Utopia Gennaio 2012

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U T O P I A Gran brutta malattia il razzismo. Più che altro strana: colpisce i bianchi, ma fa fuori i neri. (continua a pagina 3) Melania Cultraro In meno di dieci giorni due battute micidiali, sulla "sfiga" dei laureandi ultraventottenni e sulla "monotonia" del posto fisso, ci riportano all'allegra sfrontatezza dell'era berlusconiana. Il problema è che, a differenza del passato, queste battute non ci fanno ridere o vergognare, ma ci spaventano. Anche perchè non sono battute (scherzare non è consuetudine di questo governo, e di certo non è il momento più adatto), ma dichiarazioni serie. I messaggi incautamente lanciati possono anche avere un fondo di verità, ma non tengono affatto conto dell'umore e della sensibilità popolari. Stupiscono perchè esulano del tutto dal politically correct, profilo che il Professore finora sembrava tenere a cuore. Sulla "sfiga" degli studenti fuori corso, mi limito a sottoscrivere ciò che già la nostra Elvira Ricotta Adamo ha ribattuto al viceministro Martone, durante la trasmissione Otto e Mezzo di Lilli Gruber. Il merito si deve tutelare, ma con la ferita ancora aperta dei tagli della Gelmini, la questione ormai drammatica del diritto allo studio forse meriterebbe più attenzione. Invece, per quanto riguarda l'infelice battuta del Presidente del Consiglio, qualcuno ha già ironicamente osservato come le banche preferiscano la monotonia del posto fisso, quando si tratta di elargire mutui. Al di là di questo, emerge con una certa evidenza come la formazione politicoeconomica di Monti sia improntata ad un approccio "americano", molto vicino al modello neoliberista della flessibilità. Come questa visione possa coniugarsi con la società italiana, è un dibattito ancora aperto, ma si spera ancora per poco. Vent'anni di politiche di flessibilità del lavoro sono fallite in una struttura socio occupazionale come la nostra, e sarebbe ora che gli strenui sostenitori ne prendessero atto. Da un Professore chiamato in causa per salvare l'economia italiana, francamente ci aspettiamo di più e di meglio. Del tutto encomiabili le liberalizzazioni e i blitz antievasione, ma purtroppo non bastano a togliere la brutta impressione di un governo poco vicino alla gente. Certo, Monti non cerca il consenso popolare, ma deve fare attenzione a non tirare troppo la corda: potrebbe spezzarsi. Federica Meli (continua alle pagine 2 e 3) pag. 4 pag. 6 pag. 11

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"Emergenza razzismo"

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U T O P I A“Gran brutta malattia il razzismo. Più che altro strana: colpisce i bianchi, ma fa fuori i neri.”

Gennaio - Febbraio 201 2 Università di Catania

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Pietro Figuera

(continua a pagina 3)

Melania Cultraro

In meno di dieci giorni due battute micidiali, sulla"sfiga" dei laureandi ultraventottenni e sulla"monotonia" del posto fisso, ci riportano all'allegrasfrontatezza dell'era berlusconiana. Il problema èche, a differenza del passato, queste battute non cifanno ridere o vergognare, ma ci spaventano. Ancheperchè non sono battute (scherzare non èconsuetudine di questo governo, e di certo non è ilmomento più adatto), ma dichiarazioni serie.I messaggi incautamente lanciati possono ancheavere un fondo di verità, ma non tengono affattoconto dell'umore e della sensibilità popolari.Stupiscono perchè esulano del tutto dal politicallycorrect, profilo che il Professore finora sembravatenere a cuore. Sulla "sfiga" degli studenti fuoricorso, mi limito a sottoscrivere ciò che già la nostraElvira Ricotta Adamo ha ribattuto al viceministroMartone, durante la trasmissione Otto e Mezzo diLilli Gruber. Il merito si deve tutelare, ma con laferita ancora aperta dei tagli della Gelmini, laquestione ormai drammatica del diritto allo studioforse meriterebbe più attenzione. Invece, per quantoriguarda l'infelice battuta del Presidente delConsiglio, qualcuno ha già ironicamente osservatocome le banche preferiscano la monotonia del postofisso, quando si tratta di elargire mutui. Al di là diquesto, emerge con una certa evidenza come laformazione politico­economica di Monti siaimprontata ad un approccio "americano", moltovicino al modello neoliberista della flessibilità.Come questa visione possa coniugarsi con la societàitaliana, è un dibattito ancora aperto, ma si speraancora per poco. Vent'anni di politiche di flessibilitàdel lavoro sono fallite in una struttura socio­occupazionale come la nostra, e sarebbe ora che glistrenui sostenitori ne prendessero atto. Da unProfessore chiamato in causa per salvarel'economia italiana, francamente ci aspettiamo dipiù e di meglio. Del tutto encomiabili leliberalizzazioni e i blitz anti­evasione, ma purtropponon bastano a togliere la brutta impressione di ungoverno poco vicino alla gente. Certo, Monti noncerca il consenso popolare, ma deve fare attenzionea non tirare troppo la corda: potrebbe spezzarsi.

«Ogni volta che l'uomo si è

incontrato con l'altro, ha sempre

avuto davanti a sè tre possibilità di

scelta: fargli guerra, isolarsi dietro

a un muro o stabilire un dialogo.

(. . .) L'esperienza di tanti anni

trascorsi in mezzo agli altri di

paesi lontani mi insegna che la

benevolenza nei loro confronti è

l'unico atteggiamento capace di

far vibrare le corde dell'umanità».

Federica Meli

La protesta dei

Forconi

Egitto un anno

dopo

Congresso Udu

Catania

«La semplicità è mettersi nudi

davanti agli altri … E noi abbiamo

tanta difficoltà ad essere veri con

gli altri. Abbiamo timore di essere

fraintesi, di apparire fragili, di finire

alla mercè di chi ci sta di fronte.

Non ci esponiamo mai. Perché ci

manca la forza di essere uomini,

quella che ci fa accettare i nostri

limiti, che ci fa comprendere,

dandogli senso e trasformandoli in

energia, in forza appunto».

(continua alle pagine 2 e 3)

pag. 4 pag. 6 pag. 11

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«Io amo la semplicità che si accompagna con l’umiltà.(…)

Mi piace la gente che sa ascoltare il vento sulla propria pelle,

sentire gli odori delle cose, catturarne l’anima. Quelli che

hanno la carne a contatto con la carne del mondo. Perché lì

c’è verità, lì c’è dolcezza, lì c’è sensibilità, lì c’è ancora

amore». Ho deciso di esordire dedicando al lettore un celebre

scritto di Alda Merini, per raccontare il viaggio di dieci

ragazzi immigrati approdati in terra sicula il 3 agosto scorso.

La loro storia è ricca di cruenti particolari e costellata di forti

emozioni; quelle emozioni che si trascinano con sé la dignità

dell’essere liberi e dell’essere ancora uomini. Sono sicura

che tramite l’ascolto della loro esperienza, non ne trarremo

solo semplice informazione, ma solidale arricchimento.

Informo i ragazzi dell’ intervista e sin da subito decidono di

mettersi a nudo raccontandomi le loro paure e i loro progetti.

D: «Da dove venite?»

R: «Alcuni Libia, altri Burkina Faso».

D: «Perché avete deciso di partire?»

R: «Noi non volere fare guerra. La guerra si avvicinava

verso i nostri paesi. Non siamo riusciti a salutare famiglia,

non ci facevano tornare indietro. Meglio partire. Noi, poteva

scegliere se morire in Libia o in mare. In Libia però noi

sicuro morire, in mare forse vivere».

D: «Come siete arrivati in Sicilia?»

R: «Noi abbiamo pagato 100 dinari per biglietto. Qualcuno

di noi anche di più. Abbiamo preso barca e messi in mare».

D: «Come è stato il viaggio?»

R: «Il viaggio è durato due notti e tre giorni. La barca ha

finito carburante. Noi rimasti da soli in mezzo al mare.

Gente, tanta tanta gente. Tutti messi stretti, non si poteva

muovere. Poi iniziava a morire qualcuno... (lungo silenzio,seguito da sospiri). Chi moriva, noi buttavamo in mare».

Una fiaccolata per non dimenticare, perchè non esistono

morti di serie A o di serie B, ma solo esseri umani di pari

dignità. Questo è stato lo scopo del corteo organizzato

dall'UdU Catania, per la sera del 1 3 gennaio 2012. Una

processione in memoria di Samb Modou e Diop Mor, i due

uomini senegalesi uccisi esattamente un mese prima a

Firenze da un militante esaltato di estrema destra. E' stata

un'occasione per rilanciare il ruolo attivo della società

civile, unico baluardo contro la diffusione dell'ignoranza e

dei pregiudizi razziali, sempre pronti a riaffiorare nella

debolezza degli uomini. All'iniziativa hanno aderito, oltre i

promotori dell'Unione degli Universitari e del

Dipartimento Immigrazione della CGIL, diverse comunità

di immigrati (bengalesi, mauriziani, eritrei, iraniani,

rumeni), comunità religiose (indù e ortodossi), e altre

associazioni no-profit e organizzazioni non governative

(Arci, Onda Libera, Mani Tese, Arcigay,

Federconsumatori, Amnesty International, Croce Rossa,

CO.PE.). La fiaccolata, partita alle 20.30 da Piazza

Università, si è snodata lungo via Vittorio Emanuele fino a

raggiungere Piazza Cutelli. Con lo slogan "Integrazione è

Civiltà" si è voluto fortemente rimarcare come il primo

passo per l'abolizione di ogni forma di violenza razziale è

costituito dalla volontà di costruire ponti, anzichè barriere.

Gli stranieri spesso anche involontariamente vengono

dipinti come malvagi o 'intrusi', ma ci si dimentica troppe

volte dei Paesi e delle situazioni da cui provengono. Con

quest'iniziativa, abbiamo voluto gettare un sasso nello

stagno della coscienza civile catanese.

"Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e

diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono

agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza" (art. 1

della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo).

(continua dalla prima pagina)

Catania ricorda i senegalesi Samb Modou e Diop Mor, un mese dopo la loro barbara uccisione a Firenze

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(continua dalla prima pagina) Questo brevissimo ma significativo pensiero, estrapolato da "L'altro", uno dei più interessanti libri

di Ryszard Kapuscinski, reporter polacco, morto qualche anno fa a Varsavia, fa da apripista a una riflessione, quanto mai

doverosa, che prende le mosse dai fatti di cronaca che hanno insanguinato la città di Firenze il 1 3 dicembre scorso, ad appena

pochi giorni dall'attacco al campo rom di Torino. I due fatti sono stati immediatamente configurati, dalla stampa sia locale che

nazionale, come due episodi di stampo xenofobo e che quindi in quanto tali andavano all'unanimità condannati.

Ma andiamo con ordine: è il 1 0 dicembre scorso quando a Torino viene incendiato un campo rom. Il tutto parte dalla diffusione

della notizia riguardante uno stupro, che poi si rivelerà falso, denunciato da una ragazza; si sa che di fronte a un estremo gesto

di violenza risultati positivi non se ne ottengono mai, eppure lo stupro, falso, denunciato dalla giovane diventa un movente

sufficiente e valido per incendiare un campo rom (in questo caso, oltre a farlo giustamente per il gesto di stampo razzista,

bisognerebbe inorridirsi anche per la pericolosa denuncia della ragazza che inscena una violenza sessuale), pone all'attenzione

dell'opinione pubblica e dei media il grave problema del razzismo. Problema, quest'ultimo, che sembra acutizzarsi ancora di più

se si attendono pochi giorni e se si passa a Firenze. Nel capoluogo toscano, infatti, ad essere attaccati sono due senegalesi, Samb

Modou, 40 anni, e Diop Mor, 54 anni, uccisi sul colpo dall'ingiustificata e incontrollata violenza di Gianluca Casseri, grande

appassionato di fumetti e autore anche di alcuni testi di recente pubblicazione, definito subito dalla stampa nazionale come un

"antisemita" (Corriere della sera), "simpatizzante di estrema destra con la passione per il fantasy" nonchè "fascista del terzo

millennio" (Il fatto quotidiano). Casseri decide poi di uccidersi con un fatale colpo alla gola, partito dalla stessa magnum 357

con cui aveva poco prima consumato l'assassinio. Il killer viene subito identificato come un collaboratore attivo di CasaPound

Italia, associazione di promozione sociale, regolarmente riconosciuta e costituita, che propaganda avanzate visioni sociali e che

propugna la libertà dell'uomo e l'affrancamento dell'anima dal mercato (descrizione, questa, nella quale ci si può pressapoco

imbattere nel sito ufficiale dell'associazione. Rileggendo tali parole dopo i fatti di Firenze, l'affresco in apparenza innocuo

dipinto nel sito, sembra nascondere un latente ma sinistro messaggio antirazziale). Casapound ad ogni modo decide di

dissociarsi dal gesto inconsulto del Casseri: “Con noi non c’entra nulla. Era un cane sciolto”; "Nel dna di CasaPound Italia la

xenofobia non è contemplata, così come non ha luogo di esistere la violenza discriminatoria, tanto che mai a nessuno di noi è

stata contestata una qualche aggravante per motivi razziali, etnici o religiosi".

Il fatto, gravissimo per il bieco coraggio con cui il Casseri è stato in grado di scaricare una cieca e brutale violenza su due

uonimi senegalesi, deve inevitabilemente interrogarci sull'impoverimento culturale e sociale su cui versa il nostro paese.

Bisognerebbe attribuire un fondamentale significato alla diversità, considerandola una ricchezza, un bene e un valore, proprio

per la sua alterità. Riuscire a riconoscere la multiculturalità del mondo sarebbe ovviamente un passo in favore di un progresso,

innanzitutto sociale, creando quel clima favorevole che si confà all'idea di un progresso di culture fino a ieri calpestate e offese.

Vorrei chiudere il discorso esattamente come l'ho iniziato, con le parole di Kapuscinski che dà una bella immagine dell'umanità:

"Ho sempre visto il mondo come una grande torre di Babele. Ma una torre dove Dio ha mescolato non solo le lingue, ma anche

culture e costumi, passioni e interessi, facendo del suo abitare una creatura ambivalente, comprendente in sè l'io e il non io, se

stesso e l'altro, il simile e l'estraneo". Un simile auspicio, dopo Firenze, diventa ancora più forte.

Melania Cultraro

«Avevamo fame e sete. Noi bere acqua mare. Tunisia ha

visto noi e ci ha detto che dopo veniva Italia. Italia arrivata

dopo tre giorni. Poi arrivati a Lampedusa».

D: «Come vi trovate in Italia?»

R: «Noi dire grazie a Italia. Italia accolto noi come figli.

Solo noi problema. Noi non fare niente qui. Solo studiare

lingua italiana. Noi volere lavorare. Perché in Italia no

lavoro?? In Africa c’è lavoro, qui no».

D: «Volete ancora rimanere in Italia?»

R: «Si, voilà. Noi rimanere in Italia, volere trovare lavoro

qui. Non no tornare in Africa».

Alla vista del mio pc, si avvicinano e mi chiedono se posso

fargli vedere la loro terra. Cliccando Burkina Faso su

youtube, nei laterali, compare un discorso di Thomas

Sankara sul debito pubblico. Alcuni esultano, altri un po’

meno. Ascoltano con attenzione il discorso, sollevano la

mano sinistra e tengono il pugno chiuso, si abbracciano e si

commuovono. Mi spiegano che le idee del giovane leader

tragicamente scomparso prematuramente li ha portati fin qui.

Dopo aver ascoltato la loro storia , mi torna in mente il

monologo di Erri de Luca, dove l’autore si rifiuta di

accordarsi alla concezione geografica “a forma di stivale”

dell’ Italia. Dovremmo invece vedere l’ Italia come un

braccio, che si stacca dalla spalla muscolosa delle Alpi e se

ne va verso sud-est nel Mediterraneo. La Puglia e la Calabria

sono le estremità di una mano aperta e la Sicilia è un

fazzoletto al vento che saluta. Tramite questa immagine

metaforica, possiamo capire che l’Italia è per conformazione

geografica una terra aperta. Una terra che deve

necessariamente aprirsi deve accogliere e deve dare il

benvenuto. Ostinarsi alla chiusura sarebbe come andare

“contro natura”.

Federica Meli

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Lunedì 16 gennaio la pagina Facebook “Movimento dei

Forconi” contava circa 4000 sostenitori: mentre scrivo, una

settimana dopo, ha raggiunto la cifra di 51 .508 “mi piace”,

quasi dieci volte di più. D’altronde in sette giorni in Sicilia è

accaduto di tutto e d’altronde internet, soprattutto nelle sue

declinazioni “social”, ha rappresentato uno dei principali campi

di battaglia nel quadro di una mobilitazione che ha causato

danni all’economia isolana per diverse centinaia di milioni di

euro. Ma anche senza il riferimento strettamente monetario, il

grande impatto della protesta nata dall’alleanza di agricoltori,

pastori, autotrasportatori, commercianti, pescatori, sotto

l’ inequivocabile simbolo del forcone, è stato tangibile nella

quotidianità degli oltre 5 milioni di siciliani: strade e città di

colpo deserte, psicosi collettiva da paura di supermercati e

serbatoi della benzina vuoti, un dibattito pubblico

improvvisamente diventato aspro, dominato dalla radicalità

delle posizioni e delle richieste di chi ha bloccato caselli

autostradali e vie d’accesso: si va dalla comprensibile

defiscalizzazione dei carburanti, all’ inquietante “moneta

popolare”, passando per elementi di protezionismo e svariate

rivendicazioni economiche e di stampo corporativo.

A far da sfondo a tutto questo è la crisi dell’economia italiana

ed occidentale, tanto spietata quanto insormontabile per tante,

troppe persone che così affidano rancori e speranze alla piazza,

non più luogo di democrazia, ma vettore di drastica

antipolitica, di suggestioni reazionarie, di un certo tipo di

“ribellismo meridionale buono a preparare ogni conservazione”

(Provenzano, “IlPost”). Un quadro incerto, convulso, buono

per l’addensarsi di nuvole nere: violenze, intimidazioni

documentate nei confronti di chi non protesta, “infiltrazioni

mafiose” tra gli agitatori e tra i vari volti, “sdentati” per Aldo

Cazzullo, protagonisti delle manifestazioni. E ancora, il ruolo

di primissimo piano avuto dalla galassia neofascista,

dall’accozzaglia autonomista, da vari pezzi di destra Pdl nel

ruolo di capipopolo improvvisamente “apartitici” al servizio

della “rivoluzione dei siciliani”. E’ la retorica del fascismo,

profittatore storico del malcontento popolare, puntellata con le

argomentazioni del revisionismo meridionalista e la sacrosanta

difesa dei portafogli di tutti.

All’ iniziale low profile dei media nazionali, inversamente

proporzionale all’entità dell’adesione, se non altro emotiva, di

tanti siciliani soprattutto via internet, ha fatto seguito un

quotidiano bollettino di guerra sulla protesta, minacciosa anche

per la verosimile capacità di espandersi ad altre regioni del sud,

eclissata soltanto dalla tragedia della Costa Concordia all’ isola

del Giglio. E tuttavia all’aumentare della copertura mediatica,

diminuiva la partecipazione popolare. Di pari passo infatti

all’esaurirsi della benzina nelle auto, il turbinio di proclami che

aveva intasato social network e sale d’attesa si tramutava

rapido in invettiva contro i forconi ribelli, “il danno è solo

nostro, è una guerra tra poveri”. Sicilia, terra di contraddizioni.

Tra sabato e domenica le code ai distributori, tornati a

funzionare dopo la sospensione dei blocchi, sancivano la

ritrovata unità tra l’organismo assoggettato e la sua

dipendenza, tra la gente e la benzina.

Le opinioni più autorevoli hanno accostato gli avvenimenti ora

alla Vandea rivoluzionaria, ora alla rivolta di Reggio Calabria,

in generale riconoscendo ai “poveri padri di famiglia” il diritto

di protestare per la situazione oggettivamente drammatica in

cui versa il Mezzogiorno, prendendo però le distanze dalle

modalità scelte e da tutto quello che la rivolta ha significato.

Del resto, c’è davvero da chiedersi quale legittimità, quale

attendibilità possa reclamare la protesta del “popolo siciliano”,

senza che quest’ultimo abbia prima reciso ogni legame con la

criminalità organizzata, con le classi dirigenti più devote al

clientelismo, con i potentati parassitari ed i notabilati più

reazionari. Tutti quei centri di controllo e di interesse

direttamente responsabili dell’ indigente immobilità del Sud,

una grande e permanente “unità interclassista” al servizio della

stagnazione e dell’egoismo. Così, la presa di coscienza è

ancora una volta contumace, tra la gente ma soprattutto presso

quelle classi dirigenti non compromesse e tuttavia, per la loro

solerte inerzia, coinvolte nella sconfitta della politica e della

rappresentatività democratica che si è già compiuta.

Francesco Vasta

copyright Francesco Vasta

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Claudia CammarataNuovo colpo alla democrazia? Non sono mancate le

polemiche dopo la bocciatura di entrambi i quesiti referendari

da parte della Corte Costituzionale che, con un doppio no ha

dichiarato inammissibili le richieste di abrogazione

dell’attuale legge elettorale, la Legge Calderoli n.270 meglio

conosciuta come “porcellum”.

Per i giudici della Corte, infatti, non ci sono “aspetti di merito

rilevanti” nei due quesiti di illegittimità proposti dal comitato

elettorale. Nonostante il verdetto della Corte sia stato indicato

come frutto di una scelta politica anziché strettamente

giuridica, i quindici giudici hanno esortato il Parlamento a

sostituire al più presto la legge, sollecito che però non ha

appagato gli sforzi dei comitati referendari (1 milione e 200

mila le firme raccolte) e continua a mantenere in vita (o in

agonia) un sistema da tutti considerato ingiusto e

antidemocratico.

Nonostante le aspettative deluse e lo sprono della Corte

Costituzionale, Andrea Morrone (presidente del comitato

promotore) ha dichiarato che la battaglia per il sistema

maggioritario e la democrazia in Italia non subirà alcuna

battuta d’arresto. Altrettanto ferma la reazione di Arturo

Parisi del PD (promotore della raccolta firme): “Ora tocca ai

partiti e ai leader dei partiti. Quelli che questa legge hanno

voluto, quelli che hanno goduto di questa legge e che poi,

sotto l' onda delle firme che abbiamo raccolto, hanno

dichiarato indifendibile”.

Questo era il contenuto dei due quesiti:

- Il primo proponeva l’abrogazione integrale di tutte le

disposizioni di modifica della disciplina elettorale per la

Camera e per il Senato introdotte dalla legge n. 270 del 2005.

- Il secondo era di tipo “parziale”, perché abrogava non

l’ intera “Legge Calderoli” ma le singole disposizioni della

stessa, precisamente le disposizioni che sostituiscono le due

leggi approvate il 4 agosto 1993, rispettivamente n.277

(“Nuove norme per l’elezione della Camera dei deputati”) e

n.276 (“Norme per l’elezione del Senato della Repubblica”).

Queste due leggi introducevano al posto della disciplina

precedente (di tipo proporzionale), un sistema misto, in base

al quale i seggi della Camera e del Senato erano assegnati per

il 75% mediante l’elezione di candidati in altrettanti collegi

uninominali, e per il restante 25% con metodo proporzionale.

La legge è comunemente conosciuta come “Mattarellum”,

dal nome del deputato Sergio Mattarella, relatore del testo.

Se è vero che la battaglia per un sistema elettorale più giusto

e democratico non si deve fermare, è anche vero che è

necessario indirizzare nel verso giusto le voci di dissenso al

sistema, ossia verso chi ha voluto questa legge e di

conseguenza ne ha tratto benefici. Il Presidente della

Repubblica Giorgio Napolitano ha ribadito che “ora tocca ai

partiti e alle Camere”, ma come ha affermato Parisi “non

vorrei essere nei loro panni”.

La bocciatura dei quesiti referendari desta clamore in tutta Italia, ma non tra gli

addetti ai lavori. Una decisione, quella della Corte, forse non scontata (altrimenti

non si spiegherebbe il giorno e mezzo di camera di consiglio prima del verdetto),

ma almeno presumibile. Le motivazioni della Corte riprendono tre sentenze del

1978, del 1987 e del 1995, per affermare che, essendo la reviviscenza un

concetto inapplicabile, c'era la possibilità concreta che un'eventuale vittoria dei

SI' al referendum formasse un pericoloso vuoto normativo. Il vuoto normativo è

insostenibile in materie fondamentali (come quella elettorale appunto), perchè

"gli organi costituzionali o di rilevanza costituzionale non possono essere esposti

neppure temporaneamente alla eventualità di paralisi di funzionamento, anche

soltanto teorica" (sent. C.Cost. n.29, 1 987). A rischiare dunque non è una legge,

ma la stessa effettività della democrazia. La teoria della reviviscenza è da oltre

trent'anni respinta dalle sentenze della Corte Costituzionale. Per dirla con le

parole di Michele Ainis, costituzionalista, "sarebbe come dire che abrogando la

Costituzione tornerebbe in vigore lo Statuto Albertino”.

Dunque non una questione politica, come qualcuno vorrebbe farci credere, ma di

puri principi giuridici (e non per questo meno rilevanti nella sostanza). Resta da

capire come mai il comitato promotore, composto anche da autorevoli

costituzionalisti (come Onida e Zagrebelsky), sia andato avanti con la raccolta

delle firme senza nemmeno considerare i moniti che pur si erano levati. Il rischio

di un simile esito era prevedibile, e oggi i promotori si dovrebbero prendere tutte

le responsabilità della disfatta, anzichè rigettarle sulle spalle dei giudici. P. F.

Page 6: Utopia Gennaio 2012

Roberto Fischetti

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La primavera araba dello scorso anno porta l’Egitto in una

fase storica, in una fase di apertura politica. Il regime

dittatoriale di Hosni Mubarak dopo 30 lunghi anni di attività

viene finalmente fatto crollare, dando riscatto alla

popolazione egiziana. Finiscono i soprusi, finisce la

corruzione e la violenza, per dare ai cittadini una vita più

giusta, fatta di giustizia sociale, di democrazia e libertà. In

molti vorremmo che quest’ultima frase fosse già realtà, ma

non è ancora così. L’esercito, che ha preso la guida del paese

dopo le dimissioni dell’ex dittatore, viene spesso accusato di

aver continuato con la politica del regime, e i recenti scontri

a piazza Tahrir ne sono un esempio. La folla protesta perché

ha rabbia dentro, perché non vuole che ci sia solo un cambio

di testimone, e perché vuole vedere la differenza, dopo

averla fatta. E proprio questa potrebbe essere data dalle

nuove elezioni legislative, il primo passo in senso

democratico. Il 29 novembre scorso, per l’appunto, sono

iniziate le prime votazioni di questo lungo processo

elettorale che porterà alla nomina dei deputati delle due

camere egiziane: l’Assemblea Popolare, o camera bassa, e la

Shura, o camera alta. I partiti sono circa 40, per oltre 6 mila

candidati, coalizzati in 4 grandi gruppi. Sono presenti in

netta maggioranza forze religiose, ma anche forze liberali,

progressiste e laiche. E in tutto questo gioco di candidati,

partiti e coalizioni, il popolo non smette di farsi sentire. Si

contesta il lungo periodo per cui andranno avanti le elezioni,

la poca informazione su come bisogna votare e la

disorganizzazione riscontrata in questi giorni di votazione,

temendo anche brogli come nelle scorse elezioni del

novembre 2010. Nonostante tutto questo c’è voglia di andare

a votare, perché c’è voglia di cambiare la propria vita,

facendo si che la dittatura sia solo un ricordo, orrendo, nella

storia d’Egitto. E proprio nei giorni scorsi abbiamo preso

conoscenza dei primi risultati ufficiali, per quanto riguarda

la nuova formazione dell’Assemblea Popolare, ma bisogna

fare una precisazione. Fin da quando era ancora presente il

regime, le forze religiose islamiche dei Fratelli Musulmani

sono state tra le più presenti tra la popolazione, per dare un

sostegno e un aiuto laddove fosse stato necessario,

garantendo, per così dire, una minima forma di walfare

state, completamente assente nella politica del dittatore.

Successivamente hanno appoggiato la rivoluzione, facendo

aumentare non di poco i loro consensi. Tutto questo fece si

che i Fratelli Musulmani, e la componente islamica in

generale, fossero tra i partiti più favoriti di queste

legislative. Non è un caso, infatti, che abbiano ottenuto la

netta maggioranza con il 47% dei voti e 237 seggi in

Assemblea, seguiti dai Salafiti (altro movimento di natura

islamica, anche se più estremista) e dai liberali. Tutto

questo, però, non piace alle forze laiche del paese, che

temono la degenerazione della futura democrazia in uno

stato teocratico. Ma adesso, può realmente rappresentare un

male questo risultato? Può, per esempio, concretizzarsi

quanto ipotizzano i laici? Sicuramente è possibile. Ma i

Fratelli Musulmani negano questa previsione e, inoltre,

dichiarano che faranno rinascere moralmente l’Egitto,

utilizzando la strada religiosa si, ma senza imporla e senza

essere intolleranti verso nessun’ altra forma di culto o

politica. Ora, per quanto possa esserci dentro di noi

quell’ idea di stato laico, e per quanto magari si possa

preferire quest’ultima, alla luce dei risultati elettorali, la

soluzione religiosa egiziana potrebbe essere una strada non

pericolosa, purché si diminuisca il clientelismo e la

corruzione, la violenza e la discriminazione, per una

maggiore libertà di convivenza pacifica e crescita del paese

in senso democratico. In nome della primavera araba: “i

dittatori non sono mai forti come vogliono far credere e la

gente non è mai così debole come pensa”, Gene Sharp.

Page 7: Utopia Gennaio 2012

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Pietro FigueraAgli imponenti funerali del dittatore nordcoreano Kim Jong-

Il, avvenuti il 28 dicembre, un'immensa folla ha

accompagnato il feretro del "Caro Leader" per tutti i 40

chilometri di strada innevata che portavano al Mausoleo di

Kumsusan. Nessuno può aver fatto a meno di notare le scene

di disperazione manifestate dagli spettatori della cerimonia

funebre. Cosa rappresentano davvero quelle lacrime? La

sofferenza di persone realmente addolorate per la fine

dell'esistenza terrena di un "semi-dio", oppure l'ennesima

montatura propagandistica ben orchestrata? Gli opinionisti

occidentali hanno propeso in larga maggioranza per la

seconda ipotesi, ed è probabile che non abbiano torto. Ma vi

è una naturale tendenza a riflettere secondo il proprio modo

di vedere le cose, che impedisce la comprensione degli eventi

sociali di realtà diverse dalla nostra. Dal nostro punto di

vista, è inconcepibile la dolorosa reazione di chi è stato

vessato per tutta la vita dai vizi e dalla crudeltà di un dittatore

che ha portato un'intera nazione sull'orlo dell'abisso. Ma noi

guardiamo la Corea nella trasparenza della libera

informazione, senza indossare le lenti della 'Juche', la

filosofia di stato comunista che ha preso il posto del

confucianesimo e delle altre religioni. E' probabile che il

governo nordcoreano abbia ingaggiato dei figuranti, quelli

che si davano alle scene più disperate al passaggio delle

telecamere. D'altronde, è davvero importante saperlo?

Simulazione o meno, siamo sempre spettatori di un dramma

nazionale. Se da un lato è sicuro che una manifestazione di

sentimenti diversi, da parte dei cittadini nordcoreani, sarebbe

stata severamente punita, dall'altro è certo che la macchina

propagandistica locale, attiva da oltre 60 anni, abbia

manipolato le menti di generazioni di persone. I coreani delle

ultime due generazioni sono nati con l'immagine del Caro

Leader o del suo predecessore, il "Presidente Eterno", nelle

loro case, un'immagine di fatto sacra e venerata. A scuola

hanno studiato i suoi scritti, all'università si sono laureati in

"Kim Il Sung pensiero", alla radio hanno ascoltato le sue lodi

"per l'immenso amore e dedizione con cui si dedica al suo

popolo". La manipolazione psicologica e culturale che hanno

dovuto subire i nordcoreani è inimmaginabile per noi

occidentali. Nonostante le condizioni indigenti della

popolazione, un'economia chiusa e arretrata e una carestia

che da alcuni anni sta distruggendo l'agricoltura del Paese, i

coreani non sono portati a ribellarsi perchè sono convinti di

essere fortunati rispetto al resto del mondo. La censura del

regime opera come uno specchio deformato. All'esterno,

cerca di mostrare un'immagine felice della propria società e

della propria economia (per fortuna senza successo); al

proprio interno, all'opposto, cerca di convincere i propri

cittadini che la Corea è l'unico luogo pacifico e ordinato del

pianeta. Tiziano Terzani, che visitò la Corea del Nord nel

1980, scrisse: “Il fatto che la gente creda davvero di vivere in

Paradiso è il più grosso successo del regime. La gente è

davvero convinta che il muro di 240 chilometri che corre

lungo la zona smilitarizzata tra Nord e Sud sia stato costruito

dai terribili americani per impedire ai sudcoreani di andare a

vivere nello splendido Nord…”. La telefonia mobile è

proibita dal 2004. Internet praticamente non esiste: al suo

posto vi è 'Kwangmyong' ovvero una rete nazionale intranet

che collega le principali realtà istituzionali e universitarie del

Paese, soprattutto con siti di apologia e propaganda del

regime. Ma anche questo strumento rimane ignoto per la

maggior parte della popolazione. La domanda è: quanto

durerà questo sistema di occultamento? La successione di

Kim Jong-Un non ha aperto finora spiragli incoraggianti. E'

probabile che, se il regime cadrà, sarà merito delle gerarchie

militari e difficilmente di un'insurrezione popolare, per

almeno due motivi. Primo, l'infiltrazione della polizia tra la

popolazione è ai livelli della Stasi nell'ex Germania dell'Est e

scoraggia qualsiasi tentativo di disobbedienza civile

(punibile con torture e detenzione nei campi di

rieducazione); secondo, la gente non ha un'effettiva

conoscenza di ciò che accade nel mondo esterno. L'unica

speranza è che il regime, constatato il fallimento della sua

politica di ricatto nucleare internazionale (richieste d'aiuti in

cambio della neutralità nucleare con la Corea del Sud e gli

altri vicini), abbandoni l'isolamento in favore di una graduale

apertura politica ed economica. Non dimentichiamo che vi è

la forte pressione delle multinazionali che non vedono l'ora

di sfruttare le enormi potenzialità di un territorio ancora

vergine. Ma il regime e la dinastia Kim si reggono sull'idea

del pericolo costante, dello stato di emergenza bellica

permanente. Distesi i rapporti con il Sud, e quindi svanito il

pericolo di una guerra, non si giustificherebbero più le

restrizioni imposte alla popolazione: il regime vacillerebbe.

Ecco perchè la tensione internazionale continua e non è stato

ancora firmato un Trattato di Pace dal 1953, anno della fine

della Guerra di Corea.

Page 8: Utopia Gennaio 2012

Giorgia MusmeciAgli inizi dell'ottocento si leggeva questo motto sui giornali

americani: “West una terra dove tutto è ancora da scoprire, da

costruire, dove la legge ancora non è arrivata e si può essere

liberi”. Liberi e senza legge i coloni potevano guadagnarsi

con qualche colpo di pistola un appezzamento di terra, poco

importava se quella terra era la terra coltivata da generazioni

dalle tribù indiane che, non avendo un Catasto, non potevano

dimostrare i diritti di proprietà su quella terra. Come non lo

erano gli indiani d'America, non

sono dotati di uffici catastali

nemmeno i contadini africani che,

oltre duecento anni dopo, oggi si

ritrovano nella medesima

condizione, protagonisti di un triste

remake di qualche vecchio film

western.

Tutto nasce il 23 Aprile del 2009,

quando la direttiva 28/09 del

Parlamento Europeo impone nella

sua strategia 2020 che “Ogni stato

membro assicuri la propria quota di

energia da fonti rinnovabili in tutte

le forme di trasporto pari almeno al

10%”. Nessuna direttiva sulla

natura delle fonti di energia; il

mercato punta così sulle due più

convenienti, l'olio di palma ed i

carburanti estratti da mais ed altri

cereali, ben 4 volte più redditizie di qualsiasi altra forma di

energia. Questi Biocarburanti, prodotti da fonti naturali

alternative al petrolio, producono meno CO2 ma hanno un

unico difetto: per essere prodotti necessitano di vastissimi

appezzamenti di terra, (solo per raggiungere il 4% della

soglia, ai paesi europei servirebbe una superficie agricola pari

a quella dell'intero stato del Belgio). Scatta quindi la corsa

alla terra, che diventa per i mercati internazionali un bene

preziosissimo. In Europa la terra coltivabile è in esaurimento,

soppiantata da città, fabbriche ed infrastrutture; ma nel nuovo

West è possibile trovarne milioni e milioni di ettari: stiamo

parlando dell'Africa. In Africa la terra costa pochissimo,

l'affitto di un ettaro di terra costa a Dakar 2,53€ l'anno, nel

Mali (una delle zone più fertili) meno di 100€ l'anno ed in

alcune zone più aride addirittura 0,1 4€ l'anno; lo stesso ettaro

di terra affittato in Inghilterra o negli USA costerebbe più di

22.000$ l'anno. Ciò che rasenta l'inverosimile, però, è la

facilità nell'ottenere la concessione statale di tali territori, un

normale contratto d'affitto supera abbondantemente le 1 .000

pagine, i contratti d'affitto per la concessione di queste terre

non superano le 4 pagine; firmati, il più delle volte, da

società fittizie con sedi irrintracciabili. Le terre concesse dai

governi africani (per periodi a volte superiori a 90 anni) alle

grandi società, risultano essere terre vergini, abitate da

nessuno. Peccato che dietro questo

“nessuno” ci siano stati due secoli

fa i pellerossa e le loro famiglie,

oggi ci sono i contadini delle tribù

africane (ben il 75% della

popolazione), che quelle terre le

coltivano da generazioni, ma non

hanno nessun documento per

dimostrarlo; chi protesta finisce in

galera. Tra il 2008 ed il 2009 sono

stati vittime di questo fenomeno

chiamato “land grabbing”

(accaparramento di terre), ben 30

milioni di ettari, circa 2 volte e

mezzo la superficie della

Thailandia, finiti nelle mani delle

grandi compagnie. Quei 30 milioni

di ettari, che prima producevano

sorgo e miglio per sfamare centinaia

di tribù, adesso, e per i prossimi 90

anni, produrranno biodiesel e bioetanolo. E le coltivazioni

delle tribù? Nei contratti le società promettono numerosi

posti di lavoro, nella realtà il lavoro lo fanno le macchine ed i

contadini sfrattati non possono far altro che assistere in

silenzio alla distruzione del proprio lavoro. Dove avviene,

allora, la produzione del cibo per sfamare le tribù?

Semplicemente non viene più prodotto; gli stati non hanno

capitali per investire sulla produzione di cibo e chi i capitali

li possiede, non ha interesse a farlo. Meglio coltivare cereali,

il cui prezzo sale e scende ormai di pari passo al petrolio, per

produrre bioetanolo al mercato mondiale che investire sul

frumento per soddisfare il fabbisogno alimentare locale,

difficilmente vendibile ai prezzi internazionali perché troppo

caro per il mercato africano. Se non i governi, allora

dovrebbero investire sul sostentamento dell'Africa le

organizzazioni di tutela mondiale, come la Banca Mondiale.

8

Duecento anni dopo la conquista del West la nuova inumana corsa all'accaparramento delle terre in Africa

Page 9: Utopia Gennaio 2012

Si è svolto giorno 29 novembre presso l'Aula Magna della

Facoltà di Scienze Politiche il convegno, coordinato dal

professore R. Mangiameli e che ha visto la presenza di

numerosi e autorevoli relatori, che aveva come tema “Mafia

ed Economia” a partire dalla presentazione del volume

“Alleanze nell'ombra. Mafia ed economie locali in Sicilia e

nel Mezzogiorno” a cura di Rocco Sciarrone, docente di

Sociologia all'Università di Torino. L'indagine che si

sviluppa nel libro mira a comprendere i meccanismi

attraverso cui le organizzazioni criminali si inseriscono nei

mercati leciti e nelle economie locali, in diversi contesti

come quelli siciliani, calabresi e campani. Ci si è soffermati

in particolare sulla presenza di un' “area grigia”, quella che

permette alla mafia di avere successo, composta da politici,

professionisti, imprenditori, manager e burocrati che fanno

affari nell'ombra. Dopo la presentazione iniziale di Rocco

Sciarrone, ha preso la parola Raimondo Catanzaro,

sociologo, docente presso l'Università di Bologna, che ha

posto l'accento sulla capacità dei mafiosi di stabilire contatti

a livello transazionale con soggetti dell'area grigia: si

instaurano cosi dei “giochi a somma positiva”, in cui cioè

tutti i partecipanti hanno qualcosa da guadagnare. Giovan

Battista Tona, Consigliere di Corte di Appello di

Caltanissetta, si interroga su quali siano le zone d'ombra in

cui agisce la mafia. Bisogna notare come tutti i boss mafiosi

crescono e prediligono la provincia (l'ombra appunto) e poi

investono in città. Nonostante la globalizzazione dei mercati,

le economie locali sono importanti in quanto permettono alla

mafia di essere presente e controllare il territorio: anche le

zone apparentemente più insignificanti sono significative per

la mafia. Il professore Aleo, penalista, è stato critico nei

confronti dei sociologi, in quanto, a suo avviso, questi ultimi

non hanno ancora chiarito quale sia il vero ruolo dei

professionisti, medici e avvocati nel rapporto con la

criminalità organizzata, in un contesto in cui la mafia ha

cambiato strategia di azione: non ci sono più i 100 morti

ammazzati degli anni '80 a Catania, ma abbiamo molti più

“colletti bianchi” e ciò spiega la presenza in Sicilia di un

numero elevatissimo di sportelli bancari e (a Catania

soprattutto) di centri commerciali. Giuseppe Strazzulla,

coordinatore Provinciale di Libera, Associazione fondata da

Don Ciotti, parla dell'importanza dell'antimafia sociale,

dell'esigenza di costruire reti per fronteggiare ogni tipo di

illegalità, e si sofferma, infine, su alcune lacune del Codice

Antimafia approvato dal governo uscente Berlusconi, come

ad esempio la vendita all'asta dei beni confiscati ai mafiosi.

La professoressa Rita Palidda ha riportato l'esempio di

Vittoria, un'area in cui clan catanesi (Santapaola ed

Ercolano) e clan dei Casalesi si sono uniti per controllare il

settore dell'ortofrutta e dei trasporti. Il professore M. Avola,

infine, si è soffermato sul problema della grande

distribuzione commerciale e sull'anomalia catanese, cioè

l'intreccio di interessi economico-politico-mafiosi

(situazione che aveva già denunciato Giuseppe Fava), e che

quindi bisogna vedere l'imprenditore non come vittima ma

come attore attivo che beneficia di queste collusioni.

Sono fondamentali, dunque, momenti di riflessioni come

questi, per comprendere a fondo il fenomeno mafioso e la

sua penetrazione all'interno dei settori vitali della società e

dell'economia del nostro paese.

Filippo Biondi

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Difatti la World Bank crea un fondo d'investimento Private

Equity, investito e registrato però nel paradiso fiscale delle

isole Cayman, ben lontano dalle bisognose terre africane,

sulle quali tra l'altro la WB specula copiosamente, figurando

come partner del progetto di accaparramento Sosumar per la

produzione di mais e zucchero in Mali.

Risultato? Un numero sempre maggiore di Africani sta

perdendo la propria terra e con essa l'accesso alle risorse

primarie come l'acqua, il cibo ed i servizi pubblici; le foreste

disboscate vengono trasformate in campi da coltivare e la

popolazione africana si ritrova a produrre biocarburanti,

essenziali per le altre nazioni, senza poter produrre il pane

necessario a sfamare i loro figli. Il tutto in nome di una

riduzione della CO2 che difatti nemmeno esiste, perché gli

stabilimenti che producono il biodiesel che emette meno

smog nelle nostre strade, ne emettono il doppio durante la

lavorazione. Non è necessario cambiare o riorganizzare

questa forma meschina d'investimento, è necessario

debellarla e cancellarla, come dovrebbe essere cancellata

ogni abominevole forma d'ingiustizia fatta dall'uomo

sull'uomo.

Page 10: Utopia Gennaio 2012

1 0

Carica di sentimento e misteri è la vicenda biografica di

George Sand, pseudonimo letterario della francese Amantine

Aurore Lucile Dupin. Figura anticonformista che amava il

suo essere donna e lo difendeva con la penna e le parole. I

suoi scritti velati da un femminismo sempre rispettoso,

inneggiavano a ideali di modernità ed erano attratti dalla scia

di profumo socialista, della quale fu sostenitrice fin dagli

albori. George Sand fu una donna passionale ma selettiva,

come dimostrano le relazioni sentimentali che intreccià con

lo scrittore Alfred de Musset e il musicista Fryderyk Chopin.

“La società non deve esigere nulla da chi non si aspetta nulla

dalla società.”, recita una dei suoi motti di più di largo respiro

e testimonia il suo interesse e l’attività politica; fece anche

parte – senza ricoprire comunque un ruolo di primo piano-

del governo provvisorio del 1 848, facendo valere il concetto

di quote rosa ante-litteram. Nel dicembre del 1 863 i suoi

scritti vennero inseriti nell’ Indice dei libri proibiti dalla

Chiesa Cattolica, perché si ponevano in modo nettamente

critico nei confronti del papato e di tutto l’operato clericale

del tempo. Aurore, discendeva da una nobile famiglia

francese e nel 1 822 sposò il barone Casimir Dudevant, del

quale lei stessa diceva che non facilmente si lasciava andare

in gesti passionali ma col quale piuttosto aveva un rapporto di

tenera amicizia. Infelice col suo uomo, preferiva allettarsi con

la compagnia degli amici Roettiers, a Plessis e del figlio

Maurice, nato il 30 Giugno del 1 823. Lo pseudonimo George

Sand trova ispirazione dal nome di Jules Sandeau, il

giornalista parigino della quale si innamorò dopo la rottura

del suo matrimonio col barone Dudevant. A Parigi collaborò

con lui al giornale Le Figaro. Da quel periodo nascono i

primi romanzi a quattro mani della sua fiorente produzione

letteraria, fra cui Le Commissionnaire e la Rose et Blanche;

siamo nel 1 831 e la firma sulla loro copertina è quella di

J.Sand. L’utilizzo dello pseudonimo maschile, poi adottato in

tutti i suoi libri, fu un’arma di difesa dal pregiudizio verso

una scrittrice di sesso femminile –spesso considerate di

qualità inferiore- e unito al modo di abbigliarsi di George, fu

motivo di infondate accuse di lesbismo per la donna. Siamo

nel 1 848, lo scenario è quello della Rivoluzione parigina e

George Sand, come il figlio Maurice, che era all'epoca il

sindaco di Nohant, si dimostra favorevole mantenendosi sulla

riga sempre moderata dei suoi ideali. Si legge da una sua

intervista: “Sono comunista così come si era cristiani

nell'anno 50 della nostra era. Il comunismo è per me l'ideale

delle società in progresso, la religione che vivrà tra qualche

secolo. Non posso dunque aggrapparmi a nessuna delle

formule di comunismo attuali, perché esse sono tutte

piuttosto dittatoriali e credono di potersi affermare senza il

concorso dei costumi, delle abitudini, delle convinzioni.

Nessuna religione si stabilisce con la forza”. Nel 1 871

collaborò con la rivista La Revue des deux mondes e con la

rivista protestante Le Temps, mentre si poteva già stilare una

lista di fortunate opere destinate a diventare pietre miliari

della letteratura femminista e di genere, quali Francois le

Champi, Histoire de ma vie e Jean de la Roche, nonché 31

opere teatrali di carattere didattico e serio portate in scena nel

suo teatro privato nella tenuta di Nohant e poi postume nei

maggiori teatri di Parigi. Morì l’8 giugno del 1 876, ebbe

funerali religiosi e fu sepolta a Nohant. Le sue nipoti

stringevano orgogliose tra le mani Novelle di una nonna.

Valentina Oliveri

Vuoi scrivere per noi? Hai consigli, idee o suggerimenti? Vuoi segnalarci qualcosa?Scrivi alla nostra redazione! [email protected] perso un numero precedente? Leggilo in PDF nel nostro sito web!http://uduct.webnode.it/Per qualsiasi richiesta o informazione, non esitare a [email protected] [email protected]

Page 11: Utopia Gennaio 2012

11

UDU CATANIA, IL TERZO CONGRESSOI l 6 Dicembre scorso si è Svolto i l I I I Congresso dell 'UDU

Catania nella Sala Riunioni “Sebastiano Russo” presso la

locale sede CGIL.

Dopo una breve introduzione del moderatore Gianluca

Scerri è intervenuto i l Coordinatore uscente Fabio Tasinato

che ha, tra le varie cose, prodotto un lucido resoconto sul la

situazione universitaria in città e sul l 'impegno che l'UDU ha

messo e mette tutt'ora nella tutela dei diritti degl i studenti ,

come si può evincere dalle battagl ie sostenute con successo

negli ultimi anni. Non sono mancati i saluti e gl i auguri di

Pina Palel la, responsabile organizzativo CGIL Catania,

Giacomo Rota, segretario confederale, Elvira Ricotta

Adamo, membro dell 'esecutivo nazionale UDU che ha

portato i saluti del Coordinatore Nazionale Michele Orezzi,

Salvo Nicosia e Daniele Sorel l i per i Giovani Democratici,

Jacopo Torrisi per i l Partito Democratico, Salvo Nicosia,

vice-presidente Federconsumatori Etna Sud, Emmanuel

Sammartino che ha raccontato la sua esperienza all 'interno

del sindacato e Matteo Iannitti in rappresentanza del

Movimento Studentesco Catanese. Hanno poi preso la

parola Elvira Celardi, Luca Tasinato, Elviana Palermo e

Pietro Figuera, i qual i hanno ringraziato i l Coordinatore

uscente per l 'impegno profuso negli ultimi anni ed hanno

espresso i propri pareri sul lavoro svolto dal sindacato

insieme a proposte e suggerimenti per i l lavoro da svolgere

da qui in avanti. Si è poi votato l 'esecutivo che, con voto

unanime, ha visto la nomina di Giuseppe Campisi come

nuovo Coordinatore d'Ateneo, Simone Chisari come

responsabile organizzativo, Claudia Cammarata come

responsabile per i l diritto al lo studio ed Elviana Palermo

come responsabile per le pari opportunità. Con questo

ennesimo congresso l 'Unione degli Universitari ha senza

dubbio lanciato un messaggio importante al la città: i l

sindacato c'è stato, c'è e ci sarà, e siamo sicuri che il nuovo

esecutivo sarà in grado di svolgere con competenza ed

entusiasmo il proprio dovere per tutelare i diritti degl i

studenti e portare avanti le piccole, grandi battagl ie che si

presenteranno. In bocca al lupo anche da parte della nostra

redazione!

Dall'alto in basso, vari momenti del Congresso: i saluti di Giacomo Rota, la relazione delCoordinatore uscente Tasinato, un applauso della platea e la presentazione del nuovo Esecutivo(nell'ordine: Claudia Cammarata, Simone Chisari, Giuseppe Campisi, Elviana Palermo).

Cristopher Gaziano

Page 12: Utopia Gennaio 2012

Utopia - Stampato non periodico. Catania, gennaio 201 2. Stampatore: UDU Catania. Direttore: Pietro Figuera. Redazione: Via Crociferi 40, Catania

1 2

Altra battagl ia vinta per l 'Unione degli Universitari .

Sono stati ammessi al la Facoltà di Medicina della

Sapienza di Roma 1 2 studenti extracomunitari rimasti

esclusi a causa di un provvedimento dello scorso anno

della Gelmini, dichiarato lo scorso 1 4 gennaio

i l legittimo da parte dei giudici amministrativi del Tar del

Lazio, che prevedeva un punteggio minimo di

20/80esimi per i l superamento dei test di ammissione

alle facoltà a numero chiuso. L'Udu, attraverso il suo

avvocato Michele Bonetti , ha ritenuto i l legittima questa

soglia per almeno due motivi: i test di ammissione

prevedono 40 domande, sul le 80 total i , di cultura

generale ital iana. E gli stranieri sono ovviamente

svantaggiati . Ma, soprattutto, gl i studenti

extracomunitari che si sono rivolti al Tar Lazio hanno

presentato la domanda per i corsi di ammissione prima

che venisse pubblicato i l decreto che impone lo

sbarramento di 20 punti. Inoltre i l l imite non ha ragione

di esistere perché i posti riservati agl i studenti

extracomunitari nel 2011 sono stati 1 .21 0, ma le

domande appena 859. Secondo l'Udu, non c'era

ragione di imporre un limite di punteggio per essere

ammessi. Anche perché a superare il test, con le

regole della Gelmini, sono stati in 352. Gli oltre 500

posti non assegnati sono rimasti vacanti, non sono

stati riassegnati neppure agli studenti comunitari.

"E' un colpo duro alla gestione ministeriale di

Mariastel la Gelmini", dichiarano i ragazzi del l ’Udu.

"Era stato posto in essere un sistema con una soglia di

punteggio per l 'ammissione che ha lasciato l iberi mil le

posti . Da sempre combattiamo la selezione degli

studenti con un test di ingresso aprioristico ma in

questo caso specifico la situazione era paradossale:

gl i studenti extracomunitari non potevano accedere a

posti riservati proprio per loro, lasciando i posti vacanti

anche per gl i studenti comunitari in una facoltà come

medicina dove gli esclusi dai test ogni anno sono

migl iaia". Lo stesso Ministro dell ’ Istruzione qualche

tempo prima di Natale ha dichiarato che in I tal ia sono

presenti troppo pochi studenti stranieri. Ora che il

decreto Gelmini è stato "bocciato" è auspicabile che il

problema si possa risolvere alla radice. "La vittoria al

TAR va a tutelare i l diritto al lo studio

costituzionalmente garantito - concludono - ma come

sindacato studentesco non possiamo fermarci qui:

chiediamo ora al Ministro Profumo di risolvere il

problema degli altri studenti extracomunitari esclusi, e

di aprire un tavolo di riforma sull 'ingresso nelle

università del nostro Paese, auspicando che questo

sistema iniquo di sbarramento aprioristico cessi

definitivamente di esistere".

L'UDU VINCE RICORSO AL TAR DEL LAZIO: "BOCCIATA" LA GELMINI

in programmazione su Radio Sunshine:

COFFEE AND RADIO (Chiara Iuculano & CesareTrentuno) ­ Musiche dal mondoROCK OUT (Giovanni Timpanaro & FabrizioCanale) ­ Rock e artisti emergenti

Elvira Ricotta AdamoEsecutivo Nazionale UDU