2020 Perché un’altra Utopia?

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L’incapacità del Manchester City di Guardiola, di superare lo scoglio dei quarti di Champions, raggiungendo quella semifinale che, ironia del destino, non bastò nel 2016 a salvare la panchina di Manuel Pellegrini, ha rimesso sul banco degli imputati il Pep, reo di non riuscire a raggiungere la vittoria nella coppa più am- bita, nonostante l’enorme mole di denaro che il club ha negli anni iniettato nel mer- cato per rinforzare la rosa. Guardiola è un personaggio che ha suscitato da un lato astiosa invi- dia (vuoi per i precoci successi da esordiente, alla guida di un Barca rivoluzionato rispetto a quello già vincente di Rijkaard, vuoi per l’enorme credito di cui ha goduto negli anni successivi, che si è sempre tradotto in farao- niche campagne acquisti nei club in cui è stato, senza però riuscire più a rivincere la coppa dalle grandi orecchie, e vuoi per un nemmeno tanto celato risenti- mento spesso nostrano per il cal- cio basato sul possesso palla e dall’altro assoluta venerazione (da parte dei media catalani ma anche di alcuni di casa nostra, gli innamorati del bel gioco, inca- paci spesso di cogliere le sfuma- ture tattiche che il vate di Santpedor, ha via via introdotto negli anni alla sua idea di calcio). L’obbligo di vincere in virtù delle vagonate di petrodollari spesi, che ha comunque portato al do- minio inglese scalfito solo quest’anno dal Liverpool, cozza con due aspetti da tenere in grande considerazione. In pri- mis, la costruzione di una rosa che nonostante i soldi spesi è re- lativamente giovane e presenta solo alcuni giocatori di compro- vata esperienza internazionale, come Agüero, De Bruyne, David Silva, Fernandinho, gli altri sono giocatori voluti e strapagati dai ci- tizens ma che sono arrivati a Man- chester senza un curriculum di vittorie, probabilmente per rispet- tare i voleri del catalano di avere a disposizione del materiale giovane da poter più facilmente plasmare sul piano tecnico-tat- tico, per rispondere alla ragion di stato della sua idea di calcio. I vari Ederson, Rodri, Cancelo, Gabriel Jesus, Sterling, per quanto ta- lentuosi non hanno una grande esperienza con le fasi finali della Champions League, e questo potrebbe aver inciso nella gestione dei momenti cruciali del match con il Lione, vedasi ad esempio, gli errori che hanno spianato la strada al secondo van- taggio di Dembélé, e che potreb- bero essere additati all’incapacità di reggere la pressione di partire favoriti, per un club che, è bene ri- cordarlo, non ha mai vinto la coppa dalle grandi orecchie nella sua ultracentenaria storia. Se- condo punto: solo il Chelsea (2012) ha vinto la Coppa per la prima volta negli ultimi 23 anni, a testimonianza del fatto che, al netto di ingenti investimenti sul piano economico, sia molto com- plicato vincere nell’Europa che conta se non l’hai mai fatto prima. A guardar bene il City, il solo Guardiola ha già trionfato in Champions, da giocatore prima, da allenatore poi, ma sempre nell’ambiente protetto di Barcel- lona, club che vanta una straordi- naria storia europea a differenza degli inglesi. Il City ha scelto Guardiola proprio per costruir- sene una, il che sembrerebbe ri- calcare la scelta fatta dai blaugrana nel 1971, quando an- cora a secco di vittorie in Coppa Partiamo da un presuppo- sto. L’Utopia, in sé, è già qual- cosa di irrealizzabile. Eppure rappresenta quella tensione quasi naturale, finanche ne- cessaria, verso la quale il reale tende. Seconda questione: quale reale? La nostra realtà Pep-City: perché in Europa non funziona 8 1 Campioni, a fronte delle sei già vinte dal Real, scelsero Rinus Michels, salito da poco alla ri- balta europea con il calcio totale del suo Ajax, come profeta di un nuovo corso. Nuovo corso che darà i suoi frutti solo una ventina di anni dopo, quando sarà Johan Cruijff, prima giocatore e poi al- lenatore blaugrana a portare la prima storica Coppa dei Cam- pioni al Camp Nou nel 1992. Testimonianza di come la co- struzione di una mentalità vin- cente che possa portare dei risultati anche in ambito conti- nentale, necessiti comunque di diverso tempo, nonostante una grande capacità economica e le idee di un tecnico che ha segnato nel bene e nel male, con il suo in- confondibile marchio, gli ultimi dieci anni della scena calcistica internazionale. Forse Guardiola ci riuscirà, ri- vedendo magari la fase difensiva che è stata una delle maggiori cause delle débâcle europee di questi anni. Resta il fatto che nella competizione in cui con- tano i dettagli, la forza dei singoli al servizio della squadra, l’espe- rienza del club e dei giocatori a vivere certi momenti e certe pressioni, il City e Guardiola hanno ancora tanto su cui lavo- rare, per ottenere quei risultati che spesso né i soldi e né il tra- pianto di un’idea di gioco che una realtà diversa garantiscono. Francesco Iaquinta @jacquesattack86 La prima “Utopia” Il riferimento è chiaro, anche solo nel nome. Pochi la ricor- deranno. Pochi l’avranno letta, o forse no… Che mi sbagli o meno, il ricordo di ciò che è stato annega nel tempo. Era il lontano 2006, anno dei mon- diali e della Juve in serie B, si festeggiavano i 250 anni dalla nascita di W. A. Mozart, ma la musica era un’altra. Si viveva la stagione finale di uno scoti- mento interiore: la prima ge- nerazione che discendeva direttamente da coloro che avevano vissuto i moti del ’68, il fermento culturale degli anni ’70 e ’80, i cantautori figli del “dio” Bob, le rivolte di miti moderni contro la mafia (Fal- cone e Borsellino, su tutti Pep- pino Impastato) serbavano in loro un residuo di incazzatura verso l’ordine costituito delle cose che, tuttavia, avrebbero perso di lì a poco! Si pensò di scrivere, scrivere su una carta gialla, quasi come se fosse consumata dal sole, ma ar- dente, come lo spirito che ci muoveva. Il tempo ha cambiato tante cose, ma non la voglia di pro- varci, di sperimentare, di rita- gliare uno spazio nuovo che possa darci, con spirito e con- sapevolezza diversi, voce e pa- rola, elementi essenziali di rivolta sociale, intellettuale e politica. (GD) Perché un’altra Utopia? Perché un’altra Utopia? di Giuseppe Donadio Hanno scritto per noi: Hanno scritto per noi: Scuola Ornella Gallo Ornella Gallo pag. 2 Sociale Massimo Maneggio Massimo Maneggio pag. 4 Cinema Pietro Lirangi Pietro Lirangi pag. 7 Sport Francesco Iaquinta Francesco Iaquinta pag. 8 Musica Samuele Donadio Samuele Donadio pag. 6 Attualità Brunella Imbrogno Brunella Imbrogno pag. 5 Beni Comuni Umile Fabbricatore Umile Fabbricatore pag. 3 (sociale, politica, culturale, sco- lastica, inclusiva) ha sempre prodotto risultati insoddisfa- centi, forse incompleti, decisa- mente avvilenti. Una costante, questa, non solo del nostro tempo, ma di ogni tempo sto- rico, o per lo meno occidentale. Continua a pag. 5 Bimestrale in attesa di registrazione editoriale Segretario di Edizione: Giuseppe Donadio Hanno collaborato: Ornella Gallo, Umile Daniel Fabbricatore, Massimo Maneggio, Brunella Imbrogno, Samuele Donadio, Pietro Lirangi, Francesco Iaquinta Vignette a cura di: Serena Paola Mazza (@seppokodo, pag. 1-5) e Paride Muzio ([email protected], pag. 1-4) Elaborazione grafica: Giada Lanzone Mail: [email protected] Seguiteci sulla nostra pagina Facebook. Ottobre - Novembre 2020 Anno 0 Numero 0 “La temperatura politica in Italia è di 17 gradi. A voler essere pre- cisi, 17 e un po'.” L'altra Utopia_Layout 1 19/09/2020 15:49 Pagina 1

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L’incapacità del ManchesterCity di Guardiola, di superare loscoglio dei quarti di Champions,raggiungendo quella semifinaleche, ironia del destino, non bastònel 2016 a salvare la panchina diManuel Pellegrini, ha rimessosul banco degli imputati il Pep,reo di non riuscire a raggiungerela vittoria nella coppa più am-bita, nonostantel’enorme mole didenaro che il clubha negli anniiniettato nel mer-cato per rinforzarela rosa.Guardiola è un

personaggio cheha suscitato da unlato astiosa invi-dia (vuoi per i precoci successida esordiente, alla guida di unBarca rivoluzionato rispetto aquello già vincente di Rijkaard,vuoi per l’enorme credito di cuiha goduto negli anni successivi,che si è sempre tradotto in farao-niche campagne acquisti nei clubin cui è stato, senza però riuscirepiù a rivincere la coppa dallegrandi orecchie, e vuoi per unnemmeno tanto celato risenti-mento spesso nostrano per il cal-cio basato sul possesso palla edall’altro assoluta venerazione(da parte dei media catalani maanche di alcuni di casa nostra, gliinnamorati del bel gioco, inca-paci spesso di cogliere le sfuma-ture tattiche che il vate diSantpedor, ha via via introdottonegli anni alla sua idea di calcio).L’obbligo di vincere in virtù dellevagonate di petrodollari spesi,che ha comunque portato al do-minio inglese scalfito soloquest’anno dal Liverpool, cozzacon due aspetti da tenere ingrande considerazione. In pri-mis, la costruzione di una rosache nonostante i soldi spesi è re-lativamente giovane e presentasolo alcuni giocatori di compro-

vata esperienza internazionale,come Agüero, De Bruyne, DavidSilva, Fernandinho, gli altri sonogiocatori voluti e strapagati dai ci-tizens ma che sono arrivati a Man-chester senza un curriculum divittorie, probabilmente per rispet-tare i voleri del catalano di avere adisposizione del materiale giovaneda poter più facilmente plasmare

sul piano tecnico-tat-tico, per risponderealla ragion di statodella sua idea di calcio. I vari Ederson, Rodri,

Cancelo, Gabriel Jesus,Sterling, per quanto ta-lentuosi non hannouna grande esperienzacon le fasi finali dellaChampions League, e

questo potrebbe aver inciso nellagestione dei momenti cruciali delmatch con il Lione, vedasi adesempio, gli errori che hannospianato la strada al secondo van-taggio di Dembélé, e che potreb-bero essere additati all’incapacitàdi reggere la pressione di partirefavoriti, per un club che, è bene ri-cordarlo, non ha mai vinto lacoppa dalle grandi orecchie nellasua ultracentenaria storia. Se-condo punto: solo il Chelsea(2012) ha vinto la Coppa per laprima volta negli ultimi 23 anni, atestimonianza del fatto che, alnetto di ingenti investimenti sulpiano economico, sia molto com-plicato vincere nell’Europa checonta se non l’hai mai fatto prima.A guardar bene il City, il soloGuardiola ha già trionfato inChampions, da giocatore prima,da allenatore poi, ma semprenell’ambiente protetto di Barcel-lona, club che vanta una straordi-naria storia europea a differenzadegli inglesi. Il City ha sceltoGuardiola proprio per costruir-sene una, il che sembrerebbe ri-calcare la scelta fatta daiblaugrana nel 1971, quando an-cora a secco di vittorie in Coppa

Partiamo da un presuppo-sto. L’Utopia, in sé, è già qual-cosa di irrealizzabile. Eppurerappresenta quella tensionequasi naturale, finanche ne-cessaria, verso la quale il realetende. Seconda questione:quale reale? La nostra realtà

Pep-City: perché in Europa non funziona

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Campioni, a fronte delle sei giàvinte dal Real, scelsero RinusMichels, salito da poco alla ri-balta europea con il calcio totaledel suo Ajax, come profeta di unnuovo corso. Nuovo corso chedarà i suoi frutti solo una ventinadi anni dopo, quando sarà JohanCruijff, prima giocatore e poi al-lenatore blaugrana a portare laprima storica Coppa dei Cam-pioni al Camp Nou nel 1992. Testimonianza di come la co-

struzione di una mentalità vin-cente che possa portare deirisultati anche in ambito conti-nentale, necessiti comunque didiverso tempo, nonostante unagrande capacità economica e leidee di un tecnico che ha segnatonel bene e nel male, con il suo in-confondibile marchio, gli ultimidieci anni della scena calcisticainternazionale. Forse Guardiola ci riuscirà, ri-

vedendo magari la fase difensivache è stata una delle maggioricause delle débâcle europee diquesti anni. Resta il fatto chenella competizione in cui con-tano i dettagli, la forza dei singolial servizio della squadra, l’espe-rienza del club e dei giocatori avivere certi momenti e certepressioni, il City e Guardiolahanno ancora tanto su cui lavo-rare, per ottenere quei risultatiche spesso né i soldi e né il tra-pianto di un’idea di gioco cheuna realtà diversa garantiscono.

Francesco Iaquinta@jacquesattack86

La prima “Utopia”Il riferimento è chiaro, anche

solo nel nome. Pochi la ricor-deranno. Pochi l’avranno letta,o forse no… Che mi sbagli omeno, il ricordo di ciò che èstato annega nel tempo. Era illontano 2006, anno dei mon-diali e della Juve in serie B, sifesteggiavano i 250 anni dallanascita di W. A. Mozart, ma lamusica era un’altra. Si vivevala stagione finale di uno scoti-mento interiore: la prima ge-nerazione che discendevadirettamente da coloro cheavevano vissuto i moti del ’68,il fermento culturale deglianni ’70 e ’80, i cantautori figlidel “dio” Bob, le rivolte di mitimoderni contro la mafia (Fal-cone e Borsellino, su tutti Pep-pino Impastato) serbavano inloro un residuo di incazzaturaverso l’ordine costituito dellecose che, tuttavia, avrebberoperso di lì a poco! Si pensò discrivere, scrivere su una cartagialla, quasi come se fosseconsumata dal sole, ma ar-dente, come lo spirito che cimuoveva. Il tempo ha cambiato tante

cose, ma non la voglia di pro-varci, di sperimentare, di rita-gliare uno spazio nuovo chepossa darci, con spirito e con-sapevolezza diversi, voce e pa-rola, elementi essenziali dirivolta sociale, intellettuale epolitica. (GD)

Perché un’altra Utopia? Perché un’altra Utopia? di Giuseppe Donadio

Hanno scritto per noi:Hanno scritto per noi:

ScuolaOrnella GalloOrnella Gallo

pag. 2

SocialeMassimo ManeggioMassimo Maneggio

pag. 4

CinemaPietro LirangiPietro Lirangi

pag. 7

SportFrancesco IaquintaFrancesco Iaquinta

pag. 8

MusicaSamuele DonadioSamuele Donadio

pag. 6

AttualitàBrunella ImbrognoBrunella Imbrogno

pag. 5

Beni ComuniUmile FabbricatoreUmile Fabbricatore

pag. 3

(sociale, politica, culturale, sco-lastica, inclusiva) ha sempreprodotto risultati insoddisfa-centi, forse incompleti, decisa-mente avvilenti. Una costante,questa, non solo del nostrotempo, ma di ogni tempo sto-rico, o per lo meno occidentale.

Continua a pag. 5

Bimestrale in attesa di registrazione editorialeSegretario di Edizione: Giuseppe DonadioHanno collaborato: Ornella Gallo, UmileDaniel Fabbricatore,Massimo Maneggio,Brunella Imbrogno, Samuele Donadio,Pietro Lirangi, Francesco IaquintaVignette a cura di: Serena Paola Mazza(@seppokodo, pag. 1-5) e Paride Muzio ([email protected], pag. 1-4)Elaborazione grafica: Giada LanzoneMail: [email protected] sulla nostra pagina Facebook.

Ottobre - Novembre2020

Anno 0 Numero 0

“La temperatura politica in Italia èdi 17 gradi. A voler essere pre-

cisi, 17 e un po'.”

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Nous essayons de nous entourerd’un maximum de certitudes, maisvivre, c’est naviguer dans une merd’incertitudes, à travers des îlots etdes archipels de certitudes sur le-squels on se ravitaille…

Edgar Morin

La chiusura della scuolacausata dall’emergenza Covidha contribuito ad amplificaree aggravare situazioni di anal-fabetismo funzionale, acuen-do differenze sociali eculturali già esistenti, ren-dendo più evidente la diso-mogeneità tra le diverse areedel Paese. La pandemia hasvelato un accesso alla Scuolanon uguale per tutti, facendoemergere in tutta la suadrammaticità il profondosolco esistente tra gli studentiitaliani. La rinuncia a pro-grammare un'apertura estivadelle scuole, per recuperare ilritardo accumulato, utiliz-zando la finestra temporale diclemenza del virus, è stato unatto di grave irresponsabilità. Ora che i muri delle aule

sono crollati e la co-presenzanello spazio è saltata, nono-stante strumenti che ci sem-bravano rivoluzionari come leLIM, ci si riscopre assai dise-guali dal punto di vista dellerisorse dei device e semi-anal-fabeta dal punto di vista in-formatico.

Per far sì che la Scuolapossa davvero ripartire,servono politiche sociali,scolastiche ed educative,una riflessione strategicadella didattica, non solonei tempi e negli spazima ancor più nell’orga-nizzazione. Andrà modi-ficato il concetto di aulaattraverso il coinvolgi-

mento di tutti gli stakeolders.Occorrerà riconoscere all'auto-nomia delle scuole la possibilitàdi adeguare l'orario delle le-zioni, ridurre il numero degliallievi in classe, immaginareforme di turnazione e accessodifferenziato, estendere la fre-quenza al pomeriggio, modifi-care il monte ore, utilizzare perla lezione anche altri spazi, in-clusi cortili e aree verdi. Alloraviene spontaneo chiedersi se,dopotutto, alla riapertura disettembre, la scuola saprà farsitrovare final-mente pronta!La verità è che,un Paese “mon-t e s s o r i a n o ”come il nostro,nei tempi dellap a n d e m i a ,avrebbe dovutodare priorità altema della formazione che, in-vece, continua a rimanere laCenerentola dei nodi cruciali acui un buon governo dovrebbepensare. Ma non c’è più tempoper i “sofismi” perché la minac-cia di un nuovo lockdown ci co-stringe ad agire! Così si spera diritornare in classe, anche secon i “monobanchi”, impostidal Covid-19 assieme al racca-pricciante neologismo che nedescrive la postazione sperdutanell’universo classe, senza quel

vicino, alleato o nemico,quello da cui abbiamo impa-rato ad essere solidali, oppurel’esclusione o il rifiuto. Banchispezzati in due che tolgono airagazzi anche il conforto delcompagno di banco, «Miovecchio amico di giorni e pen-sieri da quanto tempo che ciconosciamo… Le risate piùpazze...», cantava Guccini,«per Piero», una censura vio-lenta che spazza via ricordiprofondi. Ma noi questa scuola, co-

stretta a parlare linguaggi di-versi, che nonostante tuttocontinua a respirare Rodari eodorare di Malaguzzi, l’ab-biamo vissuta insieme a tanticolleghi e alunni, tra ostacolie diffidenze, l’abbiamo vistatentare di mescolare tecnolo-gie diverse, dal libro, al video,al podcast, l’abbiamo vista ri-manere sempre a galla, grazie

allo spirito diabnegazione didocenti volen-terosi! Ma, questa

scuola, questascuola fatta didistanze non èper tutti! E allora ti ri-

trovi ad indossare la masche-rina, nel perenne tentativo ditrovare un equilibrio tra la di-stanza sociale delle rime boc-cali imposta da decreto e lavicinanza emotiva, nel tenta-tivo di imparare a cucire ma-glioni di fiducia, perproteggere bambini, disabili,ragazzi a cui tanto è stato giàtolto.

Ornella Gallo@ornellaG10

C’era unavolta la fictionItaliana, unmondo fatto distar e starletteassunte nonper meriti edoti, ma pervoti, favori,amori clande-stini e conve-nienze varie(un po’ comeoggi…?). Boris andato in onda dal

2007 al 2010 e nel 2011 al ci-nema, ha dato la possibilità diosservare da vicino comeviene realizzato un prodottoseriale italiano. Il risultato èuna perfetta metafora dellapatetica situazione culturale esociale del nostro paese. Sulset de “Gli occhi del cuore”, lameta fiction all’interno di unametà serie, c’è incompetenza,inettitudine, volgarità, inca-pacità, corruzione, clericali-smo, disonestà, politica contentacoli soffocanti, beceroutilitarismo, sessismo, vio-lenza, pochezza spirituale esoprattutto onnipresenteignoranza. Senza dubbio lospecchio perfetto dell'Italia. Tutti i protagonisti di Boris

sono la rappresentazione di-vertentissima e drammaticadelle dinamiche di potere e di-lettantismo che muovono il"Bel paese", come Renè Fer-retti, il regista della fiction,che ci ha donato più frasi cita-bili nella vita quotidiana da“cagna maledetta” passandoper “a c**** di cane” fino adarrivare al “dai dai dai” primadi iniziare a girare. È un regi-sta che rappresenta un tipo dilavoratore ben presente in

Italia, cercadi fare un la-voro serio masi deve sotto-mettere alledirettive direte o allascarsa qualitàr e c i t a t i v adegli attori,per non di-m e n t i c a r eDuccio Pa-

tané il direttore della fotografiatossicodipendente in questatroupe bizzarra, impegnato adoccuparsi del suo pescherecciopiù che a pensare alla fotografiadurante le scene: parte deltempo è sdraiato sul divano o fauso di cocaina, unico suo verointeresse oltre al guadagno fa-cile. Senza poi dimenticare tuttigli altri per-sonaggi, in-terpretati dastraordinariattori. Boris è un

prodotto peraddetti ai la-vori che, nelgiro di undecennio, èd i v e n t a t oun’icona e un vero e propriocult del piccolo schermo. In-fatti, mai un serie tv italiana(nonostante siano passati quasidieci anni dall’ultimo ciak di“Boris - il Film”) ha visto au-mentare i numeri di pubblicoogni volta che viene rimandatain onda, facendo numeri sullapiattaforma di Netflix.Un fenomeno che ha creato

vari feticci, il passaparola ha in-crementato (lo so, non si do-vrebbe scrivere…) il numero deidownload non leciti. Nell’ul-

timo decennio in tanti hannochiesto a gran voce una quartastagione, un quarto capitoloche, dopo l’uscita del film,non viene confermato daglistessi autori Torre, Vendru-scolo e Ciarrapico affermandocome con la pellicola cinema-tografica si fosse chiuso il cer-chio. Negli ultimi anni, peròsono venuti a mancare Ro-berta Fiorentini (la straordi-naria Italia, segretariad’edizione alcolizzata) e Mat-tia Torre, uno degli autoridella serie. Proprio quandonessuno se lo aspettava, qual-che settimana fa in occasionedella presentazione del film“Piovono Mucche” al CinemaAmericano di Roma, LucaVendruscolo ha tolto ognidubbio: il principale ostacolo

per crearequalunqueu l t e r i o r ei n c a r n a -zione diBoris è chemanca altavolo unag a m b amolto im-portante .«Se riusci-

remo a fare una cosa di cuiavremo la sensazione cheMattia da lassù non ci sputi infaccia, lo realizzeremo,spero».E come direbbe il buon vec-

chio Renè Ferretti e “Dai DaiDai”, non ci resta che atten-dere….

Boris: tre serie, un film e la voglia perenne di cultScuola post-pandemia: che ne sarà di loro?

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Pietro Lirangiil meglio di Boris

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“Se hai il bisogno di chiedere cos’è il Jazz, non lo saprai mai” A dirlo è Louis Amstrong, un

cornettista, successivamentetrombettista ed anche cantante,che di jazz ne sapeva qualcosa.Approvo pienamente questa ci-tazione, d’altronde chi è cheascoltando questa strana mu-sica per la prima voltanella sua vita non si siadomandato con la facciastranita di cosa potessetrattarsi? C’è chi dice siaun genere difficile daascoltare; chi invece, apriori, essendo anche ein maggior parte musicastrumentale, lo abban-dona e lo classifica comeun qualcosa di alieno edincomprensibile; se a tutto que-sto si aggiunge, spesso, la man-canza di una voce che canti lamelodia, dando una sensazionedi spaesamento e disordine, sirischia, per i “pochi rimasti”, undisinteressamento totale det-tato da questo flusso di stra-nezza. Bisogna specificare chela musica presa in esame non èun genere, ma un linguaggio.Per tal ragione, come qualsiasitipo di linguaggio che creanuovi spazi e fa esistere a suomodo nuove e vecchie idee,esso, per essere compreso, ne-cessita di un “ascolto” non in-differente. Si parla di ascolto,infatti, poiché, come sappiamobene, tra sentire ed ascoltare c’èun’abissale differenza: spesso silasciano (s)fuggire, anchetroppo facilmente, delle occa-sioni che la vita ci dà in donoproprio poiché non ascoltiamoabbastanza e non prestiamo“attenzione” ai segnali che civengono posti dinanzi duranteil nostro cammino. Attenzioneche significa essere presenti lìdove si è in quel dato momento,significa guardare con interesseed ascoltare qualcuno a noi

caro, un CD di musica classica odi jazz, il canto di un usignoloche confonde il giorno con lanotte, avere una buona consape-volezza di sé. È solo mettendopienamente in discussione sestessi che si potrà, in un secondo

momento, ascoltare con pro-fondo ed autentico interesse chici si ritrova di fronte: lo stessovale per il jazz! La storia del jazzè piena di personalità uniche,tanto che, con il tempo e solodopo lunghi ascolti interessati, siriusciranno a riconoscere, anchesolo tramite l’ascolto di una sin-gola sola nota o fraseggio, coloroi quali stanno suonando, riu-scendo a distinguere e differen-ziare i vari musicisti in base alloro personale tipo di suono. Chiriesce a tirar fuori quella vitalità,quel flusso d’energia che ognunodi noi si ritrova dentro facendolocombaciare con tutto quello cheè al di fuori di noi, riesce a rag-giungere un modo di essere pro-prio, unico. Non è facile, nontutti riescono a raggiungere que-sti livelli; eppure la testimo-nianza più eclatante di taleprocesso è John Coltrane, ungrande GURU del jazz, che ci fasperare dandoci consapevolezzache solo lavorando su noi stessi esul nostro suono potremo, ungiorno, distinguerci dalla massa.Questo per quanto concerne il li-vello musicale, ma è innegabileche questa consapevolezza si

possa applicare alla vita in ge-nerale... Permettiamo alla no-stra musica, intesa come flussovitale, gioia, idee, sogni, diuscire fuori nella maniera piùsobria ed autentica possibile.Cerchiamo di distinguere la

“musica” dalla “veramusica”, ascoltiamolaattentamente, disve-lando, attraverso di essa,il mondo interiore diognuno di noi. Solo cosìscopriremo se qualcunoha veramente qualcosada dirci; riusciremo acapire quanto una mu-sica possa essere taroc-cata, ossia suonata

copiando idee di altri, senzapersonalità e gusto personale.Guardiamoci da quest’ultimepersone: ormai sembra chetutti suonino cosi la loro vita.Coloro che non riusciranno afare propria musica, che reste-ranno confinati nell’orticello al-trui, non potranno mai crederefino in fondo a ciò che stannoesprimendo e nulla di quelloche dicono o diranno potrà maidiventare reale. Diamo luce achi brilla di luce propria esuona musica propria! È unprocesso intenso e che richiedeun minimo di sforzo; ma, d’al-tronde, viviamo una vita sola,se oziamo anche in questa sa-remo noi i primi a cadere nel-l’oblio dell’ignoranza e dellasuperficialità. Ritorniamo allafatidica domanda: “Cos’è ilJazz?”. Impossibile dare una ri-sposta, ma si può sicuramenteaffermare che è un linguaggiolibero, che abbraccia tutti glistili e che si apre al diversosenza pregiudizi. Facciamoloanche noi, trasformiamoci innote e godiamo della buonamusica l’uno dell’altro.

Samuele Donadio

Il periodo estivo che stiamoper lasciarci alle spalle ha vistouna crisi idrica che ha interes-sato la maggior parte del terri-torio italiano, con drammaticheinterruzioni del servizio in ter-mini giornalieri e con conse-guente violazione del dirittodi accesso all’acqua. Spessoe volentieri i gestori del servizioindicano come causa dei disagile siccità riscontrate nell'arcodegli ultimi anni preventivandouna riduzione della fornitura,ma in realtà sarebbe a disposi-zione una quantità di acqua suf-ficiente a garantire il servizio sei sistemi di distribuzione funzio-nassero a dovere. Il problema ri-

siede infatti nellediffusissime per-dite nelle reti idri-che con un tassodi dispersioneche a livello na-zionale si ag-gira intorno al48% (pari a unvolume di acquache soddisferebbe le esigenzeidriche di circa 40 milioni dipersone per un intero anno), acausa del deterioramento dellastessa impiantistica. Attual-mente il ciclo idrico risultaframmentato, in genere con sog-getti privati che ne gestiscono leprime fasi (captazione e addu-zione-accumulo), e gli enti localiche hanno a carico la distribu-zione urbana e l’affido della ge-stione della depurazione, ma inassenza di formule di partecipa-zione popolare. Dunque, le com-petenze sono separate, conrimbalzo reciproco delle respon-sabilità e divergenze e rallenta-menti negli interventi.È bene ricordare che la ge-

stione dell'acqua è un businessaltamente redditizio, con ungiro di affari annuo stimato in-

torno ai 10 miliardi di euro, esenza rischio d'impresa. Anche sele reti di distribuzione sono diproprietà pubblica, la gestionedel servizio è regolata dalmercato, dunque indirizzata amassimizzare i profitti degli azio-nisti, senza i dovuti investimentinell'ammodernamento dell'infra-struttura idrica (demandandolaspesso al pubblico!), in un si-stema che genera profitti perpochi eletti e disservizi e tariffeinique per tutta la comunità. Nonostante i risultati referen-

dari del 2011 che abrogaronodemocraticamente le normeche privatizzavano i servizi

pubblici lo-cali, la legge diiniziativa popo-lare per la pub-blicizzazionedell’acqua de-positata in Par-lamento (2007)non fu mai di-scussa e succes-sive revisioni(2014) e (2018)

boicottate con gli emendamenti.Al contrario, è stato rilanciato ilprocesso di privatizzazione e rein-serito nella tariffazione il profittogarantito per i gestori così che gliutili del servizio idrico siano di-stribuiti agli azionisti anziché in-vestiti nella manutenzione dellereti e nel servizio stesso. L'articolo 43 della Costituzione

Italiana dispone che lo Stato può,per l'interesse generale, trasferiread enti pubblici, mediante espro-priazione, le imprese preposte aiservizi essenziali, dunque nell’at-tuale contesto la normativa legit-tima è quella che sancisca che ilservizio idrico locale sia pubblico,privo di rilevanza economica, sot-tratta ai meccanismi delle societàper azioni, e gestita a carattere so-ciale. Grazie agli utili delle tariffazioni

(che non finirebbero nelle ta-sche dei vari azionisti) e a unfondo apposito tramite la CassaDepositi e Prestiti si potrebbedunque emanare a livello nazio-nale un piano straordinariodi investimenti volto al-l’ammodernamento dellarete idrica (le uniche vere“grandi opere” che porterebberobeneficio ai territori!); e al fineconsentire una programma-zione condivisa con le popola-zioni, istituire a livello comunaleorgani di controllo e gestionedemocratica del servizio.Da ricordare, infine, che le Re-

gioni hanno autonomia norma-tiva in materia e garantendo idovuti finanziamenti potreb-bero aprire la strada alle realtàlocali. In Calabria, i piccoli egrandi Comuni dotati di sito dicaptazione potrebbero gestireautonomamente il servizio (siguardi al modello Saracena), equelli sprovvisti, superarel'ostacolo attraverso accordi traComuni. La formula ideale èquella dell’Azienda speciale, agestione comunale, che consen-tirebbe di avere meccanismi dicontrollo reale da parte dei cit-tadini su tutte le fasi del ciclo in-tegrato, dalla captazione alladepurazione, momento im-portante per la salvaguardiaambientale e della salute pub-blica. Un bene comune come l’ac-

qua, essenziale per la vitadell’Uomo, non dovrebbe es-sere sfruttato per il profitto dipochi ma gestito in manierapubblica e collettiva, realizzareun servizio sicuro in termini diquantità e qualità, per la salva-guardia dell'ambiente, della sa-lute e del patrimonio pubblico.

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Puntare sulla gestione pubblica del servizio idrico per l'interesse di tutti

Umile Daniel [email protected]

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Page 4: 2020 Perché un’altra Utopia?

Ri-Cambio generazionale: ne vale la pena?Tra gli adolescenti odierni e

chi, ormai, ha attraversato lafase scolastica non c’è una dif-ferenza abissale di età, bensìdi contenuti e di esperienzetecnologiche, che ci invec-chiano molto più del dovuto.Per capire una prima diffe-renza tra questi due mondisolo in apparenza vicini, pren-diamo una delle definizioniche usa Paolo Ferri nel suolibro “Nativi digitali”, perelencare gli adolescenti e ingenerale i bambini: «Si è af-fermata rapidamente unanuova “versione 2.0” dell’-homo sapiens: si tratta dei“nativi digitali”. I nativi sonodiversi da noi “figli di Guten-berg”. Sono nati in una societàmulti schermo e interagi-scono con molti di questischermi fin dalla più teneraetà». Questa è già una diffe-renza fon-damentaleper far ca-pire comeci troviamodi fronte auna gene-razione per lo più sconosciuta,con un nuovo modo di pen-sare e di approcciare la realtà,affidandosi con maggior forzaalla multimedialità per soddi-sfare ogni proprio bisognoumano e scolastico. I natividigitali, dunque, sono ibridi

tra la natura del loro essere e latecnologia, affidando il loropensiero spesso al virtuale, inmodo nomade e spesso sincre-tico. Basti vedere anche allamoltitudinedi mezzi aloro disposi-zione, con igenitori chefanno quasida apripistaalla loro voglia di tecnologia.Molti genitori, pur non avendostraordinarie competenze tec-nologiche, hanno in casa unpersonal computer, un lettoredvd, una televisione collegata alsatellite e un cellulare di ultimagenerazione. Parlando di ap-procci scolastici, invece, la tec-nologia aiuta moltissimo iragazzi di oggi: basti pensarealle classiche ricerche e, con unclick e qualche pagina web, si

possono sco-prire le gesta diNapoleone e lecaratteristichedi uno stato eu-ropeo. Cosa chequindici anni fa

appariva un sogno e un’utopia:il bambino doveva farsi accom-pagnare in biblioteca per unaricerca rigorosamente cartacea,mentre i genitori “sbruffavano”anche per il costo della benzina(soprattutto al Sud le distanzechilometriche “pesano”). Lo

stesso bambino, in alterna-tiva, se fornito già di un’effi-ciente libreria potevaaccedere alle classiche enci-clopedie, costate un occhio

della testae rimasteora un ci-melio deit e m p ipa s s a t i .Quando,

poi, una volta cresciuti ab-biamo abbracciato la tecnolo-gia, scopriamo che mezzicome i blog, la posta elettro-nica e i forum sono stati giàsuperati dai social network edall’immediatezza delle noti-zie: gli adolescenti odierniamano l’immediatezza e leg-gere soltanto poche linee,scandite da un linguaggio fre-sco e variopinto d’immagini.Non rimane, dunque, che “in-tegrarsi” ai nativi digitali, purvivendo una sorta di fase tran-sitoria tra il profumo dellacarta e il richiamo, sempre piùveloce, di una connessionealla rete. Dal locale al nazio-nale, passando per le diversefasi storiche che si avvicen-dano sui nostri libri di storia,percepiamo una “insoddisfa-zione” che di volta in volta èstata esorcizzata da pensatori,pensieri e pensanti.

Masman@massimomaneggio

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Continua dalla primaUna sorta di incantesimo

che attraversa religioni e filo-sofie, politiche e culture, conmodesti risultati. Perchéquella tensione al diverso, aciò che è diverso da ciò che è,non è mai stata elusa definiti-vamente. La realtà si mostrasempre insoddisfatta. Ed eccoallora che abbiamo bisogno diun concetto che tenga a badaquella pulsione delusa, che laammaestri, che la tenga so-pita. UTOPIA, la terra pro-messa di chi non trova riposonel suo tempo. Un sostitutoperfetto della realtà, nei casipiù lievi una tensione verso laquale tendere. Non appenal’uomo l’ha scoperto, tale con-cetto è diventato metà di pel-legrini e cultori, pronti a faredi tutto, persino dare la vita,per esso. Se ne contano tantinel corso della storia del pen-siero. Però il destino è bef-fardo, non si accontenta diuna sola vittima sacrificale (ilreale), ne pretende due, esigeanche l’altro, l’alternativa,l’orizzonte in divenire, l’Uto-pia. Ecco allora che quest’ul-tima crolla, si disintegra,rovina rumorosamente aterra. Bisogna prenderne atto:ogni Utopia, o presunta tale,ha miseramente fallito! Nascel’esigenza di una nuova Uto-pia, di un’altra Utopia, cheregga il peso del passato, sifaccia carico del presente e re-sponsabilizzi il futuro. Non(solo) un ideale al quale ten-dere, ma prospettiva chesmuova, con difficoltà, le co-scienze. Impresa ardua, inne-gabile che sia così. Ma vale lapena provare. Semplicementeper non aver, poi, il rimorso dinon averci neppure provato…

Giuseppe Donadio

Il genitore della fake news,che poteva essere o meno “tos-sica” nella mente della gente, èsenza dubbio la leggenda me-tropolitana. Con l’utilizzo diquesto termine si racchiudonoipotetici fatti normalmentepresentati come realmente ac-caduti, ma attribuiti quasi sem-pre a qualche altra persona: inItalia un incipit piuttosto co-mune è “mio cugino hadetto...”, come se fosse unaCassazione.Non bisogna però pensare

che le persone raccontano unaleggenda urbana necessaria-mente in malafede: esse sonospesso “vittime” del fenomeno,ovvero diventano agenti passiviche collaborano, involontaria-mente, alla diffusione della di-ceria di turno, raccontata inmaniera assai accurata, soprat-tutto nei contesti urbani dove siè abbastanza gnoccoloni. Spesso le persone che raccon-

tano tali storie sono davveroconvinte della veridicità diquanto affermato, proprio per-ché la na-tura stessadella leg-genda con-sente quasisempre unmargine dicredibilità,e non puòe s s e r esmen t i t aalmeno sulmomento.Le leg-

gende me-tropolitanesono vero-simili ma non vere, nate o dif-fuse grazie a persone cheinventano o raccontano fatti

spacciati per veri e credutitali, anche se spesso prividegli elementi fantastici e me-ravigliosi presenti nelle leg-gende popolari, utilicomunque a soddisfare il bi-sogno universale di storie, raf-forzando l'appartenenza a uncerto ambiente.Le leggende urbane possono

anche diventare uno stru-mento di discriminazione,quando attribuiscono, a que-sto o quel gruppo etnico, deifatti o dei comportamenti ine-sistenti: sui Rom, ormai, ab-biamo un’enciclopedia dileggende metropolitane.La nostra leggenda metro-

politana è che L’altra Utopiasia completamente finanziatadai partiti politici, riceve sov-venzioni statali e ogni collabo-ratore, per ogni pezzo, haavuto un lauto assegno poiversato presso un conto sviz-zero cifrato. Scommettiamoche qualcuno ci crede sulserio?

Brunella Imbrogno

Chi è il padre della Fake news?

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