Gaber Illogica Utopia

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GABER GABER L’ILLOGICA UTOPIA Autobiografia per parole e immagini a cura di GUIDO HARARI in collaborazione con la FONDAZIONE GIORGIO GABER

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"Autobiografia per parole e immagini"

Transcript of Gaber Illogica Utopia

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GA

BE

R “È bello quando parla Gaber”, canta Enzo Jan-nacci, l’amico corsaro di sempre, ricordando quanto il signor G, a quarant’anni esatti dalla sua prima apparizione sulla scena del Piccolo Teatro di Milano, rimanga, oltre che fine af-fabulatore e artista totale, una delle rare co-scienze civili del secondo Novecento italiano.

Questo libro non vuol essere solo l’“autobio-grafia” di Gaber, ma anche una sorta di bre-viario irreligioso per liberi pensatori. Nelle sue parole soffia il vento di una morale di lot-ta, insieme all’ansia di un’etica nuova e di un ritorno al luogo del pensiero. Immerso nel suo tempo, Gaber auspica, anzi esige un neorina-scimento, un nuovo umanesimo e, con esso, un individuo nuovo, fatto di privato e di politico. È questa “l’illogica utopia” del titolo, condita di un “appassionato pessimismo” che l’artista vorrebbe detonatore di uno slancio vitale e gioioso verso un futuro tutto da inventare.

La viva voce di Gaber guida il lettore in un lungo e appassionante viaggio, ricostruito at-traverso lo sterminato archivio della Fonda-zione Giorgio Gaber dei cui tesori viene qui presentata per la prima volta una corposa sintesi, con trascrizioni di materiali audio e video, interviste, manoscritti e testi spesso inediti, memorabilia, rare copertine di dischi e una messe di immagini tratte anche dagli archivi dei fotografi che più da vicino hanno seguito l’artista. Una cronologia dettagliata e una discografia completano questo volume fa-cendone un prezioso riferimento per chiunque voglia addentrarsi nel pensiero gaberiano.

L’iLLoG

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Perché invece di esibire la nostra moralina liberista e permissiva non abbiamo dato uno sguardo all’avanzata dello Sviluppo? Perché invece di parlare di buoni e di cattivi non abbiamo visto dove andava la Produzione? Perché non abbia-mo alzato un muro contro la mano invisibile del Mercato? Per-ché abbiamo ceduto all’allegria del consumo? Perché abbiamo spalancato la porta al superfluo? Perché gridavamo contro i padroni e compravamo i motorini ai figli? Perché non ab-biamo mai parlato di essenzialità? Perché non siamo riusciti a creare una razza diversa? Una razza che si ribellasse alla violenza dell’oggetto e alla mascherata della libertà? Liberi di fare tutto, di essere tutto, un tutto che è uguale a niente. Quale muro avete alzato contro il potere senza volto? Perché odiate per frustrazione e non per scelta? Perché vi accanite contro nemici imbecilli e superati? Perché spargete così male la rabbia che vi consuma? - GiorGio Gaber

GUido harari fotografo e giornalista musicale, ha firmato numerose copertine di dischi per artisti italiani e internazionali, da Claudio Baglioni a Vinicio Capossela, Paolo Conte, Pino Daniele, Gianna Nannini, Pavarotti, Vasco Rossi, a Kate Bush, Bob Dylan, Paul McCartney, Lou Reed e frank Zappa. È stato per vent’anni uno dei

fotografi personali di fabrizio De André, alla cui figura e opera ha dedicato tre libri a loro modo definitivi - fabrizio De André. E poi, il futuro (Mondadori 2001), fabrizio De André. Una goccia di splen-dore (Rizzoli 2007), fabrizio De André & PfM. Evaporati in una nuvola rock (con franz Di Cioccio, Chiarelettere 2008) - e una mostra personale, Sguardi randagi. Harari è anche uno dei curatori della

grande mostra multimediale dedicata al cantautore da Palazzo Du-cale, a Genova. Tra i suoi libri più recenti The Beat Goes On (con fernanda Pivano, Mondadori 2004), Vasco! (Edel 2006), Wall Of Sound (HRR 2007), Mia Martini. L’ultima occasione per vivere (con Menico Caroli, Tea 2009) e Chia. I guerrieri in San Domenico (HRR 2010).

www.guidoharari.com

FondaZione GiorGio Gaber Costituitasi come Associazione Culturale pochi mesi dopo la scomparsa dell’artista e poi, dal 2006, come fondazione con la presidenza di Paolo Dal Bon, ha tra gli obbiettivi principali quello di raccogliere tutta la docu-mentazione audio, video e fotografica disponibile su Gaber, oltre a tutti i testi editi e inediti, al fine di costruire un archivio completo e ufficiale da mettere a disposizione di quanti desiderino avvici-narsi e approfondire la sua opera; nonché di confrontarne la por-tata culturale e verificarne l’attualità di pensiero in un incessante dialogo a tutto campo con i rappresentanti del teatro, della musica d’autore, dello spettacolo e della cultura contemporanei.I progetti che hanno sinora contraddistinto l’operato della Asso-ciazione e sono stati poi recepiti, fatti propri e sviluppati ulte-riormente dalla fondazione Giorgio Gaber, sono il festival “Teatro Canzone”, la costituzione di un archivio digitale completo sull’arti-sta, e la realizzazione e promozione di diversi progetti divulgativi, soprattutto per i più giovani, con una serie di iniziative, incontri, spettacoli e progetti specifici rivolti alle scuole.

www.giorgiogaber.it

www.chiarelettere.it

ISBN 978-88-6190-112-4e 59,00

Se abbiamo già sperimentato quanto possa fare male una dittatura militare, non sappiamo ancora quanto possa fare male la dittatura della stupidità.- GiorGio Gaber

GABERL’iLLoGicA utopiA

Autobiografia per parole e immagini

a cura di GUido harari

in collaborazione con la FondaZione GiorGio Gaber

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Se dovessi raccontare la mia vita, ho paura che mi mancherebbe la trama. ‘ Sono uno che il compromesso lo conosce, che ha una professione come ce l’hanno tutti e una passione come ce l’hanno in meno. ‘ Forse io ho ancora addosso la maledizione che sia meglio pensare che vivere. ‘ Non si deve piangere sulle cose perdute, ma semmai su quelle non trovate. ‘ Per chi è più incline al pensiero piuttosto che alle palestre per il corpo, una buona ginnastica prima di colazione sarebbe quella di mandare al diavolo una teoria del giorno prima. ‘ Una delle ragioni della scomparsa del pensiero è che pensare non serve più né per il lavoro né per la vita né per avere successo con le donne. ‘ Si sta diffondendo oggi una nuova morale che consiste nel prendere più che altro in considerazione i doveri degli altri... verso di noi. La novità di questa teoria è che diventa fortemente morale tutto ciò che ci con-viene. Praticamente un affare. ‘ Intellettuale io? Che brutta parola, logora e stantia. Non mi considero né intellettuale né poe-ta: sono uno che cerca di vedere dentro se stesso, che è la via più sicura per capire gli altri. ‘ Ascolto un brusio nell’aria più che le grida. ‘ Le risposte verranno. L’importante è incominciare a cercarle. ‘ Penso che sia indispensabile per ognuno di noi avere sempre il proprio manuale d’istruzioni. ‘ La coscienza può essere individuale o sociale. Quand’è tutt’e due insieme è un casino. ‘ La coscienza è come l’organo sessuale. O fa nascere la vita o fa pisciare. ‘ Io non so se il mio sia teatro o no, ma penso valga ancora la pena di salire su un palco a dire delle cose. ‘ In fondo la più grande soddisfazione di chi sale su un palcoscenico è quel-la di sentirsi osservato come fosse uno specchio di quello che si sta vivendo. ‘ Per me la canzone non è supporto: è un conforto. ‘ Credo alla parola scritta, pensata e meditata. L’improvvisazione ti fa scegliere sempre la soluzione più a portata di mano e non ti fa fare passi avanti. ‘ La strada era una grande gioia. Significava stare con gli altri... Mi è rimasto un grande rimpianto. Forse ho sempre cercato di ricostruirmela nel teatro, quella strada. In tutti i miei spettacoli ho sempre cercato di ritrovare quel desiderio di conoscenza che cercavo nella strada. ‘ L’appartenenza è avere gli altri dentro sé. ‘ Basterebbe pochissimo. Capire che un uomo non può essere veramente vitale se non si sente parte di qualcosa. Abbandonare anche il nostro appassionato pessimismo e trova-re finalmente l’audacia di frequentare il futuro con gioia. Perché la spinta utopistica è qui e ora. ‘ Credo nei diversi stadi di un sentimento, nell’evoluzione di un incontro, nella possibilità di farlo durare nel tempo. Ma il mio è un atto di fede, non un atto di raziocinio. ‘ La solitudine non è malinconia. Un uomo solo è sempre in buona compagnia. ‘ Far l’amore con i nostri sentimenti è come farsi un bel vestito con dei ritagli. ‘ Non è vero che il destino entra alla cieca nella nostra vita. Io credo che entri dalla porta che noi stessi gli abbiamo spalancato. ‘ L’ignoranza è il surrogato della felicità. ‘ La vera fine del razzismo non è l’antirazzismo, ma l’eliminazione del problema. ‘ Ne ha ammazzati più la cultura che la bomba atomica. ‘ Non si è mai abbastanza coraggiosi da diventare vigliacchi definitivamente. ‘ Se un giorno noi cercassimo chi siamo veramente ho il sospetto che non troveremmo niente. ‘ Ci sono emozioni che non ci permettono di agire, ma lavorano dentro e c’illuminano, con una semplicità assoluta sull’inutilità della nostra vita. La nostra vita? Perché continuiamo a chiamarla così? Da quale parte l’abbiamo cercata una vita che sia nostra? ‘ La lotta per la libertà fa bene, la libertà fa malissimo. ‘ Le parole sono ormai quasi insignificanti, non ci si capisce quasi più. Un uomo non è mai assolutamente libero. La limitazione della sua libertà, che egli compie su se stesso, può costituire un valido campo di azione. L’uomo libero è una frase senza senso. ‘ Con gli anni si impara a disprezzare il mondo con più tranquillità. ‘ Ringraziamo la no-stra cattiva coscienza che ci fa vivere il falso proprio come fosse vero. ‘ Mi piace giocare seriamente e fare cose serie giocando.

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Autobiografia per parole e immagini

a cura di GUido harari

in collaborazione con la FondaZione GiorGio Gaber

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Autobiografia per parole e immagini

a cura di GUido harari

in collaborazione con la FondaZione GiorGio Gaber

GABERL’ILLOGICA UTOPIA

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Michele Ainis, Avventura Urbana Torino, Andrea Bajani, Bandanas, Gianni Barbacetto, Stefano Bartezzaghi, Oliviero Beha, Marco Belpoliti, Daniele Biacchessi, David Bidussa, Paolo Biondani, Nicola Biondo, Tito Boeri, Caterina Bonvicini, Beatrice Borromeo,Alessandra Bortolami, Giovanna Boursier, Dario Bressanini, Carla Buzza, Andrea Camilleri, Olindo Canali, Davide Carlucci, Luigi Carrozzo, Andrea Casalegno, Antonio Castaldo, Carla Castellacci, Massimo Cirri, Fernando Coratelli, Carlo Cornaglia, Roberto Corradi, Pino Corrias, Andrea Cortellessa, Riccardo Cremona, Gabriele D’Autilia, Vincenzo de Cecco, Luigi de Magistris, Andrea Di Caro, Franz Di Cioccio, Gianni Dragoni, Giovanni Fasanella, Davide Ferrario, Massimo Fini, Fondazione Fabrizio De André, Fondazione Giorgio Gaber, Goffredo Fofi, Giorgio Fornoni, Massimo Fubini, Milena Gabanelli,

Vania Lucia Gaito, Bruno Gambarotta, Andrea Garibaldi, Pietro Garibaldi, Claudio Gatti, Mario Gerevini, Gianluigi Gherzi, Salvatore Giannella, Francesco Giavazzi, Stefano Giovanardi, Franco Giustolisi, Didi Gnocchi, Peter Gomez, Beppe Grillo, Luigi Grimaldi, Dalbert Hallenstein, Guido Harari, Riccardo Iacona, Ferdinando Imposimato, Karenfilm, Giorgio Lauro, Alessandro Leogrande, Marco Lillo, Felice Lima, Stefania Limiti, Giuseppe Lo Bianco, Saverio Lodato, Carmelo Lopapa, Vittorio Malagutti, Antonella Mascali, Antonio Massari, Giorgio Meletti, Luca Mercalli, Lucia Millazzotto, Alain Minc, Angelo Miotto, Letizia Moizzi, Giorgio Morbello, Loretta Napoleoni, Natangelo, Alberto Nerazzini, Gianluigi Nuzzi, Raffaele Oriani, Sandro Orlando, Antonio Padellaro, Pietro Palladino, Gianfranco Pannone, David Pearson (graphic design),

Maria Perosino, Simone Perotti, Roberto Petrini, Renato Pezzini, Telmo Pievani, Paola Porciello, Mario Portanova, Marco Preve, Rosario Priore, Emanuela Provera, Sandro Provvisionato, Sigfrido Ranucci, Luca Rastello, Marco Revelli, Piero Ricca, Gianluigi Ricuperati, Sandra Rizza, Marco Rovelli, Claudio Sabelli Fioretti, Andrea Salerno, Giuseppe Salvaggiulo, Laura Salvai, Ferruccio Sansa, Evelina Santangelo, Michele Santoro, Roberto Saviano, Luciano Scalettari, Matteo Scanni, Roberto Scarpinato, Filippo Solibello, Riccardo Staglianò, Luca Steffenoni, theHand, Bruno Tinti, Marco Travaglio, Elena Valdini, Vauro, Concetto Vecchio, Carlo Zanda, Carlotta Zavattiero

Amici e autori di

© Chiarelettere editore srlSoci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol SpaLorenzo Fazio (direttore editoriale)Sandro ParenzoGuido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare Spa)Sede: via Melzi d’Eril, 44 - Milano

ISBN 978-88-6190-112-4

Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore.

Prima edizione: dicembre 2010

Finito di stamparenel mese di novembre 2010dalla MS Printing S.r.l., Milano

www.chiarelettere.itBLOG / INTERVISTE / LIBRI IN USCITA

Progetto grafico e ricerca iconografica:Guido Harari

Impaginazione:Anna Fossato

Fotolito: Publialba www.publialba.it

Esperite le pratiche per rintracciare i titolari dei diritti delle fotografie riprodotte, l'Editore si dichiara a disposizione di quanti avesseroa vantarne in proposito.

Ringraziamenti: Ombretta Colli e Dalia Gaberscik, Sandro Luporini,Fondazione Giorgio Gaber:

Paolo Dal Bon,Dolores Redaelli, Simone Rota,

Luigi Zoja, Giorgio Casellato, Claudio Sassi,Anna Fossato, Cristina Pelissero, Alberto Palladino,tutti i giornalisti, i fotografi e gli amici che hanno raccolto la voce e l'immagine di Gaber rendendo possibile questo libro.

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Michele Ainis, Avventura Urbana Torino, Andrea Bajani, Bandanas, Gianni Barbacetto, Stefano Bartezzaghi, Oliviero Beha, Marco Belpoliti, Daniele Biacchessi, David Bidussa, Paolo Biondani, Nicola Biondo, Tito Boeri, Caterina Bonvicini, Beatrice Borromeo,Alessandra Bortolami, Giovanna Boursier, Dario Bressanini, Carla Buzza, Andrea Camilleri, Olindo Canali, Davide Carlucci, Luigi Carrozzo, Andrea Casalegno, Antonio Castaldo, Carla Castellacci, Massimo Cirri, Fernando Coratelli, Carlo Cornaglia, Roberto Corradi, Pino Corrias, Andrea Cortellessa, Riccardo Cremona, Gabriele D’Autilia, Vincenzo de Cecco, Luigi de Magistris, Andrea Di Caro, Franz Di Cioccio, Gianni Dragoni, Giovanni Fasanella, Davide Ferrario, Massimo Fini, Fondazione Fabrizio De André, Fondazione Giorgio Gaber, Goffredo Fofi, Giorgio Fornoni, Massimo Fubini, Milena Gabanelli,

Vania Lucia Gaito, Bruno Gambarotta, Andrea Garibaldi, Pietro Garibaldi, Claudio Gatti, Mario Gerevini, Gianluigi Gherzi, Salvatore Giannella, Francesco Giavazzi, Stefano Giovanardi, Franco Giustolisi, Didi Gnocchi, Peter Gomez, Beppe Grillo, Luigi Grimaldi, Dalbert Hallenstein, Guido Harari, Riccardo Iacona, Ferdinando Imposimato, Karenfilm, Giorgio Lauro, Alessandro Leogrande, Marco Lillo, Felice Lima, Stefania Limiti, Giuseppe Lo Bianco, Saverio Lodato, Carmelo Lopapa, Vittorio Malagutti, Antonella Mascali, Antonio Massari, Giorgio Meletti, Luca Mercalli, Lucia Millazzotto, Alain Minc, Angelo Miotto, Letizia Moizzi, Giorgio Morbello, Loretta Napoleoni, Natangelo, Alberto Nerazzini, Gianluigi Nuzzi, Raffaele Oriani, Sandro Orlando, Antonio Padellaro, Pietro Palladino, Gianfranco Pannone, David Pearson (graphic design),

Maria Perosino, Simone Perotti, Roberto Petrini, Renato Pezzini, Telmo Pievani, Paola Porciello, Mario Portanova, Marco Preve, Rosario Priore, Emanuela Provera, Sandro Provvisionato, Sigfrido Ranucci, Luca Rastello, Marco Revelli, Piero Ricca, Gianluigi Ricuperati, Sandra Rizza, Marco Rovelli, Claudio Sabelli Fioretti, Andrea Salerno, Giuseppe Salvaggiulo, Laura Salvai, Ferruccio Sansa, Evelina Santangelo, Michele Santoro, Roberto Saviano, Luciano Scalettari, Matteo Scanni, Roberto Scarpinato, Filippo Solibello, Riccardo Staglianò, Luca Steffenoni, theHand, Bruno Tinti, Marco Travaglio, Elena Valdini, Vauro, Concetto Vecchio, Carlo Zanda, Carlotta Zavattiero

Amici e autori di

© Chiarelettere editore srlSoci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol SpaLorenzo Fazio (direttore editoriale)Sandro ParenzoGuido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare Spa)Sede: via Melzi d’Eril, 44 - Milano

ISBN 978-88-6190-112-4

Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore.

Prima edizione: dicembre 2010

Finito di stamparenel mese di novembre 2010dalla MS Printing S.r.l., Milano

www.chiarelettere.itBLOG / INTERVISTE / LIBRI IN USCITA

Progetto grafico e ricerca iconografica:Guido Harari

Impaginazione:Anna Fossato

Fotolito: Publialba www.publialba.it

Esperite le pratiche per rintracciare i titolari dei diritti delle fotografie riprodotte, l'Editore si dichiara a disposizione di quanti avesseroa vantarne in proposito.

Ringraziamenti: Ombretta Colli e Dalia Gaberscik, Sandro Luporini,Fondazione Giorgio Gaber:

Paolo Dal Bon,Dolores Redaelli, Simone Rota,

Luigi Zoja, Giorgio Casellato, Claudio Sassi,Anna Fossato, Cristina Pelissero, Alberto Palladino,tutti i giornalisti, i fotografi e gli amici che hanno raccolto la voce e l'immagine di Gaber rendendo possibile questo libro.

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QUeSTa “aUTobioGraFia” È STaTa ricoMPoSTa con un accurato editing di quasi cinquant’anni di interviste, registrazioni audio e video nonché documenti personali. Inevitabili alcune distonie temporali laddove un dato argomento viene ricostruito con frammenti di epoche diverse, senza tuttavia alterare il senso della narrazione. Allo stesso modo, per garantire fluidità e comprensibilità al testo, si è fatto il possibile per eliminare, o almeno ridurre, le ripetizioni nei casi in cui certe tematiche di Gaber e Luporini riverberano da un lavoro all’altro.

11 Una noTa di lUiGi ZoJa

13 inTrodUZione di GUido harari

via londonio 281939-1959

Mi chiaMo GiorGio Gaber oPPoSTi occhio cUore cervello vorTice rocK el raGiUnaT SchiZZo e il MolleGGiaTo MiracolaTi dal diSco il Tecla, brel e i rocKY MoUnTainS SaPeTe Be Bop A LuLA? doPo verdi, io! Jannone, naSone e Gli UrlaTori la TeSTa a PoSTo i dUe corSari l’elviS dei naviGli

l’adorno del GiaMbellino1960-1968

il GiorGio e la Maria chiTarra roSSa al bar del GiaMbellinola Parola canTaTa MarXiSTi addoMeSTicaTi oMbreTTa “bUSinaTe” e i raGaZZi della GreFFa anTindUSTriale della canZone Se PoTeSSi davvero canTare Si aPre PriMavera il lUPorini riTorno al Tecla londonio chiaMa GlUcK l’aMbUlanTe baTTiaTo SanreMo lUiGi l’aniMa dell’oriZZonTe io e… Giocando aGli anni TrenTa il PUbblico ha SeMPre raGione Pernacchia a GoGo Sai coM’È, no coM’È il brUSio

iMPeGnaTi e non So1969-1978

Una ForZa, Un volo, Un SoGno Mina reciTal G coMe Gaber, G coMe GenTe “vidal” e i borGheSi GriGi SeTTanTa ManGiare Un’idea Un Grido in cerca di Una bocca né inTelleTTUale né MiliTanTe né inQUadraTo il FiloSoFo iGnoranTe dalia il FebbroSario la cUlTUra È di SiniSTra Gli alTri denTro di Sé Gli alaMbicchi della raGione raZZa diSoSSaTa

io Se FoSSi Gaber1979-1989

STUdenTe a viTa naUFraGio UniverSale riTorno alla FlUoreScenZa il GiUllare e l’arTiSTa TroPPo Poco oblio MarianGela QUeSTione di MeTodo Gaber, lei È Un aUTocraTe Gaber-chic viSTo che dio non PoSSo eSSere… … vediaMo di eSSere alMeno Gaber baTTiTore libero vivere, non rieSco a vivere dileMMi di coPPia la FeriTa della Fede vieni aZione con i Piedi di PioMbo SPoSTaMenTi del cUore Un QUalUnQUiSTa Serio olTre il dUeMila non È Più bella la ciTTÀ aUTarchia da boTTeGa Tv SaPienS FUori dall’aneSTeSia Un dio che GUarda ToPiSMo l’iMPoTenZa della SoliTUdine

il lUoGo del PenSiero1990-1999

coMici di ProFeSSione il Goldoni leTTo a Una PiaZZa becKeTT dei naviGli diSGreGaTi oTTanTa coM’È TriSTe veneZia SUcceSSo e volGariTÀ l’eTÀ del rinGhio i caProni TUTTo da caPo la rabbia di Uno, la rabbia di TanTi vecchio roMPiballe il TeaTro di evocaZione lanTerna MaGica Gabbiani raTTraPPiTi SliTTaMenTi della Morale io Se FoSSi raP da borGheSi a Middle claSS Un UoMo SenZa iTalia nUovo TeaTro canZone reSiSTenZa e TraSGreSSione leGhiSMo eSTeTico Mi Fa Male il Mondo i veri barbari la SUPerSTiZione della deMocraZia Gli oGGeTTi al PoTere

Un FUTUro SenZa riMedio2000-2003

l’illoGica UToPia il declino della coScienZa SPerare SPeranZe inFondaTe la raZZa in eSTinZione ai conFini del Più nienTe TerZo Millennio Un SenSo di viTa e non di MorTe

e SoGno e rido e vivocronoloGia di GUido harari

e allora SUona chiTarradiScoGraFia a cUra di claUdio SaSSi

309 videoGraFia, i libri di GiorGio Gaber, biblioGraFia SeleZionaTa

310 FonTi biblioGraFiche

317 crediTi FoToGraFici

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QUeSTa “aUTobioGraFia” È STaTa ricoMPoSTa con un accurato editing di quasi cinquant’anni di interviste, registrazioni audio e video nonché documenti personali. Inevitabili alcune distonie temporali laddove un dato argomento viene ricostruito con frammenti di epoche diverse, senza tuttavia alterare il senso della narrazione. Allo stesso modo, per garantire fluidità e comprensibilità al testo, si è fatto il possibile per eliminare, o almeno ridurre, le ripetizioni nei casi in cui certe tematiche di Gaber e Luporini riverberano da un lavoro all’altro.

11 Una noTa di lUiGi ZoJa

13 inTrodUZione di GUido harari

via londonio 281939-1959

Mi chiaMo GiorGio Gaber oPPoSTi occhio cUore cervello vorTice rocK el raGiUnaT SchiZZo e il MolleGGiaTo MiracolaTi dal diSco il Tecla, brel e i rocKY MoUnTainS SaPeTe Be Bop A LuLA? doPo verdi, io! Jannone, naSone e Gli UrlaTori la TeSTa a PoSTo i dUe corSari l’elviS dei naviGli

l’adorno del GiaMbellino1960-1968

il GiorGio e la Maria chiTarra roSSa al bar del GiaMbellinola Parola canTaTa MarXiSTi addoMeSTicaTi oMbreTTa “bUSinaTe” e i raGaZZi della GreFFa anTindUSTriale della canZone Se PoTeSSi davvero canTare Si aPre PriMavera il lUPorini riTorno al Tecla londonio chiaMa GlUcK l’aMbUlanTe baTTiaTo SanreMo lUiGi l’aniMa dell’oriZZonTe io e… Giocando aGli anni TrenTa il PUbblico ha SeMPre raGione Pernacchia a GoGo Sai coM’È, no coM’È il brUSio

iMPeGnaTi e non So1969-1978

Una ForZa, Un volo, Un SoGno Mina reciTal G coMe Gaber, G coMe GenTe “vidal” e i borGheSi GriGi SeTTanTa ManGiare Un’idea Un Grido in cerca di Una bocca né inTelleTTUale né MiliTanTe né inQUadraTo il FiloSoFo iGnoranTe dalia il FebbroSario la cUlTUra È di SiniSTra Gli alTri denTro di Sé Gli alaMbicchi della raGione raZZa diSoSSaTa

io Se FoSSi Gaber1979-1989

STUdenTe a viTa naUFraGio UniverSale riTorno alla FlUoreScenZa il GiUllare e l’arTiSTa TroPPo Poco oblio MarianGela QUeSTione di MeTodo Gaber, lei È Un aUTocraTe Gaber-chic viSTo che dio non PoSSo eSSere… … vediaMo di eSSere alMeno Gaber baTTiTore libero vivere, non rieSco a vivere dileMMi di coPPia la FeriTa della Fede vieni aZione con i Piedi di PioMbo SPoSTaMenTi del cUore Un QUalUnQUiSTa Serio olTre il dUeMila non È Più bella la ciTTÀ aUTarchia da boTTeGa Tv SaPienS FUori dall’aneSTeSia Un dio che GUarda ToPiSMo l’iMPoTenZa della SoliTUdine

il lUoGo del PenSiero1990-1999

coMici di ProFeSSione il Goldoni leTTo a Una PiaZZa becKeTT dei naviGli diSGreGaTi oTTanTa coM’È TriSTe veneZia SUcceSSo e volGariTÀ l’eTÀ del rinGhio i caProni TUTTo da caPo la rabbia di Uno, la rabbia di TanTi vecchio roMPiballe il TeaTro di evocaZione lanTerna MaGica Gabbiani raTTraPPiTi SliTTaMenTi della Morale io Se FoSSi raP da borGheSi a Middle claSS Un UoMo SenZa iTalia nUovo TeaTro canZone reSiSTenZa e TraSGreSSione leGhiSMo eSTeTico Mi Fa Male il Mondo i veri barbari la SUPerSTiZione della deMocraZia Gli oGGeTTi al PoTere

Un FUTUro SenZa riMedio2000-2003

l’illoGica UToPia il declino della coScienZa SPerare SPeranZe inFondaTe la raZZa in eSTinZione ai conFini del Più nienTe TerZo Millennio Un SenSo di viTa e non di MorTe

e SoGno e rido e vivocronoloGia di GUido harari

e allora SUona chiTarradiScoGraFia a cUra di claUdio SaSSi

309 videoGraFia, i libri di GiorGio Gaber, biblioGraFia SeleZionaTa

310 FonTi biblioGraFiche

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Semina un pensiero e avrai un’azione,

semina un’azione e avrai un comportamento,

semina un comportamento e avrai un’abitudine,

semina un’abitudine e avrai un destino.

Antico proverbio orientale

non l’ho conoSciUTo. Sono incorso in un esilio – dal mio paese, dalla mia città, dai miei studi e soprattutto

dalla mia generazione, che erano tutti anche suoi – proprio quando Giorgio Gaber si cominciava a scrivere non più con

due G maiuscole, ma GIORGIO GABER, tutto maiuscolo. Sono tornato quando stava per diventare un ricordo. Non l’ho mai

visto. Gaber era un profeta: ben prima del computer e di Internet presentiva il rischio di ridurre gli uomini a presenze

virtuali. Per questo voleva essere visto e ascoltato, non riprodotto dalle macchine delle immagini e del suono. Non

avendolo visto, la sua luce mi è giunta riflessa: è stato per me una luna, non un sole. Ma non cambia molto, anzi, scher-

mare la luce diretta doveva essere un gesto che lui apprezzava. Il sole acceca chi lo guarda direttamente. Al sole canta-

no i fascisti; i poeti cantano alla luna.

Quando mi è stato chiesto di scrivere qualcosa su Gaber mi sono detto: perché lo domandano a uno psicoanalista? Si

sottintende forse che fosse un personaggio complicato, se non proprio patologico, almeno molto anomalo? Ho riletto i

suoi testi. Non trovo bizzarrie né eccentricità. La profondità dello sguardo, l’identificazione con sofferenze non appa-

riscenti sono intessute nel più sovversivo buon senso. Giorgio Gaber era ben più sensibile del suo contemporaneo me-

dio: era in anticipo sui tempi. Questo fatto così semplice lo ha lasciato spesso incompreso. Ciò che lo rendeva anomalo

era proprio l’esser ben più ragionevole, ben più coerente dell’italiano medio. Forse è stato un martire della ragionevo-

lezza, l’unica dea cui gli istinti gregari non si inchinano mai definitivamente. Il suo essere sano lo rendeva profonda-

mente partecipe del mondo in cui viveva, ma insieme scandalosamente estraneo a esso, errante in uno sconsolato cosmo-

politismo generazionale e spaziale, che non si riconosce nelle circostanze a lui assegnate dalla geografia e dal tempo.

Prima di uscire di scena ha fatto un inchino al pubblico dicendo: “La mia generazione ha perso”. Si è inchinato ancora

e ha aggiunto: “Io non mi sento italiano”. E come avrebbe potuto sentirsi completamente tale, visto che di radici era

triestino, cioè mitteleuropeo, e di cognome Gaberscik, cioè austroungarico? La malinconia non era il brontolio di una

vecchiaia frustrata, ma il telaio forte della sua riflessione. Ha naturalmente accompagnato le rivendicazioni degli anni

Settanta, che non giungevano certo troppo presto. La sua lirica non è stata, però, una compagna di strada di leader ag-

gressivi dalla stagione breve, ma una diaspora lucida e triste erede di Stefan Zweig e Joseph Roth. È stato cittadino

cosciente tanto di un’Europa antica – che sopravvive non negli Stati ma nella letteratura – quanto di quella del XXI

secolo, che conosceva in anticipo anche se non ha avuto il tempo di viverla.

lUiGi ZoJa

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Semina un pensiero e avrai un’azione,

semina un’azione e avrai un comportamento,

semina un comportamento e avrai un’abitudine,

semina un’abitudine e avrai un destino.

Antico proverbio orientale

non l’ho conoSciUTo. Sono incorso in un esilio – dal mio paese, dalla mia città, dai miei studi e soprattutto

dalla mia generazione, che erano tutti anche suoi – proprio quando Giorgio Gaber si cominciava a scrivere non più con

due G maiuscole, ma GIORGIO GABER, tutto maiuscolo. Sono tornato quando stava per diventare un ricordo. Non l’ho mai

visto. Gaber era un profeta: ben prima del computer e di Internet presentiva il rischio di ridurre gli uomini a presenze

virtuali. Per questo voleva essere visto e ascoltato, non riprodotto dalle macchine delle immagini e del suono. Non

avendolo visto, la sua luce mi è giunta riflessa: è stato per me una luna, non un sole. Ma non cambia molto, anzi, scher-

mare la luce diretta doveva essere un gesto che lui apprezzava. Il sole acceca chi lo guarda direttamente. Al sole canta-

no i fascisti; i poeti cantano alla luna.

Quando mi è stato chiesto di scrivere qualcosa su Gaber mi sono detto: perché lo domandano a uno psicoanalista? Si

sottintende forse che fosse un personaggio complicato, se non proprio patologico, almeno molto anomalo? Ho riletto i

suoi testi. Non trovo bizzarrie né eccentricità. La profondità dello sguardo, l’identificazione con sofferenze non appa-

riscenti sono intessute nel più sovversivo buon senso. Giorgio Gaber era ben più sensibile del suo contemporaneo me-

dio: era in anticipo sui tempi. Questo fatto così semplice lo ha lasciato spesso incompreso. Ciò che lo rendeva anomalo

era proprio l’esser ben più ragionevole, ben più coerente dell’italiano medio. Forse è stato un martire della ragionevo-

lezza, l’unica dea cui gli istinti gregari non si inchinano mai definitivamente. Il suo essere sano lo rendeva profonda-

mente partecipe del mondo in cui viveva, ma insieme scandalosamente estraneo a esso, errante in uno sconsolato cosmo-

politismo generazionale e spaziale, che non si riconosce nelle circostanze a lui assegnate dalla geografia e dal tempo.

Prima di uscire di scena ha fatto un inchino al pubblico dicendo: “La mia generazione ha perso”. Si è inchinato ancora

e ha aggiunto: “Io non mi sento italiano”. E come avrebbe potuto sentirsi completamente tale, visto che di radici era

triestino, cioè mitteleuropeo, e di cognome Gaberscik, cioè austroungarico? La malinconia non era il brontolio di una

vecchiaia frustrata, ma il telaio forte della sua riflessione. Ha naturalmente accompagnato le rivendicazioni degli anni

Settanta, che non giungevano certo troppo presto. La sua lirica non è stata, però, una compagna di strada di leader ag-

gressivi dalla stagione breve, ma una diaspora lucida e triste erede di Stefan Zweig e Joseph Roth. È stato cittadino

cosciente tanto di un’Europa antica – che sopravvive non negli Stati ma nella letteratura – quanto di quella del XXI

secolo, che conosceva in anticipo anche se non ha avuto il tempo di viverla.

lUiGi ZoJa

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c’È Un biSoGno Feroce della linGUa aFFilaTa di Gaber, della sua “disperata vitalità”, verrebbe

da dire citando Pasolini. Questo libro non vuol essere solo un’“autobiografi a”, ma anche una sorta di breviario irreli-

gioso per liberi pensatori. La viva voce di Gaber prende il largo in un caleidoscopio molto intimo di pensieri e parole

su cui soffi ano il vento di una morale di lotta, l’ansia di un’etica nuova, la ricerca frenetica di una “verità” per tutti.

Non c’è tempo per omeopatie cantautorali, per versi fi nemente cesellati. Il suo bisturi incide la realtà senza pietà né

esitazioni, interpellando l’uomo nella sua complessa totalità. Ipotizza, auspica, addirittura esige un neorinascimento,

un nuovo umanesimo. È questa “l’illogica utopia” calata nel qui e ora, vibrante di un “appassionato pessimismo” che

Gaber vorrebbe detonatore di uno slancio vitale e gioioso verso un futuro tutto da inventare.

Che si occupi dei borghesi, degli “impegnati” e dei “non so”, di renudi, gesuliberi ed erbivoglio, della massa, della

coppia, del sesso, della famiglia, della politica, della Chiesa, della droga, della velenosa fl uorescenza televisiva, della

nevrosi infantile dell’umanità, della dittatura del mercato, della vittoria degli oggetti, del pensiero unico o della morte,

Gaber, insieme all’amico siamese Luporini, coautore di tutti i suoi testi per più di trent’anni, individua le piaghe più

scoperte, riapre ferite mai rimarginate, fa saltare precarie suture di ipocrisia. Canta/parla in prima persona, come se

ogni esperienza fosse la sua (ed è davvero la sua), per artigliarla e illuminarla fi n nelle pieghe più riposte. Le sue pa-

role, come avrebbe detto Moravia, sono “dolore e lenimento insieme”.

Gaber è rinato mille volte – rock’n’roller della prima ora, cantautore confi denziale, conduttore televisivo, entertainer

mediatizzato, solitario e autarchico animale politico da palcoscenico, intellettuale fi eramente disallineato (“Sono un

uomo di sinistra. Non della sinistra”), sedicente “fi losofo ignorante”, artista totale – trascinando via via con sé un pub-

blico sorprendentemente capace di metabolizzare i suoi recital sempre meno cantati e sempre più parlati, quasi dei

confessionali in pubblico, sempre più incalzanti, fi no a feroci invettive come Io se fossi Dio o al funereo requiem di Qual-

cuno era comunista, fi no all’amara catarsi dei bilanci fi nali di La mia generazione ha perso e Io non mi sento italiano.

Del Gaber lanciato verso il Terzo millennio toglie il fi ato, ma non stupisce, l’ultimo grido disperato di sconfi tta e di

disgusto. È qui che l’utopia si fa davvero illogica, che la vitalità dell’artista, troppo invischiato negli sfaceli della sua

“razza in estinzione”, scala di marcia. I temi sono quelli di sempre, ma, nella sua lotta contro lo sviluppo senza pro-

gresso e lo scadimento delle coscienze, torna il chiodo fi sso dell’uomo che deve rinascere da dentro, dal “luogo del

pensiero”, e deve/può farlo da solo, magari attraverso una nuova mutazione antropologica.

A volte le idee si ammalano e, come le stelle, si spengono, così come le menti che le producono. Infezioni psichiche si

chiamano. Le domande antiche ma eterne di Gaber mettono a nudo le falle del progetto della modernità, rimanendo con-

fi ccate nelle metastasi di una società sempre più fatta di padroni e schiavi, scossa da crisi costruite a tavolino per

creare un stato costante di squilibrio psicologico, malata di bulimia consumistica secondo la massima per la quale “di

fronte a troppe scelte si ottiene un’apatia su larga scala”. Una società anche plasmata da un’informazione sempre più

asservita al regime e a un sistema educativo che crea nuove generazioni di puri soggetti fi scali, completamente igno-

ranti sulle lezioni del passato e sul signifi cato stesso della parola libertà.

Non c’è riduttivismo o ideologia che tenga. La diagnosi di Gaber non fa sconti: occorre guardare dritto e a lungo

nell’abisso, anche se e quando, come scrive Nietzsche, l’abisso vorrà guardare dentro di noi. Perché, avverte dal canto

suo Luigi Zoja, questa miseria culturale e spirituale rischia di farsi defi nitiva e diventare cultura di tutti. Insomma, i

barbari prossimi venturi siamo noi. Si può però ancora invertire rotta e tornare al luogo del pensiero, oppure non resta

che adattarsi alla prospettiva di un futuro senza rimedio. L’uomo non ha alternative: può solo ripartire da zero, sce-

gliendo di sottrarsi alla dittatura della stupidità. Oppure no. Un’ipotesi da mettere in conto.

GUido harari

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c’È Un biSoGno Feroce della linGUa aFFilaTa di Gaber, della sua “disperata vitalità”, verrebbe

da dire citando Pasolini. Questo libro non vuol essere solo un’“autobiografi a”, ma anche una sorta di breviario irreli-

gioso per liberi pensatori. La viva voce di Gaber prende il largo in un caleidoscopio molto intimo di pensieri e parole

su cui soffi ano il vento di una morale di lotta, l’ansia di un’etica nuova, la ricerca frenetica di una “verità” per tutti.

Non c’è tempo per omeopatie cantautorali, per versi fi nemente cesellati. Il suo bisturi incide la realtà senza pietà né

esitazioni, interpellando l’uomo nella sua complessa totalità. Ipotizza, auspica, addirittura esige un neorinascimento,

un nuovo umanesimo. È questa “l’illogica utopia” calata nel qui e ora, vibrante di un “appassionato pessimismo” che

Gaber vorrebbe detonatore di uno slancio vitale e gioioso verso un futuro tutto da inventare.

Che si occupi dei borghesi, degli “impegnati” e dei “non so”, di renudi, gesuliberi ed erbivoglio, della massa, della

coppia, del sesso, della famiglia, della politica, della Chiesa, della droga, della velenosa fl uorescenza televisiva, della

nevrosi infantile dell’umanità, della dittatura del mercato, della vittoria degli oggetti, del pensiero unico o della morte,

Gaber, insieme all’amico siamese Luporini, coautore di tutti i suoi testi per più di trent’anni, individua le piaghe più

scoperte, riapre ferite mai rimarginate, fa saltare precarie suture di ipocrisia. Canta/parla in prima persona, come se

ogni esperienza fosse la sua (ed è davvero la sua), per artigliarla e illuminarla fi n nelle pieghe più riposte. Le sue pa-

role, come avrebbe detto Moravia, sono “dolore e lenimento insieme”.

Gaber è rinato mille volte – rock’n’roller della prima ora, cantautore confi denziale, conduttore televisivo, entertainer

mediatizzato, solitario e autarchico animale politico da palcoscenico, intellettuale fi eramente disallineato (“Sono un

uomo di sinistra. Non della sinistra”), sedicente “fi losofo ignorante”, artista totale – trascinando via via con sé un pub-

blico sorprendentemente capace di metabolizzare i suoi recital sempre meno cantati e sempre più parlati, quasi dei

confessionali in pubblico, sempre più incalzanti, fi no a feroci invettive come Io se fossi Dio o al funereo requiem di Qual-

cuno era comunista, fi no all’amara catarsi dei bilanci fi nali di La mia generazione ha perso e Io non mi sento italiano.

Del Gaber lanciato verso il Terzo millennio toglie il fi ato, ma non stupisce, l’ultimo grido disperato di sconfi tta e di

disgusto. È qui che l’utopia si fa davvero illogica, che la vitalità dell’artista, troppo invischiato negli sfaceli della sua

“razza in estinzione”, scala di marcia. I temi sono quelli di sempre, ma, nella sua lotta contro lo sviluppo senza pro-

gresso e lo scadimento delle coscienze, torna il chiodo fi sso dell’uomo che deve rinascere da dentro, dal “luogo del

pensiero”, e deve/può farlo da solo, magari attraverso una nuova mutazione antropologica.

A volte le idee si ammalano e, come le stelle, si spengono, così come le menti che le producono. Infezioni psichiche si

chiamano. Le domande antiche ma eterne di Gaber mettono a nudo le falle del progetto della modernità, rimanendo con-

fi ccate nelle metastasi di una società sempre più fatta di padroni e schiavi, scossa da crisi costruite a tavolino per

creare un stato costante di squilibrio psicologico, malata di bulimia consumistica secondo la massima per la quale “di

fronte a troppe scelte si ottiene un’apatia su larga scala”. Una società anche plasmata da un’informazione sempre più

asservita al regime e a un sistema educativo che crea nuove generazioni di puri soggetti fi scali, completamente igno-

ranti sulle lezioni del passato e sul signifi cato stesso della parola libertà.

Non c’è riduttivismo o ideologia che tenga. La diagnosi di Gaber non fa sconti: occorre guardare dritto e a lungo

nell’abisso, anche se e quando, come scrive Nietzsche, l’abisso vorrà guardare dentro di noi. Perché, avverte dal canto

suo Luigi Zoja, questa miseria culturale e spirituale rischia di farsi defi nitiva e diventare cultura di tutti. Insomma, i

barbari prossimi venturi siamo noi. Si può però ancora invertire rotta e tornare al luogo del pensiero, oppure non resta

che adattarsi alla prospettiva di un futuro senza rimedio. L’uomo non ha alternative: può solo ripartire da zero, sce-

gliendo di sottrarsi alla dittatura della stupidità. Oppure no. Un’ipotesi da mettere in conto.

GUido harari

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Jannone, naSone e Gli UrlaTori Ciao… ti dirò era così avanti rispetto ai tempi da indurre Celentano a concedersi una pausa di riflessione. Eravamo folgorati dal rock’n’roll. Dico rock’n’roll perché quella musica arrivava dall’America, mentre il rock lo considero un genere più inglese. Distanti come eravamo dalle fonti storiche, avevamo preso questa musica in prestito, quasi con goliardia, sicuramente con gusto cabarettistico e una forte dose di autoironia. 94dp

Con Jannacci avevamo formato anche un duo, I Due Corsari. Cantavamo testi demenziali... sì, forse più che demenziali, eravamo solo dementi. Il testo di Una fetta di limone era di Umberto Simonetta. A fare questa roba, allora, un po’ ci si vergognava. Fino a un certo punto, però, perché non pensavo che avrei fatto questo di mestiere. 92rc

E poi, onestamente, per fare il rock ci vuole il fisico. Un fisico alla Springsteen per intenderci. 94dp

Io canto con voce impostata canzoni melodiche. Per il rock, invece, l’uso di una voce impostata è un errore. Gli urlatori piacciono ai giovani proprio perché, rispetto agli altri cantanti, hanno maggiore spontaneità. In una parola, assomigliano al loro pubblico. Il rock è un fenomeno più circoscritto: in Italia i cantanti di rock sono quattro, e urlatori sono indistin-tamente tutti coloro che cantano con forte emissione di voce. Non sono contrario alla cosiddetta canzone all’italiana. Sa-rebbe bello che proprio uno di noi giovani ricostruisse una tradizione che non esiste più. La canzone napoletana è troppo lontana nel tempo e occorre partire da cose più vicine, più attuali, come i modelli francesi e americani. Tutti potrebbero apprezzare il rock. Basta vincere certe prevenzioni.

Non mi offende affatto sentirmi chiamare urlatore. Forse la gente, ignara del significato di queste etichette, potrebbe pensare a una chiave dispregiativa, ma per noi vuol dire solo un modo di cantare basato sulla potenza della voce e non sempre su una voce impostata. 59im

non penso affatto che il rock discenda dal jazz, anche se qualcuno può affermarlo. non dobbiamo farci impres-sionare dalla forma: è la sostanza che conta. il rock al massimo può essere considerato musica popolare suonata e cantata con una certa veemenza. non è vero che io lo abbia abbandonato, e poi chi può dire quale sia veramente il mio genere? Scrivo e interpreto Una fetta di limone, d’accordo, ma scrivo anche Geneviève e Non arrossire, due canzoni sentimentali diametralmente opposte allo spirito canzonatorio e ironico, quasi cinico, di Una fetta di limone.Preferisco parlare dell’America, l’università della musica leggera. Pare che lì i giovanotti nascano con il bernoccolo della musica e delle canzoni. Sono facilitati da una lingua molto musicale, e poi negli Usa esistono autentiche scuole di canto moderno, come quella del maestro Carlo Menotti (nulla a che vedere con Giancarlo), istruttore di notissime “voci” quali Pat Boone, Frankie Avalon, Fabian, Joe Damiano e Julius La Rosa. E poi tutta l’organizzazione commerciale e editoriale funziona a meraviglia, garantendo una penetrazione totale nel mercato. In Italia siamo sulla strada giusta: è in atto una notevole e benefica evoluzione verso forme musicali più civili, moderne e oneste. 60gm

Noi cantautori italiani siamo meno preparati, certo, ma cerchiamo uno spunto, raccontiamo una storia, e la commentia-mo con una musica anche semplice, ma funzionale al racconto. Pochi di noi provengono da scuole di canto, ma alla gente questo interessa relativamente. Io per esempio ho una cadenza milanese, con la “o” aperta, ma questo non mi pare criti-cabile, anzi: è logico e giusto; dopotutto sono lombardo. Credo anche che la mia cadenza dia meno fastidio della parlata Gab

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Jannone, naSone e Gli UrlaTori Ciao… ti dirò era così avanti rispetto ai tempi da indurre Celentano a concedersi una pausa di riflessione. Eravamo folgorati dal rock’n’roll. Dico rock’n’roll perché quella musica arrivava dall’America, mentre il rock lo considero un genere più inglese. Distanti come eravamo dalle fonti storiche, avevamo preso questa musica in prestito, quasi con goliardia, sicuramente con gusto cabarettistico e una forte dose di autoironia. 94dp

Con Jannacci avevamo formato anche un duo, I Due Corsari. Cantavamo testi demenziali... sì, forse più che demenziali, eravamo solo dementi. Il testo di Una fetta di limone era di Umberto Simonetta. A fare questa roba, allora, un po’ ci si vergognava. Fino a un certo punto, però, perché non pensavo che avrei fatto questo di mestiere. 92rc

E poi, onestamente, per fare il rock ci vuole il fisico. Un fisico alla Springsteen per intenderci. 94dp

Io canto con voce impostata canzoni melodiche. Per il rock, invece, l’uso di una voce impostata è un errore. Gli urlatori piacciono ai giovani proprio perché, rispetto agli altri cantanti, hanno maggiore spontaneità. In una parola, assomigliano al loro pubblico. Il rock è un fenomeno più circoscritto: in Italia i cantanti di rock sono quattro, e urlatori sono indistin-tamente tutti coloro che cantano con forte emissione di voce. Non sono contrario alla cosiddetta canzone all’italiana. Sa-rebbe bello che proprio uno di noi giovani ricostruisse una tradizione che non esiste più. La canzone napoletana è troppo lontana nel tempo e occorre partire da cose più vicine, più attuali, come i modelli francesi e americani. Tutti potrebbero apprezzare il rock. Basta vincere certe prevenzioni.

Non mi offende affatto sentirmi chiamare urlatore. Forse la gente, ignara del significato di queste etichette, potrebbe pensare a una chiave dispregiativa, ma per noi vuol dire solo un modo di cantare basato sulla potenza della voce e non sempre su una voce impostata. 59im

non penso affatto che il rock discenda dal jazz, anche se qualcuno può affermarlo. non dobbiamo farci impres-sionare dalla forma: è la sostanza che conta. il rock al massimo può essere considerato musica popolare suonata e cantata con una certa veemenza. non è vero che io lo abbia abbandonato, e poi chi può dire quale sia veramente il mio genere? Scrivo e interpreto Una fetta di limone, d’accordo, ma scrivo anche Geneviève e Non arrossire, due canzoni sentimentali diametralmente opposte allo spirito canzonatorio e ironico, quasi cinico, di Una fetta di limone.Preferisco parlare dell’America, l’università della musica leggera. Pare che lì i giovanotti nascano con il bernoccolo della musica e delle canzoni. Sono facilitati da una lingua molto musicale, e poi negli Usa esistono autentiche scuole di canto moderno, come quella del maestro Carlo Menotti (nulla a che vedere con Giancarlo), istruttore di notissime “voci” quali Pat Boone, Frankie Avalon, Fabian, Joe Damiano e Julius La Rosa. E poi tutta l’organizzazione commerciale e editoriale funziona a meraviglia, garantendo una penetrazione totale nel mercato. In Italia siamo sulla strada giusta: è in atto una notevole e benefica evoluzione verso forme musicali più civili, moderne e oneste. 60gm

Noi cantautori italiani siamo meno preparati, certo, ma cerchiamo uno spunto, raccontiamo una storia, e la commentia-mo con una musica anche semplice, ma funzionale al racconto. Pochi di noi provengono da scuole di canto, ma alla gente questo interessa relativamente. Io per esempio ho una cadenza milanese, con la “o” aperta, ma questo non mi pare criti-cabile, anzi: è logico e giusto; dopotutto sono lombardo. Credo anche che la mia cadenza dia meno fastidio della parlata G

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Page 22: Gaber Illogica Utopia

1960-1968

del GiaMbellinol’adorno

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del GiaMbellinol’adorno

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Quello che mi piace poco sono le etichette tipo “cantore di Milano”, “intellettuale della canzone”, persino “ulti-mo trovatore”, tutto perché, in queste due trasmissioni, ho presentato canzoni della tradizione popolare e legate spesso a temi milanesi. Ora, se c’è qualcosa che nuoce a un cantante è un’etichetta precisa che lo esclude dal tentare vie sempre nuove. 64dm

anTindUSTriale della canZone Se mi si chiede di au-todefinirmi, confesso di essere impreparato. Uno crede di sapere chissà cosa di se stesso e poi si trova improvvisa-mente di fronte all’impossibilità di elaborare in poche pa-role un concetto che dia un’idea di ciò che crede di essere. Provo ad azzardare uno slogan, di quelli che oggi vanno di moda, dicendo che sono un “antindustriale della can-zone”. Faccio le canzoni che mi piacciono, ecco tutto. Se poi hanno anche successo tanto meglio; se non ne hanno, pazienza. Ho cercato di non scendere a compromessi con le cosiddette esigenze commerciali, che poi non sono che un’invenzione degli uffici vendita. Credo che sia impossi-bile lavorare su commissione. Ho cominciato a suonare la chitarra perché mi divertiva. Poi ho cominciato a scrivere delle “canzoni”, non dei “successi”, una bella differenza.Sono diventato più sicuro di me, forse anche un po’ pre-suntuoso. Ora non penso più alla partita doppia come a un mezzo per vivere, ma sono rimasto abbastanza libero. Farò cose di poca importanza, ma almeno sono cose mie, mai scritte su ordinazione. Io un dilettante? Non mi offendo. Ritengo che questa definizione mi si addica perfettamente in quanto faccio davvero solo le cose che mi piacciono. Cerco di farle bene, senza preoccuparmi di essere dentro o fuori dalla moda.Se professionismo significa sacrificare le proprie idee al servizio delle ricerche di mercato, credo proprio di esser-ne lontano. Non rifiuto le esperienze passate, anche quelle che potrebbero farmi sorridere. Mi appartengono e sono state anche esse “vere”. 64gr

Sono convinto che quasi mai una canzo-ne possa tradursi in un fatto artistico, al massimo è un fatto di costume. Credo che sia per questo che i nostri maggiori scrit-tori si tengano lontani, o si avvicinino con circospezione alla canzone. 64gc

C’è un aspetto straordinario del mestiere di cantante o di cantautore. Una canzone ti nasce dentro a poco a poco. La perfezioni, la provi sulla chitarra, le cerchi le parole. Per giorni e giorni questa canzone resta un fatto tuo privato, personale, come un figlio. Quando è finita, la affidi alla macchina organizzativa della tua casa discografica e te ne dimentichi. Un giorno, un mese o un anno dopo, sei magari di passaggio a Palermo e da un altoparlante esce una cosa che riconosci. Ma quel che era tuo è diventato di tutti. È come un tradimento, o forse no. In altri mestieri questo non succede e le cose che fai continuano a restare tue. Chi scrive canzoni non possiede mai niente. 64vn

Mi piace molto la lettura, ma non credo che possa conside-rarsi un hobby. Sport non ne pratico e, in fatto di automo-bili, ho dei gusti abbastanza posati: alle fuoriserie prefe-risco decisamente macchine tranquille, forse più adatte a un padre di famiglia che a un divo della canzone. Giro in città con una Cinquecento e mi servo, per i lunghi viaggi, di una Citroën DS, un’auto molto riposante e spaziosa che mi consente di trasportare chitarre, amplificatori, appa-recchi di registrazione e tutta quell’altra mercanzia che oggi è indispensabile per esibirsi in pubblico. Mi capita

spesso, infatti, di fare le cosiddet-te “serate” in provincia e la cosa mi diverte abbastanza. L’ultima volta ho cantato per tre ore consecutive, no-nostante il mio contratto prevedesse un’esibizione di un’ora soltanto. Il proprietario del locale mi pregò a un certo punto di smettere perché teme-va che gli chiedessi un compenso mag-giore di quello pattuito. Lo rassicurai e continuai perché mi faceva piace-re ritrovarmi finalmente in mezzo al pubblico. 64pb

Ho molte serate e quasi tutte nel rag-gio di duecento chilometri, in modo da poter dormire a casa. l’idea di fare il cantante-commesso viaggia-tore, che parte con il pigiama fra gli spartiti, mi deprime. Il mio la-voro non deve stancarmi, altrimenti diventa routine, e viene a mancare l’entusiasmo, una delle componenti essenziali della professione di can-tante. 64po

Il Festival di Sanremo non avrebbe più ragione di esistere. È nato come un festival della canzone, e invece è degenerato in una guerra fredda fra case discografiche e la commissione stessa del Festival. È tutto un giro di interessi! Sono stati esclusi i cantanti che l’hanno reso popolare. L’invasione dei cantanti stranieri ha contribuito a rendere ibrida la manifestazione, an-che se ha dato un impulso al mercato discografico. È comprensibile che le case discografiche preferiscano invia-re al Festival i giovanissimi, ma se-condo me ci stava meglio un maggior numero di cantanti come Claudio Villa e Modugno. Adesso non si capisce più con quali criteri venga fatta la sele-zione dei cantanti. Ma non sono un personaggio da Sanremo, io. Ho par-tecipato a due edizioni, ma sono ben lieto di non avere quella preoccupa-zione quest’anno. Sanremo è diventa-to ormai come uno di quegli idoli che resistono quindici giorni o poco più.Si parla tanto di crisi discografica. È che la gente è arrivata a uno sta-to di saturazione. Da parte mia, ne-gli ultimi tempi non ho saputo creare dei successi notevoli. La colpa è anche mia: non so “battere” sulla stessa can-zone per mesi, ossessivamente, come fanno certi miei colleghi.

Milano, 1963. Sullo sfondo le leggendarie insegne luminose di piazza Duomo.

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Quello che mi piace poco sono le etichette tipo “cantore di Milano”, “intellettuale della canzone”, persino “ulti-mo trovatore”, tutto perché, in queste due trasmissioni, ho presentato canzoni della tradizione popolare e legate spesso a temi milanesi. Ora, se c’è qualcosa che nuoce a un cantante è un’etichetta precisa che lo esclude dal tentare vie sempre nuove. 64dm

anTindUSTriale della canZone Se mi si chiede di au-todefinirmi, confesso di essere impreparato. Uno crede di sapere chissà cosa di se stesso e poi si trova improvvisa-mente di fronte all’impossibilità di elaborare in poche pa-role un concetto che dia un’idea di ciò che crede di essere. Provo ad azzardare uno slogan, di quelli che oggi vanno di moda, dicendo che sono un “antindustriale della can-zone”. Faccio le canzoni che mi piacciono, ecco tutto. Se poi hanno anche successo tanto meglio; se non ne hanno, pazienza. Ho cercato di non scendere a compromessi con le cosiddette esigenze commerciali, che poi non sono che un’invenzione degli uffici vendita. Credo che sia impossi-bile lavorare su commissione. Ho cominciato a suonare la chitarra perché mi divertiva. Poi ho cominciato a scrivere delle “canzoni”, non dei “successi”, una bella differenza.Sono diventato più sicuro di me, forse anche un po’ pre-suntuoso. Ora non penso più alla partita doppia come a un mezzo per vivere, ma sono rimasto abbastanza libero. Farò cose di poca importanza, ma almeno sono cose mie, mai scritte su ordinazione. Io un dilettante? Non mi offendo. Ritengo che questa definizione mi si addica perfettamente in quanto faccio davvero solo le cose che mi piacciono. Cerco di farle bene, senza preoccuparmi di essere dentro o fuori dalla moda.Se professionismo significa sacrificare le proprie idee al servizio delle ricerche di mercato, credo proprio di esser-ne lontano. Non rifiuto le esperienze passate, anche quelle che potrebbero farmi sorridere. Mi appartengono e sono state anche esse “vere”. 64gr

Sono convinto che quasi mai una canzo-ne possa tradursi in un fatto artistico, al massimo è un fatto di costume. Credo che sia per questo che i nostri maggiori scrit-tori si tengano lontani, o si avvicinino con circospezione alla canzone. 64gc

C’è un aspetto straordinario del mestiere di cantante o di cantautore. Una canzone ti nasce dentro a poco a poco. La perfezioni, la provi sulla chitarra, le cerchi le parole. Per giorni e giorni questa canzone resta un fatto tuo privato, personale, come un figlio. Quando è finita, la affidi alla macchina organizzativa della tua casa discografica e te ne dimentichi. Un giorno, un mese o un anno dopo, sei magari di passaggio a Palermo e da un altoparlante esce una cosa che riconosci. Ma quel che era tuo è diventato di tutti. È come un tradimento, o forse no. In altri mestieri questo non succede e le cose che fai continuano a restare tue. Chi scrive canzoni non possiede mai niente. 64vn

Mi piace molto la lettura, ma non credo che possa conside-rarsi un hobby. Sport non ne pratico e, in fatto di automo-bili, ho dei gusti abbastanza posati: alle fuoriserie prefe-risco decisamente macchine tranquille, forse più adatte a un padre di famiglia che a un divo della canzone. Giro in città con una Cinquecento e mi servo, per i lunghi viaggi, di una Citroën DS, un’auto molto riposante e spaziosa che mi consente di trasportare chitarre, amplificatori, appa-recchi di registrazione e tutta quell’altra mercanzia che oggi è indispensabile per esibirsi in pubblico. Mi capita

spesso, infatti, di fare le cosiddet-te “serate” in provincia e la cosa mi diverte abbastanza. L’ultima volta ho cantato per tre ore consecutive, no-nostante il mio contratto prevedesse un’esibizione di un’ora soltanto. Il proprietario del locale mi pregò a un certo punto di smettere perché teme-va che gli chiedessi un compenso mag-giore di quello pattuito. Lo rassicurai e continuai perché mi faceva piace-re ritrovarmi finalmente in mezzo al pubblico. 64pb

Ho molte serate e quasi tutte nel rag-gio di duecento chilometri, in modo da poter dormire a casa. l’idea di fare il cantante-commesso viaggia-tore, che parte con il pigiama fra gli spartiti, mi deprime. Il mio la-voro non deve stancarmi, altrimenti diventa routine, e viene a mancare l’entusiasmo, una delle componenti essenziali della professione di can-tante. 64po

Il Festival di Sanremo non avrebbe più ragione di esistere. È nato come un festival della canzone, e invece è degenerato in una guerra fredda fra case discografiche e la commissione stessa del Festival. È tutto un giro di interessi! Sono stati esclusi i cantanti che l’hanno reso popolare. L’invasione dei cantanti stranieri ha contribuito a rendere ibrida la manifestazione, an-che se ha dato un impulso al mercato discografico. È comprensibile che le case discografiche preferiscano invia-re al Festival i giovanissimi, ma se-condo me ci stava meglio un maggior numero di cantanti come Claudio Villa e Modugno. Adesso non si capisce più con quali criteri venga fatta la sele-zione dei cantanti. Ma non sono un personaggio da Sanremo, io. Ho par-tecipato a due edizioni, ma sono ben lieto di non avere quella preoccupa-zione quest’anno. Sanremo è diventa-to ormai come uno di quegli idoli che resistono quindici giorni o poco più.Si parla tanto di crisi discografica. È che la gente è arrivata a uno sta-to di saturazione. Da parte mia, ne-gli ultimi tempi non ho saputo creare dei successi notevoli. La colpa è anche mia: non so “battere” sulla stessa can-zone per mesi, ossessivamente, come fanno certi miei colleghi.

Milano, 1963. Sullo sfondo le leggendarie insegne luminose di piazza Duomo.

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SUona chiTarrae allora diSCograFia a Cura di Claudio SaSSi

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SUona chiTarrae allora diSCograFia a Cura di Claudio SaSSi

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ciao... ti diròCiao... ti dirò / Da te era bello restar / Love Me Forever / Be Bop A Lula 1958, EP Ricordi ERL 10.009

Ciao... ti dirò / Da te era bello restar 1958, 45 giri Ricordi SRL 10.010Copertina generica forata Ricordi. Ne esistono almeno tre edizioni che differiscono tra loro per la dimensione dei caratteri delle scritte sull’etichetta.

Love Me Forever / Be Bop A Lula 1958, 45 giri Ricordi SRL 10.011Copertina generica forata Ricordi.

hula hoopThe Hula Hoop Song / When /Oh bella bambina / Un po’ di luna 1959, EP Ricordi ERL 10.015

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Nairobi / Buonanotte tesoro 1959, 45 giri Ricordi SRL 10.023Copertina generica forata Ricordi.

Non dimenticar le mie parole / Dimmi chi sei 1959, 45 giri Ricordi SRL 10.024Copertina generica forata Ricordi.

nairobiNairobi / Buonanotte tesoro / Non dimenticar le mie parole / Dimmi chi sei 1959, EP Ricordi ERL 122

PriscillaPriscilla / Rhum e juke-box /Venus / Dream Big Giorgio Gaber e I Cavalieri1959, EP Ricordi ERL 129

When 1959, The Red Record P 003Disco flexi pubblicitario.

Priscilla / Rhum e juke-box 1959, 45 giri Ricordi SRL 10.036Giorgio Gaber e I CavalieriCopertina generica forata Ricordi.

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Canta / Bambolina 1959, 45 giri Ricordi SRL 10.046

Rock della solitudine / Vorrei sapere cos’hai cara 1959, 45 giri Ricordi SRL 10.065

Geneviève / Desidero te 1959, 45 giri Ricordi SRL 10.066

GenevièveGeneviève / Desidero te / Bambolina / Rock della solitudine 1959, EP Ricordi ERL 141

La tua storia / L’alfabeto del cielo 1959, 45 giri Ricordi SRL 10.092Copertina generica forata Ricordi.

Non arrossire / La ninfetta 1959, 45 giri Ricordi SRL 10.134Pubblicato con tre differenti copertine fotografiche.

diScoGraFia GiorGio Gaber

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ciao... ti diròCiao... ti dirò / Da te era bello restar / Love Me Forever / Be Bop A Lula 1958, EP Ricordi ERL 10.009

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diScoGraFia GiorGio Gaber

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Il mio maggior pregio è la facilità di adeguamento. Il peggior difetto? La facilità di adeguamento, appunto. ‘ Ci siamo abituati persino al delirio, alla follia quotidiana diventata normalità. Io l’accetto, ma avrei bisogno di un delirio ancora più intenso, che ab-bia un senso di vita e non di morte. ‘ Per me è sempre stato tempo di bilanci. Credo di averne fatti tutte le sere da quando sono al mondo. ‘ Ho necessità di qualcuno o qualcosa che non faccia addormentare i miei dubbi, che non mi faccia riposare sulle mie pre-sunte, comode poltrone. Ma mi faccia convivere con la vita. ‘ Non essere capiti è prova di genialità. Purtroppo questa sensazione svanisce quasi subito, compresa l’idea smisurata che avevamo di noi stessi. ‘ La nostra incertezza ci limita a odiare senza riuscire a centrare neppure il bersaglio del nostro odio. Anche di rabbia e di odio lasciamo troppi aborti in giro. ‘ Bisogna essere più pre-cisi nell’amore, nei gusti, nelle passioni e anche nell’odio, nella rabbia. ‘ Non è della rabbia che si vuole parlare, ma piuttosto del cuore. ‘ Tutto il mio percorso, alla fine, ha sempre salvato l’uomo. La sua coscienza. I suoi affetti. ‘ La bruttezza è psicosomatica. Te la fai da te, con le tue meschinità, con la tua cattiva coscienza. ‘ Non è il momento più adatto per parlare di idee: oggi sono talmente delicate e rarefatte che quasi non si avvertono. ‘ Anche l’uomo più mediocre diventa un genio se guarda il mondo con i suoi occhi. ‘ La mediocrità non va amata, la normalità va accettata. ‘ Essere eroi oggi significa opporsi al flusso, contrastare la direzione unica in cui mi sembra che vadano le cose. Combattere dall’interno la propria battaglia e non accettare tutto quello che viene acriticamente. ‘ La cultura di massa è una truffa, è sempre una speculazione. La vera cultura è solo individuale, frutto di una crescita faticosa. ‘ Io mi sento di coincidere poco con l’epoca in cui vivo. Sono autonomo rispetto a tutto, privilegio certi brusii sensibili che colgo in superficie, sento che il mondo si muove diversamente da come mi muovo io. Per questo continuo a fare quello che faccio. Ecco, se dovessi dire come mi sento e come vorrei sentirmi direi: fedele a me stesso. ‘ Oggi facciamo molto più finta di essere sani, perché sappiamo benissimo di essere folli. ‘ Nella vita non è poi tanto difficile diventare personaggi. È molto più dif-ficile diventare persone. Di questo mi occupo io. ‘ A una certa età ti si offrono molte possibilità. L’importante è saperle rifiutare. ‘ Ero e rimango un cane sciolto, scioltissimo. Uno dei tanti. Ormai siamo il terzo partito. Quelli che non ci credono e non votano, intendo. ‘ Io sono un vecchio borghese. Anarchico, però. ‘ Il Sessantotto l’ho vissuto in termini esistenziali, come un’ansia di co-noscenza. Erano vere quelle domande dei figli ai padri, solo dopo sono diventate slogan. ‘ Una volta ho domandato a Sofri: “Ma tu ci credevi veramente nella rivoluzione?”. E lui: “Forse. Non ce lo siamo mai chiesti, o avevamo paura di chiedercelo”. ‘ Per me, è sem-pre stato impossibile scindere il privato dal pubblico. Un aspetto che la sinistra non ha mai accettato fino in fondo. ‘ Io non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me. ‘ Penso solo che la politica vada rifondata. Che termini il dilagare dei partiti e si ritorni a una responsabilità individuale. ‘ Il potere gli uomini lo cercano sulle cose, le donne sulle persone. ‘ A volte improvvisamente mi prende alla gola... come il soffocamento della stupidità altrui e provo un senso di nausea per i gesti dei miei simili. Non sempre questa nausea è disinteressata. ‘ Se abbiamo già sperimentato quanto faccia male una dittatura militare, non sappiamo ancora quanto pos-sa far male la dittatura della stupidità. ‘ Quando uno arriva alla mia età e guarda il mondo e il mondo non gli piace, non può tirarsi fuori. Siamo tutti responsabili. ‘ Credo che valga la pena vivere se ci s’impegna a morire un po’ meglio di come si è nati. Facendo un po’ di fatica per diventare un po’ più “persone”. ‘ Vorrei morire solo, il che significa morire avendo accanto tutta l’umanità.

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GA

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R “È bello quando parla Gaber”, canta Enzo Jan-nacci, l’amico corsaro di sempre, ricordando quanto il signor G, a quarant’anni esatti dalla sua prima apparizione sulla scena del Piccolo Teatro di Milano, rimanga, oltre che fine af-fabulatore e artista totale, una delle rare co-scienze civili del secondo Novecento italiano.

Questo libro non vuol essere solo l’“autobio-grafia” di Gaber, ma anche una sorta di bre-viario irreligioso per liberi pensatori. Nelle sue parole soffia il vento di una morale di lot-ta, insieme all’ansia di un’etica nuova e di un ritorno al luogo del pensiero. Immerso nel suo tempo, Gaber auspica, anzi esige un neorina-scimento, un nuovo umanesimo e, con esso, un individuo nuovo, fatto di privato e di politico. È questa “l’illogica utopia” del titolo, condita di un “appassionato pessimismo” che l’artista vorrebbe detonatore di uno slancio vitale e gioioso verso un futuro tutto da inventare.

La viva voce di Gaber guida il lettore in un lungo e appassionante viaggio, ricostruito at-traverso lo sterminato archivio della Fonda-zione Giorgio Gaber dei cui tesori viene qui presentata per la prima volta una corposa sintesi, con trascrizioni di materiali audio e video, interviste, manoscritti e testi spesso inediti, memorabilia, rare copertine di dischi e una messe di immagini tratte anche dagli archivi dei fotografi che più da vicino hanno seguito l’artista. Una cronologia dettagliata e una discografia completano questo volume fa-cendone un prezioso riferimento per chiunque voglia addentrarsi nel pensiero gaberiano.

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Perché invece di esibire la nostra moralina liberista e permissiva non abbiamo dato uno sguardo all’avanzata dello Sviluppo? Perché invece di parlare di buoni e di cattivi non abbiamo visto dove andava la Produzione? Perché non abbia-mo alzato un muro contro la mano invisibile del Mercato? Per-ché abbiamo ceduto all’allegria del consumo? Perché abbiamo spalancato la porta al superfluo? Perché gridavamo contro i padroni e compravamo i motorini ai figli? Perché non ab-biamo mai parlato di essenzialità? Perché non siamo riusciti a creare una razza diversa? Una razza che si ribellasse alla violenza dell’oggetto e alla mascherata della libertà? Liberi di fare tutto, di essere tutto, un tutto che è uguale a niente. Quale muro avete alzato contro il potere senza volto? Perché odiate per frustrazione e non per scelta? Perché vi accanite contro nemici imbecilli e superati? Perché spargete così male la rabbia che vi consuma? - GiorGio Gaber

GUido harari fotografo e giornalista musicale, ha firmato numerose copertine di dischi per artisti italiani e internazionali, da Claudio Baglioni a Vinicio Capossela, Paolo Conte, Pino Daniele, Gianna Nannini, Pavarotti, Vasco Rossi, a Kate Bush, Bob Dylan, Paul McCartney, Lou Reed e frank Zappa. È stato per vent’anni uno dei

fotografi personali di fabrizio De André, alla cui figura e opera ha dedicato tre libri a loro modo definitivi - fabrizio De André. E poi, il futuro (Mondadori 2001), fabrizio De André. Una goccia di splen-dore (Rizzoli 2007), fabrizio De André & PfM. Evaporati in una nuvola rock (con franz Di Cioccio, Chiarelettere 2008) - e una mostra personale, Sguardi randagi. Harari è anche uno dei curatori della

grande mostra multimediale dedicata al cantautore da Palazzo Du-cale, a Genova. Tra i suoi libri più recenti The Beat Goes On (con fernanda Pivano, Mondadori 2004), Vasco! (Edel 2006), Wall Of Sound (HRR 2007), Mia Martini. L’ultima occasione per vivere (con Menico Caroli, Tea 2009) e Chia. I guerrieri in San Domenico (HRR 2010).

www.guidoharari.com

FondaZione GiorGio Gaber Costituitasi come Associazione Culturale pochi mesi dopo la scomparsa dell’artista e poi, dal 2006, come fondazione con la presidenza di Paolo Dal Bon, ha tra gli obbiettivi principali quello di raccogliere tutta la docu-mentazione audio, video e fotografica disponibile su Gaber, oltre a tutti i testi editi e inediti, al fine di costruire un archivio completo e ufficiale da mettere a disposizione di quanti desiderino avvici-narsi e approfondire la sua opera; nonché di confrontarne la por-tata culturale e verificarne l’attualità di pensiero in un incessante dialogo a tutto campo con i rappresentanti del teatro, della musica d’autore, dello spettacolo e della cultura contemporanei.I progetti che hanno sinora contraddistinto l’operato della Asso-ciazione e sono stati poi recepiti, fatti propri e sviluppati ulte-riormente dalla fondazione Giorgio Gaber, sono il festival “Teatro Canzone”, la costituzione di un archivio digitale completo sull’arti-sta, e la realizzazione e promozione di diversi progetti divulgativi, soprattutto per i più giovani, con una serie di iniziative, incontri, spettacoli e progetti specifici rivolti alle scuole.

www.giorgiogaber.it

www.chiarelettere.it

ISBN 978-88-6190-112-4e 59,00

Se abbiamo già sperimentato quanto possa fare male una dittatura militare, non sappiamo ancora quanto possa fare male la dittatura della stupidità.- GiorGio Gaber

GABERL’iLLoGicA utopiA

Autobiografia per parole e immagini

a cura di GUido harari

in collaborazione con la FondaZione GiorGio Gaber