Utopia Novembre 2011

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U T O P I A Mobilitatevi, non basta indignarsi, bisogna impegnarsi per far cambiare il mondo. (continua a pagina 2) Ogni momento di crisi mette in discussione lo stato di cose vigente. Così è oggi, così è sempre stato. Agli inizi degli anni Trenta Hitler mise in discussione la democrazia di Weimar, indebolita dalla crisi del '29, e in tal modo stravinse le elezioni. Oggi, nel pieno di una crisi di simile gravità, tutto viene rimesso in discussione. Berlusconi è caduto e non è più il totem intoccabile della destra, quale è stato negli ultimi venti anni; la Lega torna ad attaccare con forza (e proprio nel centocinquantenario) il principio di unità nazionale; ampie fette di società mostrano sempre maggiore indifferenza per la classe politica tutta, la quale sembra non sappia più interpretare i sogni e i bisogni del Paese. E fette di società minori, ma pericolosamente in crescita, invocano misure estreme come l'uscita dall'euro e addirittura l'insolvibilità del debito pubblico. Situazioni analoghe si riscontrano negli altri Paesi europei maggiormente colpiti dalla crisi, i cosiddetti "PIGS", e ne hanno già fatto le spese i vari Zapatero, Papandreu, Socrates. Tutto viene rimesso in discussione dunque, persino gli uomini e le istituzioni più consolidate sono in crisi di legittimità. Il principio è giusto: se un sistema fallisce, e lo fa clamorosamente, bisogna cambiarlo, c'è qualcosa che non va. E' chiaro che siamo a un punto di svolta. Il problema è la direzione che le imprimeremo. Si può tornare indietro: sfiducia, paura, xenofobia, chiusura delle frontiere, autarchia e populismo, anticamera dell'autoritarismo. Ricorda troppo la già menzionata Germania del 1933, o l'Italia del 1922. Oppure si può andare avanti, con gli occhi bene aperti: Cultura, legalità, solidarietà sociale, crescita sostenibile, apertura e dialogo verso il mediterraneo e il mondo, salvaguardia della democrazia e della Costituzione. E soprattutto riforme, non tagli draconiani. La tentazione di buttar via tutto e tutti è molto forte, ma bisogna resisterle per salvare ciò che non è stato ancora contaminato dal marcio. Stiamo rischiando molte cose in questa fase. L'appartenenza all'euro, all'Europa che conta. Ma il vero pericolo è che ci sia un'involuzione. Un'involuzione non solo economica, ma soprattutto culturale e sociale, e quindi della democrazia. IL VERO PERICOLO Gianluca Scerri numero speciale

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"La fine di un'era?"

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U T O P I A“Mobilitatevi, non basta indignarsi, bisogna impegnarsi per far cambiare il mondo.”

Novembre - Dicembre 2011 Università di Catania

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Pietro Figuera

(continua a pagina 2)

Ogni momento di crisi mette in discussione lo statodi cose vigente. Così è oggi, così è sempre stato.Agli inizi degli anni Trenta Hitler mise indiscussione la democrazia di Weimar, indebolitadalla crisi del '29, e in tal modo stravinse leelezioni. Oggi, nel pieno di una crisi di similegravità, tutto viene rimesso in discussione.Berlusconi è caduto e non è più il totem intoccabiledella destra, quale è stato negli ultimi venti anni; laLega torna ad attaccare con forza (e proprio nelcentocinquantenario) il principio di unità nazionale;ampie fette di società mostrano sempre maggioreindifferenza per la classe politica tutta, la qualesembra non sappia più interpretare i sogni e ibisogni del Paese. E fette di società minori, mapericolosamente in crescita, invocano misureestreme come l'uscita dall'euro e addirittural'insolvibilità del debito pubblico. Situazionianaloghe si riscontrano negli altri Paesi europeimaggiormente colpiti dalla crisi, i cosiddetti"PIGS", e ne hanno già fatto le spese i variZapatero, Papandreu, Socrates.Tutto viene rimesso in discussione dunque, persinogli uomini e le istituzioni più consolidate sono incrisi di legittimità. Il principio è giusto: se unsistema fallisce, e lo fa clamorosamente, bisognacambiarlo, c'è qualcosa che non va. E' chiaro chesiamo a un punto di svolta. Il problema è ladirezione che le imprimeremo. Si può tornareindietro: sfiducia, paura, xenofobia, chiusura dellefrontiere, autarchia e populismo, anticameradell'autoritarismo. Ricorda troppo la già menzionataGermania del 1933, o l'Italia del 1922. Oppure sipuò andare avanti, con gli occhi bene aperti:Cultura, legalità, solidarietà sociale, crescitasostenibile, apertura e dialogo verso il mediterraneoe il mondo, salvaguardia della democrazia e dellaCostituzione. E soprattutto riforme, non taglidraconiani. La tentazione di buttar via tutto e tutti èmolto forte, ma bisogna resisterle per salvare ciòche non è stato ancora contaminato dal marcio.Stiamo rischiando molte cose in questa fase.L'appartenenza all'euro, all'Europa che conta. Ma ilvero pericolo è che ci sia un'involuzione.Un'involuzione non solo economica, ma soprattuttoculturale e sociale, e quindi della democrazia.

“L’Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i

miei orizzonti”.

E così ebbe inizio la storia della seconda Repubblica, che qualcuno

dice essersi conclusa qualche giorno addietro, con le dimissioni del

Presidente del Consiglio.

Sceso in campo dopo tangentopoli, il Cavaliere Berlusconi ha

saputo, grazie alla sua esperienza in campo televisivo, ammaliare il

popolo italiano, sempre sensibile a chi “ci sa fare”. Sorriso

smagliante, imprenditore che “si è fatto da solo”, sulla sessantina,

impeccabile nel portamento, Presidente del Milan, prima che del

Consiglio, nonché nuovo messia delle televisioni, il Cavaliere ha

rappresentato allo stesso tempo ciò che gli italiani erano e avrebbero

sempre voluto essere. Il sogno americano in Italia. L’ambizione.

IL VERO PERICOLO

Gianluca Scerrinumero speciale

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Il Cavaliere monta in sella per la prima volta con la vittoria,

non priva di alcuna turbolenza politica, alle elezioni del 1994:

pochi mesi di campagna elettorale bastano al cavaliere per

convincere gli italiani, tramite gadgets, spot, cartoni animati e

ritornelli, che lui sia la risposta giusta al terrore del

comunismo in Italia, dopo Tangentopoli. Una campagna

elettorale da 14 miliardi di lire sovrasta le voci, forse un po’

ingenue, che si appellavano all’ ineleggibilità di coloro che

“risultino vincolati con lo Stato [. . . ] per concessioni o

autorizzazioni amministrative di notevole entità economica”

(secondo l’articolo 10 della L.361 /57)”, e così il primo

governo Berlusconi è realtà nel 10 Maggio 1994.

Ma da lì a pochi mesi, il Cavaliere sarebbe stato disarcionato

dai suoi stessi alleati, della Lega Padana, rigorosi e ligi alle

leggi della Repubblica, che si rifiutavano di stare in coalizione

con un Premier che fosse“una persona anche gradevole e

simpatica, tanto più simpatica sapendo che tutto ciò che dice

non è vero”, e che essi stessi denunciavano non essere

colluso, ma essere direttamente appartenete alla Mafia. Il

conflitto d’ interessi esplodeva, anche in Padania, in maniera

distruttiva. La stessa Padania che, forse inconsapevole, era

accanto allo stesso Premier quando questo esprimeva piena e

totale solidarietà a dell’Utri, condannato a sette anni per”aver

SOLO frequentato dei mafiosi”, mentre, incredulo, Dell’Utri

stesso si chiedeva ancora “Cosa c’è, un posto in cui lei bussa

e dice: permette, qui ‘è la Mafia?chi è il direttore generale?

non esiste! ”.

Siamo ancora lontani dal “Contratto con gli italiani”, quando,

un po’ imbeccato, alla domanda del giornalista Mentana che

nel 1996 gli chiede “con quali idee e quali prospettive si

presenta Forza Italia alla seconda campagna elettorale, due

anni dopo”, il Cavaliere, titubante, risponde infatti: “ Io vorrei

parlarle di come si presenta Forza Italia, senza le idee e le

prospettive”. Il suo partito deve ancora sbocciare. Così come

la sicurezza del Cavaliere.

“Qui ho anche appreso la passione per la libertà”.

Sin dal 1983 infatti, prima della “discesa in campo” del

Cavaliere, i cittadini, avevano imparato anche loro che la

libertà fosse innanzi tutto quella di poter scegliere le soap

opera del pomeriggio e i varietà della sera. Dove la TV

pubblica non riusciva ancora a competere, i cittadini

scendevano in strada e protestavano contro l’oscuramento

delle TV del Cavaliere e per non pagare il canone della TV

pubblica. Dove il problema viene inspiegabilmente risolto,

per decreto legge, a favore del Cavaliere, dall’allora

Presidente del Consiglio Bettino Craxi, s’ insidia il dubbio.

Germoglia il futuro conflitto di interessi.

“Ma, per conflitto di interessi si intende, quando uno è lì, e fa

l’ interesse suo, contro l’ interesse di tutti. Se io, facendo

l’ interesse di tutti, faccio anche il mio, perché sono uno dei

tutti, questo non è conflitto d’ interesse”.

I cinque anni di opposizione dal 1996 al 2001 gli danno

certamente modo di divenire più spigliato, come si evince

dalla familiarità con cui il Cavaliere, rispondendo nel 2002 a

Martin Schulz, parlamentare europeo del PSE, che aveva

sollevato delle osservazioni in merito a delle posizioni tenute

dalla Lega Nord (in netta controtendenza alla Carta dei Diritti

Fondamentali dell’Unione Europea), nonché alle vicende

giuridiche del Cavaliere, indusse questo, da presidente di

turno dell'Unione europea, a proporre il tedesco per il ruolo di

Capò per un film prodotto da un produttore di sua

conoscenza.

Da qui cominciò a farsi conoscere per la sua giovialità e

voglia di divertire: fu sempre nel 2002 che venne ritratto, da

responsabile ad interim della Farnesina, con lo scaramantico

rito delle “corna”, mentre i fotografi si apprestavano a

scattare la foto ufficiale degli archivi per il vertice dei ministri

degli esteri, nel febbraio del 2002.

Famoso per le sue telefonate in diretta (perfino al processo di

Biscardi, nel 1 993) e per la sua avversione all’aria dei

tribunali, il Cavaliere si è sempre trovato più a suo agio tra

chitarre, platee inneggianti e canzoni d’amore.

Insomma, il Cavaliere ce l’ha sempre messa tutta per riportare

il modello “Milan-Mediaset” al governo dell’ Italia, ma è

sempre stato osteggiato da provvedimenti giudiziari (più di

2500 udienze) e improvvisi ripensamenti dei parlamentari,

avendo speso “più di 200 milioni di euro, tra consulenti e

giudici”…

“Ho troppa stima dell’ intelligenza degli italiani per pensare

che in giro possano esserci così tanti coglioni che possano

votare facendo il proprio disinteresse”.

Ma nel 2006, gli italiani una sbandata la presero, facendo

vincere “L’Unione” di Prodi. Nonostante il Cavaliere avesse

promesso l’eliminazione dell’ ici sulla prima casa e sulla tassa

sui rifiuti, gli italiani, lasciando fino all’ultimo il Cavaliere

nell’ incertezza, scelsero il Professor Prodi. Forse fu questo a

far capire al Cavaliere che era necessario galoppare verso

l’evoluzione della politica. In parallelo col progetto del centro

sinistra, col “Partito Democratico”, infatti, il Cavaliere, che

per la sua storia e sostanza di vita, non è mai stato secondo a

nessuno, fece nascere il “Partito del predellino”, meglio

conosciuto poi, grazie alla libertà che il Cavaliere ha dato agli

elettori rispetto alla scelta del nome, come “Popolo della

libertà”. E fu con questo che vinse le elezioni del 2008,

probabilmente anche alle sue tecniche di seduzione, di cui si

fece più volte profeta in occasione di congressi e conferenze.

Forse il cavaliere ha sempre rappresentato quella soap opera

che gli italiani agguerriti in piazza cercavano di difendere con

le unghie e con i denti. Siamo proprio sicuri quindi, che siano

davvero disposti a cambiare canale?

ovvero il sogno americano di un Cavaliere tutto italiano(continua dalla prima pagina)

Gianluca Scerri

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Melania Cultraro

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E’ sabato. Il sabato di un intrepido autunno. Tutte le

televisioni trasmettono un'insolita notizia. Il Presidente del

Consiglio Silvio Berlusconi, dopo aver preso (finalmente)

atto della mancanza della sua maggioranza in Parlamento,

dichiara di voler destituire la carica per il bene del Paese.

Sembrano davvero passati anni luce da quando con orgoglio,

fino a pochissimi giorni fa, affermava di avere i “numeri”.

Numeri come pacchi, dove ai lati vi è riportata la scritta

“FRAGILE”. Qualcosa si è incredibilmente rotto, squarciato,

spaccato.

Stavolta a lacerare la famigerata tela di Penelope non è stato

un evento relativo a un nuovo decreto, non è stato un nuovo

processo a carico dell’uscente premier, non sono state le

piazze tempestate di studenti, ricercatori, precari, pensionati.

Stavolta lo schiaffo arriva da un signore distinto e altezzoso:

il mercato.La notizia presto viene divulgata da tutti i quotidiani

nazionali e internazionali. Accanto al nome Berlusconi non

mancano le correlazioni con la bufera di processi a suo

carico.

E’ lei la nemica che ha spodestato il re delle serate di Arcore:

la crisi. Quella crisi soffocata, sotterrata, murata dalle

televisioni e dai giornali. Eccola, è arrivata. E’ arrivata senza

bussare, senza chiedere permesso. Forse il nostro ex

Presidente è stato fin troppo impegnato nei processi a suo

carico sul caso Mills, sulla compravendita dei diritti

televisivi, sulla prostituzione minorile, sulla concussione

aggravata, sull’ inchiesta di Mediatrade, sull’ inchiesta di

Trani.

Questi quattro anni lasciano l’amaro in bocca. La domanda

che in molti si pongono è “perché?” Perché aspettare di

arrivare a delle situazioni eccessivamente allarmanti prima di

rendersi conto della situazione? Perché fingere di essere un

Paese dove tutto va a gonfie vele, nonostante tutte le potenze

europee si rendessero conto che ormai eravamo sul lastrico?

Perché non dichiarare a chiare lettere che al G20 si parlava di

crisi italiana mettendola quasi allo stesso piano della crisi

greca? Ma soprattutto perché aspettare il fatidico numero

308 prima di pronunciare la parola responsabilità?Ebbene la responsabilità del precedente Governo ci lascia

con un tasso di disoccupazione che risulta essere il più alto in

Europa; ci lascia con dei tagli alla sanità pari a 418 milioni di

euro; ci lascia con dei tagli alle Regioni di 4 miliardi l’anno,

ci lascia con la sottrazione di 31 miliardi di fondi destinati

per il mezzogiorno; con un ddl sul lavoro che contiene

norme sull’arbitrato che indebolisce o vanifica l’art. 1 8 dello

Statuto dei Lavoratori; ci lascia con dei tagli indiscriminati

alla ricerca di 8,4 miliardi; ci lascia con i problemi irrisolti

nella Campania, nell’Abruzzo in Sicilia, ci lascia con un

debito pubblico che ammonta a 1900 miliardi…E chi più ne

ha più ne metta. A questo punto la cosa più importante da

ribadire è che ci lascia!

Page 4: Utopia Novembre 2011

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La sera del 12 novembre Silvio Berlusconi dava le sue

dimissioni da Presidente del Consiglio uscendo dal retro del

Quirinale ed entrando – sempre dal retro- nella sua residenza

privata di Palazzo Grazioli: ecco come tramonta un leader!

Silvio Berlusconi, come un novello Charles Foster Kane, il

protagonista di quel Quarto Potere con cui Orson Welles

scrisse un’importante pagina del cinema americano, ci ricorda

che anche l’ascesa di uno statista prima o poi conosce, come

una circostanza ineluttabile, una discesa.

Ciò che è accaduto da quella data in poi è altra storia: il

sessantottenne economista Mario Monti (laureato a Yale dov’è

stato allievo di James Tobin, l’ inventore della Tobin tax),

uomo professionale, a volte rigido, liberista convinto, definito

nel 2000 dalla stampa statunitense come “l’uomo più potente

d’Europa”, già Presidente dell'Università Bocconi dal 1994,

Commissario Europeo per il Mercato Interno tra il 1 995 e il

1 999 nella Commissione Santer, Commissario Europeo per la

Concorrenza fino al 2004 (sotto la Commissione Prodi), il 1 6

novembre prende il posto di Silvio Berlusconi.

Mario Monti: la faccia nascosta dell’ Italia del bunga bunga.

Allo stato attuale delle cose il nuovo Presidente del Consiglio

dei ministri ha l’appoggio di oltre 500 dei 630 deputati.

Quella che fino ad ora sembra essere l’unica certezza assoluta

è che Mario Monti non ha intenzione di presiedere un

“governo a tempo”, bensì restare in carica fino

alla primavera del 2013, cioè fino alla fine

naturale della legislatura.

Come ha satiricamente e sarcasticamente detto

Luciana Littizzetto: <<I ministri di questo

nuovo governo mettono addirittura la mano

davanti la bocca quando starnutiscono!>>;

scherzi a parte, ma la citazione della comica ci

stava tutta, la sensazione è proprio quella che

con l’ insediamento di Mario Monti (o Super

Mario, come è stato più volte designato) il

savoir-faire sia pronto a dilagare in un governo

che, nella precedente stagione, ha visto solo il

paventarsi e prospettarsi di scandali sessuali e

processuali tra i più disparati.

<<Sugli uomini seri non c’è mai molto da

scrivere>>, aveva detto Mario Monti tempo fa

intervistato da Le Monde a proposito di Draghi;

di certo la stessa osservazione può essere fatta

nei suoi confronti. È sicuramente prematuro

parlare dell’operato del nuovo Presidente del

Consiglio ma le valide e promettenti premesse e promesse

sembrano esserci tutte.

Vale la pena soffermarsi sulla nuova squadra di governo (oltre

al Presidente del Consiglio nonché Ministro dell’Economia e

delle Finanza Mario Monti): l'ingegnere Francesco Profumo

per la Pubblica istruzione, l’economista Elsa Fornero come

Ministro del Welfare, la professoressa Anna Maria Cancellieri

come Ministro degli Interni, l’avvocato Giulio Terzi di

Sant’Agata come Ministro degli Esteri, la giurista Paola

Severino come Ministro della Giustizia, l’economista

Corrado Passera come Ministro dello Sviluppo Economico,

l’ammiraglio Giampaolo Di Paola come Ministro della

Difesa, il giurista Renato Balduzzi come Ministro della

salute, il professore Lorenzo Ornaghi come Ministro dei Beni

culturali e il professore Corrado Clini come Ministro

dell’Ambiente.

Conviene interrompere con le figure più rilevanti la casistica

dell’attuale formazione di governo, senza proseguire

oltremodo, perché ciò che conta è notare l’autorevolezza e la

competenza che condisce questa nuova pietanza governativa.

Work in progress dunque; non resta che attendere risultati, si

spera confortarti, sul lavoro che Mario Monti intenderà

eseguire da ora in avanti.

Federica Meli

Page 5: Utopia Novembre 2011

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Giorgia MusmeciDa mesi ormai i protagonisti dei gossip hanno ceduto il posto

in prima pagina alle Agenzie di Rating, principali figure del

mercato mondiale odierno. Molti ignorano la presenza delle

altre otto, ma nessuno può ignorare le "Big Three", i tre

principali pilastri del rating internazionale: Standard&Poor's,

Moody's e Fitch. Compito di queste vere e proprie "istituzioni

private" è quello di monitorare la solidità finanziaria e

l'affidabilità d'investimento degli enti pubblici e privati sotto

osservazione. Il giudizio viene espresso in una scala alfabetica

sulla base di complesse analisi economico-politiche, spaziando

dalla tripla A (indice del massimo grado di affidabilità) alla D,

o alla C secondo Moody's (status di completa inaffidabilità).

Apparentemente non viene scorta nessuna incongruenza fra il

lavoro svolto oggi da queste agenzie e gli obiettivi perseguiti

dalle stesse al momento della loro fondazione; del resto lo

stesso Henry Poor si battè in vita per obbligare le aziende a

rendere trasparenti i loro bilanci e John Moody pubblicò

addirittura un manuale di guida agli investimenti. Ricerca della

trasparenza. Eppure questo vetro trasparente inizia a diventare

sempre più opaco e gli arbitri obiettivi garanti dell'affidabilità

dei mercati si ritrovano ormai parte integrante del sistema che

avrebbero dovuto combattere. I consiglieri onesti e super-

partes della finanza sono oggi, difatti, i principali speculatori

del mercato mondiale. Come? L'ingrediente è semplice: una

subdola manipolazione del rating per favorirne la

speculazione. Così, oggi, insieme alla parola "Rating" vediamo

spesso accostati altri tre termini: Aggiottaggio, ossia omissione

di un determinato giudizio, mantenendo latenti fallimenti o

manovre riparatorie e preservando l'immagine dell'azienza

analizzata; Sovrastimazione, l'espressione di un giudizio

gonfiato rispetto alla condizione reale

dell'azienda, clamoroso fu il caso della catena di

Banche "Lehman Brothers" che ricevette un

rating molto positivo appena una settimana prima

di finire in bancarotta; Gioco a ribasso, cioè la

compravendita sul mercato finanziario di titoli a

prezzo molto più basso del normale, tenica

utilizzata per lucrare su molte situazioni di crisi,

comprese quelle affrontate dagli stati. Si, c'è

qualcuno che dalla crisi ci guadagna anzi,

paradossalmente, il mercato sopravvive oggi

cavalcando le crisi dei singoli stati. Senza

ricercare esempi altrove, basta ricordare la

declassazione operata ai danni dell'Italia,

giustificata dalla grave istabilità politica tradotta,

dal quotidiano la "Repubblica", con la celebre

metafora Dantesca della “nave senza nocchiere in

gran tempesta”. Tuttavia il nostro paese non

sembra l'unico soggetto privo di guida e di regole; abbassare il

rating di uno stato significa, infatti, per la finanza

internazionale, costringere quello stato ad entrare in crisi,

indebitandosi ancora di più per vendere titoli con interessi più

alti e prelevando i capitali da spendere dalle tasche dei

contribuenti e dai tagli sui servizi pubblici. Qui entrano in

scena le banche ed i CDS (Credit default swap), quasi delle

"assicurazioni" sulla casa di qualcun altro; le banche, cioè,

versano i soldi e assicurano la proprietà di terzi ma, al

momento di un incendio, ad esempio, intascano loro i soldi

dell'assicurazione, lasciando il proprietario a mani vuote. Se

sostituiamo la casa incendiata con un paese in crisi

l'associazione è semplice. La crisi non è dovuta alla mancanza

di ricchezza, ma alla sua distribuzione ed alla capacità di chi la

possiede (e non fa la sua parte), di convincerti che la tua torta

non c'è più e la fetta che ti spettava devi chiederla ai mercati.

Come uscirne allora? La politica europea ha risposto con la

nascita di un'unica agenzia di rating e con la creazione di un

"circuito di dati verificati", ma la domanda sorge spontanea:

Come si può ritenere imparziale un'unica agenzia creata e

controllata dagli stati? Emetterebbe mai giudizi negativi

contro essi? Chi certificherebbe i "dai verificati"?. . . . Insomma

chi controllerà i controllori? La risposta, a mio avviso, non sta

nei numeri, ma in una variabile che probabilmente l'occhio

pragmatico del rating non potrà mai cogliere o quantificare: la

determinazione e la speranza di quella parte di paese fatta di

donne e uomini, che, come hanno dimostrato in Islanda, è

capace di scendere in campo e difendere il proprio futuro da

quello spettro che, più del rating, sembra essere invece il

Conflitto d'interesse. E' possibile? E' necessario!

Page 6: Utopia Novembre 2011

Federica Meli

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La recente cattura e conseguente morte “in diretta” di

Mu’ammar Gheddafi, con tanto di immagini cruente e

sanguinose pubblicate su tutti i quotidiani, pone un

proverbiale interrogativo deontologico: è opportuno o

sconveniente “sbattere il mostro in prima pagina”?

Vedere un Gheddafi esanime, inerme, privato di quella

violenza e combattività, che tanto avevano affascinato

politici e non, dalla Sicilia in su (ogni riferimento è

casualmente voluto), ha un po’ impressionato; ma che

l’Italia avesse un dittatore, ormai gettato “in pasto ai leoni”,

come amico, socio in affari e alleato, impressiona molto più

del sangue.

Io personalmente, forse perché amo lasciarmi scandalizzare

o, al contrario, perché non sono affatto una moralista o

perché, peggio ancora, sono ormai assuefatta da tutta la

violenza che la tv propina, non censuro affatto quelle

immagini. Credo che in casi estremi ed eccezionali, come

quello appena citato, il perbenismo bacchettone della notizia

edulcorata debba farsi da parte, aprendo la strada alla

necessità imperante di informare e mettere a conoscenza il

popolo, su quanto sta avvenendo; di rendere, cioè,

testimonianza dei grandi risvolti, anche sociali e storici, di

un mondo che, nel bene o nel male, evolvendosi o

involvendosi, sta comunque cambiando. Il corpo di

Mussolini appeso il 29 aprile 1945 a Piazzale Loreto può

valere come esempio: il “non credo se non vedo” (e vedere

un corpo ucciso di un dittatore forse serve a chiarire a se

stessi e al mondo che una dittatura ha avuto fine, a credere

che la svolta si è finalmente compiuta) è una regola

universale che vale a maggior ragione a proposito del

giornalismo. Se un passo indietro bisogna compiere, allora

che sia per tutto: niente più immagini di bambini che

muoiono di fame e carestia, niente più immagini di guerra,

niente più video su militari (ahimè anche italiani;

ricordiamo il caso Quattrocchi che un istante prima di

morire disse: <<Adesso vi faccio vedere come muore un

italiano>>) che vengono sequestrati e magari, dopo le

ultime dichiarazioni, fucilati a sangue freddo. Quanto

inchiostro venne sprecato per stampare in un primissimo

piano, dal sapore quasi voyeuristico, il volto di Silvio

Berlusconi, subito dopo essere stato colpito dalla miniatura

del duomo di Milano? Avrebbe garantito lo stesso effetto

una descrizione scritta, seppur dettagliata e certosina, ma

solo scritta dell’accaduto? Non avremmo avuto alcun

impatto visivo.

Chi di noi, sfogliando le pagine di una qualunque rivista o

quotidiano non si sofferma innanzitutto sulle immagini,

siano esse fotografie o vignette o caricature, che vengono

presentate in allegato all’articolo? Paradossalmente (o forse

non proprio) è l’ immagine il pezzo forte di un articolo, è

essa che gioca un ruolo determinante, è essa che fa storia.

Ma se proprio non ne possiamo fare a meno, d’accordo,

spegniamo i riflettori così da contrapporre al “se non vedo,

non credo”, di poco fa, un più comodo “occhio non vede,

cuore non duole”, che almeno ci farà fare sogni più

tranquilli.

Page 7: Utopia Novembre 2011

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Pietro FigueraPer Israele si tratta di una "tragedia". Per Washington, è

"inaccettabile". No, nessun nuovo attentato ha scosso

ambasciate o stazioni metropolitane. Semplicemente,

l'Unesco ha ammesso tra i suoi membri lo stato palestinese.

Con una decisione storica, ma nel pieno rispetto delle regole

democratiche dell'organizzazione internazionale. Gli Stati

Uniti già minacciano il taglio dei finanziamenti per l'Unesco

(in virtù di una legge americana che prevede tale misura in

caso di assegnazione di seggi di agenzie ONU allo stato

palestinese! ). Israele avrà forse percepito la notizia in modo

più drammatico di un attentato, dato l'accerchiamento

politico e diplomatico che sta subendo negli ultimi mesi (i

cambi di rotta di Turchia ed Egitto pesano). Ma questo non

giustifica l'isterica, scomposta reazione del ministro

israeliano Lieberman, che con l'uso della parola "tragedia"

rivela di essere fuori dalla realtà, sicuramente da quella di

Gaza. Israele ha incassato il voto filo-palestinese dei BRICS

(Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) e di decine di Paesi

in via di sviluppo (in totale 107); sommando le astensioni

(52), è facile vedere che l'opposizione israeliana al seggio

palestinese ha riscosso ben poche simpatie. Lo stato ebraico

non può dunque consolarsi dell'appoggio americano (Obama

comunque ci perderà più di tutti), e di quello, tradizionale,

tedesco.

Ma nemmeno noi possiamo consolarci. La nostra linea,

infatti, è rimasta immobile in una fredda astensione nel voto.

Opportunità o ambiguità politica? Ricatto diplomatico?

Scarso interesse per la questione? Nulla di tutto ciò. A fugare

ogni dubbio ci ha pensato, puntuale, il portavoce della

Farnesina, Maurizio Massari: "L'Italia ha optato per

l'astensione in mancanza di una posizione coesa e unita

dell'Unione europea". Bene. Questo, in altre parole, vuol dire

che il nostro Paese manca ancora una volta di una benchè

minima e abbozzata linea strategica internazionale. In altre

circostanze, e con un altro governo, avremmo potuto credere

che tale dichiarazione rivelasse un sincero, benchè estremo,

europeismo. Ma eventi passati, che qui è superfluo ricordare,

smentiscono la tesi dell'europeismo per passione e

confermano quella dell'europeismo di facciata. Dietro la

maschera delle belle parole, si cela un inquietante vuoto

strategico e di idee. Frattini, con la sua espressione

sorridente, distesa, pacata, e con le foto delle sue imprese

sciistiche nel suo sito istituzionale, impersona al meglio il

buonismo e allo stesso tempo la superficialità e

l'inconsistenza della nostra politica estera. Fitta di amicizie e

di repentini voltafaccia, e perciò di inevitabili cinismi.

Troppo facile portare ad esempio il caso libico. Tornando

all'europeismo, mai siamo stati così lontani dall'Europa,

economicamente e politicamente, e allo stesso tempo mai ne

siamo stati così vicini, almeno nel dichiarato intento di

costruire una visione internazionale comune che non c'è

oggi, non c'era prima e difficilmente ci sarà mai, finchè

esisteranno gli stati nazionali.

Col recente cambio di governo, è lecito chiedersi se avverrà

un rinnovamento anche della nostra politica estera. Certo, la

nostra credibilità internazionale è già in via di

miglioramento. Ma le speranze di un profondo cambiamento

probabilmente verranno frustrate. Trattandosi di un governo

tecnico, instaurato per salvare il nostro Paese dalla crisi, le

questioni non strettamente economiche perderanno

inevitabilmente di rilievo. Monti si limiterà a mantenere gli

impegni assunti nel consesso internazionale, e delegherà al

suo successore il compito di impostare una nuova

geopolitica. Quindi potrebbero esserci anche due anni di

stallo. Ma le turbolenze del Mediterraneo (politiche a sud,

economiche a nord) cambiano gli scenari di mese in mese, e

noi rischiamo di rimanerne spiazzati. Il mondo non ci

aspetta.

A sinistra, lo sguardo lungimirante dell 'ex ministro degli Esteri Frattini .

In alto, i l neo-ministro Giul io Terzi di Sant'Agata, ex Ambasciatore

ital iano negli Usa.

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Elviana Palermo

<< Ho scritto questo libro “Indignatevi! ” per mettere fine

all’ indifferenza e allo scoraggiamento. Mobilitatevi, […] non

basta indignarsi […] bisogna impegnarsi per far cambiare il

mondo!>> sono queste le parole del soldato della resistenza

francese e autore del pamphlet “Indignez-vous! ” Stéphane

Hessel che con ogni probabilità hanno ispirato i movimenti

degli Indignados sviluppatisi in tutto il mondo.

Le dimostrazioni di piazza spagnole approdano ben presto in

Italia che viene piacevolmente contagiata dalla febbre della

rivoluzione non violenta. Nell’ultima decade di maggio 2011

si susseguono, nelle strade italiane, assemblee pubbliche ed

autoconvocate sorte dalla sinergia dei cittadini comuni con

l’ausilio dei social network, che diffondono notizie e

comunicazioni e fissano gli appuntamenti in piazza. Nei sit-

in, che spesso diventano presidi permanenti con piccoli

accampamenti di tende, soprattutto davanti luoghi emblemi

del potere politico e finanziario quali Montecitorio e Piazza

Affari, vi è un confronto incessante. Gli interlocutori sono

sempre i giovani preoccupati non solo per il proprio futuro

ma per l’ integrità dell’ intero mondo, sono gli anziani in ansia

per le nuove generazioni sempre meno tutelate, e sono anche

gli adulti, in particolar modo coloro che lavoro nell’ambito

dell’ istruzione, i più frustrati dalle politiche anticrisi.

<<Oggi stiamo facendo un esperimento di democrazia

reale!>> ecco cosa dice con entusiasmo la gente in piazza. Sì,

perché ritengono che la classe politica abbia fallito, che i

partiti non siano più in grado di dare risposte alle esigenze

dei cittadini, che il debito pubblico e la crisi siano stati creati

dalla collusione tra politica e banche e a questo rispondono

con uno slogan: “Noi la crisi non la paghiamo!”. Gli

Indignados italiani immaginano un’Europa diversa, senza

confini, non più soggiogata dalle esigenze di mercato e dalle

imposizioni finanziarie e bancarie, credono in un movimento

transnazionale in grado di coordinarsi.

Costanti e presenti anche se in numero non elevato, gli

Indignados italiani perseverano nelle loro

battaglie per mesi fino alla data mondiale del 1 5

ottobre durante la quale scendono in campo, unite

in unico lunghissimo corteo, tutte le forze che, a

volte apertamente ed altre volte sommessamente,

li hanno sostenuti. La giornata di mobilitazione è

caricata di un’enorme valenza, doveva essere la

dimostrazione che i cittadini liberi, indipendenti

ed uniti sotto i medesimi ideali sono capaci di

produrre il cambiamento che vogliono. L’appello

firmato da numerosissime sigle che fanno tutte

riferimento all’area politica di sinistra o centro-

sinistra contesta: la Commissione Europea, la Banca

Centrale Europea, il Fondo Monetario Internazionale, le

multinazionali e le agenzie di rating che ci impongono il

pareggio di bilancio, le privatizzazioni, i tagli alle spese, le

riduzioni dei servizi, la precarizzazione del lavoro e della

vita tutto in nome del pagamento del debito pubblico.

Contesta la richiesta della cosiddetta “Austerity” alla

popolazione mentre i politici e i grandi finanzieri si godono

indisturbati e non-tassati le loro rendite e loro immensi

patrimoni. I firmatari dell’appello ritengono che queste

soluzioni siano inique e sbagliate, che le norme anticrisi

stiano minando fortemente il lavoro e i suoi diritti, i

sindacati, il contratto nazionale, le pensioni, l’ istruzione, la

cultura, i beni comuni, il territorio, la società e le comunità,

tutti i diritti garantiti dalla nostra Costituzione. Pretendono la

redistribuzione radicale della ricchezza, vogliono che sia

ridotta la forbice tra ricchi e poveri e lo si può fare

cominciando dal taglio alle spese militari, attraverso al

costruzione di un nuovo modello di sviluppo che colga la

sfida della riconversione ecologica dell'economia e di uno

sviluppo sociale partecipato, basato sulla centralità dei saperi

e dell'innovazione, sulla giustizia sociale, sull’accoglienza e

la solidarietà.

La presenza delle numerose forze politiche e sindacali ha

sicuramente incrementato il numero dei partecipanti al corteo

ma, forse, ha anche parzialmente snaturato il movimento

dimostrando una frattura tra le assemblee autoconvocate in

piazza (che criticano contestualmente tutti i partiti) e la

manifestazione; il che ha permesso il tragico epilogo di cui

tutti siamo a conoscenza. Per la grande soddisfazione del

governo, e non solo, il movimento, schiacciato dal peso di

un’informazione dedita solo a divulgare notizie eclatanti e

meno propensa, invece, a diffondere contenuti, rivoluzioni di

coscienza e dimostrazioni non necessariamente clamorose,

sembra per ora sopito.

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Stare al passo con la tecnologia è diventata una tentazione

irresistibile per la maggior parte delle persone dei paesi più

avanzati: acquisti un telefonino e un attimo dopo esce un

nuovo modello che rende il primo obsoleto. Ma dopo aver

sostituito l’apparecchio, cosa fare con quello vecchio? Ecco

che in questo modo si innesca un meccanismo altamente

dannoso per l’ambiente: più passa il tempo e più rifiuti

tecnologici produciamo e, si calcola che ammontino a 40

milioni di tonnellate l’anno (una fila di camion lunga quanto

metà dell’ Equatore, per avere un’idea).

L’Italia ha il titolo di campione d’Europa (già leader

mondiale in questa imbarazzante classifica): secondo l’Istat

generiamo circa 850.000 tonnellate di RAEE (Rifiuti da

apparecchi elettrici ed elettronici) e solo il 7,9% dei nostri

rifiuti tecnologici vengono gestite e recuperate

correttamente, il resto finisce nelle normali discariche.

Dai RAEE è possibile recuperare singole componenti da

riavviare agli specifici processi di recupero e riciclaggio e

alla catena di riproduzione. Si recupera plastica, vetro,

metalli. Il processo di recupero di metalli preziosi (oro o

rame) comporta operazioni che si attuano con agenti

aggressivi, acidi che sciolgono i metalli inutili e portano a

galla quelli da riutilizzare. Si tratta di un lavoro sporco che,

secondo un dossier di Greenpeace, risulta portato avanti

dalle popolazioni delle zone più disagiate del pianeta su

commissione dei Paesi occidentali. L’associazione

ambientalista denuncia un vero e proprio dramma: nei

cantieri africani i rifiuti vengono trattati e bruciati a mani

nude e senza alcuna precauzione dai giovani lavoratori che

estraggono le parti metalliche; queste saranno

successivamente rivendute per circa 2 dollari ogni cinque

chili.

Ciò che accade è questo: i Paesi poveri (a partire dall’Africa

nera) vengono prima espropriati delle loro materie prime per

fabbricare la tecnologia usa e getta con cui si diletta il

mondo occidentale; poi vengono utilizzati come pattumiera

per i rifiuti pericolosi e ingombranti del cosiddetto “primo

mondo”.

Questi paesi hanno però trovato il modo per attuare una

“piccola” vendetta: pochi mesi fa la tv di Stato inglese, la

Bbc, ha narrato una storia curiosa ed interessante. Tra la

massa di vecchi apparecchi tv, computer, cellulari che gli

inglesi smaltiscono in Ghana e in Nigeria, succede che i

bambini africani, oltre a cercare componenti e metalli da

rivendere a pochi centesimi, trovino anche dati sensibili dei

vecchi proprietari (dati di carte di credito, conti correnti

bancari…) riposti negli hard disk dei vecchi pc. In questo

modo le informazioni acquisite, gestite da appositi hacker,

consentono di attuare qualche inaspettata truffa all’ ignaro

consumatore occidentale.

Se è vero che è difficile intervenire negli inganni e nelle

ingiustizie messe in atto dalle multinazionali nei confronti

delle popolazioni più deboli e svantaggiate, è anche vero che

nel proprio piccolo i diversi Stati possono fare molto per far

si che i rifiuti tecnologici siano gestiti e smaltiti in maniera

corretta.

Nel 2010, con il decreto ministeriale n. 65, sono state

introdotte alcune novità per i clienti e i venditori di

elettronica: chi deve cambiare un apparecchio, non dovrà più

portarlo a proprie spese all’ isola tecnologica, ma sarà ritirato

gratuitamente dal negozio dove si acquisterà quello nuovo.

Si tratta di passi avanti senza dubbio, ma la strada da

percorrere è ancora lunga; in Italia si registra una maggiore

sensibilità al riciclo nelle aree del nord mentre le regioni del

Sud si trovano in notevole ritardo rispetto alla media

nazionale. Tra le regioni meridionali più virtuose troviamo la

Calabria.

Claudia Cammarata

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Lo scorso 5 novembre, presso la Biblioteca Regionale

Giambattista Caruso, al Rettorato di piazza Università, è stato

presentato il libro ‘Vita di Goliarda Sapienza’ di Giovanna

Providenti, edito da Villaggio Maori, in occasione del primo

appuntamento con Descritto Festival dell’Editoria

Indipendente.

Figlia di Giuseppe Sapienza e Maria Giudice, Goliarda

crebbe, per volere dei genitori, in un clima di assoluta libertà

da vincoli sociali: il padre ritenne opportuno non farle

nemmeno frequentare la scuola, per evitare che la figlia fosse

soggetta a imposizioni e influenze fasciste. La madre è stata

la prima dirigente donna della Camera del Lavoro di Torino

ed è rimasta, insieme alla figlia, una delle icone della lotta

delle donne per le pari opportunità.

Goliarda Sapienza è stata raccontata sapientemente nel libro

di Giovanna Providenti, la quale ha voluto sottolineare la

componente femminile della scrittrice, il suo impegno nella

Resistenza e il coraggio di una continua guerra contro la

depressione. Dopo una giovanile esperienza presso

l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma,

Goliarda lasciò la carriera di attrice per dedicarsi alla

scrittura: verso la fine degli anni sessanta finì tuttavia in

carcere, per un furto di oggetti in casa di amiche. Uno dei

suoi romanzi più celebri, L'arte della gioia , rimase a lungo

inedito. Rifiutato dalle più importanti case editrici italiane, fu

più tardi pubblicato postumo da un piccolo editore che ne

aveva compreso il valore.

La ‘Vita di Goliarda Sapienza’ è un ritratto ben delineato

della scrittrice partigiana di San Berillo, la quale ha amato – è

stata legata sentimentalmente al regista Citto Maselli e in

seguito ad Angelo Pellegrino – ha sofferto e scritto del

dolore, per esorcizzarlo e farlo conoscere al mondo.

Alla presentazione del libro è seguita parte dello spettacolo

della regista Maria Arena , ‘Udite…udite…la storia di

Goliarda che fu scrittrice! ’ , accompagnata in metrica siciliana

dal cantastorie Luigi di Pino e l’attrice Lydia Giordano.

La 68esima Mostra del Cinema di Venezia, ha annoverato tra

i film presentati anche Terraferma, quarto lungometraggio

-dopo Once we were strangers, Respiro e Nuovomondo- di

Emanuele Crialese, regista romano dalle salde origini

siciliane.

Tematica protagonista del film "l'immigrazione clandestina",

che come soggetto cinematografico, trova sempre molto

riscontro nei paesi in cui è particolarmente sentita, come

l'Italia o la Francia.

Il protagonista della nuova opera di Crialese è Filippo

(Filippo Pucillo), un giovane che ha sempre vissuto su

un'isola al largo della costa siciliana. Timido e introverso,

orfano di padre, il ragazzo è cresciuto cullato dalla famiglia e

forgiato dall'esperienza marinara: un tipo semplice, per il

quale andare a pescare con la barca di famiglia rappresenta,

più che un metodo per buscare il pane, uno stile di vita. Ma i

tempi cambiano, e quella che una volta era una professione

dignitosa e redditizia, è ora afflitta da eccessiva concorrenza

e difficoltà burocratiche. “Quella barca vale di più a

demolirla che a portarla al largo” è la dura conclusione a cui

giungono sia la madre di Filippo, Giulietta (Donatella

Finocchiaro) che lo zio paterno, Nino (Giuseppe Fiorello),

per la disperazione di nonno Ernesto (Mimmo Cuticchio) e

nipote. I tempi cambiano, dicevamo, e bisogna adattarsi ad

essi: seguendo l'esempio di zio Nino, già affermato operatore

turistico e proprietario di un villaggio vacanze sulla spiaggia,

Filippo e la sua famiglia trasformano la loro abitazione in un

Bed & Breakfast, sperando in un futuro migliore ma non

senza rimpiangere il recente passato. Per Filippo, entrare in

contatto con alcuni suoi coetanei del nord in vacanza in

Sicilia sarà un'esperienza formativa, ma un barcone di

profughi, affondato sulla rotta del suo peschereccio,

cambierà per sempre la sua vita e lo porrà davanti a delle

scelte. . .

Valentina Oliveri

Simone Chisari

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NUOVO COORDINAMENTO NELL'UDU SCIENZE POLITICHE

I l 24 novembre, nel l 'aula E della Facoltà di Scienze Politiche di Catania, si è svolto i l quarto Congresso dell 'UdU di

Scienze Politiche, con il titolo "Libertà è Partecipazione". Presenti iscritti e simpatizzanti del sindacato, anche

provenienti da altre facoltà. I l dibattito si è concentrato sul l 'importanza della forma sindacale come strumento di

tutela degli interessi studenteschi, e sul rapporto corretto che il sindacato deve avere nei confronti degl i studenti.

I l luminanti , a tal proposito, le parole di Elvira Celardi, Consigl iere di Facoltà: "noi non siamo la voce della facoltà per

gl i studenti , ma la voce degli studenti per la facoltà". Partendo da quest'assunto, si può finalmente iniziare a vedere

la politica universitaria come un mezzo, e non più come un fine: visione purtroppo non condivisa da tutti coloro che

rappresentano, o dicono di rappresentare, gl i studenti. Negli interventi , moderati dal referente provvisorio Gianluca

Scerri, Giuseppe Campisi (Responsabile organizzativo d'Ateneo) ha posto l 'attenzione sul le dinamiche politiche

nazionali e le prospettive che si pongono di fronte al l 'Università, Elvira Adamo, nostro

componente dell 'Esecutivo Nazionale dell 'UdU, ci ha il lustrato gl i impegni e i successi

che il sindacato può vantare a livel lo nazionale, Fabio Tasinato, Coordinatore

d'Ateneo, ha incentrato la sua analisi sul l 'accrescimento, in questa fase storica, del

ruolo universitario nel la formazione culturale e lavorativa dei giovani. Non sono

mancati ringraziamenti al gruppo per i l lavoro svolto costantemente, come nelle

iniziative per la campagna referendaria di qualche mese fa (Claudia Cammarata), e

lodi da parte di chi, come Giorgia Musmeci, vede in questo gruppo un punto di

riferimento a livel lo universitario. Infine, Gianluca Scerri ha letto i l documento

congressuale in cui, traendo spunto dalle attività passate, si traccia un quadro

completo sul percorso che il gruppo intende intraprendere nel prossimo anno.

Nella votazione finale è stato eletto come nuovo Coordinatore Giovanni Timpanaro,

del secondo anno del corso di Storia e Scienza dell 'Amministrazione. Dell 'esecutivo

faranno parte anche Elvira Celardi (Responsabile per l 'organizzazione), Roberto

Fischetti , Ester Madonia, Francesco Vasta, Antonio Lo Giudice, Federica Giadone,

Francesco Bruno, Fabrizio Piro, Ivana Gambadoro e Stefano Rapisarda.

Giovanni Timpanaro, classe '89, giàdirettore di Radio Sunshine, è il nuovoCoordinatore UdU per Scienze Politiche

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Utopia - Stampato non periodico. Catania, dicembre 2011 . Stampatore: UDU Catania. Direttore: Pietro Figuera. Redazione: Via Crociferi 40, Catania

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Sempre più spesso le giovani generazioni affidano le

proprie aspirazioni lavorative agli stage, che

dovrebbero avere, per chi l i sperimenta, una valenza

formativa. Ma le imprese e gli enti che offrono questa

possibi l ità a molti giovani (1 7.000 in Sici l ia), non

sempre retribuiscono gli stagisti , e non sempre

rispettano i canoni di equità e di pari trattamento con

gli altri lavoratori.

I giovani sici l iani del la CGIL, assieme

all 'associazione "NON PIU'" Sici l ia, hanno creato una

proposta di legge regionale per migl iorare le

condizioni lavorative degli stagisti , e più in generale

per regolamentare lo strumento di formazione-lavoro

del tirocinio. L'obiettivo è quello di raggiungere

1 0.000 firme di cittadini sici l iani entro tre mesi, per

poi presentare la proposta di legge all 'ARS. A tal fine

si sono mobil itati i giovani del l 'Unione degli

Universitari (UdU), raccogliendo le firme necessarie

con dei banchetti nel la facoltà di Scienze Politiche e

in quella di Lettere nel complesso dei Benedettini , a

Catania. La raccolta, iniziata nelle settimane scorse,

proseguirà fino alla fine del 2011 nel l 'Ateneo

catanese e su tutto i l territorio.

I CONTENUTI DELLA PROPOSTA DI LEGGE

UNA LEGGE CONTRO LO SFRUTTAMENTO DEL LAVORO GIOVANILE