Utopia Marzo 2011

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U T O P I A L'ITALIAE' FATTA. E GLI ITALIANI? Pare che, alla fine, il 17 marzo sarà festa civile per tutti. Almeno sulla carta. Ma in realtà saremo pochi a festeggiare. Al nord qualcuno appenderà alla finestra una bandiera padana, nell'orgogliosa rivendicazione di un'identità non solo geograficamente "superiore". Al sud qualcuno accenderà una candela in segno di lutto per la prematura scomparsa del fiorente e democratico Regno delle Due Sicilie. Il patriottismo? Per qualcuno suona troppo "di destra". Per molti è semplicemente passato di moda. Per tutti però, è qualcosa da rispolverare e sventolare quando si vince la Coppa del Mondo, o si esibiscono le Frecce Tricolori. Ma quando si arriva ad una data di commemorazione importante per la nostra storia, non c'è miglior pretesto per tornare a dividersi. E quindi: neoborbonici che vorrebbero trascinare i piemontesi davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja, federalisti dell'ultima ora che riesumano Cattaneo per strumentalizzarne le idee, amministratori altoatesini in rotta di collisione col conquistatore italico (salvo poi godere delle sue agevolazioni fiscali). Come se non bastasse, è montata la polemica sull'opportunità economica dei festeggiamenti, con la Lega che è scesa in campo a favore della giornata lavorativa (ma siamo sicuri che festeggeranno lo stesso, con lo spumante nei luoghi di lavoro). E' possibile rinunciare a una giornata lavorativa ogni mezzo secolo? La crisi è la crisi, ma forse a volte si esagera. A questo punto, sembra che la festa interessi solo a Napolitano: si potrebbe anche togliere il disturbo e limitarsi ad una piccola festicciola al Quirinale. E quei milioni di italiani che credono ancora nel valore dell'unità? Si arrangino, mica si possono accontentare tutti! Ora più che mai, si torni a riflettere sulle parole di Massimo D'Azeglio, sempre attuali: "Il primo bisogno d'Italia è che si formino Italiani dotati d'alti e forti caratteri. E pur troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: s'è fatta l'Italia, ma non si fanno gl'Italiani". Temo che su questo ci sia ancora molto lavoro da fare. Cara Italia, perché giusto o sbagliato che sia questo è il mio Paese con le sue grandi qualità ed i suoi grandi difetti. (a pag. 2) (a pag. 5) se non ora, quando? DA GARIBALDI A BENIGNI: L'IMPORTANZA DELLA STORIA LA TEMPESTA DOPO LA QUIETE Claudia Cammarata A.A.V.V.

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"L'Italia è fatta. E gli Italiani?"

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U T O P I AL'ITALIA E' FATTA. E GLI ITALIANI?

Pare che, alla fine, il 17 marzo sarà festa civileper tutti. Almeno sulla carta. Ma in realtà saremopochi a festeggiare. Al nord qualcuno appenderàalla finestra una bandiera padana,nell'orgogliosa rivendicazione di un'identità nonsolo geograficamente "superiore". Al sudqualcuno accenderà una candela in segno dilutto per la prematura scomparsa del fiorente edemocratico Regno delle Due Sicilie. Ilpatriottismo? Per qualcuno suona troppo "didestra". Per molti è semplicemente passato dimoda. Per tutti però, è qualcosa da rispolveraree sventolare quando si vince la Coppa delMondo, o si esibiscono le Frecce Tricolori. Maquando si arriva ad una data dicommemorazione importante per la nostra storia,non c'è miglior pretesto per tornare a dividersi. Equindi: neoborbonici che vorrebbero trascinare ipiemontesi davanti alla Corte Internazionale diGiustizia dell'Aja, federalisti dell'ultima ora cheriesumano Cattaneo per strumentalizzarne leidee, amministratori altoatesini in rotta dicollisione col conquistatore italico (salvo poigodere delle sue agevolazioni fiscali). Come senon bastasse, è montata la polemicasull'opportunità economica dei festeggiamenti,con la Lega che è scesa in campo a favore dellagiornata lavorativa (ma siamo sicuri chefesteggeranno lo stesso, con lo spumante neiluoghi di lavoro). E' possibile rinunciare a unagiornata lavorativa ogni mezzo secolo? La crisi èla crisi, ma forse a volte si esagera. A questopunto, sembra che la festa interessi solo aNapolitano: si potrebbe anche togliere il disturboe limitarsi ad una piccola festicciola alQuirinale. E quei milioni di italiani che credonoancora nel valore dell'unità? Si arrangino, micasi possono accontentare tutti!Ora più che mai, si torni a riflettere sulle paroledi Massimo D'Azeglio, sempre attuali: "Il primobisogno d'Italia è che si formino Italiani dotatid'alti e forti caratteri. E pur troppo si va ognigiorno più verso il polo opposto: s'è fatta l'Italia,ma non si fanno gl'Italiani". Temo che su questoci sia ancora molto lavoro da fare.

“Cara Italia, perché giusto o sbagliato che sia questo è il mio Paese con le sue grandi qualità ed i suoi grandi difetti.”Marzo 2011 Università di Catania

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Pietro Figuera

(a pag. 2)(a pag. 5)

“L’unità d’Italia è talmente bella

che qualcuno può permettersi di

dire che non va festeggiata. Pensate

la libertà che dà”. Il suono delle

parole di Benigni al Festival di

Sanremo riecheggia ancora nelle

menti di coloro che, seduti davanti

al megaschermo, hanno messo in

moto o fatto ripartire il loro spirito

di riflessione basato principalmente

sulla questione di “unità” e su

come la storia influenzi e persista

nelle scelte quotidiane. Ma al

giorno d’oggi è ancora possibile

parlare di unità nazionale?

Dopo anni e anni di silenzi e taciti

consensi, le donne hanno deciso di

dire basta e di alzare la voce: senon ora, quando? Questo è il gridoche si è elevato dalle maggiori

piazze d’Italia lo scorso 13

febbraio. Lavoratrici e

disoccupate, in cerca di lavoro e

casalinghe, giovani e meno

giovani, laiche e anche religiose,

donne celebri e donne invisibili,

italiane e straniere. Vite, età, ruoli

ed etnie diverse ma tutte unite da

un comun denominatore:

l’ indignazione.

DA GARIBALDI A BENIGNI:L'IMPORTANZA DELLA STORIA LA TEMPESTA DOPO LA QUIETE

Claudia CammarataA.A.V.V.

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Claudia CammarataLA TEMPESTA DOPO LA QUIETEDopo anni e anni di silenzi e taciti consensi, le donne hanno deciso di dire basta

e di alzare la voce: SE NON ORA, QUANDO? Questo è il grido che si è

elevato dalle maggiori piazze d’Italia lo scorso 13 febbraio. Lavoratrici e

disoccupate, in cerca di lavoro e casalinghe, giovani e meno giovani, laiche e

anche religiose, donne celebri e donne invisibili, italiane e straniere. Vite, età,

ruoli ed etnie diverse ma tutte unite da un comun denominatore: l’ indignazione.

Una profonda rabbia che scaturisce dall’ idea che ogni donna è seduta sulla

propria fortuna, che il corpo della donna sia un mero strumento di piacere a

disposizione di quegli onnipotenti che possano procurar loro un qualche

privilegio (dalla promozione in carriera alla vacanza in un lussuoso yacht).

Sembra che in questo paese la meritocrazia sia un fatto esclusivamente

maschile, le donne hanno come solo strumento a disposizione la loro capacità

seduttiva. Finalmente il silenzio è stato interrotto, le donne (ma anche tantissimi

uomini) hanno deciso di alzare i toni per ricordare che non è questa l’ Italia.

Come afferma Vendola esiste un’Italia migliore, fatta di donne che lavorano,

donne che studiano, donne che con sudore e fatica curano la propria famiglia,

donne che credono ancora nelle loro capacità prima ancora che nel proprio

corpo. Donne che amano e che sono ancora capaci di indignarsi di fronte a un

sistema che le vuole “vallette”. Più di un milione in piazza contro quei

comportamenti privati del premier che, con le sue notti brave ha deviato l’etica

pubblica e l’ha resa portavoce dei suoi vizi, che trasmette il messaggio per cui

tutto può essere comprato e che la libertà delle donne consiste nella libertà di

prostituirsi. E le donne della maggioranza come vedono questa mobilitazione di

massa al femminile? Per Mariastella Gelmini si tratta di “donne radical chic che

manifestano per fini politici e per strumentalizzare le donne. […] Oggi non va

in scena una manifestazione delle donne ma quella di militanti della sinistra

contro il Governo Berlusconi”. Mara Carfagna ha visto nella manifestazione un’

”occasione persa” poiché si è trasformata da dibattito sulla condizione e libertà

della donna all’ “ennesimo corteo contro il governo democraticamente eletto

dagli italiani e dalle italiane, strumentalizzando per fini politici le decine di

migliaia di donne scese in piazza in buona fede”. A dispetto di tali affermazioni

(scontate), l’ iniziativa ha riscosso ottimi risultati, le donne hanno rotto un

silenzio che da troppo tempo soggiornava indisturbato nel nostro paese. Anni di

quiete e ora, finalmente la tempesta. Del resto… se non ora, quando?

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LA DISOBBEDIENZA CIVILEPeppe URokku D'AmicoUna protesta pacifica contro la Riforma Gelmini

La Disobbedienza Civile è il saggio più famoso di Henry

David Thoreau, il cui tema centrale è la condanna al

Governo americano, accondiscendente alla schiavitù, alla

politica imperialista e alla guerra contro il Messico;

Thoureau, contrario alla condotta del suo governo schiavista

e imperialista, decise di disobbedire alla leggi, rifiutandosi

di pagare le tasse; pertanto finì in carcere, dove vide la luce

il suo saggio che si presentava con le seguenti parole: “Il

Governo migliore è quello che governa meno”. Thoreau

dispiega tutto il suo credo politico nella sua spassionata

fiducia verso l’ individuo, che in perfetta autonomia sceglie

tra giusto ed errato, convinto che il diritto del singolo sia

molto più importante della legge; per tale ragione invita tutti

a rifiutare le regole e i comportamenti non condivisi, senza

però menzionare mai la protesta violenta ma il solo ed

esclusivo ricorso alla “resistenza passiva”, divenuta linfa del

pensiero e dell’azione politica degli uomini più grandi del

nostro tempo: da Martin Luther King a Gandhi, che fecero

della “disobbedienza” di Thoreau il caposaldo del loro,

forse utopico, ideale.

Nel nostro momento attuale, di grande fermento sociale, di

una Nazione divisa tra studenti e precari in piazza e uomini

politici e d’affari tra stanze d’albergo di lusso, droga, escort

e magistrati “politicizzati”, diventa di grandissimo spessore

politico e sociale un passo del testo riferito alle leggi

ingiuste: “Le leggi ingiuste esistono, dobbiamo essere

contenti di obbedirle o dobbiamo trasgredirle da subito?

Perché [il Governo] non è più propenso a prevenire e a

provvedere alle riforme? Perché non ha a cuore la sua

saggia minoranza? Perché crocefigge sempre Cristo, e

scomunica sempre Copernico e Lutero?”.

Nei mesi appena trascorsi, la protesta dei giovani studenti e

degli operai ha forse “varcato il Rubicone” del consenso

popolare, più che nelle strade è scesa nelle coscienze della

gente, superando alcune occasioni di violenza “estranea”, ha

accompagnato non solo le testate dei quotidiani ma anche le

giornate di tutti noi; di tutti noi, ma non del Governo che

imperterrito ha continuato per la sua strada, approvando il

Decreto e spianando la strada al principio della riforma

“giusta e necessaria”. Tutti noi studenti, e tutti noi cittadini,

siamo ancora fortemente convinti che la battaglia che la

“sala dei bottoni” ha pensato di stroncare con

l’approvazione del ddl, non sia ancora finita, che le strade e

le piazze torneranno a riempirsi e che la disobbedienza

pacifica alla Riforma Gelmini continuerà in ogni aula delle

nostre Facoltà; i ricercatori, che spesso vivono con poco più

di mille euro al mese, insieme agli studenti, minacciano le

“serrate”, di non accettare gli insegnamenti dell’anno a

venire, di continuare ad oltranza la loro protesta.

E’ questa quindi la prospettiva dell’Università “Gelmini”,

quella delle cattedre quasi vuote, dei corsi di laurea

soppressi, della continua mancanza di servizi, qualità,

competenza; e questa sarà la risposta di chi l’Università la

vive giorno per giorno: disobbedienza civile e resistenza

passiva, per far si che questa “minoranza qualificata”, per

adesso fin troppe volte non ascoltata e licenziata come

“bambocciona” e “fannullona”, diventi reale voce in

capitolo nel processo politico di questo Paese.

Questa generazione “fantasma” di precari, calpestata

dall’arroganza dei governanti, continuerà a sperare nelle

parole di Thoureau: “Mi compiaccio di immaginare uno

Stato che alla fine possa permettersi di essere giusto con

tutti gli uomini, e di trattare l’ individuo con rispetto, come

un vicino … di considerarli uomini e non sudditi”.

Il cambiamento di uno Stato, però, passa prima per il

cambiamento dei suoi singoli cittadini; quel cambiamento

negli studenti e nei precari dell’Università, dopo l’attacco

Gelmini, sta già avvenendo e certamente non si fermerà

più; speriamo che il sogno di Thoureau diventi un po’ pure

il nostro.

Henry David Thoreau

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Soffro nel sentir parlare della mia amata Sicilia, soffro ogni

volta che viene fatto il più facile degli accostamenti e la

nostra terra viene subito collegata al fenomeno mafioso.

Bisognerebbe essere ciechi per non accorgersi di quanto

questa organizzazione criminale sia radicata nel nostro

territorio ma si dovrebbe prestare più attenzione a chi questo

fenomeno lo combatte. Tutti noi sin da piccoli siamo abituati

a sentire e conoscere i nomi di Bernardo Provenzano, Totò

Riina, Nitto Santapaola e tutto il resto della “ciurma”,

conoscenza che viene ampliata sempre più da film, articoli

di giornali e (moda degli ultimi anni) serie tv

intende a raccontarne e quasi “esaltarne” le

gesta. Allora mi sorgono spontanee delle

domande: chi di noi da piccolo conosceva

Peppino Impastato?! Chi conosce la vita di

Giuseppe Fava?! Esclusi casi rari, siamo

entrati a conoscenza di questi nomi solo in

età quantomeno adolescenziale (in alcuni

casi anche più tardi). Da poco è trascorso

l’anniversario dell’uccisione del giornalista

Giuseppe Fava e come ogni anno mi ritrovo

a raccontare a me stesso la storia di

quest’uomo, in modo da non dimenticare

(cosa che spesso fanno i mezzi d’ informazione, anche quelli

siciliani! ). Sono le gesta di uomini come il giornalista

siciliano che dovrebbero essere raccontate e non quelle di

chi questa terra l’ha resa “sterile”. Come pochi Fava è

riuscito a combattere la Mafia usando l’ informazione, i suoi

articoli di giornale infatti non erano accuse campate in aria,

ma erano dei veri e propri elenchi di nomi, i nomi di chi

stava distruggendo la terra che lui amava. Però è qui che

qualcosa di strano avviene, tutti noi infatti siamo abituati sin

da piccoli ad avere paura di chi “alza la voce” (siano essi

genitori o insegnanti) poiché sono per noi monito di star

sbagliando qualcosa, in Sicilia invece non è così, le parti si

invertono ed è chi “alza la voce” a dover scoprire il

sentimento della paura. La paura che qualcuno possa sentirti,

magari la persona sbagliata, poco importa se stai dicendo il

vero, così ti ritrovi senza volerlo ad abbassare i toni per

sentirti più sicuro. “Pippo” Fava decise di non abbassare i

toni, consapevole di quello che stava rischiando e così

mentre lasciava la redazione del giornale del quale era

direttore (“I siciliani”) per raggiungere la nipote la sua vita

venne bruscamente stroncata… BANG! BANG! BANG!

BANG! BANG! Questo “suono” che troppo spesso

accompagna le storie degli eroi siciliani incrociò la sua

strada, cinque colpi alla nuca lo uccisero,

venne colpito alle spalle perché anche i

mafiosi hanno paura, paura di chi sta

lentamente “uccidendo” tutti loro solo con

la sola forza di una macchina da scrivere.

Lasciamo perdere le vicende giudiziarie e le

mille contraddizioni che come sempre

accompagnano i processi delle vittime di

Mafia, non è la sua morte che voglio

ricordare, ma l’esempio che ha dato in vita.

Storie come la sua dovrebbero trovare più

spazio e non essere lasciate nel

dimenticatoio, così magari un giorno non

soffrirò nel conversare con un mio coetaneo non siciliano,

magari (nessuno ci vieta di sperare! ! ) parlando della mia

terra anche lui farà un facile accostamento a “Pippo” Fava e

non a coloro che preferisco non citare.

« Mi rendo conto che c'è un'enorme confusione sul problema

della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte

sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli

che in questo momento sono ai vertici della nazione. Non si

può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti

impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale,

questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte

le città italiane, in tutte le città europee. Il fenomeno della

mafia è molto più tragico ed importante… » Giuseppe Fava

PIPPO FAVA E GLI EROI CHE VORREMMO RICORDAREGiovanni Timpanaro

RISTORANTE - PIZZERIAWINE BAR

P.zza dei Martiri , angolo via

Terranova, 7 - Catania

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DA GARIBALDI A BENIGNI: L'IMPORTANZA DELLA STORIASimona Mancino, Maria Stella Peci, Angela Catania

“L’unità d’Italia è talmente bella che qualcuno può permettersi

di dire che non va festeggiata. Pensate la libertà che dà”.

Il suono delle parole di Benigni al Festival di Sanremo

riecheggia ancora nelle menti di coloro che, seduti davanti al

megaschermo, hanno messo in moto o fatto ripartire il loro

spirito di riflessione basato principalmente sulla questione di

“unità” e su come la storia influenzi e persista nelle scelte

quotidiane. Ma al giorno d’oggi è ancora possibile parlare di

unità nazionale? Si evince dalle notizie degli ultimi giorni la

frammentazione di fondo che emerge dai pareri divergenti in

merito alla questione della celebrazione o meno del 1 50esimo

anniversario dell’unità d’Italia. Se da una parte c'è chi, come

Calderoli, si oppone ai festeggiamenti preoccupato della

situazione di crisi economica che vede l’Italia il primo Paese

europeo per debito pubblico, o come la città di Bolzano che

annuncia di non partecipare attivamente legandosi agli eventi

storici passati (nel 1 918, infatti, era una minoranza austriaca

staccata dall’Austria contro la volontà dei cittadini di

Bolzano), dall’altra Rosi Bindi evidenzia l’ importanza

dell’unità d’Italia come relazione portante tra elementi del

presente come i diritti del lavoro e quelli del passato, che

mostrano la Resistenza come un insieme di valori non astratti

ma alla base della Costituzione. Tutte scelte che affondano le

loro radici nella Storia. “Storia” intesa come quella continua

ricerca di eventi passati che danno una spiegazione al presente

umano. Ma quanti sanno davvero a chi dobbiamo ringraziare

per la piena realizzazione della nostra unità non solo a livello

territoriale ma soprattutto politico e sociale? Chi, sentendo

pronunciare i nomi di Mazzini, Cavour o Garibaldi si pone

ancora degli interrogativi su quali gesta vedevano protagonisti

questi “grandi della storia” o invece, con aria indifferente si

sofferma a pensare che siano solo nomi riferiti agli ultimi

calciatori comprati dall’ Inter? Aldilà di quali siano le risposte

a tutto questo, in un’Italia che è pronta a imbrogliare e a

prendersi gioco dell’ ingenuità della sua popolazione, le armi

non violente che rimangono per difendersi sono combatterel'ignoranza e alimentare sempre la fiamma del nostro sapere.Bisogna capire da dove siamo venuti per comprendere il

presente, perché dietro a tutte le sfumature in cui si mostra la

vita oggi, c’è l’opera di qualcuno che è venuto prima di noi.

Prendendo familiarità con il passato possiamo essere in grado

di dare una forma ben definita alle nostre radici e di

estrapolare gli insegnamenti e gli errori, fondamentali per un

cambiamento o una continuità di valori. Senza “ieri”, l’oggisarebbe come un oggetto impolverato rimasto su una credenza

che ha dimenticato il motivo per cui era stato creato.

Page 6: Utopia Marzo 2011

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Nessuno l'aveva prevista. Una fiammata che ha attraversato

tutto il mondo arabo, dal Marocco all'Oman, e che sembra

ancora lontana dall'estinguersi. Una rivoluzione così rapida,

estesa e violenta, fino a qualche mese fa era impensabile.

Eppure è avvenuta, e oggi l'Occidente deve farci i conti, e deve

farli anche con i fantasmi del suo passato. Finora è rimasto a

guardare, con ignavia, il risultato delle sue politiche

fallimentari. Perchè?

La rivoluzione sorprende e coglie impreparato l'Occidente

almeno per tre motivi. Primo, non è una semplice "rivolta del

pane", ha degli obiettivi politici ben dichiarati (quasi sempre il

regime change) ed è portata avanti da giovani di tutte le fasce

sociali ma prevalentemente disoccupati e ben istruiti. Secondo,

le telecamere non hanno inquadrato simboli religiosi: la

rivoluzione è assolutamente laica e priva di qualsiasi guida

spirituale o rivendicazione religiosa. La Tunisia, da cui è partita

la rivoluzione, è un paese ad alto tasso di secolarizzazione da

ben prima di Ben Alì; un discorso simile vale per l'Egitto,

nonostante i Fratelli Musulmani. Anzi, gli stessi Fratelli

Musulmani, in prima linea contro Mubarak, hanno portato

avanti rivendicazioni politiche nonostante la propria matrice

religiosa. La favola del mondo arabo in maggioranza

antidemocratico e fondamentalista non può più attecchire su di

noi. Infine, la rivoluzione ha sorpreso grandemente la comunità

occidentale per la rapidità con cui si è propagata. Nessuno, allo

scoppio dei primi disordini, avrebbe pronosticato una

sollevazione che coinvolgesse una ventina di paesi con tale

rapidità.

Oggi ritorna d'attualità il vecchio dibattito euro-americano tra

principi e sicurezza, tra valori e realpolitik. In realtà, un vero

dibattito non c'era mai stato, perchè gli occidentali hanno

sempre optato per l'appoggio ai regimi dittatoriali che potessero

garantire pace con Israele, guerra al terrorismo, riduzione dei

flussi migratori. La discrepanza con i valori al contempo

proclamati, e in qualche caso poi addirittura "esportati", non

sarebbe potuta essere più evidente. Naturalmente si è trattato di

una scelta legittima, dettata da esigenze di sicurezza nazionale

(e anche dalle richieste più o meno esplicite dei cittadini in

tema di energia, sicurezza, immigrazione: non dimentichiamo

che siamo tutti in parte responsabili della politica estera di chi

ci rappresenta). Ma oggi non si abbia l'ipocrisia di elogiare il

coraggio degli insorti, dopo che per decenni abbiamo venduto

armi ai loro despoti. E' doveroso un onesto e dichiarato mea

culpa sugli errori commessi nel passato. Finora abbiamo visto

un atteggiamento molto prudente, sia da parte americana sia da

parte europea. La classe politica italiana, troppo impegnata nei

profondi dibattiti sulle escort, s'è accorta in ritardo di quanto

stava avvenendo. Ma anzichè correre ai ripari formulando un

piano immediato per la crisi mediterranea, si è mobilitata solo

sulla questione della ricezione degli immigrati, sì grave, ma

consequenziale ai problemi d'origine. La prudenza

internazionale dell'Italia è dettata non tanto e non solo

dall'imbarazzo per i vivaci rapporti che abbiamo intrattenuto

fino a qualche giorno fa con Gheddafi: essa sembra dettata

soprattutto dall'incapacità di agire, di fornire una risposta

credibile alle pressioni che stiamo subendo, di uscire dai

tradizionali schemi geopolitici del Mediterraneo. Se non

vogliamo perdere ulteriormente influenza su quello che un

tempo era il "mare nostrum", dobbiamo avere una linea decisa,

anche interventista: non possiamo aspettare sempre che l'UE o

gli USA vengano in soccorso.

Mentre la politica si preoccupa delle contingenze politiche ed

economiche, l'opinione pubblica ammira il coraggio di una

generazione che sta scrivendo la storia. Una generazione che

non ci aspettavamo, intrisa di valori così simili ai nostri, ma

che a differenza nostra non rimane inerte di fronte alle proprie

responsabilità di autodeterminazione politica.

Forse il maggior merito di questa rivoluzione non è stato

quello di far fuori Ben Alì e Mubarak, ma quello di spazzare

via parecchi pregiudizi occidentali. In primis quell'alone di

superiorità (morale?) e quel ruolo di esplicita leadership che ci

eravamo assegnati da soli nella guida del mondo arabo alla

conquista della democrazia e dei diritti. I giovani arabi hanno

dimostrato al mondo non solo che a quei valori ci tengono, ma

anche che sono capaci di conquistarseli da soli, senza la

necessità di un intervento armato occidentale.

LA PRIMAVERA ARABA E L'AMBIGUITA' OCCIDENTALEPietro Figuera

Page 7: Utopia Marzo 2011

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No, tutto questo è stato solo di intralcio alla diplomazia

internazionale. L'operato di Assange, e degli altri

responsabili di questa fuga di informazioni riservate, non ha

fatto altro che generare diffidenza e tensione all'interno di

alcuni dei già precari rapporti tra i capi di stato e tra i

cittadini stessi. Inutile sottolineare quanto la mancanza di

discrezione possa essere dannosa in quelli che sono i rapporti

tra le nazioni più importanti nello scenario globale, infatti ciò

potrebbe provocare rallentamenti nei processi di formazione

delle intese politiche ed economiche dei paesi maggiormente

coinvolti nella politica estera. E' importante che le

informazioni ed i messaggi restino confidenziali, al fine di

raggiungere la migliore intesa possibile tra i diplomatici.

Come la pensano gli universitari catanesi? Intervista a due studenti, Massimiliano e Francesco

Sono d'accordo, è giusto che l'opinione pubblica sia al

corrente del lavoro che compie la diplomazia, per una

questione di democrazia e trasparenza. Finalmente è

arrivato qualcuno in grado di rivelare verità scomode e

ipocrisie dei governi anche grazie ad un'organizzazione

complessa con adeguati mezzi finanziari; tuttavia ora che

'è scoppiata la bomba' Assange sta facendo i conti con gli

ostacoli posti da una certa parte del mondo mediatico e

finanziario, che non ha gradito l'uscita dei file. Questo è

l'ultimo muro da abbattere per la democrazia e per il

diritto dei cittadini ad essere informati sulla correttezza

delle istituzioni.

IL CASO WIKILEAKSSei d'accordo con la pubblicazione dei file segreti operata da Wikileaks?

Secondo te, quello che è avvenuto rivoluzionerà la diplomazia?

I contenuti dei files sono stati davvero esplosivi?

Credi sia giusta la condanna di Julian Assange?

Assolutamente no, non sarà determinante in quelli che sono

i meccanismi della diplomazia internazionale. Non è la

prima volta che si verifica una fuga di notizie riservate,

pertanto difficilmente il sistema verrà intaccato da questo

evento. Piuttosto ci sarà una maggiore attenzione nella

gestione delle informazioni e nella loro archiviazione, per

fare in modo che queste notizie, talvolta anche pericolose se

di pubblico dominio, possano venire reperite solo dai pochi

responsabili a cui giovano.

Oggettivamente no, le informazioni riportate su Wikileaks

sono "grezze", vale a dire che è stata scoperta l'acqua calda

su quella che è l'opinione pubblica sui maggiori leader nello

scenario internazionale. Basti analizzare quanto riporta su

Silvio Berlusconi: non sono altro che notizie, già note ai più,

su festini che ha organizzato in passato e dei rapporti molto

stretti con Vladimir Putin. Oppure anche quanto concerne

Gheddafi, cioè altro non fa che riportare quelle che sono

notizie già note ma in una forma molto meno "diplomatica".

E' stata giusta la sua condanna in quanto è stato accusato di

stupro, molestie e coercizione illegale: tutto ciò è stato causato

dal rifiuto di effettuare esami per le malattie sessualmente

trasmissibili dopo aver avuto rapporti non protetti con due

donne, anche se queste ultime erano consensienti. Dopo il suo

rilascio su cauzione il 1 6 Dicembre, dopo appena nove giorni di

carcere, persiste solo un'accusa di spionaggio da parte degli Stati

Uniti d'America, anche se in Australia gli agenti federali stanno

studiando tutta la vicenda, visto che c'è la possibilità che

Assange abbia violato molte leggi pubblicando quelle

informazioni su Wikileaks.

Sì, credo che da oggi i governi di tutto il mondo dovranno

essere più responsabili. Sicuramente i paesi più esposti

alla propria opinione pubblica (come gli Usa) saranno

meno spregiudicati nel creare accordi segreti e fuori

dall'interesse dei propri cittadini. Tutto ciò può essere

soltanto positivo per lo sviluppo di una più giusta

cooperazione internazionale. Unico neo: dopo le

rivelazioni di certi giudizi degli ambasciatori americani,

alcuni governi alleati saranno più chiusi e meno fiduciosi

nei confronti degli Usa. Ma sarà solo temporaneo.

Assolutamente sì, dai 25mila file abbiamo scoperto

molte cose importanti, a partire dal giudizio degli

americani sull'Italia, ma anche diverse informazioni

sull'andamento della guerra in Afghanistan che dai media

ufficiali non sarebbero mai trapelate. La persecuzione

giudiziaria e l'assalto da parte dei politici di mezzo

mondo dimostra quanto certe rivelazioni siano quanto

meno scomode, anche se i protagonisti interessati

cercano di negarlo.

No, l'accusa di stupro è servita solo per attaccarlo, ma il

caso rimane squisitamente politico. E' un personaggio

scomodo a tutti i governi, lo si vuole mettere a tacere

illecitamente con un'accusa falsa e gonfiata. Si abbia

almeno il coraggio di processarlo per i "crimini" che gli

contestano veramente, ovvero per la diffusione di

documenti governativi riservati. Ma non lo faranno,

perchè sarebbe un attentato alla libertà di espressione e

l'opinione pubblica insorgerebbe.

[Massimiliano F.] [Francesco L.]

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RENEWAL, ROMANZO STORICO DEGLI ANNI ZERO“Diario del Guardiano.

Stamani la civetta ha bussato alla mia finestra. Ormai

l'evento è vicino e il nostro futuro è prossimo. Il giorno sta

arrivando.”

Questa è la finestra che si apre su “Renewal” di Dario Piparo,

scrittore agrigentino che nel suo libro d’esordio riporta alla

memoria presente una storia dimenticata da tempo, quella del

popolo Ilois, abitanti dell’ isola Diego Garcia, atollo perso

nell’Oceano Indiano e Territorio Britannico d’Oltremare.

Alla fine degli anni Sessanta la Gran Bretagna concesse agli

Stati Uniti d’America l’utilizzo dell’ isola a scopi militari per

settant’anni, così i duemila Ilois che vi risiedevano furono

deportati dalle autorità britanniche col supporto del Governo

statunitense sull’ isola di Mauritius. Piparo, in Renewal, sullo

sfondo della vicenda storica disegna un personaggio che si

muove ai giorni nostri: Kevin Stanford, giornalista

statunitense di venticinque anni, in viaggio alle Maldive con

un gruppo di amici. In mezzo alle loro storie di sesso e

d'amore, di amicizia e tradimenti, una serie di scoperte

sconvolge il loro viaggio: un antico manufatto, un messaggio

cifrato, un'isola apparentemente deserta.

Chi si nasconde dietro questo enigma? Perché Kevin e i suoi

amici vengono coinvolti? Chi è e quali poteri ha il

Guardiano? Una serie di indizi li porterà a imbattersi in

occulte trame internazionali, in depistaggi della CIA e,

naturalmente, nell'orgoglio ferito e nella "magia" del popolo

Ilois, desideroso di riconquistare a ogni costo la sua isola. A

lungo, infatti, gli Ilois e i loro discendenti hanno cercato di

vedere legalmente riconosciuto il proprio diritto di ritorno a

Diego Garcia. L’Alta Corte Britannica pur riconoscendo nel

2000 l’ illegalità dell’espulsione di quel popolo dalle sue

terre, nel 2003 respinge le richieste di concedere ogni diritto

di ritorno in linea di principio, decisione che sarà confermata

definitivamente nel 2004.

Dario Piparo, scava per riportare la verità su una storia

insabbiata per anni dai governi, ai fini di proteggere la scorza

del politically correct. <<Ho trovato Diego Garcia

curiosando sull’Atlante e ho trovato la mia storia. Così ho

deciso di raccontarla perché è una vicenda terribile e reale,

mi fa arrabbiare che molti non la conoscano neanche.>> ,

risponde alla curiosità sul perché abbia scelto di raccontarci

proprio questo fatto.

Un thriller con sfumature fantastiche, che attraverso

l'avventura romanzata ha tentato di dare voce a questa storia

con uno slancio anacronistico. Renewal –edito da Casini e

nelle librerie dal 23 Febbraio 2011 - è un libro ricco di

intrecci e situazioni, angoli bui e raggi di sole, che non

lascia spazio alle interruzioni, ai surplus letterari ma

soprattutto alle coltri d’ ingiustizia, per dare il legittimo

spazio alla sempre più rara verità storica.

Valentina Oliveri

Utopia - Numero 0 in attesa di registrazione. UDU Catania