalita'. E’ una grande soddisfazione essere riusci-ti ad assegnare un bene confiscato e ad un’associazione come Castello libero che, con Libera, Agesci e Associazione anti-racket, ha presentato proprio un proget-to che mira a realizzare il bene comune con iniziative sociali e di legalita'. Oggi il nostro percorso dimostra che la legalita', se davvero si vuole, passa da un semplice percorso di impegno e lavoro''. I terreni, con fabbricati sequestrati a Salvatore Pa-lazzolo, sono stati consegnati all’ammini-strazione, con decreto prefettizio, nel 2010 e acquisiti con una delibera della Giunta guidata dal sindaco Marzio Bresciani, per essere destinati a finalita' sociali. Il bene assegnato all’Associazione Castello libero e' formato da un lotto di terreno agrico-lo di 2.356 mq, con un piccolo fabbricato rurale, da ristrutturare. Alla selezione, in-detta dall’amministrazione per l’assegna-zione del bene, aperta a varie tipologie di enti e associazioni, ha partecipato solo l’Associazione Castello libero. E la com-missione di gara, formata dal presidente Rosa Maria Miceli (segretario generale del Comune), dai componenti Simone Cusumano (dirigente del settore Lavori pubblici dell’Ufficio tecnico), Simone Ma-gaddino (responsabile del settore Affari generali) e dal segretario verbalizzante Baldassare Minaudo (dipendente comu-nale), ha valutato anche il progetto di ge-stione presentato dall’associazione e ha assegnato il bene. Scenari che cambiano a proposito di beni confiscati. Ad Erice l’ultimo tassello, si spera per il momento: l’amministrazione del sindaco Giacomo Tranchida sta facendo ristrutturare la casa del capo mandamento Ciccio Pace, una palazzina su tre piani, diventerà un centro di documentazione, verranno col-locate attrezzature informatiche e labo-ratori multimediali che permetteranno a chiunque di attingere informazioni sul fenomeno mafioso e sul contrasto a Cosa nostra; un altro bene, sempre in territorio di Erice, una palazzina confiscata al boss Vincenzo Virga è diventata la sede delle associazioni. Chi entra in questa casa vie-ne accolto dalla foto di Mauro Rostagno assassinato dalla mafia il 26 settembre 1988, Virga è imputato nel relativo pro-cesso come mandante. Sono questi i se-gnali che l’antimafia oggi manda in giro e che dimostrano come il riscatto dal giogo mafioso è possibile.

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Cosa Nostra ha contribuito a ren-dere la Sicilia, terra ricca di ri-sorse, una delle regioni tra le più povere d’Italia. Enormi quantità

di ricchezza sono state sottratte per es-ser investite in tutto il mondo. Eppure, grazie alla Legge d’iniziativa popolare n.109 del 1996, voluta dall’associazione Libera, dai beni confiscati alla mafia è partita una vera e propria rivoluzione.

Concetto di rivoluzione inteso non solo come sovvertimento di un ordine preesi-stente ma, come ha detto il filosofo Wal-ter Benjamin, “ritorno all’origine, ripristi-no del punto di partenza, restaurazione e ricomposizione dell’inizio”. Infatti, oggi i beni che sono stati sottratti alla collet-tività, frutto di illeciti, ritornano a quei territori. La zona del Corleonese è vista come esempio concreto del modo in cui

la legislazione antimafia ha funzionato e dove la sinergia tra istituzioni e associa-zionismo ha dato ottimi risultati. Qui la messa in pratica della legge 109/96 è l’e-sempio più concreto della vera lotta alla mafia. La legge sancisce il principio che i beni immobili confiscati alla mafia devo-no essere utilizzati a fini sociali e, quindi, o trattenuti dallo Stato o da istituzioni pubbliche o affidati ad associazioni e co-operative. Il fine è quello di ridare ai citta-dini ciò che la mafia ha tolto loro.Ma la cosa straordinaria è che all’interno del Consorzio Sviluppo e Legalità (asso-ciazione di otto Comuni della Provincia di Palermo, voluta dalla Prefettura di Palermo, che ha come scopo l’ammini-strazione comune, per finalità sociali, di-retta o mediante la concessione a titolo gratuito, di beni confiscati alla crimina-lità mafiosa) ci sono tre cooperative che,

Corleone ha il record dei beni riutilizzati sul territorio. Un tempo simbolo della famiglia “corleonese” di Cosa nostra oggi capitale dell'antimafia ha dato il via a percorsi di riutilizzo sociale degli immobili confiscati ai capi della mafia

Sporcarsi le mani con la terra strappata alla mafia di Giuseppe Crapisi

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attraverso la messa in produzione dei terreni che erano dei boss, hanno creato opportunità di lavoro.Come ha affermato il Presidente della Lega delle Cooperative, Giuliano Polet-ti: “Qualcosa vorrà dire se tre coop. che danno lavoro a cento persone sono la più grande azienda di Corleone. È il se-gno che si può cambiare”. Circa cento ragazzi corleonesi, di San Giuseppe Jato, di Piana degli Albanesi e di altri centri del circondario oggi sono soci lavoratori o la-voratori di una delle cooperative del pro-getto Libera Terra Mediterraneo. Ma co-nosciamo meglio queste tre cooperative. La prima che ha iniziato questo percor-so è la Cooperativa “Lavoro e non solo”, che gestisce beni confiscati dal 2000 tra il Corleonese e Canicattì. Oltre ai 155 ettari di terreni agricoli, ha avuto asse-gnati immobili, tra cui Casa Caponnetto, confiscata ai Grizzaffi, oggi Ostello per i giovani volontari che ogni estate vengo-no a Corleone da tutta Italia, un labora-torio di legumi ed è anche assegnataria del Laboratorio della Legalità, confiscato alla famiglia Provenzano. L’altra coope-rativa porta il nome di un corleonese, Placido Rizzotto, costituita nel 2001, la prima attraverso bando pubblico. È la

cooperativa più rilevante da un punto di vista aziendale: gestisce 200 ettari di terreni tra il Corleonese e il Trapanese. Fiore all’occhiello della cooperativa è la Cantina Centopassi. Il Presidente della “Placido Rizzotto”, Francesco Galante, ci dice: “Proviamo ad essere una buona pratica secondo i regolamenti ispirati da Libera, di economia responsabile fonda-ta su produzioni di qualità e dell’alto va-lore aggiunto, a tutto vantaggio dei soci delle cooperative sociali e del territorio in generale”. Mentre l’ultima nata è la “Pio La Torre”, costituita nel 2007, che ci aiu-ta a capire come il lavoro nei terreni che furono dei boss è vista dai giovani come un’opportunità per il proprio futuro. In-fatti, quando Libera fece il bando per selezionare i lavoratori, si presentarono più di 300 giovani. Questo significa che il messaggio è passato, “conviene stare dalla parte dell’antimafia”, perché si ha un lavoro retribuito, si è messi in regola, si esce fuori dalle logiche del precariato, della disoccupazione e si è disposti ad andare a lavorare nei terreni che erano della mafia. Cose impensabili alcuni anni fa. La cooperativa gestisce anche l’Agritu-rismo Terre di Corleone, in contrada Dra-

go, dove, grazie al Consorzio dalle stalle di Totò Riina, oggi c’è un posto in cui si può mangiare, immersi in un paesaggio stupendo. In queste aziende si produce grano, uva, olive, legumi, fichi d’india, mandorle, tutti prodotti biologici che vengono trasformati e venduti in tutta Italia. A Corleone da giugno è stata aper-ta la Bottega della Legalità, in Via Colletti, nella casa che fu dei Provenzano. Anche in questo caso un giovane corleonese ha trovato un lavoro, grazie al progetto di Li-bera. Insomma, in questa filiera s’innesta un’altra filiera, di un mercato alternativo, che crea ricchezza economica, in cui do-manda e offerta non si basano solo sul profitto individuale, ma si incontrano perché si riconoscono in alcuni valori come la tutela dei diritti dei lavoratori, la sostenibilità ambientale e, in questo caso, il contrasto alle mafie. Oggi, come più volte ho detto, bisogna puntare sul progetto Libera Terra Mediterraneo, so-cietà consortile che include le coopera-tive di Libera Terra e altri operatori, nata per realizzare processi di collaborazione nella direzione e nel coordinamento del-le attività. Questa potrebbe sempre di più dare la possibilità ad imprenditori agri-coli e imprese locali del settore agroali-mentare di uscire dalla crisi del settore, schierandosi contro la mafia. Come cre-are una linea dei prodotti che non derivi dai terreni confiscati, ma da contadini di Corleone, di San Giuseppe Jato e di altri paesi che dicono no alla mafia e che ri-spettano le leggi, da quelle sul lavoro a quelle sulla qualità. Gli imprenditori ne guadagnerebbero in termini di vantag-gio economico e uscirebbero fuori dalle logiche di sottomissione dell’interme-diazione. Libera Terra guadagnerebbe in termini di allargamento del sostegno. Insomma, si potrebbe ingranare la mar-cia dello sviluppo antimafia allargando il coinvolgimento di quante più persone possibili. Solo così si renderà l’antimafia vincente, accompagnata certamente dal controllo del territorio e dal cambiamen-to culturale. Chiudiamo con le parole di Don Ciotti che, riferendosi a Corleone, dice: “La cit-tà è totalmente cambiata… Si avverte la speranza in futuro, che non sia di paura. E questo è segno di un’Italia che c’è. Per forzare l’alba di un nuovo giorno - ha con-cluso - occorre incoraggiare il cambia-mento, che ha bisogno di tutti noi, della nostra responsabilità e di educazione alla responsabilità”.

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I numeri sono impressionanti. Un totale di 12.064 beni confiscati alle organizzazioni criminali in Italia, di cui 10.527 immobili e

1.537 aziende, secondo i dati forniti dall’Agenzia del Demanio. Maggio-re concentrazione in Sicilia, seguita da Campania, Lombardia, Calabria, Lazio e Puglia. Un fenomeno piutto-sto eterogeneo da nord a sud a testi-monianza delle infiltrazioni mafiose estesesi in tutto il Paese.Case, ville e persino castelli, con tanto di parchi, giardini e piscine, ma anche terreni agricoli, alberghi, impianti sportivi, cave e strutture industriali. Il 33 per cento dei beni immobili consegnati e trasferiti al patrimonio indisponibile degli enti territoriali è stato destinato a finalità sociali. Questo significa che in molte delle strutture che sono appartenu-te ai clan oggi, si conducono attività basate sulla solidarietà sociale e che puntano a uno sviluppo equo nel ri-spetto delle persone e dell’ambiente.Tra tutti, un’unica eccezione è stata fatta per la famiglia Impastato. Ai parenti di Peppino, giovane giornali-sta , politico e attivista siciliano, vit-tima della mafia, è stata affidata la casa del boss Gaetano Badalamenti, riconosciuto come il mandante del delitto. La stessa casa che ha fatto da scenografia al film di Marco Tul-lio Giornana, “I cento passi”. Il film ricostruisce la vita di Peppino e il suo impegno sociale. Cento passi separa-no la casa della famiglia Impastato dove è cresciuto il giornalista, dalla casa del boss, di cui Peppino ne de-nuncia le malefatte. Solo cento passi per sfuggire all’inesorabile legame mafioso che tiene legata la famiglia Impastato ai clan mafiosi della Sici-lia degli anni ’70, la stessa distanza che oggi separa i due centri dedicati alla memoria di Peppino attraverso le attività associazionistiche. Il fra-tello Giovanni,da sempre impegnato a salvaguardare la memoria di Pep-pino e ottenere verità e giustizia, si è fatto promotore insieme alla ma-dre Felicia di un’attività di analisi e di mobilitazione tra le più significative degli ultimi decenni. La casa confiscata a Badalamenti è stata donata alla famiglia Impa-stato, cos’ha di straordinario que-

sta iniziativa? Si tratta di caso uni-co nella storia delle confische. Per la prima volta un bene confiscato è assegnato direttamente alla parte lesa. Di solito viene affidato alle co-operative o alle associazioni. Si trat-ta di un segnale forte e concreto da parte delle istituzioni nel dimostra-re che ci sono tanti modi per scon-figgere la mafia, a partire dai beni materiali, frutto di abusi e potere ai danni della società, alla quale il bene stesso ritorna in una funzione ludica di aggregazione. Abbiamo sconfitto la mafia degli abusi di potere andan-do a “violare” la casa del boss, il suo quartier generale e il suo mondo, è stata la peggiore offesa che abbia po-tuto subire sotto tutti i punti di vista.

La confisca è il metodo giusto, secondo lei, per lanciare segnali di onestà e lotta alla criminalità organizzata per le nuove genera-zioni? Sicuramente sì, avendo cura di destinarlo a funzioni di interesse sociale. Noi, dopo l’assegnazione, abbiamo convocato tutte le associa-zioni locali affinchè facessero parte dell’iniziativa già cominciata con “Casa Memoria” e che aveva sede nella mia casa paterna. Abbiamo as-sociazioni musicali, teatrali, cattoli-che, non abbiamo esitato nell’aprire le porte a qualsiasi forma associazio-nista nonostante Peppino fosse ateo e comunista. Vogliamo seguire il suo pensiero ma allargare a tutti coloro i quali intendono, attraverso le ag-gregazioni volontarie, propendere

La casa del boss Badalamenti ora donata alla famiglia Impastato. Per la prima volta un immobile in affidamento diretto a familiari di vittime di mafia. Giovanni Impastato a Lecce parla ai giovani impegnati sul territorio: “la mafia ha cambiato strategia ma non è ancora sconfitta”

di Maria Cristina Pede

Beni confiscati, il segno del cambiamento

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per una società nuova e libera, con effetto dirompente per tutte le ini-ziative che si organizzano all’inter-no del contenitore culturale. Stiamo valutando le capacità di tanti artisti locali e c’è un gran fermento che pri-ma dell’acquisizione di casa Badala-menti non c’era. È simbolico anche il fatto che si tratti della casa famosa dei “cento passi”. La realtà è ancora molto omertosa ma queste iniziative hanno un certo effetto. Questo è solo un proseguo della nostra trentenna-le attività di memoria, avevamo già aperto la nostra casa a tali iniziative. La casa Impastato si trova al centro del paese, Cinisi, in una posizione strategica, lì viene conservata la me-moria di Peppino, abbiamo un archi-

vio storico, un archivio fotografico, i libri di Peppino, qualcuno scritto in seguito per lui e questa casa è rima-sta sempre aperta per volontà di mia madre, poco alla volta la gente ha cambiato atteggiamento, ha intravi-sto in quella casa sempre aperta un cambiamento e quindi la volontà del riscatto di un territorio martoriato ma che può farcela. Lei crede che le vicissitudini de-gli ultimi decenni abbiano dato scacco alla mafia? Possiamo dire che una mafia è stata sconfitta, quel-la legata a Provenzano, Lo Piccolo, Messina Denaro e tutti i boss che ab-biamo conosciuto attraverso le cro-nache di questi decenni. Loro erano innovatori nel modo che avevano di delinquere rispetto a chi li ha prece-duti, ma quella mafia non esiste più, ce n’è una nuova che ha cambiato strategia. Il cambiamento è avvenuto da pochissimo tempo perché prima c’era un intreccio tra queste perso-ne e la collaborazione mafiosa dei professionisti di spicco nelle diverse professioni, con un rapporto solido e stabile con interessi forti a entram-be le parti. Oggi invece i componenti della cupola sono diversi, sono i col-letti bianchi. Si tratta di un’organiz-zazione molto più pericolosa, non uccide, è sottile e penetra in tutti i settori della vita pubblica politica e culturale, riesce ad avere sotto con-trollo il mondo mediatico e telema-tico. I colletti bianchi hanno abban-donato anche i vecchi affari come la droga e la prostituzione; l’hanno delegata alla ‘ndrangheta che rima-ne una criminalità organizzata vec-chio stampo. La nuova mafia si serve dello Stato perché è dentro lo Stato. Per quanto riguarda la realizzazione delle opere pubbliche e gli appalti è radicata nelle istituzioni. Quando la mafia ha ucciso Falcone, Borsellino, Chinnici, ha ucciso quelle persone che in un certo senso volevano bloc-care la loro ascesa all’interno dello Stato. Lei è a Lecce per un’iniziativa im-portante voluta dai Giovani De-mocratici leccesi e dal promoto-re Diego Dantes: inaugurare una strada intitolata a suo fratello.

Le iniziative nel ricordo e della memoria di Peppino Impastato, avvengono ormai in molte città d’Italia da nord a sud, lei come le vede? Le vedo positive, le attività di memoria, di intitolazione delle vie o degli edifici sono importanti perché coinvolgono i giovani e i ragazzi nel processo di conoscenza e di presa di coscienza per quello che la crimina-lità ha fatto e per gli effetti devastan-ti che può avere sulla società. Si tratta in genere di iniziative istituzionali o private? Entrambe. Molti sindaci democratici hanno ad-dirittura dato vita ad un movimento spontaneo contro il sindaco leghista di Ponteranica, in provincia di Ber-gamo, che ha cambiato la denomi-nazione della biblioteca comunale già intitolata a Peppino. Noi stiamo organizzando una grande manife-stazione nazionale per ringraziare e riconoscere il ruolo che hanno avuto questi sindaci, li inviteremo a Cinisi, gli daremo visibilità ma preferiamo che il ricordo di Peppino non sia po-liticizzato, io personalmente accetto ogni proposta senza dar conto al co-lore politico. Lei immagina un’Italia senza ma-fia e senza omertà? Penso che può esistere. La mafia è stata spesso esal-tata, in realtà potrebbe essere scon-fitta in poco tempo, non è niente di così grande come si vuol far credere. Giovanni Falcone diceva che non si tratta di uomini che vengono da altri pianeti ma in carne ed ossa come sia-mo noi. Sembrano invincibili per due motivi: uno perché manca la precisa volontà politica di sconfiggerli e due perché è considerata un’associazione criminale ma come ho già detto non lo è più, la mafia è un problema so-ciale e culturale, bisogna agire sulla mentalità mafiosa, sono in pochi a farlo per questo confidiamo molto nell’associazionismo. Anche il ri-spetto delle leggi spesso suona come una frase fatta priva di fondamento alcuno, perché molte leggi non ri-specchiano né il concetto di legalità e giustizia né quello di rispetto della dignità umana ed è proprio quest’ul-tima che deve essere messa al primo posto.

La mafia è un problema sociale e culturale, bisogna

agire sullamentalità mafiosa,

sono in pochi a farlo per questo

confidiamo molto nei giovani

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Fra gli strumenti che colpiscono la libertà di stampa, insieme con le intimidazioni ai cronisti, c’è l’uso strumentale della legge sulla diffamazione, con esose richieste di risarcimento danni in sede civile, senza alcun rischio per il querelante.Un’arma in grado di annientare iniziative editoriali, scoraggiare e intimidire singoli giornalisti, impedire di far luce su oscure vicende di illegalità e di potere.

Per non lasciare soli i cronisti minacciati che siano in grado di dimostrare la loro buona fede e la loro correttezza, Federazione Nazionale della Stampa, Associazione Stampa Romana, Ordine Nazionale e regionale dei giornalisti, Unione Cronisti Italiani, Libera, Fondazione Libera Informazione, Articolo 21, Osservatorio Ossigeno, Open Society Foundations hanno deciso di costituire uno sportello che si avvale della consulenza di studi legali da tempo impegnati in questa battaglia per la libertà di informazione.Per usufruire di consulenza e

di assistenza legale giornalisti e giornaliste possono:

Inviare una e-mail all’indirizzo:

sportelloantiquerele. [email protected] inserendo in oggetto la specificazione “sportello antiquerele"

Telefonare al numero :06/67664896-97

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di Norma Ferrara

«R oberto Maroni do-vrebbe chiedere scu-sa a Roberto Saviano, e non solo. I vertici

della Rai dovrebbero riportare l’autore di Gomorra in onda sul servizio pubblico e Rai 3 replicare la puntata incriminata di Vieni via con me. Vi ricordate di quel programma trasmesso nel novembre 2010 su Rai 3, che poi è stato regalato alla concorrenza e che andrà in onda nel prossimo maggio su La7…Vi ricordate di quel programma trasmesso nel novem-bre 2010 su Rai 3, che poi è stato regalato alla concorrenza e che andrà in onda nel prossimo maggio su La7 con un titolo diverso, sempre condotto dalla coppia Saviano-Fazio». Così Loris Mazzetti su Articolo21 lanciava l’appello per chiede-re che la Rai porgesse le proprie scuse

pubblicamente allo scrittore - giornali-sta Roberto Saviano per i fatti accaduti quando a “Vieni via con me” Saviano aveva accennato ai rapporti che anche su territori governati dalla Lega erano intercorsi con esponenti della crimina-lità organizzata. «La trasmissione fece il pieno di ascolti al punto che mi fece pro-porre, visto il gradimento, altre due pun-tate e di richiedere di inserire la seconda edizione nel palinsesto 2011 - ricorda Mazzetti. In Rai, nel silenzio generale, invece, passò l’ordine di Masi (il servente del Cavaliere e del suo scudiero Romani), di vietare anche il solo pronunciamento del nome di Roberto Saviano». «Lo stes-so Masi si fece promotore di sostituire “Vieni via con me” con una trasmissio-ne di Vittorio Sgarbi che su Rai 1 fece un clamoroso flop al punto da essere chiusa

dopo la prima puntata. L’azienda buttò al vento 6 milioni di euro dei contribuenti. Saviano venne “incriminato” da Maro-ni e da un altro leghista presidente del Consiglio regionale lombardo Boni (in-dagato successivamente per tangenti), per aver raccontato in Vieni via con me il rapporto tra la ‘ndrangheta e il potere del Nord. Disse: “La ‘ndrangheta al Nord come al Sud cerca il potere della politica e al Nord interloquisce con la Lega». Alla Camera, su questo appello, interviene anche il portavoce di Articolo21, Beppe Giulietti, che ricorda la contingente at-tualità e l’inopportunità di quella scelta aziendale che all’epoca mise nel mirino il giornalista, già oggetto di intimidazio-ni e minacce da parte della Camorra, dei Casalesi, dopo il libro “Gomorra”. «Oggi alla luce degli ultimi fatti - continuava Mazzetti nel suo editoriale per Artico-lo21 - secondo la Dda di Reggio Cala-bria, Romolo Ghiradelli, vicino al clan Di Stefano, è in affari con il tesoriere della Lega Nord, l’ex sottosegretario del gover-no Berlusconi Stefano Belsito (uno dei componenti del famoso cerchio magico di Bossi), accusato da tre procure di truf-fa ai danni dello Stato, appropriazione indebita e riciclaggio. Ciò dimostrerebbe l’interlocuzione. Maroni, allora ministro degli Interni, pretese di replicare in tra-smissione a Saviano. Tentai di impedirlo in quanto il ministro era andato ospite in tutti i telegiornali e in quasi tutti gli ap-profondimenti informativi. Dentro all’a-zienda fui inascoltato, così lo raccontai il mio pensiero alle agenzie, poi ripreso dai giornali». Masi, dopo aver ordinato la presenza di Maroni, avviò un procedi-mento disciplinare nei miei confronti: 10 giorni di sospensione». All’appello lan-ciato su Articolo21 Saviano aveva rispo-sto, via social network, che la Rai, però, quel monologo non lo avrebbe mandato in onda. Qualche giorno dopo la Rai, una parte, smentisce Saviano. La notizia arri-va da Articolo21: «Da ieri sera, venerdì 6 aprile 2012, Rainews 24 ha inserito in pa-linsesto la messa in onda del monologo di Roberto che, nel corso di una puntata di “Vieni via con me” parlò della presen-za delle mafie al nord. Articolo 21 ave-va chiesto alla Rai di rimandare in onda quel monologo che tanto caos provocò quando venne realizzato. Oggi ringrazia-mo il direttore di Rainews24 Corradino Mineo e la testata per avere risposto a quell’appello». Ci sono parecchie (diver-se) Rai nel Paese.

Su Rainews24 il monologo che "infastidì" la Lega

Saviano, il suo intervento a "Vieni via con me" e le accuse ai vertici della Lega. Oggi le inchieste della magistratura confermano quell'analisi e Articolo21 chiede alla Rai di trasmettere il testoche fece arrabbiare l'allora ministro dell'Interno,Roberto Maroni. E la All News accetta

i media ne parlano <<

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È stato un conflitto lungo e sanguinoso. Come in tutte le guerre civili africane ha visto numerosi attori “non prota-

gonisti”, tutti interessati a fare affari nel caos generalizzato. Sanguinari squadroni della morte, sadici capi di stato, trafficanti di armi pronti a pre-stare servigi in cambio di lauti, e ille-citi, profitti. Il mese di aprile del 2012 può portare alla tanto attesa svolta, quella del trionfo, o quantomeno dell’affermazione, della giustizia. Lo scorso 5 aprile il Southern District di New York ha condannato uno dei protagonisti di questa triste storia. Il trafficante di armi russo Viktor Bout, meglio conosciuto come il “Mercan-te di morte” è stato condannato a 25 anni di carcere. Il reato contestato,

e per il quale è stato ritenuto colpe-vole, non ha a che fare con il Sierra Leone e la Liberia, tuttavia garanti-sce una prima punizione al più peri-coloso trafficante d’armi al mondo. Inoltre, sempre il Southern District di New York ha accusato lo scorso febbraio Bout, e il suo braccio finan-ziario Richard Ammad Chichakli, di violazione dell’embargo nei confron-ti della Liberia, oltre che di frode, co-spirazione contro la sicurezza Usa e riciclaggio di denaro sporco.L’altro fronte giudiziario aperto è quello nei confronti dell’ex presi-dente liberiano, Charles Taylor che il prossimo 26 aprile sarà giudicato dalla Corte Speciale Internazionale sulla Sierra Leone. Taylor è il primo leader africano ad essere processa-

to per crimini contro l’umanità. Per motivi di sicurezza il processo si è svolto nella sede della Corte Penale Internazionale de L’Aja. Armi ovunque a chiunque

Viktor Buot, russo, è stato almeno dal 1996 e fino al suo arresto nel 2008, il dominus del traffico di armi nei con-flitti che hanno insanguinato il mon-do. In Africa in particolare. Subito dopo il crollo dell’Urss Bout ha messo in piedi una flotta di vecchi aerei car-go sovietici utilizzati per trasportare armi da guerra in tutti i continenti. Nei capi di imputazione del Southern District of New York, redatti dal pro-curatore Preet Bharara si legge che: «Tra il 1996 e il 2008 Bout ha avuto la

Liberia, diamanti insanguinati, la giustizia si muove

Usati per acquistare armi nel corso del sanguinoso conflitto africano. Lo sorso 5 aprile un tribunale Usa ha condannato a 25 anni il trafficante russo Vikotr Bout, il prossimo 26 aprile è atteso il verdetto della Corte Speciale Internazionale sulla Sierra Leone contro Cherles Taylor. Un nuovo processo in corso a New York

>> internazionale

di Gaetano Liardo

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capacità di trasportare su larga scala macchinari militari, così come vasti depositi di munizioni virtualmente in ogni angolo del mondo». Inoltre, si legge ancora che: «Le armi che Bout ha venduto o ha mediato hanno con-tribuito ad alimentare conflitti e a supportare regimi in Afghanistan, Angola, Repubblica Democratica del Congo, Liberia, Ruanda, Sierra Leo-ne e Sudan». Bout, nella sua attività globale, ha avuto solido appoggio da parte di Richard Ammar Chichakli, cittadino americano di origini liba-nesi, considerato la mente finanzia-ria dell’impero di Bout. Chichakli è attualmente latitante, sarà giudicato in contumacia, ed è inserito nella lista dei più pericolosi ricercati in-ternazionali dalla Dea americana. In Liberia, nonostante i numerosi embarghi posti dalle Nazioni Unite, Bout e Chichakli hanno fatto affari d’oro. Armi in cambio di diamanti. Il Comitato speciale del Consiglio di Sicurezza Onu che ha indagato su Liberia e Sierra Leone così definiva Bout: «Uomo d’affari, commerciante di armi e minerali. Venditore di armi

in contrasto con la risoluzione 1343. Ha sostenuto il regime dell’ex presi-dente Taylor nel tentativo di destabi-lizzare la Sierra Leone, guadagnando l’accesso illecito ai diamanti». I pro-venti del traffico di armi dalla Sierra Leone venivano trattati dal fido Chi-chakli. Le Nazioni Unite descrivono così l’abile finanziere: «Chichakli è un funzionario della San Air General Trading (compagnia aerea con base negli Usa di proprietà di Bout). I pa-gamenti per molte delle armi che an-davano in Liberia tramite il network di Viktor Bout nel 2000 e nel 2001 erano diretti al conto bancario della San Air». Violazione dell’embargo e rici-claggio di denaro sporco La coppia Bout – Chichakli, secon-do le accuse mosse dalla Corte Usa, avrebbe violato l’embargo Onu sulla vendita di armi e materiale bellico alla Liberia del presidente Taylor, e ai ribelli del Ruf, armati dallo stesso Taylor, in Sierra Leone. Armi che han-no consentito una lunga guerra civile

che ha provocato migliaia di vittime nei due paesi. Forniture pagate con i diamanti illegalmente estratti dalle miniere di Liberia e Sierra Leone. Per queste attività, pienamente verifica-te dalle inchieste delle Nazioni Unite, il network imprenditoriale di Bout e quello finanziario di Chichakli, così come le proprietà e i bene intestati ai due trafficanti, sono stati congela-ti dal Dipartimento del Tesoro ame-ricano. Tra questi le svariate com-pagnie aeree del Mercante di morte. Per citare solo le più significative: Centrafrican Airlines, San Air Gene-ral Trading, Gmbia New Millennium Air Company, CET Aviation, Irbis Air Company, Moldtransavia Srl, Odessa Air, Transavia Network, Santa Cruz Imperial. Nei traffici con la Liberia è stato accertato il ruolo giocato dalla San Air, per il giro di denaro e dia-manti, e dalla Centrafican Airlines. Si legge nel documento della Corte di New York che le due compagnie: «hanno giocato un ruolo chiave nel-la fornitura di armi al regime dell’ex presidente della Liberia Charles Tay-lor e al gruppo ribelle Ruf della Sierra Leone». Imputato d’eccezione E’ atteso per il prossimo 26 aprile il verdetto nei confronti di Charles Taylor, il primo leader africano pro-cessato per crimini contro l’umanità. Taylor, anche grazie alla fornitura di ingenti quantitativi di armi da parte del network di Bout, ha fomentato una guerra civile in Liberia e nella vi-cina Sierra Leone, tramite i ribelli del Ruf. Undici capi di imputazione, dai crimini di guerra alla violazione dei diritti umani e delle leggi umanitarie. Un processo, quello de L’Aja iniziato il 4 giugno del 2007, e una sentenza che si preannuncia storica.

Subito dopo il crollo dell’Urss Bout ha messo in piedi una flotta di vecchi aerei cargo sovietici

utilizzati per trasportare armi da guerra in tutti i continenti

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a cura di Norma Ferrara

Tre proiettili e un messaggio chiaramente intimidatorio. De-stinatari: Cinzia Franchini, presidente provinciale e nazionale del Cna-Fita, e Mirko Vitale, responsabile del Cna-Fita di Mo-dena. Un avvertimento all’associazione di categoria degli auto-trasportatori, di cui si sta occupando la Direzione distrettuale antimafia di Bologna.

A quattro anni dalla sentenza di primo grado, la Corte d’appello di Catania, ha confermato la condan-na a sette anni per concorso ester-no in associazione mafiosa dell’ex Gip di Messina, Marcello Mondello mentre ha ritenuto prescritto il re-ato per l’ex sostituto procuratore della Dda di Messina, già sostituto procuratore nazionale antimafia, Giovanni Lembo e assolto il ma-resciallo dei carabinieri Antonio Princi, suo principale collaboratore per la “gestione” anomala del pen-tito, Luigi Sparacio.

Emilia - Romagna

Sicilia

Lello Filippone è un giornalista di Calabria Ora, è il corrispondente da Locri, e si occupa di cronaca nera e giudiziaria. Gli hanno bruciato la macchina per dargli un avvertimento. Probabilmente Filippone ha su-perato quel limite imposto arbitrariamente dalla criminalità organizza-ta ai giornalisti. Ha pubblicato notizie sgradite e ha sviluppato alcune inchieste in esclusiva.

Calabria

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Il libro racconta due vicende dall’ap-parente linearità (servitori dello Stato uccisi per avere svolto bene il loro lavoro). Rappresentano a di-stanza di trenta anni, dopo che tan-to è stato ricostruito di quei fatti, una realtà che vide un preciso snodo della storia della mafia in Sicilia ed in Italia. Un ramificato e complesso mosaico nel quale decine di altri avvenimenti, uccisioni e processi, si innestano nei fatti principali rico-struiti. Le vicende umane e sociali di due giovani, di trenta e ventinove anni al momento della loro uccisio-ne, che decidono in località diverse dell’Italia, la stessa scelta di vita, ac-comunati da un identico destino. La sorte sarebbe stata probabilmente diversa se il giovane tarantino Ema-nuele Basile nei primi anni sessanta avesse scelto, come desiderato dai genitori, un titolo finito al termine del ciclo delle scuole superiori, ma-gari ragioniere o perito industriale con impiego nell’Italsider visibile dalla casa, dove nacque, nel rione Tamburi. Preferì il liceo scientifico e di continuare gli studi di medicina nell’università di Bari, essi furono interrotti allorché scelse di fare do-manda di ammissione in accademia a Modena nell’arma dei carabinieri. Mario D’Aleo romano “ de Roma”, più giovane di cinque anni, entrerà in accademia dopo e sarà destina-to a sostituire il capitano Basile in Sicilia quando fu in procinto di es-sere trasferito a San Benedetto del Tronto. Gli avvenimenti descritti si susseguono a ritmo incessante, come la trama di un film, prima per Emanuele e poi per Mario. Tra la vi-cenda dei due ci fu l’approvazione della legge Rognoni – La Torre che definì per la prima volta, per legge, il reato di mafia nel settembre del 1982 successivamente al delitto Dalla Chiesa, il prefetto “di ferro” ma senza quei poteri speciali che lui aveva richiesto. Monreale non poteva essere un comune luogo di tirocinio per due giovani, ancora inesperti capitani dei carabinieri,

animati principalmente dal loro senso del dovere. La mafia già ave-va in quei luoghi commesso delitti eclatanti, dalla strage di Ciaculli del 1963 all’assassinio, nel 1977, del co-lonnello Russo che stava scoprendo il salto di qualità negli affari di cosa nostra. Basile indagava su questo e sul materiale lasciato da Boris Giuliano, assassinato tempo prima. Lì c’era “cosa nostra”, però quella moderna di Totò Riina e Bernardo Provenzano, Luciano Liggio era in carcere dal 1974. La mafia non era ancora né nominata né citata, oltre che nelle aule dei tribunali nemme-no nelle onoranze funebri religiose dei morti ammazzati.Il tre maggio del 1980, una settima-na prima della festa patronale di Taranto, città di Emanuele Basile, si stava svolgendo l’analoga pro-cessione a Monreale. Nella notte il ritorno a casa del capitano Basile e della sua famiglia, il suo assassinio con sei colpi di pistola che solo per caso non uccidono la sua piccola e la moglie, scampata per miracolo e testimone decisiva per l’individua-zione dei colpevoli. Diede fastidio a molti, Basile, tenace e scrupolo-so nelle indagini, ebbe un rapporto stretto con il sostituto procurato-re di Palermo Paolo Borsellino che condusse le sue indagini e poi di quelle relative alla sua uccisione. Era giunto da poco la notizia del suo trasferimento, il mese successivo, a San Benedetto del Tronto. D’Alò, il suo sostituto, sarebbe giunto ai pri-mi di luglio di quell’anno, avevano, però, in comune il senso dello Sta-to portato con “testa alta e schiena dritta”, non vissero il compromesso con l’ambiente omertoso ed ostile nella logica del “tanto devo restare qualche anno e ciò sarà utile per la carriera”. Restarono anche per que-sto soli e fu facile per la mafia am-mazzarli. I funerali solenni di Basile furono fatti nel duomo di Palermo, la sua famiglia portò il suo corpo a Taranto, il dolore la lacererà nel tempo, nulla tornerà come prima.

“Quando rimasero soli”a cura di Libera Taranto

>> recensione

Emanuele Basile e

Mario D’Aleo

EROI DIMENTICATI

(Michela Giordano,

ed.Paoline 2011)

LIBRI

Le assoluzioni nei processi che si succedettero “uccisero per una se-conda volta mio marito” affermò sua moglie. Il libro ricostruisce anche la storia della mafia e dell’antimafia negli anni successivi alla sua ucci-sione sino alla sentenza definitiva del processo, avvenuta dodici anni dopo. Furono gli anni dell’uccisione dei giudici Cesare Terranova e Gae-tano Costa, dei politici Mattarella e Pio La Torre, di Carlo Albero Dalla Chiesa, di Rocco Chinnici. Dell’im-pegno del giudice Caponnetto e del suo pool antimafia con Falcone e Borsellino. Si parla del ruolo fonda-mentale della legge Rognoni – La Torre e dei collaboratori di giustizia, delle dichiarazioni di Buscetta ma è solo nell’84 che ci fu la prima con-danna all’ergastolo per un mafioso. Per D’Aleo, il 13 giugno del 1983, fu eseguita una strage, oltre a lui fu-rono uccisi i suoi due carabinieri di scorta. Ai loro funerali anche il presidente Pertini, il cardinale Pap-palardo pronunciò la parola mafia. Successivamente si accertò che le indagini del capitano D’Aleo arri-varono all’allora imminente arresto di Totò Riina. I due capitani furono assassinati nell’ambito della nuova strategia di guerra della mafia.

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Questo volume vuole offrire una prima documen-tazione sul contributo dei Comunisti alle attività e alle conclusioni della Commissione parlamentare d’inchiesta, i comunisti sono la sola forza politica che abbia collaborato, sin dall’inizio, con la commis-sione fornendole numerosi documenti e relazioni.Molti documenti, come è noto, saranno pubblicati a cura delle presidenze delle camere. Ma quei testi verranno stampati in numero limitato di copie e pochi potranno riceverle. Con questa pubblicazione noi abbiamo voluto soddisfare la legittima esigen-za dei cittadini di conoscere tempestivamente le conclusioni della commissione antimafia. Questo volume contiene il testo della relazione di mino-ranza presentata dai commissari comunisti, che ha ricevuto anche il voto dei socialisti, e il documento con le proposte conclusive dirette a rendere efficace la lotta contro la mafia e il sistema di potere mafio-so. In appendice, infine, pubblichiamo alcuni stralci di documenti che i comunisti hanno presentato alla commissione antimafia nel corso della sua attività.Il fatto che la commissione antimafia abbia superato ogni record di durata di una inchiesta parlamentare ha suscitato vivaci polemiche. Molti si sono doman-dati le ragioni di tali difficoltà [...]

Prefazione di Pio La Torre, Roma, Editori riuniti, 1976,

255 p. - Relazione di minoranza e proposte unitarie

della commissione parlamentare d’inchiesta sulla

mafia. Fonte: archiviopiolatorre.camera.it

IPSE DIXITPio La Torre

a cura di Norma Ferrara

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Verità e giustizia newsletter a cura della Fondazione Libera InformazioneOsservatorio nazionale sull’informazione per la legalità e contro le mafie

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Hanno collaborato a questo numero:Davide Pati, Rino Giacalone, Maria Cristina Pede, Giuseppe Crapisi, Ufficio stampa di Libera

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