Valutazione dei progetti urbani e fiscalità urbanistica...Ø sia in termini di qualità urbana, se...

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1 Valutazione dei progetti urbani e fiscalità urbanistica Traccia dell’intervento di Fausto Curti Dipartimento di Architettura e Pianificazione – Politecnico di Milano Nella nota che segue discuto come il ricorso allo sviluppo edilizio per acquisire gettito per le casse comunali possa avere il fiato corto, sia in termini di qualità urbana, se è vero che i diversi Programmi Complessi lanciati come veicoli di riqualificazione urbana, hanno prodotto, da questo punto di vista, esiti modesti: morfologie chiuse, arroccamento dei servizi offerti, ritardo nell’esecuzione delle opere concordate, … sebbene siano stati realizzati in una fase di ripresa del mercato, e quindi con profitti superiori alle attese; sia in termini di risorse acquisite: perché già nel medio periodo i costi urbani indotti possono eccedere i vantaggi finanziari immediati, con effetti dirompenti sui bilanci locali. Il tema merita attenzione perché incrocia due questioni fondamentali, ma neglette nella cultura urbanistica del nostro paese, cioè il rapporto tra urbanistica e fiscalità locale e tra urbanistica e ciclo immobiliare. Li menziono distintamente per poi evidenziarne la relazione. Effetti urbanistici del “federalismo del mattone”: il caso dei programmi complessi E’ noto come la capacità di spesa degli enti locali dipenda dallo stock immobiliare esistente (attraverso l’Ici che è una delle principali entrate dei comuni) e dallo sviluppo immobiliare (attraverso oneri concessori ed esazioni negoziate, che danno un gettito ragguardevole soprattutto in fase di espansione). Col ridursi dei trasferimenti dal centro e coll’aumentare delle competenze loro assegnate, i comuni, per non aumentare le tasse, sono spinti ad ampliare la base imponibile con lo sviluppo urbano, che accresce il patrimonio immobiliare locale, e con la cattura di funzione lucrose per i bilanci municipali (grande distribuzione, poli logistici,…) e l’espulsione di funzioni povere a scapito dei comuni vicini. Se non corrette con politiche pubbliche mirate, le due principali conseguenze urbanistiche dell’autonomia fiscale a base immobiliare sono dunque: la subordinazione della sostenibilità urbana ad esigenze di cassa, e la concorrenza fiscale inter-comunale, che pregiudica la costruzione di strategie condivise di scala vasta.

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Valutazione dei progetti urbani e fiscalità urbanistica Traccia dell’intervento di Fausto Curti Dipartimento di Architettura e Pianificazione – Politecnico di Milano Nella nota che segue discuto come il ricorso allo sviluppo edilizio per acquisire gettito per le casse comunali possa avere il fiato corto, Ø sia in termini di qualità urbana, se è vero che i diversi Programmi Complessi lanciati

come veicoli di riqualificazione urbana, hanno prodotto, da questo punto di vista, esiti modesti: morfologie chiuse, arroccamento dei servizi offerti, ritardo nell’esecuzione delle opere concordate, … sebbene siano stati realizzati in una fase di ripresa del mercato, e quindi con profitti superiori alle attese;

Ø sia in termini di risorse acquisite: perché già nel medio periodo i costi urbani indotti possono eccedere i vantaggi finanziari immediati, con effetti dirompenti sui bilanci locali.

Il tema merita attenzione perché incrocia due questioni fondamentali, ma neglette nella cultura urbanistica del nostro paese, cioè • il rapporto tra urbanistica e fiscalità locale • e tra urbanistica e ciclo immobiliare. Li menziono distintamente per poi evidenziarne la relazione. Effetti urbanistici del “federalismo del mattone”: il caso dei programmi complessi E’ noto come la capacità di spesa degli enti locali dipenda dallo stock immobiliare esistente (attraverso l’Ici che è una delle principali entrate dei comuni) e dallo sviluppo immobiliare (attraverso oneri concessori ed esazioni negoziate, che danno un gettito ragguardevole soprattutto in fase di espansione). Col ridursi dei trasferimenti dal centro e coll’aumentare delle competenze loro assegnate, i comuni, per non aumentare le tasse, sono spinti ad ampliare la base imponibile con lo sviluppo urbano, che accresce il patrimonio immobiliare locale, e con la cattura di funzione lucrose per i bilanci municipali (grande distribuzione, poli logistici,…) e l’espulsione di funzioni povere a scapito dei comuni vicini. Se non corrette con politiche pubbliche mirate, le due principali conseguenze urbanistiche dell’autonomia fiscale a base immobiliare sono dunque: Ø la subordinazione della sostenibilità urbana ad esigenze di cassa, Ø e la concorrenza fiscale inter-comunale, che pregiudica la costruzione di strategie

condivise di scala vasta.

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Fiscalità locale e ciclo immobiliare Veniamo ora al ciclo immobiliare. Tutti gli urbanisti sanno che il mercato immobiliare è fluttuante, presenta alti e bassi, ma non si sono mai curati di adattare esplicitamente obiettivi e strumenti delle politiche urbanistiche al variare della congiuntura. Hanno anzi spesso sortito un effetto pro-ciclico (di amplificazione delle oscillazioni, anziché di stabilizzazione del trend) perché tendono ad irrigidire vincoli e oneri in fase di stagnazione e a deregolare e defiscalizzare in fase di crescita, in sintonia con le fasi del ciclo elettorale. Questo inconveniente è oggi aggravato dal fatto che i diversi frammenti di riforma fiscale fin qui introdotti fanno dipendere il ciclo della spesa locale dal ciclo immobiliare. Vale la pena di sottolineare che nel nostro paese la transizione al “federalismo del mattone” è avvenuta negli ultimi 5/6 anni, cioè in una fase anomala di boom immobiliare seguito alla flessione dei primi anni 90, che ha risparmiato alle nostre città la crisi fiscale subita dalle altre città europee, con sistemi di prelievo misti che poggiano anche sul produttivo. Ma proprio per questo i bilanci dei comuni italiani sono più vulnerabili alle inversioni di fase, talché se l’immobiliare entrasse in declino (come è probabile dopo diversi anni di crescita tumultuosa) non è chiaro chi ripagherà i costi del mancato adeguamento della città pubblica in questa stagione di massicce edificazioni. Infatti è ben vero che la crescita edilizia, attraverso l’Ici e gli oneri concessori rimpingua le entrate, ma essa determina anche il fabbisogno, lo sposta solo in là nel tempo, quando si manifesterà la domanda di servizi dei nuovi insediati e quando si dovrà porre rimedio agli impatti ambientali e sulla mobilità dei nuovi carichi insediativi. Valutazione urbanistica e scambio leale tra pubblico e privato: l’uso combinato di strumenti concorsuali e negoziali Poiché gli indirizzi di riforma della Legge urbanistica nazionale per molti versi riprendono le innovazioni urbanistiche introdotte in Lombardia, merita ricordare che l’Inu Lombardia aveva posto per tempo la questione, già prima dell’approvazione del progetto di legge (poi 9/99) che introduceva i Pii come strumento normale di trasformazione urbanistica, in un documento inviato a tutti i consiglieri regionali (che non ha avuto invero molta eco) in cui si raccomandavano tre aggiustamenti al dispositivo, e precisamente: • la necessità di associare ai programmi integrati un quadro di riferimento idoneo ad

apprezzarne la coerenza d’assieme e a stimarne l’impatto cumulato sulla città, per condividere coi promotori almeno una quota delle spese pubbliche rese necessarie;

• l’opportunità di rafforzare le procedure istruttorie dei Pii con strumenti di valutazione capaci di selezionare le proposte migliori attraverso un confronto concorrenziale trasparente;

• l’utilità di predisporre linee–guida per la stima di impatto fiscale dei progetti urbani (il saldo attualizzato delle entrate e delle spese pubbliche dovute al progetto) per meglio proporzionare le compensazioni negoziate al loro impatto a lungo termine sul bilancio locale.

Come si vede, si tratta di indicazioni che non proponevano di usare il piano come strumento vincolistico, bensì di accompagnare lo sviluppo con solide procedure valutative capaci di rallentare l’abuso dell’ambiente urbano in fase di espansione, anche solo evitando che i costi di adeguamento della capacità di carico urbano venissero posticipati in un momento successiva, magari di recessione.

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Le leve fiscali a disposizione dell’ente locale Una buona conoscenza del repertorio degli strumenti di esazione impiegabili in sede locale, nonché dei relativi limiti e vantaggi, é essenziale per esercitare una pressione fiscale equilibrata (o coerente con determinati obiettivi di politica pubblica) sulla base imponibile locale. Infatti, col decentramento del prelievo in sede locale la base imponibile è sempre più legata al territorio, anziché ai redditi o ai profitti, facilitando l’accertamento e spostando il carico fiscale da fattori mobili e sotto-utilizzati (imprese e lavoro) a fattori fissi e sovra-utilizzati (ambiente e risorse irriproducibili). Elenchiamo brevemente gli strumenti fiscali in via teorica applicabili nelle città. Imposte, tasse e tariffe possono incidere sul patrimonio immobiliare, sullo sviluppo edilizio, sull’utenza di servizi municipali o sui consumi, piuttosto che sul cespite prodotto dall’utilizzazione economica dei beni immobili. • I principali prelievi sullo sullo stock edilizio esistente sono:

i) le imposte ricorrenti sulla proprietà del bene. Può trattarsi di imposte specifiche commisurate al valore del capitale detenuto, oppure comprese in imposte patrimoniali su soggetti o società; ii) le imposte sugli incrementi di valore, che possono essere colpiti sia attraverso un’imposizione annuale degli incrementi virtuali, sia quando si manifestano all’atto della successione, della compravendita, o a seguito dell’approvazione di uno strumento urbanistico. In genere non esiste vincolo di reimpiego; il tributo colpisce i proprietari immobiliari e finanzia l’attività pubblica in genere.

• I prelievi sullo sviluppo immobiliare e sulle trasformazioni urbane, cioè sulle nuove edificazioni o sui cambiamenti di destinazione d’uso, che assumono la forma di iii) oneri concessori imposti in base a tabelle prefissate (eventualmente corrette in rapporto ad obiettivi di politica pubblica: contenimento sprawl, eco-sostenibilità, ecc.); oppure commisurati agli effettivi programmi di spesa pubblica nell’area (impact fees); iv) compensazioni concordate caso per caso; oppure in base ad uniformi protocolli negoziali. La tassa colpisce, in prima istanza, i promotori immobiliari ed è rapportata a una generica (o specifica) controprestazione (opere di urbanizzazione, riqualificazione ambientale, ecc.).

• Il recupero al pubblico di una parte delle rendite edificatorie assegnate col piano (perequazione urbanistica) o delle rendite differenziali create attraverso le opere pubbliche (contributi di miglioria): v) cessioni fondiarie gratuite o acquisizioni coattive di quote delle volumetrie attribuite col piano, associate al trasferimento mirato dei diritti edificatori entro un predefinito mosaico di aree e in base a determinati plafond di edificabilità ammessa, vi) contributi di miglioria riscossi a seguito di investimenti pubblici che valorizzano determinate parti della città.; oppure approvati in referendum prima della loro messa in opera (assessment district). Entrambe colpiscono, in prima istanza, i proprietari fondiari e immobiliari.

• Gli oneri sulla fornitura di specifici servizi o sui consumi, che assumono la forma di vii) tariffazioni (canoni per utilities, tributi ambientali, pedaggi vari, ecc.); o di viiii) imposte sui consumi (accisa sulla benzina, ecc.). Si tratta di tributi proporzionali che colpiscono gli utenti o i consumatori. Meno eque, in linea di principio , delle imposte progressive sui redditi, sono di più semplice riscossione e meno soggette ad evasione.

• I tributi sulle funzioni che si svolgono nella città, come le imposte sulla residenza temporanea, sulle licenze commerciali, sul valore aggiunto creato, ecc. Esse colpiscono chi esercita un’attività e in genere non prevedono vincoli di reimpiego.

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Una tale varietà di tributi. può risultare eccessiva per il contribuente. Tuttavia qualche grado di complessità nel sistema tributario locale è fisiologica, Ø sia perché proprio l’esistenza di diversi tipi di imposte che gravano su beni affini fa sì

che le singole aliquote siano abbastanza basse da ridurre il pericolo di errata allocazione del carico fiscale, che aumenta di molto al crescere delle aliquote;

Ø sia perché, come vedremo, l’uso congiunto di oneri coattivi predefiniti su formula e di esazioni negoziate consente un migliore adeguamento anti-ciclico dei prelievi urbanistici,

Ø sia perché, a seconda della fonte di prelievo, i soggetti incisi sono diversi, e quindi si producono diversi effetti re-distributivi in seno alla collettività locale.

L’utilità del mix degli strumenti per facilitare politiche urbanistiche anti-cicliche e migliorare l’equità dei prelievi Come dicevamo, il tema dell’adeguamento ciclico delle politiche pubbliche è stato poco coltivato in campo urbanistico, ma è cruciale in una situazione in cui l'iniziativa immobiliare é sempre più esposta alle fluttuazioni del mercato degli immobili e dei capitali. Conseguentemente è opportuno prevedere una qualche elasticità nei prelievi urbanistici, utilizzando strumenti dotati di un duplice carattere • in parte tributarie, cioè valide erga omnes e prefissate per legge; • in parte negoziale, con contribuzioni in natura aggiuntive agli oneri standard. E’ bene inoltre ammettere che siano esigibili nelle diverse fasi del ciclo del progetto, eventualmente dilazionandole a qualche momento dell’iter di approvazione anziché riscuoterle prima dell’avvio del progetto, con largo anticipo rispetto ai proventi attesi. La flessibilità permette di commisurare il prelievo alle mutevoli congiunture del mercato immobiliare, che altrimenti in fase recessiva potrebbero indurre all’abbandono dei progetti; nonché di adattare i termini dello scambio alle caratteristiche dei singoli casi, favorendo le funzioni e le localizzazioni ritenute desiderabili, nonché i progetti che registrano il maggiore consenso dell'opinione pubblica locale. Non solo le forme giuridiche dei prelievi è bene siano diversificate (coattive, negoziali, miste) ma anche le fonti del prelievo, cioè i beni e i servizi cui si applica, conviene siano diversificate tanto per ragioni di opportunità politica (non gravare eccessivamente su un solo gruppo di soggetti) che di equità sociale (governare gli effetti redistributivi indotti in seno alla collettività locale ). E’ quest’ultimo un tema ben presente a chi si occupa di politica economica, meno in politica urbanistica. In effetti • le imposte sulla proprietà colpiscono i residenti, e possono risultare elettoralmente

controproducenti ed esposte alla concorrenza fiscale, se decise unilateralmente in sede municipale;

• la tariffazione mirata dei servizi incide sull'utenza e pertanto tocca anche i city users, non solo i residenti stanziali. Risulta quindi tanto più necessaria quanto più la città é aperta a flussi pendolari o turistici. Essa può aumentare l'uso efficiente delle strutture esistenti, dilazionando i nuovi investimenti per il potenziamento di reti e impianti;

• la tassazione delle concessioni edilizie colpisce in prima istanza i promotori immobiliari, mentre avvantaggia i proprietari di beni immobili esistenti perché spesso si traduce in una lievitazione dei prezzi immobiliari in genere.

Di più, ciclo urbano e ciclo fiscale sono interdipendenti, non solo perché la disponibilità a pagare da parte degli operatori immobiliari é maggiore in fase di crescita, quando si

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prospettano maggiori profitti, ma anche perché il supporto politico a un oneroso regime fiscale in materia urbanistica dipende dalla sua incidenza. Infatti, Ø in fase di domanda crescente gli oneri aggiuntivi possono essere trasferiti in avanti,

sui compratori (i c.d. “nuovi venuti”) mediante un aumento dei prezzi degli immobili, Ø mentre in fase di mercato stagnante i promotori o li subiscono o li trasferiscono

all’indietro, sui proprietari fondiari, cambiando anche l’atteggiamento dell’elettorato locale.

Non esiste perciò una ricetta fiscale pronta all'uso e buona per ogni situazione. In ciascuna municipalità il mix preferibile dipende dalla capacità organizzativa degli amministratori, dalla affidabilità storica del bilancio pubblico e da peculiari vincoli normativi e politici del contesto nel quale si opera. Si raccomanda perciò che le scelte locali siano normalizzate da linee-guida aggiornate da parte di organi di coordinamento (le province, o le regioni medesime) e siano ancorate a un disegno d’assieme che le renda intellegibili agli stessi decisori, agli operatori e alla collettività destinataria. Negoziazione urbanistica e congiuntura di mercato Se l’urbanistica ambisce ad essere partenariale e orientata al mercato merita ricordare che gli esiti del negoziato pubblico/privato e la corretta ripartizione delle convenienze tra i soggetti coinvolti dipendono dalla congiuntura del mercato immobiliare. In presenza di un mercato immobiliare dinamico e di una vasta dote di aree dismesse in zone attrezzate e appetibili la municipalità può negoziare con successo una congrua fornitura di beni e servizi di interesse generale attraverso gli accordi di programma sui maggiori interventi, in quanto l’assegnazione dell’edificabilità (almeno per i programmi complessi) non è sancita nel piano ma deriva dalla proposta, e quindi consentirebbe una trattativa concludente, come avviene nei sistemi evoluti di pianificazione concertata . Una volta che la città è satura e che lo scrigno dei diritti edificatori assegnabili discrezionalmente è vuoto, l’onere di finanziare opere pubbliche e servizi si sposta su altri soggetti locali e dipende: • dalle imposte sullo stock immobiliare esistente (che, come dicevamo, colpiscono la

proprietà diffusa, cioè la maggioranza dell’elettorato; e non possono quindi essere aumentate quando i prezzi delle case ristagnano).

• o dalle tariffe pagate dall’utenza (che presentano diversi vantaggi per un’urbanistica orientata al mercato via privatizzazioni, finanza di progetto, ecc., ma non facilitano le politiche sociali, perché le tariffe sono indipendenti dalla capacità contributiva;

• oppure dal ricorso ad una logica di club (o di “condominio urbanistico”) per condividere tra proprietari e utenti i costi dei migliori servizi di zona, secondo il modello dei distretti speciali, che si va rapidamente diffondendo negli U.S. (e viene oggi amplificata dallo slogan della “società dei proprietari”).

Queste ultime soluzioni sono criticate perché circoscrivono l’uso di beni collettivi alle sole clientele solvibili, a prezzo di una progressiva spoliazione del principio di cittadinanza (il cosiddetto welfare à la carte ), ma sono a parer mio preferibili ad una tassazione regressiva sull’intera città (regressiva nel senso che chi ha di più paga meno, come spesso capita con l’Ici in attesa dei nuovi estimi) per fornire migliori servizi alle aree già meglio servite (secondo la direzione di marcia dello” standard convenzionato”).

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Tab. Una tabella riepilogativa dei molteplici aspetti della tassazione urbanistica 1. Ragioni fondanti

fornitura di servizi mitigazione degli impatti recupero dei plusvalori

2. Relazione con criteri di giustizia distributiva

rapporto beneficiario-inciso doppio pagamento equità verticale (tra generazioni) e orizzontale (tra i diversi operatori)

3. Scala geografica di riferimento

sito prospiciente area urbana territorio metropolitano o intercomunale

4. Gamma delle attrezzature finanziabili

reti infrastrutturali parchi, amenities impianti e servizi vari ambientali, arte pubblica

5. Diversificazione delle modalità di contribuzione

cessioni di suolo in moneta in opere e altre mitigazioni e compensazioni

6. Modalità del prelievo

pre-definito su negoziato misto (in parte standard in formula caso per caso parte negoziato in base agli impatti attesi)

7. Momento del pagamento

al rilascio della nel corso dell’attuazione a lavori ultimati (al concessione per fasi rilascio della licenza di abitabilità; all’atto della compravendita, …)

8. Rapporti col sistema di pianificazione (e la programmazione della spesa)

autonomo rispetto al piano coerente col programma dipendente dal piano (contribuzioni concordate di estensione delle (oneri richiesti mediante di volta in volta) infrastrutture e dei servizi il piano degli usi del suolo)

8. Rapporti col sistema normativo

informale e volontario convenzionato in base a forme regolamentato in via contrattuali ben tipizzate formale dalla normativa di

piano o da ordinanze locali

10. Fonti di finanziamento impiegate

in base a dotazioni mediante indebitamento mediante partenariati di bilancio (o privatizzazioni)

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Il rapporto tra tassazione locale, piano urbanistico e programmazione della spesa Quando a periodi di costante espansione urbana subentrano intensi processi di ricambio funzionale e di concorrenza localizzativa, il piano fatica a pronosticare e a guidare la mobilità delle imprese e degli investimenti immobiliari. Esso va dunque assunto come riferimento, in parte stabile e in parte emendabile in base ad accordi negoziati tra promotori, amministratori, collettività destinatarie. La sfida sta nell’approntare un sistema di regolazioni e prelievi che sia abbastanza flessibile da adattarsi alle mutevoli condizioni del contesto e della congiuntura del mercato, e insieme sia abbastanza chiaro e affidabile nell’assicurare qualche prevedibilità alle scelte di investimento immobiliare. In questo senso, bisogna riconoscere che anche i più tradizionali strumenti urbanistici costituiscono un’intelaiatura essenziale per avviare il negoziato e per giustificarne gli esiti senza incorrere in un eccessivo contenzioso. E’ per queste ragioni che in Gran Bretagna le autorità locali stanno spostandosi da pratiche ad hoc nell’esazione dei planning gain (cioè delle compensazioni negoziate) a un approccio più strategico, con politiche di piano che esplicitamente designano le compensazioni attese, mentre negli Stati Uniti le esazioni sullo sviluppo immobiliare sono preventivamente esplicitate in ordinanze locali e vengono sempre più spesso incorporate in più generali strumenti di pianificazione della mobilità o degli usi del suolo. Dunque, anche nei paesi con un ordinamento urbanistico fondato sulla contrattazione (la G.B.), o con un sistema di pianificazione pluralista e decentrato (gli Usa), l’approccio negoziale alla fornitura congiunta di servizi di pubblico interesse non esclude affatto la necessità di un quadro d’assieme delle iniziative attivabili. Cambia semmai il carattere del documento, affinché, invece di cristallizzare una configurazione finale con regole definite lotto per lotto, sappia accompagnare i decisori pubblici nel fare scelte discrezionali ma non arbitrarie, specificando le politiche perseguite, le modalità di scelta tra progetti alternativi e soprattutto gli standard cui devono soddisfare rispetto al contesto di insediamento. A questo scopo, per assicurare un eguale trattamento ai diversi operatori e consentire la stima di fattibilità dei progetti la manualistica recente suggerisce che il piano predefinisca: • il tipo di attrezzature finanziabili; che esprimono la politica di welfare dell’ente

locale; • gli standard richiesti, siano essi di carattere quantitativo o prestazionale; • i criteri sulla base dei quali saranno calcolate le esazioni (criteri tabellari, rapportati a

un programma di spesa cartografato, o commisurati agli impatti generati dal progetto);

• la concomitanza temporale (concurrency), tra riscossione ed attuazione, fino a prevedere il rimborso nel caso di ritardi eccessivi nell’esecuzione delle opere previste.

Quando i costi degli interventi pubblici sono calcolabili in anticipo, possono essere redatte precise tabelle per l’imputazione degli oneri e delle compensazioni. In ogni caso, conviene ammettere un qualche margine di discrezionalità, purché giustificato in base alla corrispondenza tra gli impatti generati e le misure di mitigazione imposte. Si tratta di suggerimenti semplici, che possono essere adattati al contesto italiano soprattutto nella prospettiva dello sdoppiamento del piano generale in due livelli, Strutturale ed Operativo. Qualora nel Piano Strutturale venisse codificata la distinzione tra ambiti di conservazione, regolamentati ex ante , e aree di riqualificazione o trasformazione intensiva, da convenzionare in fase di progetto, si può ipotizzare che:

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Ø gli interventi edilizi minuti, realizzati in Dia o permesso di costruire nel rispetto del piano, contribuiscano in proporzione ai costi medi della manutenzione e rinnovo delle dotazioni esistenti, ed eventualmente per una quota prestabilita dei costi pubblici di implementazione del piano operativo;

Ø mentre per i maggiori progetti urbani vengano concordate contribuzioni, in moneta o in opere, commisurate ad una stima dei costi marginali, cioè del loro specifico impatto fiscale rapportato agli impegni di spesa sanciti nel P.O..

Così, la classificazione degli ambiti urbani, assoggettati dal piano strutturale a diversi regimi normativi, serve anche a giustificare il ricorso a diversi regimi fiscali. A sua volta, il Piano Operativo, se corredato da un programma di investimenti che invera credibilmente la domanda di qualità urbana e sociale espressa dalla collettività insediata, può costituire un supporto argomentabile a prelievi differenziati in ragione dell'impatto atteso sui costi pubblici e su un set predefinito di parametri prestazionali condivisi (e sanzionati nel P.S.). Sembra così possibile assicurare flessibilità, chiarezza e prevedibilità al rapporto tra i prelievi sulla proprietà o sullo sviluppo immobiliare e i reimpieghi nei diversi interventi pubblici, evidenziando sia i loro nessi spaziali che le sequenze temporali previste. L'ampiezza del prelievo é stabilita nel P.O., in ragione degli interventi programmati o non ancora ammortizzati, ma la logica del prelievo é statuita nel P.S. In definitiva, sulla base di principi e di indirizzi esplicitati nei piani locali, eventualmente arricchiti da progetti d’area e da tabelle degli oneri e menù delle O.P. differenziati a seconda dei diversi ambiti di intervento, si potrebbe rendere la procedura insieme flessibile, sistematica e rendicontabile. Nota bibliografica F. C. (1999, a cura di), Urbanistica e fiscalità locale. Orientamenti di riforma e buone pratiche in Italia e all’estero , Maggioli, Rimini, pp. 404 S. Arnofi e F. C. (2000), “La tassazione dello sviluppo immobiliare”, in F. Karrer e B. Monardo (a cura di), Territori e città in movimento. Strategie infrastrutturali e strumenti finanziari per lo spazio della mobilità collettiva., Alinea, Firenze, pp. 231-305 F. C. (a cura di, 2000), “Fiscalità urbana e territoriale”, sezione monografica in Urbanistica Informazioni, n. 162, luglio agosto, pp. 5-29 F. C. (2000), “Governare per reti. Competizione fiscale e politiche redistributive alla scala intermedia”, in E. Ciciotti e A. Spaziante (a cura di), Economia, territorio e istituzioni. I nuovi fattori dello sviluppo locale, Angeli, Milano, pp. 206-225 F. C. (2001), “Valutazione strategica e programmi complessi: il caso dei Prusst”, in G. Franz, a cura di, “Necessità e problemi irrisolti delle recenti politiche di riqualificazione urbana in Italia”, numero monografico di Archivio di studi urbani e regionali, n. 70 F. C. (2003), “Welfare locale e offerta privata di servizi pubblici: dal piano alla gestione, in Territorio, 27, pp. 26-33 F.C. (2004), “Valutazione dei programmi complessi e strategie di attuazione urbanistica”, in A. V., Incontri novaresi 2002. Working paper dell’Archivio Osvaldo Piacentini , n. 13, pp. 83-111 F. C. (2004), “Patrimonio civico e qualità urbana”, in Urbanistica Informazioni n. 196, pp. 21-22

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I Sabati dell’Urbanistica 1

I Sabati dell’Urbanistica Seminari di formazione per amministratori degli enti locali bolognesi

Bologna - tavola rotonda - 25 settembre 2004

Carla Ferrari – Vicepresidente INU Emilia Romagna In premessa vorrei soffermarmi sul significato che assume questa serie di seminari rivolti agli amministratori degli enti locali, in questa fase del governo del territorio. In prima battuta, verrebbe da dire che è ben strano che nessuno ci abbia pensato prima e lo dimostra l’interesse dimostrato dai partecipanti che evidentemente avvertono, e non solo perché sono appena stati eletti o rieletti, la responsabilità del “fare urbanistica” e il bisogno di capire e di confrontarsi su “come” fare urbanistica. Questo interesse dimostrato dai partecipanti dimostra anche che i nuovi amministratori del territorio non sono più convinti che la “politica” da sola, basti a fare delle buone scelte per il territorio, ma che sia importante avere il supporto delle conoscenze tecniche: “conoscere per decidere per il meglio”. Il favore che ha avuto questa iniziativa presso gli amministratori è un segnale straordinario di crescita culturale, perfettamente in sintonia con gli obiettivi della nuova legislazione urbanistica regionale, che registro volentieri sia come rappresentante dell’INU, che tanto impegno mette quotidianamente nel favorire il dibattito sui temi della pianificazione urbanistica, proprio a fianco degli amministratori, ma anche come tecnico. Un’iniziativa come questa non potrà non avere un seguito, non foss’altro perché già tutti gli amministratori non bolognesi che ne hanno sentito parlare hanno chiesto di estendere la cerchia degli invitati, ovvero di riproporre l’iniziativa anche negli altri contesti provinciali. L’INU conferma il proprio interesse sia all’iniziativa in corso che alle prossime iniziative che seguiranno, per portare il contributo delle esperienze dei propri iscritti che, come sapete, sono sia enti locali che professionisti. Venendo al merito del mio contributo vorrei sviluppare alcune considerazioni che derivano dalla mia esperienza di professionista, impegnato sui temi dell’urbanistica, spesso in trincea, a fianco e a supporto degli amministratori. Una prima considerazione attiene al ruolo dei tecnici, che devono fornire un supporto agli amministratori nel processo decisionale, oltre che nella definizione degli obiettivi della pianificazione. Una scelta di piano è tanto più sostenibile, anche politicamente, quanto più è sostenibile tecnicamente. Per questo motivo, risulta evidente che il processo decisionale, che sta in capo principalmente agli

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I Sabati dell’Urbanistica 2

amministratori, deve essere supportato dai tecnici, attraverso la formazione di un quadro conoscitivo con una forte componente interpretativa del territorio, che sappia far corrispondere, a ciascuna scelta alternativa, una valutazione preventiva della sostenibilità ambientale, sociale e territoriale (scelte tecnicamente assistite). Questa stretta correlazione fra scelte di piano e quadro conoscitivo non è ovviamente un’invenzione della legge 20/2000, ma è stata alla base delle “buone pratiche” che hanno caratterizzato la pianificazione di questa regione, figlia della “Metodologia di base” introdotta da Piacentini già negli anni ‘70. Il merito della nuova legge urbanistica regionale è stato semmai quello di definire il percorso di formazione del piano in modo quasi didascalico, stabilendo che il quadro conoscitivo e la valutazione di sostenibilità delle scelte sono parte integrante dello strumento di pianificazione, e come tali non stanno più solo nell’archivio del progettista, ma devono essere uno strumento di lettura e di interpretazione anche per gli amministratori. Il rapporto fra il tecnico e l’amministratore diventa quindi molto serrato, poiché il tecnico deve essere in grado di supportare l’amministratore ogni qualvolta si pongano scelte fra loro in alternativa e soprattutto quando queste scelte siano necessarie per risolvere criticità emerse dall’analisi del territorio ma difficilmente accettabili dai cittadini. Per far questo è necessario che vi sia simultaneità fra le sollecitazioni degli amministratori e le risposte dei tecnici. Una seconda considerazione riguarda i nuovi strumenti che la legge urbanistica introduce per la condivisione delle scelte di piano. Uno di questi, probabilmente il più discusso fra tutti, è la “conferenza di pianificazione”. La rilevanza di questo nuovo strumento è riconducibile principalmente a due questioni: - la prima attiene alla potenzialità che la conferenza di pianificazione offre di

implementare le informazioni per la costruzione di una quadro conoscitivo più attendibile e più strutturato, attraverso il contributo degli enti (ausl, arpa, soprintendenze, consorzi di bonifica, ecc.) che, prima della legge 20, avevano il solo compito di esprimere un parere sul piano;

- la seconda attiene invece alla straordinaria opportunità che la conferenza di pianificazione offre di favorire il confronto con gli enti sovraordinati e con i comuni contermini, oltre che con gli altri enti partecipanti, per la condivisione e la concertazione delle scelte, superando i conflitti e le insofferenze registrate finora.

Purtroppo, in questa prima fase, necessariamente sperimentale, la scarsa abitudine degli enti partecipanti a “condividere” il proprio sistema delle conoscenze ha reso difficile lo svolgimento delle conferenze e in molti casi ha allungato i tempi della costruzione del piano.

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I Sabati dell’Urbanistica 3

E’ però necessario riconoscere che la conferenza di pianificazione offre un’opportunità unica di poter condividere e concertare le proprie scelte con la provincia e con i comuni contermini, garantendo un sistema di coerenze altrimenti difficilmente raggiungibile. E’ ormai infatti evidente che la sola coerenza con il sistema della pianificazione sovraordinata, pur indispensabile, non è più sufficiente. Il PTCP deve costituire il quadro di riferimento entro cui ricercare le strategie comuni, ma sarà il piano strutturale di ciascuna realtà territoriale, sia di un singolo comune che di più comuni che decidano di sviluppare la pianificazione in forma associata, a trovare le soluzioni più confacenti al quadro delle criticità rilevate dal quadro conoscitivo. Poiché tali soluzioni non possono più essere ricercate nell’ambito circoscritto dal confine comunale è sempre più necessario il confronto con le realtà contermini e il tavolo della Conferenza di Pianificazione deve quindi, sempre più, diventare il “tavolo delle coerenze”. Le difficoltà che hanno incontrato i comuni che hanno aperto la conferenza di pianificazione per la formazione del Piano Strutturale (PSC), non deve far pensare che sia lo strumento ad essere sbagliato. Abolire lo strumento della conferenza di pianificazione significherebbe fare un passo indietro significativo, rinunciando alla possibilità di governare il territorio in base a scelte condivise. E’ semmai necessario operare, anche attraverso corsi di formazione, perché gli enti che partecipano alla conferenza divengano più consapevoli della necessità che le scelte si operino in modo condiviso, sulla base di un sistema di conoscenze comuni. Una terza e ultima considerazione riguarda il significato che oggi viene assegnato al piano urbanistico. La legislazione regionale ha confermato, con la legge 20/2000, la centralità del piano, ma ha anche fornito strumenti alternativi per il governo del territorio. Si tratta per lo più di strumenti che operano con un’ottica parziale, difficilmente riconducibile, in modo organico, alla struttura dello strumento urbanistico generale. Le finalità di questi strumenti (mi riferisco in particolare agli interventi di riqualificazione urbana di cui alla legge 19/1998 o agli accordi con i privati di cui all’art. 18 della legge 20/2000) sono per lo più rivolte a risolvere situazioni particolari in cui, nel nome dell’interesse collettivo, vengono spesso avanzate proposte di nuovi insediamenti privati, di carattere residenziale o produttivo. E’ evidente che quando l’oggetto dell’accordo siano previsioni già contemplate dallo strumento urbanistico generale, il problema non si pone, trattandosi di insediamenti già “pesati” sotto il profilo della sostenibilità e di opere di interesse collettivo (servizi, piuttosto che opere infrastrutturali, ecc.) dichiarati come effettivamente necessari per la collettività. Diverso è il caso, peraltro ampiamente diffuso, di accordi che riguardano opere il cui interesse collettivo non è stato dichiarato dal piano ma viene riconosciuto nell’ambito dell’accordo stesso, ma soprattutto di nuovi insediamenti che il piano non ha previsto e quindi di cui non ha

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I Sabati dell’Urbanistica 4

valutato la sostenibilità, rispetto all’assetto generale del territorio, in termini di carico sul sistema dei servizi, sulla mobilità, ecc.. Sono strumenti a cui si dovrebbe ricorrere in situazioni del tutto straordinarie che invece, in alcune realtà, stanno diventando pratica corrente. Su questo tema l’INU Emilia-Romagna ha avviato una ricerca, con il contributo della Provincia di Modena che sta materialmente raccogliendo i dati, finalizzata a catalogare le esperienze in corso nel territorio provinciale modenese. Ciò consentirà di raccogliere informazioni utili a stabilire che tipo di accordi siano stati stipulati, in termini di benefici per la collettività e di nuove superfici insediate e quale rapporto essi abbiano con la pianificazione urbanistica generale del comune in cui si attuano. I risultati della ricerca saranno resi pubblici nell’ambito di un convegno che prevediamo di svolgere all’inizio del prossimo anno e che potrà forse consentirci di svolgere considerazioni più strutturate sugli esiti di questi strumenti.

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TRASFORMAZIONI DELLA CITTA’ E DEL TERRITORIO ALL’INIZIO DEL XXI SECOLO: L’ARCIPELAGO METROPOLITANO di Francesco Indovina1 1. Avvertenza Tre avvertenze iniziali si rendono necessarie onde evitare fraintendimenti:

- si farà riferimento soltanto ed esclusivamente alla città e al territorio dell’Europa; non si tratta di una sorta di rinverdito eurocentrismo, quanto piuttosto della sottolineatura che il sistema urbano e territoriale di questo continente presenta caratteri peculiari e diversi da quelli presenti in altre parti del mondo. Niente in Europa è confrontabile con le città del terzo mondo, niente in Europa è confrontabile con il suburbio degli USA. Detto questo non si esclude che le tendenze che saranno messe in evidenza non possano riproporsi con connotati diversi altrove;

- quella che si esplorerà è una tendenza non già un fenomeno consolidato; in alcuni casi questa tendenza appare più consistente e stabile, in qualche altro caso più dinamico e progressivo, altrove più sonnacchioso. Sono i caratteri peculiari (economico-sociali e di “governo”) di ciascuna situazione a determinare un più o meno accentuato dinamismo nella direzione qui sostenuta;

- di seguito non si sarà riferimento ad una specifica “forma” urbana o territoriale, ma alla logica d’organizzazione e di funzionamento. È tale logica, infatti, che s’intende esplorare. La forma specifica con cui il territorio si organizza dipende oltre che dal meccanismo economico-sociale e di governo proprio, anche da fattori storici, naturalistici e ambientali in senso ampio.

2. Rilevanti fattori generali di riorganizzazione Si può ammettere che i fattori che determinano trasformazioni continue d’organizzazione e di funzionamento delle città e dei territori siano, insieme, “locali” e “generali”. I primi danno corpo alle modalità specifiche (fino alla “forma”) di riorganizzazione delle città e dei territori; i secondi determinano gli indirizzi (di sviluppo di settori e funzioni; di forma di organizzazione sociale; di dinamica culturale; ecc.) che coinvolgendo città e territori differenti e anche tra di loro lontane, ne determinano il cambiamento. Di seguito si renderanno comprensibile i fattori “generali” e “locali” che appaiono rilevanti, nel fare questo non si farà riferimento a casi specifici, tuttavia, si tenga conto che le considerazioni di seguito svolte attingono ad analisi di situazioni reali, in diversi contesti. Il tramonto di sistemi politico-economici alternativi (capitalismo/socialismo reale) ha costituito uno di quegli eventi che ha sconvolto gli equilibri a tutti i livelli, è banale dirlo, compresi quelli di organizzazione del territorio. Gli effetti sull’organizzazione della città e del territorio non sono, come dire, diretti, ma, anche se indiretti, non privi 1 Testo di una lezione svolta in diverse sedi universitarie (Alicante, Barcellona (UAB), Alghero, Ferrara, Palermo Girona, nell’ordine), essa costituisce una sintesi e qualche approfondimento del saggio “La metropolizzazione del territorio. Nuove gerarchie territoriali”, in Economia e Società regionale – Oltre il Ponte, n. 3-4, 2003

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di rilievo. Si pensi soltanto all’apertura di nuovi “mercati” per la localizzazione di attività produttive, in precedenza esclusa per l’incompatibilità (spesso più ideologica che di fatto) tra situazione politica-istituzionale di tali paesi e la forma di organizzazione della produzione di tipo capitalistico, o per il pericolo di una “rivoluzione” politica. Oggi, al contrario, eliminati pericoli e incompatibilità, sembra che l’industria (capitalista) tenda a privilegiare aree geografiche di “ridotta” democrazia e tali da garantire, senza contrapposizioni forti, il prevalere del “comando” del capitale sulla forza di lavoro. Il modo di produzione capitalistico2 si espande a livello mondiale, a prescindere dal regime politico esistente in ciascuna situazione, condizionando la struttura territoriale dei territori di nuovo insediamento, ma anche quella dei paesi di origine per effetto di una diversa distribuzione geografica delle attività. Un secondo fattore di rilevante trasformazione, collegato alla precedente notazione, ma non solo, è l’apertura di nuovi mercati e la formazione tendenziale di un “unico” mercato mondiale; fenomeno che, con accenni di esaltazione o di estrema preoccupazione, va sotto la dizione di globalizzazione. Due sono i fronti di questa apertura: il mercato dei beni e servizi e il mercato del lavoro. Per quanto riguarda la prima questione va detto che l’allargamento della domanda di beni si pone più in prospettiva che nell’immediato anche se la dinamica di questa variabile presenta una forte accelerazione. È, soprattutto, la crescita economica di paesi di grande dimensione (quali la Cina e l’India), a determinare una prospettiva favorevole di mercato. Contemporaneamente, tuttavia, l’apertura di questi paesi significa, come già osservato, la loro entrata massiccia nella produzione di beni e servizi, cosa che disegna una nuova geografia produttiva dalle conseguenze ancora non completamente chiare ma sicure, sulla produzione dei paesi oggi sviluppati. In ragione (causa ed effetto) della globalizzazione per quanto riguarda i beni di consumo di massa, da una parte, e di quelli di élite, dall’altra parte, si assiste ad una ristrutturazione dell’organizzazione del commercio, con la crescita del controllo da parte di monopsoni in grado di imporre prezzi sempre più bassi ai produttori, per questa strada si produrranno, e sono già in corso, processi di ristrutturazione, concentrazione, specializzazione, de-localizzazione, ecc., della produzione. Più rilevante da molti punti di vista, ma qui interessa l’aspetto degli effetti territoriali, sono i nuovi mercati del lavoro, che si caratterizzano per un fortissimo differenziale salariale che, nelle nuove condizioni politiche, determina una nuova divisione internazionale del lavoro, con la penalizzazione, a livello dell’occupazione industriale ed anche di quella nei servizi, del mercato del lavoro delle economie sviluppate tradizionali. Va anche rilevato che per effetto dell’innovazione tecnologica, della diminuzione della dimensione delle unità operative e della nuova organizzazione produttiva, la nuova divisione internazionale del lavoro appare sostanzialmente poco stabile, nel senso che continuamente si “aprono”, per così dire, più convenienti nuovi mercati del lavoro con un continuo flusso di rilocalizzazione di attività produttive.

2 Il tema della deindustrializzazione come non è noto è questione che riguarda i paesi sviluppati, mentre al contrario l’industrializzazione avanza a livello mondiale.

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Il terzo fattore è costituito dall’innovazione tecnologica sia sul piano della produzione (innovazione sia di prodotto che di processo), che su quello della comunicazione (che per altro permette organizzazioni della produzione più flessibile: gestione a distanza, esternalizzazione di servizi, ecc.). Non è necessario spendere molte parole su questo argomento (la letteratura è infinita), se non per rilevare, e su questo aspetto si tornerà più avanti, che l’innovazione delle reti ha un fortissima influenza sull’organizzazione della produzione, sulle economie di scala, sulla localizzazione della produzione, ecc. con rilevanti conseguenze sul piano dell’organizzazione del territorio. L’ultimo dei fattori generali può essere individuato nella finanziarizzazione dell’economia; la prevalenza, per dirla in altro modo, dell’economia di carta (moneta) rispetto a quella reale (della produzione di beni e servizi). Bolle speculative, costruzione di nuovi e più sofistica (ma anche insicuri) titoli, aggiotaggi, scandali finanziari, ecc. appartengono tutti a questa famiglia, ma in più, per quanto qui interessa, crescita di importanza di alcune “piazze”, e quindi fattore di centralizzazione, dove maggiore e più efficiente risulta essere l’offerta di servizi per questo settore. Che queste piazze, tranne qualche rara eccezione, siano le città di antica egemonia non fa differenza. Inoltre l’economia finanziaria detta la sua rigida legge (nessuna diminuzione dei guadagni) all’economia reale, ed avendo in mano la vita delle aziende (molto indebitate) determinano ristrutturazioni, licenziamenti, chiusura di filiere produttive, nuove dislocazione spaziali della produzione, ecc. Questi quattro fattori costituiscono, con peso differente anche in ragione delle diverse situazioni, i motori (“generali”) del processo di riorganizzazione delle città e dei territori. La cosa non può che essere ovvia ove si rifletta che l’organizzazione del territorio dipende dal processo economico-sociale è ove esso subisce una fortissima trasformazione (sviluppo di qualche forma di capitalismo in regioni, stati, continenti ove era prima assente), o notevoli aggiustamenti (nuove tecnologie, nuove modalità di produzione, nuove divisione internazionale del lavoro, ecc.), le città e i territori non potrebbe che essere investite anch’esse da un processo di riorganizzazione e di adeguamento. Il problema metodologico che ci si trova ad affrontare è il prevalere di un’opzione che fa derivare dalla nuova situazione (dettata almeno dai precedenti fattori) una concezione dello spazio indifferenziato. L’astrazione dello spazio omogeneo, assunta per semplificazione in alcuni modelli, si trasforma, in alcune elaborazioni, da astrazione e semplificazione in una condizione della realtà. Secondo quest’approccio tutto può localizzarsi ovunque. Il mondo intero, da questo punto di vista, assume connotato di grande opportunità e di indifferenziata condizione. Questa nozione non è rilevante in sé, la sua debolezza è evidente, quanto per le conseguenze che se ne traggono. Le conseguenze alle quali si fa riferimento, che determinano, oltre che un acceso dibattito, azioni concrete, elaborazioni di politiche, investimenti pubblici, ecc. sono: la concorrenza tra città e, da questa dipendente ma anche indipendente con riferimento alla rivoluzione della comunicazione, le città in rete o le reti di città.

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Qualche osservazione a questo proposito pare necessaria per la rilevanza che la questione ha sul tema che qui si discute. 3. Concorrenza tra città Il concetto di concorrenza tra città può essere tradotto come capacità della singola città di attirare investimenti mettendosi in concorrenza con altre città. Tale formulazione si basa sull’ipotesi, già rilevata, che lo spazio sia indifferente (tutto può localizzarsi ovunque) e che, quindi, gli investimenti si localizzino tenuto conto dei vantaggi comparativi tra le diverse città. Che si tratti di una ipotesi solo in parte realistica è noto; molti investimenti privati, infatti, presentano vincoli localizzativi di varia natura (dalla tradizione, alle relazioni “sociali”, a legami con culture locali, ecc.) e il confronto tra diverse possibili localizzazioni non sempre viene effettuato e se effettuato non sempre, per molte ragioni e circostanze, porta a decisioni conseguenti. La concorrenza può esercitarsi considerando due specifiche convenienze, la prima della quali chiama in causa il costo del lavoro, mentre la seconda, in modo più generico, fa riferimento alla qualità urbana. Per quanto riguarda il primo parametro, si può affermare che l’area di cui ci si occupa in questa sede, e in generale i paesi sviluppati, per quanto abbiano approntato modifiche al mercato del lavoro, per quanto sia stato ridotto il ruolo svolto dal sindacato, appare perdente, anche perché la scomparsa di alternative al sistema capitalistico, rendono tutti i paesi “sicuri” e garanti degli investimenti eventualmente effettuati. Su questo terreno l’Europa soccombe3. Del resto la rilocalizzazione di produzione verso paesi a più bassi salari e con mercati del lavoro meno garantisti è una realtà quotidiana che interessa tutta l’area dell’Unione Europea4. Tale processo di rilocalizzazione, tuttavia, non costituisce una concreta espressione della “concorrenza tra città”, ma piuttosto l’esito della nuova divisione internazionale del lavoro, dei differenziali salariali e delle condizioni operative del mercato del lavoro (tutti elementi non specificatamente urbani). È proprio la “qualità urbana” che entra in gioco quando si fa riferimento alla concorrenza tra città. Va detto, e questo è anche chiaro ai teorici della concorrenza tra città, che sono solo le grandi imprese (e per i rilevanti investimenti) che operano secondo la logica comparativa (urbana), in tale comparazione i vantaggi ricercati oltre ad essere quelle di impresa sono quelli che soddisfano le esigenze dei manager5.

3 Anche se in questa fase alcuni dei paesi europei, dell’area balcanica, sembrano poter reggere la concorrenza dei paese extraeuropei, si ha la netta sensazione che anche essi molto presto soccomberanno. 4 Alcune “regioni produttive”, come per esempio il Nord-Est d’Italia, hanno subito una involuzione economica di rilevante portata, proprio per effetto, anche, dei processi di spostamento della produzione all’estero. 5 Una concorrenza assimilabile alla precedente è anche quella esercitata per attrarre la scelta residenziale dei ceti “alti”, o per meglio dire dei ricchi, che oggi non sono più soltanto le famiglie proprietarie di patrimoni finanziari, industriali o commerciali, ma riguardano anche i campioni dello sport, attori e attrici, cantanti, ecc. Gli uni e gli altri, tuttavia, oltre che preferire la “qualità urbana” prediligono molto i paradisi fiscali.

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La qualità urbana dovrebbe costituire un elemento di rilievo quale fattore di “attrazione”, sia con riferimento ai fattori strettamente aziendali, che a quelli relativi alla vita dei manager (che sono quelli che “decidono”). Si tratta di una qualità urbana, che va coniugata in modo articolato, tenendo conto dei due aspetti. Senza nessuna pretesa di essere esaustivi, di seguito si indicano alcune delle connotazioni che la “città di qualità”, in questo specifico contesto, dovrebbe avere:

- ordinata, priva di conflitti, bene amministrata; - sicura, essendo quella della sicurezza una variabile oggi esaltata (a fini politici)

a prescindere delle reali situazioni di insicurezza; - un sistema di collegamento, a medio e lungo raggio (aereo, automobilistico e

ferroviario) di grande efficienza e comodità; - buone scuole nei diversi livelli di istruzione; - attrezzature per i giovani (sport, tempo libero, cultura, ecc.); - attrezzature di buona qualità per il tempo libero degli adulti: culturali (teatri,

cinema, gallerie, librerie ben fornite , ecc.); sportive (campi di golf, di tennis, ecc.); club esclusivi; ecc.;

- disponibilità di personale o di istituzioni, di qualificate esperienze, che possano essere impiegate per i servizi alle persone (non solo di cura);

- buone ed efficienti attrezzature sanitarie e ospedaliere; - attività commerciali qualificate; - buone università, con buoni docenti e adeguati servizi; - centri di ricerca qualificati e collegati a livello internazionale; - istituzioni finanziarie potenti ed efficienti; - aziende di servizio alle imprese qualificate e articolate; - sito ameno, meglio se dotato di una immagine internazionale; - luoghi di prestigio nelle vicinanze e facilmente raggiungibili; - patrimonio storico e artistico di rilevante importanza (musei, raccolte

pubbliche e private, monumenti, ecc.) - disponibilità di manodopera, di diversa qualificazione, possibilmente

svincolata da rigidità; - una vita culturale e mondana intensa; - occasioni di “grandi eventi” esclusivi.

Questo sommario elenco mette in evidenza due cose: poche città presentano tutte insieme queste caratteristiche, si tratta di caratteristiche alle quali sono interessate solo poche imprese (e investimenti). Appunto, si dirà, è proprio l’esistenza di situazioni “rare”, da una parte, e di un numero limitato di investimenti, dall’altra parte, che suggerisce il concetto di “concorrenza tra città” (che riguarda la capacità di ciascuna di esse ad attrarre le occasioni di investimento esaltando le rispettive qualità). Non si vuole mettere in discussione l’opinione secondo la quale la qualità urbana, oltre che un valore in se stesso e per gli abitanti, possa costituire un elemento d’attrazione, una variabile in grado di spostare preferenze localizzative, quanto, piuttosto, mettere in evidenza che le peculiarità richieste alla singola città riducono

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drasticamente il numero delle concorrenti (si tratta di un club molto esclusivo e ristretto, con una “tassa di iscrizione” molto alta, tanto alta che è quasi impossibile l’accesso). La possibile concorrenza, inoltre, si riferisce ad un segmento molto ridotto d’imprese e d’investimenti, cosa che se da una parte accresce la concorrenza, dall’altra parte innalza la tassa di iscrizione alla gara. S’intende dire che le città che intendono far parte di questo club ristretto e, così, poter competere effettivamente per attrarre investimenti, hanno bisogno molto spesso di eliminare il gap storico di tecnologia, infrastrutture, istituzioni, ecc. rispetto alle città che fanno già parte dell’elite, e quindi dovrebbero effettuare investimenti di dimensione fuori dalla loro portata. Non basta, in sostanza, un po’ di marketing; se la costruzione dell’immagine urbana apparisse fondamentale, essa dovrebbe fondarsi su un’effettiva “offerta” di alta qualità (la pubblicità mistificata o anche ingannevole in questo caso non pare efficace). Non per niente in generale la vera “concorrenza” tra città si sviluppa, non per attrarre investimenti produttivi in senso stretto, ma piuttosto per accaparrarsi agenzie di organismi internazionali (ONU, EU, BIT, ecc.), o eventi internazionali (dalle Olimpiade, alle Expo, ai campionati mondiali di qualche sport, ecc.)6, si tratta di decisioni di localizzazione o di assegnazione che seguono, soprattutto, regole di equilibrio politico e di relazioni tra stati. S’intende dire che i Comitati specifici che vagliano le domande dei diversi paesi, pur facendo analisi attente delle offerte sono anche guidati da convenienze politiche. In conclusione il mix d’opportunità richiesto alle città per attrarre investimenti appartiene ad un gruppo molto ristretto di città mondiali. Resta il fatto, tuttavia, che le nuove condizioni dettate dalla globalizzazione, qualsiasi cosa essa significhi, dalla modifica dell’organizzazione della produzione, dalle relazioni internazionali, anche tra città, necessitano di una qualche risposta su diversi piani; il pericolo della emarginazione, infatti, appare possibile non solo per i paesi più poveri ma anche per quelli sviluppati e, soprattutto, per quelli meno dinamici tra questi ultimi. 4. Città in rete Le formulazioni, “città in rete” o “reti di città”, pur non essendo identiche alludono allo stesso fenomeno: la possibilità di relazioni più facili, più veloci, più produttive tra città, con la conseguenza di moltiplicare le opportunità per le singole città e con la possibilità che tendenzialmente si attenuino (si cancellano?) le differenze, soprattutto economiche, tra le singole città. Nelle reti si trova sempre una qualche corrispondenza utile. Se da una parte lo “stare in rete” risulta essere la condizione per esercitare la concorrenza (non importa se tra città o tra imprese), dall’altra parte non si può disconoscere che la costruzione di relazioni con realtà diverse costituisce, in una certo senso, uno dei connotati specifici della “città”. La rilevanza della singola città, fin dall’antichità, era determinata dalle relazioni che la città intratteneva con altre. Relazioni che erano quasi sempre insieme politiche, economiche, culturali, 6 Più recentemente si manifesta una concorrenza per accaparrarsi grandi “congressi” di categorie professionali, o altro. Anche in questo caso la sola disponibilità di una grande sala congressi non pare sufficiente.

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commerciali, ecc. In sostanza l’essere in rete, alle specifiche condizioni offerte della tecnologia di comunicazione delle diverse epoche, non è una novità e caratterizzava, più o meno, la città. Sarebbe inutile, tuttavia, negare che le nuove tecnologie moltiplicano queste possibilità; una moltiplicazione che in un certo senso modifica il connotato stesso del collegamento, soprattutto perché abbassa la soglia dimensionale (di potere, di offerta, di risorse, ecc.) necessaria per “stare” in rete7. Inoltre esistono politiche nazionali e comunitarie per potenziare, promuovere e sviluppare i collegamenti tra partner anche lontani, cosa che moltiplica le relazioni. In sostanza tecnologia e politiche tendono ad aumentare le relazioni tra le città, quanto questo sia rilevante per la singola società urbana e questione da analizzare caso per caso. La rete, com’è noto, non ha confini, non riconosce luoghi ma solo nodi, e da questo punto di vista possiamo individuare due tipi di relazioni: quelle di lunga distanza, che è possibile chiamare macro o globali, e quelle che si riferiscono a collegamenti di più breve portata (per esempio quelle interne ad un ambito territoriale, zona metropolitana, provincia, regione, ecc.), che possiamo chiamare micro o locali. Con riferimento alla tecnologia e alla concezione delle reti questa distinzione non ha rilievo e sostanza, appunto perché la rete riconosce solo nodi, ma dal punto di vista che qui interessa la questione, come si vedrà, appare significativa. In forma un po’ apodittica, si può affermare che i collegamenti macro sono probabilmente di ridotto rilievo sia perché la loro effettiva attualità interessa un numero sostanzialmente modesto di situazioni e funzioni, sia perché direttamente hanno un effetto territoriale molto ridotto, ed è la cosa che in questa sede interessa. Diversa è la situazione per i collegamenti micro, essi, infatti, possono avere delle ricadute sul piano dell’organizzazione territoriale e, in un certo senso, possono aiutare (determinano?) la tendenza che qui si vorrebbe mettere in evidenza. La rete in tale situazione non costituisce soltanto mezzo e occasione di relazioni, ma contribuisce a strutturare il territorio. 5. Di possibili schemi d’organizzazione urbana Si è ripetuto che i processi di trasformazione del territorio possono essere considerati il risultato sia di fattori generali sia di fattori più specificatamente locali. Per poter andare avanti, e quindi affrontare gli effetti dei fattori locali, appare necessario fare un passo indietro, ripercorrendo l’evoluzione della città. In realtà non si pensa ad una “storia” della città, quanto piuttosto far riferimento a possibili schemi di organizzazioni urbane e territoriali che è possibile riconoscere, con l’avvertenza che non si tratta di una sequenza temporale, anche se apparentemente possono apparire in successione logica, Quello che interessa in modo particolare mettere in luce è l’aspetto “gerarchico”, cioè la forma della gerarchia territoriale di cui ogni schema appare come espressione e proiezione.

7 E’ banale, ma forse vale la pena di ricordarlo, che anche nelle nuove condizioni e con le nuove possibilità una reale situazione di “stare” in rete va costruita, si tratta cioè di una forma specifica di politica finalizzata, non basta, tanto per intenderci, possedere una pagina Web. Una pagina Web ti fa stare in rete ma le possibilità di sfruttare la struttura della rete dipende dalla tua politica di collegamento e di offerta/domanda.

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Nello schema (n.1) riportato, si può osservare come nel nostro ragionamento all’origine possiamo mettere un insieme di città isolate, seguite da altre forme organizzative nelle quali le relazioni tra città e la loro specifica forma gerarchica sono crescenti. Di ciascuna di queste vale la pena avanzare qualche specificazione. Città isolate Si definiscono città isolate quelle inserite in contesti di “campagna” non urbanizzata. Vale la pena di intendersi: quando si fa riferimento a città isolate, non si pensa a città senza relazioni ma piuttosto a città con relazioni limitate e specializzate. In questo senso è possibile indicare come fase delle città isolate quella condizione nella quale le relazioni con le altre città limitrofe o anche lontane sono scarse, dove prevale una sorta di autosufficienza nella quale gli abitanti traggono dal lavoro nei campi vicini e nelle altre attività interne alla città, molto di quello di cui hanno bisogno. L’integrazione forte è con il territorio agricolo che le circonda. Non è che non commercino, che non abbiano scambi, o che non intrattengano relazioni con altre comunità, ma queste non investono la loro organizzazione spaziale: in un certo senso la campagna, vera ed esclusiva campagna, le isolano; le infrastrutture di collegamento con altre realtà urbane rappresentano una leggera increspatura del territorio. In un mare verde le città rappresentano delle isole. In questo contesto le gerarchie spaziali appaiono irrilevanti, ogni città, in un certo senso, è caput mundi. La loro configurazione spaziale urbana-territoriale ben rappresenta l’assenza di gerarchie (o la loro limitatissima esistenza); non si può neanche dire che la campagna circostante è gerarchizzata rispetto alla città, quella, infatti, fa tutto uno con questa. Territori urbanizzati Una possibile evoluzione dell’organizzazione spaziale prima caratterizzata attraverso le città isolate, è quella dei territori urbanizzati (che hanno diversa intensità è forma) e che sono nominati in vari modi: campagna urbanizzata, urbanizzazione diffusa, territori urbanizzati, ecc.). Si tratta di una trasformazione dettata dall’evoluzione dell’organizzazione sociale, dalla trasformazione della produzione, dalla modifica nei modi di vita e dalla crescita delle infrastrutture viarie. Principale motore di questa trasformazione, in epoca contemporanea, è senz’altro lo sviluppo della motorizzazione privata. Non più un mare verde con delle isole, ma come un bassofondo dove affiorano scogli grandi e piccoli, singole pietre, ma anche piattaforme ora affioranti ora sommerse. La campagna in un certo senso ancora prevale, ma essa ha in larga parte perduto il suo connotato produttivo: non si tratta più di un terreno agricolo, quanto piuttosto di un terreno edificabile che in attesa dell’evento edificatorio viene impiegato in attività, più o meno intense e continuative, di produzione primaria. Cominciano a prevalere gerarchie spaziali: l’infittirsi della rete infrastrutturale promuove la gerarchia e anche l’individuazione di suoi capisaldi; un territorio urbanizzato (ai diversi livelli) è possibile solo a partire dall’esistenza di una maglia infrastrutturale abbastanza estesa.

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La città (area) metropolitana È possibile considerare, a partire dalle città isolate, la città (area) metropolitana un’evoluzione parallela a quella del territorio urbanizzato, o anche una possibile evoluzione dei territori urbanizzati. Questi ultimi, a loro volta, possono essere anche la conseguenza dell’esistenza di un’area metropolitana, infatti, nell’area metropolitana il territorio agricolo presenta fenomeni più o meno accentuati di urbanizzazione. La città (area) metropolitana si caratterizza per l’affermarsi di una gerarchia forte tra i diversi insediamenti, essa si struttura proprio attraverso un processo di gerarchizzazione. Si è di fronte, cioè, ad una polarizzazione selettiva di funzioni, che si organizzano e localizzano secondo una precisa scalarità, che vede nella città centrale il massimo della concentrazione delle funzioni rare e, con linguaggio recente, di eccellenza. Tutta l’organizzazione delle funzioni pubbliche, dei servizi collettivi e privati, della produzione, ecc. segue questo ordine gerarchico dando luogo ad una sorte di albero gerarchico con poli di primo, secondo, terzo, ecc., grado. Una struttura metropolitana è rafforzata e garantita da infrastrutture di viabilità monocentriche e radiali, da trasporti collettivi altrettanto monocentrici e radiali, con una mobilità obbligatoria (lavoro e scuola) che segue quasi esclusivamente la direzione periferie-centro e viceversa; un percorso che è anche seguito da una parte cospicua della mobilità non obbligatoria. Com’è noto l’organizzazione gerarchica di una zona metropolitana coinvolge non solo la città centrale e il suo territorio agricolo ma anche altre città, in genere di minore dimensione, e i relativi territori. Si tratta di un’organizzazione di area vasta (l’ampiezza varia nelle diverse circostanze). La struttura organizzativa del territorio è determinata dalla struttura di organizzazione delle funzioni, essa, inoltre, trova origine in qualche elemento di “successo” della città centrale: la dimensione, la concentrazione di capitale produttivo, particolari condizioni che ne facilitano le reazioni esterne (l’esistenza di un porto, per esempio), concentrazioni di servizi, una storia esemplare, ecc., sono tutti fattori che determinano lo strutturarsi di un territorio in area metropolitana. La città diffusa La città diffusa costituisce l’evoluzione dell’urbanizzazione diffusa. L’ipotesi evolutiva, piuttosto che quella di “fondazione”, è quella che più si adatta all’analisi delle trasformazioni del territorio, tuttavia introducendo il concetto di evoluzione, preme evitare ogni interpretazione meccanicistica: non si ipotizza, cioè, una evoluzione obbligata da “campagna” a “campagna urbanizzata”, poi da “campagna urbanizzata” a “urbanizzazione diffusa” e, infine, a città diffusa. Quello che, in un certo senso, appare consolidato è che ciascuna forma organizzativa, come prima delineata, presuppone la precedente, senza con questo voler implicare un passaggio obbligato. La formulazione del termine città diffusa presuppone una caratterizzazione del concetto urbano. Si assume che la città deve essere considerata soprattutto per i suoi attributi di funzionalità e di relazioni sociali. Questo punto di vista non nega che il

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connotato fisico-morfologico della città (densità, intensità e assenza di soluzioni di continuità) sia rilevante, tanto è vero che nel passaggio dall’urbanizzazione diffusa alla città diffusa si nota un processo di densificazione e di intensificazione fisica8, ma piuttosto intende sottolineare l’assoluta rilevanza nella connotazione della “condizione urbana”, della funzionalità e delle relazioni sociali. La terminologia città diffusa sarebbe giustificata, infatti, solo se si accettasse questo punto di vista. In sostanza si ha una città diffusa tutte le volte che pur in assenza di prossimità fisica si manifestino condizione d’uso urbano del territorio. Si tratta di un fenomeno urbano non dal punto di vista morfologico, ma per i suoi elementi organizzativi, funzionali, sociali e d’uso. Nella città diffusa sono presenti elementi della costituzione “fisica” della città, ma essa non presenta i caratteri di densità, intensità e soluzione di continuità tipici della città, essa non è costituita soltanto da residenza mono-familiare e isolata, ma da molte articolate forme residenziali, fino, talvolta, ai quartieri di edilizia economica e popolare, la rete di infrastrutture è ampia, nel territorio sono presenti attrezzature e servizi (collettivi, privati e pubblici) di carattere urbano, attività produttive, spazi pubblici, ecc. Tutte queste componenti non si presentano concentrate ma diffuse con soluzione di continuità e, in generale, a bassa densità. Mentre si esalta il mix che è proprio della città, si vorrebbe sottolineare che tale commistione non è il risultato (ovvio si potrebbe dire) dell’allargamento dell’area territoriale considerata, ma una costante di singoli sue parti; questo non nega l’esistenza (tipica della città) di zone mono-funzionali e specializzate. La gerarchizzazione funzionale appare meno forte, poiché gli elementi strutturanti non paiono guidati da tensioni agglomerative, ma, piuttosto, seguono la tendenza alla dispersione. La scelta di localizzazione, sia di attività produttive, che di servizi, appare attenta a massimizzare l’accessibilità. È questo il territorio dove la “rete” comincia ad essere forza strutturante. Il territorio della città diffusa appare formato da un reticolo, con capisaldi o nodi di diverso livello (nuclei urbani di media e piccola dimensione, paesi, aggregati residenziali o di attività, ecc.), mentre il territorio, per così dire, interno tra questi capisaldi risulta edificato in un modo che possiamo ben descrivere come diffuso. Il principio d’ordine che prevale sembra quello delle infrastrutture di comunicazione. I capisaldi, principali e secondari, costituiscono “poli” (deboli) di attrazione.

Dagli schemi prima delineati è possibile individuare alcuni caratteri distintivi di ogni specifica organizzazione del territorio, caratteri che si intrecciano e sommano a mano a mano che l’organizzazione del territorio si fa più complessa. Si tratta di caratteri che è possibile ritrovare oggi nell’organizzazione del territorio che ci pare possa risultare dalle tendenze in atto. Essi sono:

- la formazione ed estensione della rete infrastrutturale di collegamento; - la diffusione delle diverse funzioni; - la varietà delle relazioni economiche, sociali, culturali, ecc. intrattenute

all’interno della singola forma di organizzazione spaziale;

8 Il paesaggio dell’urbanizzato nel passaggio verso la città diffusa tende a modificarsi assumendo qualche connotato urbano.

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- le funzioni spiccatamente urbane, che assumono specifica forma di organizzazione, presentano come diffuse e contemporaneamente, in alcuni casi, polarizzate.

6. Una trasformazione: l’arcipelago metropolitano In questi ultima anni l’attenzione degli studiosi del territorio è stata tutta focalizzata sulla “diffusione”, o, se si preferisse, sulla dispersione nel “territorio vasto” degli insediamenti di popolazione e della localizzazione delle attività produttive e di servizio. Dai risultati di molte di queste ricerche si sono ricavati rilevanti interpretazioni sia sulle modalità e i processi che caratterizzano le organizzazioni territoriali di tipo diffuso, che sui fenomeni a queste connessi o correlati (localizzazioni di attività produttive, distretti industriali, maggiore “libertà” di scelta abitativa per le famiglie, ecc.). I nuovi “paesaggi” hanno arricchito la conoscenza dei fenomeni territoriali; tra “campagna” e “metropoli” sono stati individuati diversi livelli di compromissione del territorio, diversi gradini di trasformazione della campagna, in una scala che, comunque, non è prevedibile sia percorsa sempre e tutta intera9. È stato un lavoro importante e fruttuoso. Si ha l’impressione, tuttavia, che l’attenzione alla diffusione non abbia permesso di individuare un fenomeno parallelo. La “diffusione” non è stato l’unico fenomeno territoriale nuovo di questa fase storica, è possibile individuare una tendenza generale verso la formazione di quella che in altra sede è stata definita metropolizzazione del territorio (vedi nota n. 1) e che ora si suggerisce di chiamare, con una terminologia non solo forse meno greve ma anche più descrittivamente coerente, arcipelago metropolitano. Come illustrato nello schema (n. 2) si sostiene:

- che la fase delle città isolate è definitivamente tramontata (da tempo). Si tratta di considerazione banale;

- che sia le città metropolitane, sia i territori urbanizzati, che le città diffuse tendono a trasformarsi, o per meglio dire ad evolvere, in modo convergente, verso una nuova struttura territoriale che si propone, appunto, di chiamare arcipelago metropolitano.

Prima di passare ad illustrare qualche elemento costitutivo dell’arcipelago metropolitano si vorrebbero sottolineare le seguenti questioni:

- come detto nell’avvertenza iniziale quella che si crede di individuare è una “tendenza”, non un fenomeno consolidato. Questa affermazione intende suggerire la necessità di una lettura del territorio che non si fermi solo all’evidenza ma che cerchi di individuare ciò che corre sotto traccia;

9 Che la “diffusione” sia anche figlia della deregolamentazione che ha caratterizzato negli ultimi vent’anni la struttura di governo del territorio non modifica il dato reale ma mette in campo responsabilità politiche per un esito giudicato non soddisfacente.

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- va da sé che non si ipotizza una tendenza alla omogeneizzazione dell’organizzazione del territorio, ma piuttosto una comune logica e modalità di evoluzione;

- è certo che dimensione e caratteristiche specifiche, non solo saranno differenti in ragione degli specifici contesti, ma anche in relazione alla forma organizzativa che precede. Per esempio un arcipelago metropolitano che costituisse l’evoluzione di una zona metropolitana consolidata sarebbe diverso da quella che potrebbe derivare da una città diffusa, ecc.;

- in precedenza si sono usati i termini “trasformazione” e qualche volta “evoluzione”, da qui in avanti si utilizzerà soltanto il termine “evoluzione” proprio per il carattere positivo che esso esprime. In sostanza, ma su questo si tornerà più avanti, l’arcipelago metropolitano appare come una forma di organizzazione del territorio migliore da quelle da cui deriva.

Si proverà a descrivere in astratto, ma basandosi su alcuni carotaggi della realtà, quello che si può intendere per arcipelago metropolitano. La formulazione utilizzata, arcipelago metropolitano, di per sé è descrittiva di una situazione formata da molteplici realtà (si potrebbe dire “isole”) ma che sono in forte reciproca relazione e che, in ragione di tali relazioni, costituiscono un’unità. È possibile descrivere questa realtà come territorio:

- ampio (quanto grande non è rilevante e dipende dalle circostanze), costituito da diversi insediamenti: città di diverse dimensioni, centri, nuclei, aree strutturate, polarità di funzioni, ecc.;

- con una struttura della popolazione nel complesso dell’arcipelago, per età e attività, diversa da quella dei singoli insediamenti;

- dotato da una maglia infrastrutturale molto ricca e tale da connettere tra di loro tutti gli insediamenti;

- caratterizzato dalla presenza di una struttura produttiva articolata e complessa comprensiva di imprese di diversa dimensione, appartenenti a diversi settori, di diversa tecnologia, di diversa collocazione nel mercato, di diversa tipizzazione dei prodotti (maturi, innovativi, nuovi, tradizionali, ecc.);

- con una domanda complessiva di lavoro soddisfatta in larghissima parte dall’offerta interna (si intende dire che i movimenti pendolari sono nella quasi totalità interni all’arcipelago e spesso per mercati di lavoro locali);

- che presenta una gerarchia territoriale interna debole, con una localizzazione delle diverse funzioni non concentrata ma diffusa. In sostanza i poli di eccellenza di ogni funzione non si trovano concentrati tutti nello stesso luogo ma distribuiti in tutto il territorio (in questo senso la gerarchia si caratterizza come debole) e costruiscono relazioni funzionali multipolari;

- con un’offerta di servizi alle persone e alle imprese che per dimensione e qualità si presentano con carattere metropolitano;

- con servizi e, in qualche caso, produzioni di nicchia avente carattere di eccellenza extra-territoriale;

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Schema n. 2

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- la mobilità obbligatoria (lavoro e studio) al suo interno risulta multidirezionale anche se con qualche elemento di prevalenza (in ragione anche della struttura territoriale precedente) e avente carattere di auto-contenimento (con poco pendolarismo da zone esterne all’arcipelago);

- dove la mobilità non obbligatoria è anch’essa multidirezionale e finalizzata di volta in volta alla soluzione individuale ritenuta migliore rispetto ad un’offerta diffusa nel territorio;

- dotato di una rete di trasporti collettivi strutturanti i flussi di mobilità soprattutto obbligatori, ma con una accentuata mobilità individuale con mezzo proprio;

- con una, spesso accentuata, differenziazione sociale degli insediamenti, ma tuttavia, con una ridotta polarizzazione;

- che presenta un’articolata struttura di “spazi pubblici” (sia tradizionali che per le nuove esigenze) che in parte si configurano come appartenenti alla tradizionale struttura degli insediamenti (piazze, campi gioghi, ecc.) in parte si collocano a livello metropolitano (parchi naturalistici, zoo, grandi attrezzature sportive, ecc.), in parte sono l’esito dello sviluppo di spazi privati di uso pubblico (centri commerciali, poli del loisir, ecc.), o ancora “luoghi” “nuovi” di aggregazione, di incontro, di appuntamento, fuori da qualsiasi controllo sociale (caselli autostradali, grandi parcheggi di aree industriali, ecc.);

In sostanza il territorio nella sua totalità presenta una complessità molto alta, per la presenza di diverse funzioni, attività, situazioni ambientali, ecc. Le connessioni tra le diverse parti dell’arcipelago sono molteplici e non solo rispondono ad esigenze diverse, ma usano anche modi di relazionarsi diversi, comprese le connessioni di rete. Inoltre si è in presenza di uso complessivo del territorio da parte degli abitanti, secondo necessità e convenienze, ma pur tuttavia organizzato per ambiti locali e globali (si veda appresso). Più avanti si cercherà di mostrare i fattori specifici che portano i territori ad organizzarsi tendenzialmente nella forma di arcipelago metropolitano. Prima, tuttavia, può essere utile mettere in evidenza quelle che sembrano le differenze maggiori tra l’arcipelago metropolitano e alcune configurazioni territoriali di cui maggiormente si discute. Le differenze segnalate di seguito non hanno tanto lo scopo di mettere in evidenza una migliore condizione della situazione definita come arcipelago metropolitano, quanto piuttosto di contribuire a identificare le peculiarità di questa organizzazione dello spazio.

CITTA’ IN RETE ARCIPELAGO METROPOLITANO a-spaziale fortemente spaziale CITTA’ METROPOLITANA ARCIPELAGO METROPOLITANO

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- gerarchia hard - gerarchia soft - concentrazione - diffusione - centralizzazione dei poli - decentramento dei poli di eccellenza di eccellenza - mobilità prevalentemente - mobilità pluridirezionale

monodirezionale - accentuata polarizzazione - minore polarizzazione sociale sociale - uso parziale del territorio - uso complessivo del territorio CITTA’ DIFFUSA ARCIPELAGO METROPOLITANO - isolamento residenziale e - integrazione degli abitanti e delle integrazione produttiva attività in zone territoriali - identità locale ristretta e - identità locale allargata e debole forte - uso del territorio come città - uso del territorio come metropoli in ragione della molteplicità di funzioni insediate e localizzate - dimensione spaziale contenuta - dimensione spaziale più ampia

7. I fattori specifici All’inizio si è fatto riferimento ai fattori generali che è sembrato nel loro insieme influissero sulla trasformazione dell’organizzazione territoriale. Di seguito ci si soffermerà su alcuni fattori specifici, fermo restando che nei diversi contesti il peso e l’influenza di ciascuno di essi può essere diverso (come pure il peso di quelli generali). Si sono selezionati tre fattori come quelli più significativi, non si esclude la presenza e il ruolo di altri fattori in singoli contesti specifici, tuttavia questi sono sembrati quelli più rilevanti e comuni in tutti i casi. Di seguito si darà qualche indicazione e spiegazione del ruolo che ciascuno gioca proprio ai fini di “promozione”, per così dire, dell’arcipelago metropolitano.

A) Rendita urbana Della rendita urbana si sogliono dare diverse spiegazioni (e giustificazioni), ma non è questo il luogo per discutere di questioni teoriche (e politiche) che porterebbero lontano dalle questioni qui affrontate. In questa sede si assume che il valore complessivo di una città e dei suoi singoli edifici e aree dipendano dalla quantità di capitale fisso sociale che quella città incorpora. In sostanza il “successo” di una città, che dipende, oltre che da altre circostanze, soprattutto dalla quantità e qualità dei servizi e delle infrastrutture realizzate, determina una valorizzazione della città nel suo insieme e dei suoi singoli edifici e aree. Ovviamente non si sostiene che tale valorizzazione è omogenea o in qualche

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modo proporzionale, infatti secondo la localizzazione del singolo edificio o aree la valorizzazione può essere maggiore o minore10 rispetto ad altre. In sostanza l’incremento di capitale fisso sociale fa crescere il valore complessivo, ma come questo si distribuisce tra le diverse zone dipende da altre condizioni. Quello che importa rilevare è la relazione aumento capitale fisso sociale ? valorizzazione ? incremento rendita Una più alta rendita si traduce in un maggiore costo della città: lo spazio urbano diventa più costoso per abitare, per svolgere una qualsiasi attività produttiva, per i servizi (si pensi agli spazi commerciali che scaricano sul prezzo delle merci i maggiori oneri d’affitto), ecc. Il maggiore costo ha come conseguenza un processo di espulsione e, in qualche caso, di sostituzione. Vengono espulsi:

- le attività produttive a basso valore aggiunto o quelle che costituiscono un anello debole della catena del valore aggiunto (in generale si tratta delle produzioni così dette “mature”);

- le famiglie, soprattutto ceto medio e medio-basso, che aspirano ad una condizione abitativa che non possono raggiungere laddove la rendita è più alta;

- la costruzioni di grandi complessi residenziali (pubblici e privati). Mentre restano o si localizzano nei luoghi dove la rendita è più alta;

- le famiglie a più alto reddito; - le attività produttive e di servizio a più alta redditività, quindi le più moderne,

innovative, tecnologicamete avanzate, o anche “tradizionali” (artigianali) con mercati di nicchia;

- le attività e i centri di governo pubblico; - le grandi funzioni culturali e scientifiche (con non poche eccezioni); - le funzioni di comunicazione; - famiglie a basso reddito che trovano negli “interstizi” urbani la condizione di

sopravvivenza.

Il processo appena descritto è tipico della città (della città tradizionale caratterizzata da dinamismo positivo); esso determina diffusione e polarizzazione. Quello che proponiamo di osservare è, tuttavia, un processo più complesso: la diffusione, in connessione anche con gli altri due fattori di cui si dirà più avanti, ha determinato la necessità di dotare il territorio di quote aggiuntive e sempre più rilevanti di capitale fisso sociale, per cui il fenomeno che prima era squisitamente urbano oggi, sembra di poter dire, diventa territoriale. Il processo di valorizzazione, quindi, non interessa solo la città ma tutto il territorio, e al suo interno una distribuzione differenziata della rendita crea, una multi-polarizzazione dello spazio, con opportunità localizzative e di insediamento differenziate, ma, come si è detto e come si vedrà più avanti, molto interconesse, con poli di eccellenza multipli.

10 In alcuni casi si puo’ avere una svaluazione, cosi’, per esempio, la costruzione di un inceneritore, mentre accresce il valore complessivo della citta’ (piu’ capitale fisso sociale), determina una svalutazione degli edifici ed aree adiacenti.

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B) Processo produttivo

Le modifiche intervenute nel processo produttivo sono prevalentemente tecnologiche, sono presenti, inoltre, modificazioni dovute a condizioni di mercato (dei beni e, soprattutto per quello che qui interessa, della manodopera) e organizzative. Tali modifiche hanno determinato, in generale:

- una riduzione della dimensione d’impresa (riduzione delle imprese di maggiore dimensione e minore spinta verso il gigantismo). Questo fenomeno, in una certa fase, è sembrato premiasse la piccola impresa, come la struttura emergente nel nuovo contesto economico (il decantato “piccolo è bello”), alla prova dei fatti, tuttavia, questa ipotesi è entrata in crisi per la debolezza strutturale della piccola impresa, infatti il successo di un’impresa sempre più si coniuga con una notevole capacità di ricerca, di innovazione e di “potere”, in generale carente nella piccola impresa tradizionale;

- la perdita di rilevanza dell’agglomerazione e la tendenza alla diffusione spaziale. Il fenomeno al quale si fa riferimento può essere classificato come macro, la disseminazione in regioni diverse, anche molto lontane, e micro la scelta di aree di localizzazione in base a convenienze di prezzo dei suoli, magari in contesti agricoli. Mentre la tendenza macro risponde alle condizioni di mercato della forza lavoro, difficilmente controllabili e influenzabili da politiche specifiche, le tendenze micro, di recente, tendono a trovare un vincolo di “piano”, nel senso che i danni di una disseminazione senza criterio delle imprese (sia di ordine ambientale che di congestione) ha portato a vincolare la localizzazione delle imprese entro poligoni industriali attrezzati, che proprio in risposta alle nuove esigenze sono di dimensione contenute, ma con attrezzature di avanguardia.

Se i due precedenti fenomeni sono attribuibili alle modificazioni prima indicate, vale la pena, in modo semplificato e con attenzione a solo alcuni aspetti, cercare di specificare le trasformazioni più rilevanti. Una prima famiglia di trasformazioni riguarda la tendenza all’esternalizzazione di funzioni prima interne. Le imprese, proprio in ragione delle innovazioni e della dimensione sempre più ampia e complessa del mercato, mostrano un bisogno crescente di servizi, che proprio per la loro articolazione e per la loro variabilità non possono essere direttamente interne all’impresa. Inoltre le imprese, o meglio le produzioni, dipendono sempre più da innovazioni scientifiche e tecnologiche, ma tranne casi molto specifici dove la ricerca è, in un certo senso, il prodotto (il caso farmaceutico da questo punto di vista è esemplare), tendono a collegarsi con centri di ricerca riducendo al minimo o addirittura eliminando i propri settori di ricerca. Le nuove tecnologie (soprattutto delle comunicazioni) permettono alle imprese di collegarsi con produttori di servizi e di ricerche a livello molto allargato, anche se alcuni specifici luoghi possono essere preferiti. In questo quadro le attività (pubbliche) che favoriscono i trasferimenti di tecnologie e d’innovazioni tendono a soddisfare questa necessità.

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Una seconda famiglia di trasformazioni riguarda la possibilità di realizzare economie di scala non concentrando la produzione. Le innovazioni tecnologiche, sia di produzione che di comunicazione, più di quanto non fosse possibile in passato, permettono la realizzazione di produzioni di massa attraverso una disseminazione della produzione presso sia unità locali piccole e medie della stessa impresa localizzate in territori ampi, sia presso altre piccole e medie imprese (terziste) altrettanto disseminate. Il controllo sulla catena del valore aggiunto costituisce l’elemento fondamentale del successo di alcune imprese (gli esempi più vistosi si hanno nel settore dell’abbigliamento) e soddisfa i vantaggi derivanti dalle economia di scala. La terza famiglia riguarda la possibilità, sempre via tecnologica, di realizzare economie esterne di reciprocità senza la necessaria compresenza nello stesso territorio (agglomerazione). La riduzione del rischio (perdita di fornitori, bisogno di nuovi servizi, perdita di manodopera, scambi tecnologici, ecc.) che prima era raggiunta attraverso i processi di agglomerazione, oggi è possibile venga realizzata, in larga misura, senza bisogno di agglomerarsi.

C) Vita quotidiana Le trasformazioni intervenute nella vita quotidiana delle persone e della famiglia sono di enorme portata, non può essere questa l’occasione per un esame dettagliato di tali trasformazioni. È possibile, tuttavia, sintetizzare in un’unica formulazione tali trasformazioni: è cresciuta la necessità di servizi esterni alla famiglia. Modifiche nell’organizzazione e dimensione della famiglia, maggiore diffusione del lavoro femminile (anche se sempre più precario e flessibile), crescita del tempo “non” obbligato, uso del mezzo di trasporto individuale, modifiche nelle abitudini di vita, ecc. sono tutti aspetti differenti della trasformazione che portano a richiedere crescenti servizi esterni alla famiglia. Questo crescente bisogno di servizi costituisce un’opportunità per l’offerta dei servizi richiesti, un’offerta che può essere o completamente nuova o il risultato di una modificazione nella forma, nella struttura, nella dimensione e nella localizzazione di qualcosa che prima esisteva (si pensi al commercio). Molto spesso tali servizi puntano a realizzare economie di scala sia attraverso forme organizzative con ampio uso di tecnologie (di controllo), sia con una dilatazione dell’offerta (caso esemplare quello delle attività commerciali: super e ipermercati; centri commerciali; centri specializzati nell’offerta di determinate merci; ecc.). Al contrario delle imprese di produzione, nei servizi le economie di scala si raggiungono attraverso la concentrazione di massa. Proprio in ragione della precedente motivazione si assiste ad una integrazione di diversi servizi in un unico spazio. Per esempio una multisala cinematografica è collegata con pizzeria, bar, sale giochi, ecc.; lo stesso avviene per i centri commerciali, per le attività destinate al divertimento e allo sport, (si pensi alla più recente tendenza a fare degli stadi di calcio dei centri multifunzione con l’offerta di diverse servizi commerciali).

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È possibile sostenere che la concentrazione di tali servizi, la loro modalità organizzativa, le stesse architetture che li contengono è finalizzata anche ad un tentativo di creare una sorta di “effetto città”, anche perché, in modo generalizzato, queste strutture si collocano nell’extra-urbano; l’effetto città dovrebbe rendere attraente al “cittadino” i nuovi spazi richiamato anche da un “paesaggio”, in qualche modo, consueto. La specifica localizzazione extra-urbana dipende direttamente dalla dimensione stessa del servizio, non solo perché in ambito urbano sarebbe difficile trovare uno spazio libero da destinare a tale scopo, non solo in ragione dei costi del terreno, ma soprattutto perché per la dimensione raggiunta, tali servizi hanno necessità di un ampio bacino di clienti (un mercato allargato) e devono offrire necessariamente un ampio spazio di parcheggio. A questo scopo la strategia localizzativa per tali servizi non premia la vicinanza ma piuttosto l’accessibilità, tenuto conto, appunto, del grande uso del mezzo di trasporto privato. Tali servizi, cioè non si collocano vicini al loro mercato, che per altro è ampio e fluttuante, ma in una posizione che sia comoda da raggiungere da parte dei loro potenziali clienti (da ovunque essi provengano). Esistono inoltre dei servizi alle persone che per loro specifica natura hanno difficoltà a trovare collocazione in ambito urbano: parchi, parchi tematici, zoo, campi da golf, centri sportivi, ecc. 8. Una tendenza: l’arcipelago metropolitano Integrando tra loro i tre precedenti fattori (rendita, modifiche del processo produttivo, trasformazioni nella vita quotidiana) si ricavano alcune tendenze di trasformazioni territoriali molto interessanti dal punto di vista dal quale si sta guardando il territorio. È possibile indicare queste tendenze con alcune parole chiave: Diffusione Il fenomeno della diffusione sembra chiaro ed evidente. Le opportunità insediative e localizzative si sono moltiplicate, mentre la ricerca di convenienze e opportunità spingono a selezionare i luoghi più idonei (funzionalmente, economicamente, ecc.) in un contesto allargato. Il fenomeno della diffusione dell’insediamento di popolazione, si è combinato con il fenomeno della diffusione delle localizzazioni delle attività produttive e di servizio. Viene a cadere in questo senso la differenza tra città e campagna: il continuo urbanizzato, anche a differente intensità, appare sempre più la regola di organizzazione del territorio. Solo dove la “campagna” presenta un forte valore produttivo la distinzione tende a resistere. Micro specializzazione Il territorio tende a presentare nel suo ambito dei poli che si presentano come specializzati (per esempio per il commercio, per il tempo libero, ecc.). Tali poli di specializzazione, proprio perché territoriali e non urbani, sono tra di loro caratterizzati da una forte soluzione di continuità. Non è più la città compatta che tiene al suo interno tutte le specializzazioni (anche se alcune specializzazione,

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singolarmente assunte, possono essere ancora urbane, come si vedrà più avanti), ma è il territorio il contenitore di tutto. Articolazione dei poli di eccellenza Comparabilmente alla voce precedente, ma con una propria specificazione, si deve notare che i poli di eccellenza (in ambiti diversi) se da una parte tendono ad essere prevalentemente a localizzazione urbana, tuttavia non si presentano concentrati, ma diffusi tra i centri urbani che insistono su un determinato territorio. Densificazione Accanto ai fenomeni di diffusione si possono cogliere processi di densificazione (relativa) degli aggregati insediativi. Si è rilevato, per esempio, che la diffusione della localizzazione industriale, con i suoi effetti negativi, trova un limite nei processi di decisone politica relativa alla salvaguardia dell’ambiente e all’organizzazione dei flussi di trasporto. Si possono cogliere almeno i seguenti fenomeni di densificazione: nei presi dei nodi di elevata accessibilità (caselli autostradali, incroci, ecc.), lungo gli assi stradali spesso nei pressi de nodi delle reti di trasporto pubblico, in zone di lottizzazione meno sparse e nei pressi delle aree urbane dense. Infrastrutturazione Causa ed effetto dei processi individuati è la crescente dotazione di infrastrutture del territorio e la localizzazione nel territorio di servizi di massa e di grande dimensione (tipico il caso degli ospedali). Il processo di infrastrutturazione viaria è quello più vistoso sia come trasformazione dell’infrastruttura in precedenza dedicata alle attività agricole, sia di nuove infrastrutture. In quest’ambito va collocata anche la tendenza a dotare questi territori di reti di trasporto collettivo (metropolitane o ancora più diffusamente ferrovie metropolitane). L’insieme di questi fenomeni dà come esito un’organizzazione del territorio che, come detto, si propone di chiamare arcipelago metropolitano. Il territorio è utilizzato, in questo contesto, come una struttura metropolitana, dove lo spazio viene vissuto per ambiti locali e nell’insieme. L’esperienza di vita individuale e collettiva, per i suoi aspetti funzionali, produttivi, culturali, di relazioni affettive e sociali, ecc., si svolge a due livelli: per ambiti locali, cioè più spazialmente e socialmente ristretti, ripetitivi, conformisti, che spesso assumono connotato di comunità11, e per ambiti metropolitani, (vedi schema n. 3). Questa doppia esperienza, che va detto si presenta anche all’interno della grande città, costituisce il connotato specifico, in questo campo, dell’arcipelago metropolitano e determina, forse, una nuova “personalità”, che declina insieme, combinandole, due esperienze che tradizionalmente erano

11 Anche se di una comunità ibrida, proprio perché esperienza non esclusiva.

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separate. L’una e l’altra, in questa situazione, finiscono per essere “normali”, portatori di rilevanti gradi di libertà comportamentali12. L’arcipelago metropolitano si caratterizza ancora per flussi di massa (anche se inferiori a quelli della struttura metropolitana tradizionale) ma insieme, e questi tendono a prevalere, a flussi di potenza (informazioni), dando così luogo a nuove e più labili gerarchie territoriali. Origine di questi flussi di potenza sono tutte le attività di governo, di organizzazione, di informazione, di potere (non solo politico), di ricerca, ecc., funzioni che privilegiano la localizzazione urbana anche se in diverse città che tendono ad assumere un qualche livello di specializzazione. Schema n. 3

9. Dall’autorganizzazione al governo La tendenza messa in luce costituisce, prevalentemente, l’esito di un processo di autorganizzazione. Non siamo quindi alla presenza di una struttura territoriale progettata e pianificata, risultato di un’intenzione esplicita ed esplicitata, ma piuttosto al risultato di sforzi, decisioni, e azioni non coordinate e singolarmente

12 È ovvio che la condizione economica-sociale ha un peso rilevante nella possibilità di cogliere le opportunità offerte dalla situazione descritta.

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assunte in una situazione di deregolamentazione generalizzata . Di questa situazione appare:

- positivo il fatto che si è in presenza ad una tendenza dell’organizzazione dello spazio che risponde ad esigenze reali, dipendenti da trasformazioni economiche, tecnologiche, di abitudine, ecc.;

- negativo il fatto che si tratti di una soluzioni non coordinata, risultato di azioni individuali, essendo chiaro che una buona organizzazione del territorio non può scaturire da una somma di decisioni parziali. Nel contempo emergono contraddizioni (usi impropri del territorio, consumo di suolo, inquinamento, conflitti tra usi alternativi o vicini, ecc.) che evidenziano l’inefficienza dell’organizzazione territoriale.

La tendenza, cioè, ha necessità di essere governata, di essere cioè traguardata ad un interesse generale. L’azione di governo deve insieme coniugare centralità e autonomia (questa sembra la tendenza prevalente nelle più recenti pratiche di governo, che non va interpretata, tuttavia, come affievolirsi dell’azione di governo ma come la strada per raggiungere maggiori gradi di efficienza e di efficacia). Centralità: come punto di vista generale che esalta l’interesse collettivo di tutta l’area, in grado di costruire una strategia unitaria per tutto il territorio, all’interno della quale ciascuna parte sociale possa trovare un proprio spazio di azione. I temi di tale strategia unitaria non possono non essere: equità (tra le diverse zone e le diverse forze sociali), densificazione (un obiettivo che punti ad un uso meno compromissorio del territorio, che eviti isolamento, lo sfrangiamento spaziale, ecc.), controllo del consumo delle risorse (soprattutto di quelle non rinnovabili) promozione della crescita economica e sociale (si tratta di un’occasione da cogliere), diffusione dell’innovazione scientifica e tecnologica (le nuove frontiere della produzione e dei servizi), valorizzazione delle risorse locali (in un quadro di mercato allargato), avanzamento culturale della popolazione (base dello sviluppo futuro, infrastrutturazione del territorio (nell’ottica metropolitana) e, complessivamente, affermazione della condizione urbana. Autonomia: come esaltazione del contributo che ogni singola zona può fornire alla definizione della strategia unitaria. Essendo chiaro, tuttavia, che tale strategia non può essere un risultato somma (delle richieste delle singole parti) ma piuttosto disegno complessivo che fornisca opportunità a tutte le zone. È importante identificare un adeguato ruolo locale per un’articolata autonomia operativa. Una pratica di governo quale quella sommariamente indicata in precedenza mette in evidenza alcune non risolte questioni:

- quella del potere territoriale: troppi soggetti istituzionali hanno potere sul territori, determinando inefficacia, contraddizioni e veri e propri conflitti che alimentano contenziosi, ritardi nelle realizzazioni, impossibilità di rendere espliciti, ai diversi soggetti sociali, indirizzi e prospettive. La questione se in

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astratto sembra facilmente risolvibile in concreto l’ipotesi di limitare poteri tradizionalmente consolidati non pare semplice né, tanto meno, facile;

- quella dei livelli di potere istituzionale (che in parte si intreccia con la precedente): l’arcipelago metropolitano necessita di un livello di governo unitario, esplicito e legittimo, in grado di elaborare strategie, di definire i ruoli di ogni zona e di ogni soggetto, di porre vincoli, di promuovere iniziative, ecc. La questione, anche questa, non pare semplice, soprattutto in alcuni paesi (per esempio Italia) perché finisce per toccare consolidate strutture di governo e di potere. Tuttavia senza questo livello di governo non pare possibile governare l’arcipelago metropolitano e piegare la tendenza alla virtù;

- quello del livello di pianificazione: il punto cruciale nell’organizzazione territoriale dell’arcipelago metropolitano non sembra quello della pianificazione comunale, ma piuttosto quello della pianificazione di area vasta, cioè di un livello di pianificazione che riesca a cogliere gli elementi fondanti di una strategia comune e che, per quanto detto, dovrebbe riguardare sia gli aspetti territoriali che tutte le altre politiche pubbliche. È l’insieme d tali politiche, infatti, che potrà permettere di governare questa importante riorganizzazione del territorio. Della pianificazione di area vasta si hanno diverse esperienze, ma non pare, né sul piano teorico, né su quello disciplinare, né su quello della pratica, una situazione consolidata. Anche perché molto spesso la pianificazione di area vasta non ha assunto la dimensione dell’arcipelago metropolitano come propria e specifica, con quindi le problematiche di organizzazione di funzionalizzazione, di integrazione, ecc. insite nel concetto di arcipelago metropolitano (ciò molto spesso è avvenuto perché non è stata chiaramente individuata la tendenza delle trasformazioni territoriali).

10. Di un’opportunità articolata La tendenza che si è cercato di mettere in luce si presenta come propizia per rispondere ad alcune questioni poste da quelli che sono stati indicati come fattori generali di trasformazione e riorganizzazione. Non che si possa pensare di trovare soluzione ai problemi posti dalla globalizzazione e dall’innovazione tecnologica solo con una diversa struttura d’organizzazione del territorio, ma, non pare priva di rilievo anche in quest’ottica, il fatto che la tendenza verso la nuova struttura territoriale, costituisce l’esito di processi di autorganizzazione attivati in vari campi. In sostanza si tratta di dare contenuti generali, fornire strategie complessive, al “movimento”, spesso disordinato, molte volte inefficiente ed inefficace, che agita singoli soggetti nello sforzo di dare risposte individuali a problemi che stanno fuori dalla loro portata risolutiva. Di seguito s’indicano in modo molto sintetico quali possono essere le opportunità attivate dalla nuova tendenza all’organizzazione del territorio a condizione che tale tendenza sia governata :

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- può determinare una dimensione (massa) efficace per la collocazione nell’agone mondiale. La dimensione è una premessa, in se stessa non ha significato positivo, ma costituisce una necessità;

- può produrre una maggiore integrazione poiché può facilitare le relazioni interne e con l’esterno. I processi d’integrazione devono oggi essere considerati una necessaria;

- può valorizzare le potenzialità locali inserendole in una dimensione di peso maggiore, integrandole con altre potenzialità. La valorizzazione delle specificazioni locali costituisce una delle linee per contrastare gli effetti negativi della globalizzazione. In se stessa considerata, tuttavia, essa sembra debole e non efficace, mentre un’integrazione in ambiti maggiori ne può migliorare la portata;

- può migliorare il processo di innovazione e la diffusione delle innovazioni stesse proprio in ragione dell’integrazione di esperienze diverse;

- può rompere le incrostazioni locali fornendo una debole ma allargata identità; - può promuovere l’efficienza territoriale, proprio perché integra le risposte

individuali e parziali in un contesto di strategia comune; - può determinare un virtuoso indirizzo ambientale riguardo all’uso del suolo,

all’utilizzazione delle risorse, alla riduzione dell’inquina mento.

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I CAMBIAMENTI DEL CONTESTO ISITUZIONALE TERRITORIALE NELLA PROVINCIA DI BOLOGNA Gianni Melloni Le nuove funzioni e i compiti attribuiti ai comuni dal D.Lgs.112/98, la continua riduzione dei trasferimenti finanziari dallo Stato ai Comuni che ormai contribuiscono, con risorse proprie, a più dell’80% della loro spesa, determinano per i Comuni piccoli e medi un problema di dimensione, non solo per garantire la gestione delle nuove funzioni, ma anche per i servizi già di loro competenza. Questi cambiamenti hanno stimolato processi aggregativi tra i Comuni, al fine di accrescere la loro capacità di svolgimento di funzioni e servizi a favore dei cittadini: mettendo assieme, ad esempio, funzioni di polizia municipale, del personale, dei piani regolatori comunali, dei servizi informatici, dello sportello unico dell’impresa e attività economiche. L’esperienza dei Comuni della provincia di Bologna è da considerarsi positiva, infatti, dall’emanazione della legge regionale 3/99 che prevedeva l’obbligo della definizione di ambiti ottimali per i comuni con meno di 10.000 abitanti per l’esercizio delle nuove funzioni trasferite dal D.Lgs.112/98, sono stati delimitati 9 ambiti che coinvolgono complessivamente 56 su 60 Comuni, sui quali si sono poi costituite formalmente 4 Unioni di Comuni e 5 Associazioni intercomunali. Le Unioni di Comuni corrispondono ai comuni facenti parte delle comunità montane con l’eccezione della Val Samoggia, a cui aderiscono i Comuni di Bazzano e Crespellano, mentre le Associazioni intercomunali fanno riferimento ai Comuni di pianura. Gli elementi positivi dell’esperienza bolognese stanno nell’alto numero di Comuni che hanno aderito alle Unioni e alle Associazioni di Comuni, nelle loro dimensioni territoriali e di abitanti e nella loro composizione; infatti hanno aderito molti Comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti, con una Associazione composta da tre Comuni, tutti con popolazione superiore ai 10.000 abitanti. Si può quindi affermare che è aumentata la consapevolezza che ad una maggiore autonomia deve e dovrà sempre più corrispondere un forte sviluppo di politiche di cooperazione fra gli enti locali. La maggior parte delle amministrazioni locali del territorio provinciale ha deciso di aderire a forme di cooperazione fra Comuni anche qualora non ve ne fossero gli obblighi di legge. Sul totale dei 60 Comuni della Provincia di Bologna, solamente quattro non hanno aderito ad Unioni o ad Associazioni di Comuni. Si tratta dei Comuni di Imola, Casalecchio di Reno, Zola Predosa e, ovviamente, Bologna.

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Il quadro complessivo provinciale che emerge è di una sostanziale semplificazione istituzionale, sicuramente utile per le politiche di razionalizzazione delle funzioni e dei servizi, ma anche per l’attivazione di politiche di valorizzazione e sviluppo territoriale. Le scelte di aggregazione, pur se volontarie, non sono frutto del caso, ma nascono da una consolidata abitudine dei Comuni bolognesi ad esperienze associative e di collaborazione maturate in ambiti più larghi come, ad esempio, nei servizi: socio sanitari, distribuzione di gas e acqua, smaltimento rifiuti, scolastici. Ma va ricordata anche l’esperienza della Conferenza Metropolitana, relativamente alle politiche urbanistiche e agli accordi di programma nelle aree delimitate dallo Schema Direttore Metropolitano (aree che poi, tendenzialmente, corrisponderanno agli ambiti associativi). Questo nuovo assetto istituzionale ha permesso inoltre, alla Provincia, di svolgere con maggior successo le sue funzioni ed in particolare i compiti di programmazione previsti all’art.20 del T.U. 267/2000. Dal punto di vista del riordino territoriale si è ottenuta una semplificazione per i Comuni, che delegano all’Unione o convenzionano in Associazione l’esercizio di loro funzioni; significa dunque attivare complessi processi di ridefinizione di ruoli, di forme organizzative e di innovazione tecnologica . Basti pensare, ad esempio, al tema della costituzione di uffici associati dei tributi, del personale, del catasto o di piano dove ad una giusta autonomia in termini di scelte di gestione e di governo deve corrispondere una maggiore attenzione e interazione fra Comuni diversi e quindi alla qualità delle relazioni e delle reti. La complessità sta nel costruire sistemi a rete di servizi e funzioni, dove ogni parte (ogni Comune) ha un suo ruolo autonomo da svolgere contestualmente alla condivisione di servizi e funzioni unificati. Si potrebbe definire questa interdipendenza come la complementarità nella diversità. Sul piano del governo territoriale gli amministratori locali devono sempre più sviluppare una cultura negoziale nella definizione dei piani e dei programmi che li porti a prendere decisioni con il massimo di condivisione possibile. Per attivare un reale processo di negoziazione è necessario che tutti gli attori territoriali siano messi in grado di condividere le informazioni che caratterizzano la nuova dimensione territoriale, che non è più del singolo Comune, ma dell’ambito associativo. Si tratta di acquisire una nuova identità territoriale dell’Unione o dell’Associazione nel contesto dell’area vasta della nostra provincia. Bisogna pertanto pensare servizi di supporto alla conoscenza del nuovo contesto territoriale, in termini di caratteristiche ambientali economiche, sociali e culturali; bisogna ripensare il patrimonio in termini di dotazioni di infrastrutture, di insediamenti abitativi, industriali, di servizio. Da qui nasce la necessità, pertanto, di condividere banche dati non solo per la gestione associata di servizi o funzioni, ma anche per la definizione di accordi d’area, piani e programmi territoriali relativi, di interesse sovracomunale e di accordi interistituzionali fra Comuni e Provincia.