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1 USCIRE DAL SILENZIO Questo piccolo dossier ha avuto come punto di partenza un lavoro svolto dalla classe in merito al silenzio come scelta che lasci spazio alla percezione e alla riflessione su di sé. Da qui è nata una osservazione sul silenzio come impotenza e il passo verso il silenzio imposto alle donne nel corso della storia. Il femminismo, come momento di sviluppo di alcune delle istanze del ’68 ha sicuramente significato per l’Italia il momento in cui questo silenzio è stato rotto in maniera sist ematica e intenzionale e un ruolo importante hanno avuto anche delle opere che sono diventate “libri culto” del femminismo; ed è partendo dalle parole di Virginia Woolf che è iniziato il percorso. La classe si è divisa in tre gruppi. Uno ha intrapreso la ricerca dei segni sempre più frequenti e consapevoli lasciati dalle donne nella letteratura. Un altro ha contrapposto al silenzio delle donne il discorso dell’uomo, delle immagini, spesso stereotipate, che ha lasciato dell’altro sesso, ma anche, in alcuni casi, della pressa di coscienza dei cambiamenti del ruolo e dell’importanza che le donne hanno assunto col tempo. Un terzo ha esaminato il tema dell’uso sessista della lingua. Prof.ssa Laura Rago

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USCIRE DAL SILENZIO

Questo piccolo dossier ha avuto come punto di partenza un lavoro svolto dalla classe in merito al

silenzio come scelta che lasci spazio alla percezione e alla riflessione su di sé.

Da qui è nata una osservazione sul silenzio come impotenza e il passo verso il silenzio imposto alle

donne nel corso della storia.

Il femminismo, come momento di sviluppo di alcune delle istanze del ’68 ha sicuramente

significato per l’Italia il momento in cui questo silenzio è stato rotto in maniera sistematica e

intenzionale e un ruolo importante hanno avuto anche delle opere che sono diventate “libri culto”

del femminismo; ed è partendo dalle parole di Virginia Woolf che è iniziato il percorso.

La classe si è divisa in tre gruppi. Uno ha intrapreso la ricerca dei segni sempre più frequenti e

consapevoli lasciati dalle donne nella letteratura.

Un altro ha contrapposto al silenzio delle donne il discorso dell’uomo, delle immagini, spesso

stereotipate, che ha lasciato dell’altro sesso, ma anche, in alcuni casi, della pressa di coscienza dei

cambiamenti del ruolo e dell’importanza che le donne hanno assunto col tempo.

Un terzo ha esaminato il tema dell’uso sessista della lingua.

Prof.ssa Laura Rago

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Le donne nell’immaginario maschile

La figura della donna è un elemento presente da sempre nella letteratura maschile, anche se

progressivamente è cambiata la concezione di essa. Infatti, tra il Duecento e il Trecento, la donna

incarnava inizialmente la tentatrice (immagine attribuitale dal clero), successivamente i provenzali

le hanno attribuito l’aggettivo “cortese”, e non più “diavolo”, per riferirsi al fatto che questa elevava

e nobilitava l’animo degli uomini. Di lì a poco, nell’immaginario maschile dell’epoca la donna ha

iniziato ad essere un “angelo”, cioè colei che fa da tramite tra Dio e l’uomo e che quindi eleva

spiritualmente quest’ultimo.

Petrarca riprende il concetto di donna-angelo, anche se, contrariamente agli stilnovisti, si sofferma a

descrivere alcuni aspetti della sua amata, Laura. Questa raffigurazione non rispecchiava però la

realtà, ma solo l’idea che esprimeva il concetto di femminilità. Con Boccaccio, nel Decameron,

possiamo vedere delle donne protagoniste e concrete, con i propri valori e le proprie sofferenze,

come Ghismonda e Lisabetta, fornendoci la visione dell’amore di quel periodo: una passione terrena

che ha il suo valore in se stessa.

Anche in Ariosto è così, ma le sue figure femminili non sono protagoniste e concrete con quelle nel

Decameron: Angelica è una donna che fugge continuamente inseguita da molti cavalieri,

incarnando così un simbolo erotico, e quando è innamorata si limita solo ad assistere il suo amato;

Bradamante è invece una guerriera che insegue il suo amato e non si tira indietro davanti alle

difficoltà, affrontando anche sfide e duelli pur di raggiungere e liberare Ruggero, colui che ama.

Nella Gerusalemme Liberata di Tasso invece i personaggi femminili sono più densi, incarnando la

sensualità repressa e le inquietudini del loro creatore: si parte da Armida, maga sensuale e

innamorata, fino ad arrivare a Sofronia ed Erminia, donne molto diverse tra loro. Altri autori del

Quattrocento e del Cinquecento hanno descritto i tipi di donne che avevano individuato: le massaie

borghesi, le cortigiane e le prostitute.

Nella letteratura del Settecento le donne iniziano ad avere un ruolo centrale nel romanzo, anche

come scrittrici oltre che come protagoniste. In questo periodo esse rappresentano spesso delle

ideologie, dei valori, degli intenti pedagogici dei loro autori o aspirazioni ideali. Un caso è la Moll

Flanders di Defoe, che raffigura i valori della borghesia inglese a lui contemporanea. Ma le figure

femminili dell’epoca rappresentano anche dei temi che si stavano affermando in quel periodo, come

quello del conflitto tra nobiltà e borghesia, che Goldoni in Mirandolina coniuga con quello tra i

sessi, oltre ad essere viste come prede erotiche e cacciatrici spregiudicate (un esempio è la ragazzina

nell’autobiografia di Casanova).

Nell’Ottocento, in epoca romantica, le donne hanno un forte valore simbolico, legato ai conflitti e ai

problemi che attraversavano la cultura di quel periodo: rappresentavano la vittima sacrificale o

erano portavoci degli ideali, dei valori e degli intenti pedagogici dei loro autori, come la Silvia di

Leopardi o il binomio Lucia/Gertrude di Manzoni.

Nel Novecento le donne “scritte” perdono il loro carattere surreale e ideale, rispecchiando

maggiormente la figura femminile in carne ed ossa di quel periodo: la donna diventa più autonoma,

come la protagonista di Casa di bambola di Ibsen, che riesce a capire il suo bisogno di realizzarsi al

di fuori degli schemi femminili del tempo, discutendo e abbandonando il suo ruolo di moglie e

madre. I testi di questo periodo rispecchiano la situazione del tempo, essendo quella un’epoca nella

quale le donne avevano iniziato a prendere consapevolezza di sé e a ribellarsi ai modelli del tempo,

rivendicando la propria importanza.

Il Novecento è passato alla storia come il secolo delle donne.

Nel corso del XIX secolo apparve sempre più chiaro che i tradizionali fondamenti di legittimità

della disuguaglianza di potere fra uomini e donne non avrebbe a lungo resistito alla realtà di fatto di

un contesto sociale e culturale in continua trasformazione e soprattutto di una messa in discussione

collettiva di quella disuguaglianza da parte delle donne stesse. Si trattava di veri e propri movimenti

organizzati, e diffusi in quasi tutti i paesi occidentali, che per la prima volta nella storia criticavano,

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sul piano dei diritti sociali e politici, la logica stessa del privilegio maschile e nel privato,

esercitando in questo modo un nuovo protagonismo in campo religioso, morale e sociale.

L’immagine della “Nuova donna” fu sin dalla nascita direttamente ed esplicitamente associata a uno

scenario storico-sociale inedito. La rappresentazione negativa di essa aveva innanzitutto lo scopo di

definire, riassumere e condannare senza appello il recente mutamento dell’identità femminile come

fenomeno sociale diffuso: un elemento legato a un contesto di degenerazione della società, di cui la

Nuova donna avrebbe costituito uno degli effetti più scandalosi e pericolosi.

Alla fine del secolo questa immagine cominciò ad invadere i campi tipicamente maschili,

assumendo atteggiamenti che contrastavano la tradizionale modestia e passività femminile,

minacciando l’ordine patriarcale della famiglia, della morale e della società stessa, la donna si

presentava come un personaggio che avrebbe nel tempo contaminato tutta l’umanità.

Rimangono comunque aspetti della tradizione rielaborate però in chiave più moderna. Un esempio è

la poesia di Umberto Saba “A mia moglie”.

Elena Anastasi

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Giacomo Lentini, Meravigliosamente un amor mi distringe

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Meravigliosamente

un amor mi distringe

e mi tene ad ogn'ora.

Com'om che pone mente

in altro exemplo pinge

la simile pintura,

così, bella, facc' eo,

che 'nfra lo core meo

porto la tua figura.

In cor par ch'eo vi porti,

pinta corno parete,

e non pare di fore.

O Deo, co, mi par forte.

Non so se lo sapete,

con' v'amo di Don core:

ch'eo son sì vergognoso

ca pur vi guardo ascoso

e non VI mostro amore.

Avendo gran disio,

dipinsi una pintura,

bella, voi simigliante,

e quando voi non vio,

guardo 'n quella figura

e par ch'eo v'aggia avante:

come quello che crede

salvarsi per sua fede,

ancor non veggia inante

Al cor m'arde una doglia,

com'om che ten lo foco

a lo suo seno ascoso,

e quando più lo 'nvoglia,

allora arde più loco

e non pò stare incluso:

simile mente eo ardo

quando pass'e non guardo

a voi, vis' amoroso.

S'eo guardo, quando passo,

inver voi, no mi giro,

bella, per risguardare.

Andando, ad ogni passo

getto uno gran sospiro

che facemi ancosclare;

e certo bene ancoscio,

c a pena mi conoscio,

tanto bella mi pare.

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Assai v'aggio laudato,

madonna, in tutte parti

di bellezze ch'avete.

Non so se v'è contato

ch'eo lo faccia per arti,

che voi pur v'ascondete.

Sacciatelo per singa

zo ch'eo no dico a linga,

quando voi mi vedrite.

Canzonetta novella,

va canta nova cosa;

lèvati da maitino

davanti a la più bella,

fiore d'ogni amorosa,

bionda più c'auro fino:

Lo vostro amor, ch'è caro,

donatelo al Notaro

ch'è nato da Lentino

Nella Lirica Provenzale, la donna viene vista come la “Signora” dominante ed è per questo che il

componimento che segue è tutto giocato sul contrasto tra desiderio e vergogna. Il primo si manifesta

essenzialmente come desiderio di osservare la donna di cui vengono esaltate le bellezze.

Il motivo del guardare contrastato dalla vergogna che frena il poeta, dà luogo ad una casistica

complessa esposta nelle stanze centrali del componimento: il poeta la guarda di nascosto e spinto

dal desiderio crea un’immagine sostitutiva della donna, illudendosi di averla danti. Passa di fronte a

lei senza guardarla, pur ardendo dal desiderio di farlo. Passa, la guarda e non si gira per guardarla

una seconda volta come vorrebbe.

La vergogna, per converso, si manifesta essenzialmente come vergogna di lasciar trasparire

all’esterno il sentimento che sconvolge il poeta, come freno (costrizione del desiderio), ed infine,

come incapacità di dichiararsi.

Si spiega così anche il senso complessivo della canzone: il poeta non osa dire personalmente,

rivelare il proprio amore alla donna che ama, perciò la invita a scoprirlo dai “segni”, ed infine lo

farà.

Melissa Passaretti

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La donna angelicata

Guido Guinizelli

Io voglio del ver la mia donna laudare

ed asembrarli la rosa e lo giglio:

più che stella diana splende e pare,

e ciò c’è lassù bella a lei somiglio.

Verde river’ a lei rasembro a l’are,

tutti color di fior’, giano e vermiglio,

oro ed azzurro e ricche gioi per dare:

medesimo Amor per lei rafina meglio.

Passa per via adorna, e sì gentile

ch’abbassa orgoglio a cui donna salute,

e fa ‘l de nostra fé se non la crede;

e nolle po’ apressare om che sia vile;

ancora ve dirò c’ha maggior vertute:

null’om po’ mal pensar fin che la vede.

Guido Cavalcanti,

Chi è questa che vén, ch’ogn’om la mira,

che fa tremar di chiaritate l’àre

e mena seco Amor, sì che parlare

null’omo pote, ma ciascun sospira?

O Deo, che sembra quando li occhi gira!

dical’Amor, ch’i’ nol savria contare:

cotanto d’umiltà donna mi pare,

ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ira.

Non si poria contar la sua piagenza,

ch’a le’ s’inchin’ogni gentil vertute,

e la beltate per sua dea la mostra.

Non fu smalta già la mente nostra

E non si pose ‘n noi tanta salute,

che propriamente n’aviàn conoscenza

Dante Alighieri, Vita Nova

Tanto gentil e tanto onesta pare

la donna mia quand'ella altrui saluta,

ch'ogne lingua deven tremando muta,

e li occhi no l'ardiscon di guardare.

Ella si va, sentendosi laudare,

benignamente d'umilta' vestuta;

e par che sia una cosa venuta

da cielo in terra a miracol mostrare.

Mostrasi si' piacente a chi la mira,

che da' per li occhi una dolcezza al core,

che 'ntender non la puo' chi no la prova;

e par che de la sua labbia si mova

uno spirito soave pien d'amore,

che va dicendo a l'anima: Sospira.

Il sonetto di Guinizzelli può essere diviso in 2 parti: la prima è incentrata sulla lode della bellezza

della donna, che, attraverso una serie di analogie, viene paragonata a tutte le cose belle del creato.

La donna è la più alta manifestazione dell’ordine provvidenziale che regola l’universo e che mostra

con maggior evidenza negli aspetti più preziosi e nobili della natura. La seconda è dedicata alle

virtù morali e spirituali della donna ed al potere miracoloso della sua presenza e del suo saluto su

coloro che la incontrano; gli effetti dell’amore non riguardano soltanto la sfera delle emozioni, ma

anche quella morale e religiosa.

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Cavalcanti riprende da Guinizelli il tema della lode e la concezione soprannaturale della donna,

vista come una creatura eccezionale, dotata di virtù fisiche e spirituali che rimandano a realtà

soprannaturali. Nel testo sono presenti doti corporee e morali attribuite alla donna, ma non sono

presenti termini di paragone fra la donna e gli aspetti della natura. L’essenza di questa è tanto

elevata ed irraggiungibile da non poter essere espressa a parole né compresa intellettualmente. Il

tema della lode sfocia così in una denuncia dei limiti della conoscenza umana, incapace di afferrare

ciò che l’uomo ama e desidera più di ogni altra cosa.

Il testo si apre con un interrogativo che esprime lo stupore del poeta di fronte all’apparizione della

donna. Questa è lasciata volutamente senza risposta, a significare la sua inconoscibilità, che è il

tema a cui sono dedicate le strofe successive. Queste ultime hanno un andamento più faticoso della

prima, come per sottolineare la tensione della mente verso qualcosa che non può raggiungere.

Dante, invece, non descrive la donna esaltandone la bellezza, ma ne evoca l’apparizione

straordinaria. Gli attributi morali, la bellezza di Beatrice sono una manifestazione terrena di realtà

soprannaturali. Anche il suo saluto, che lascia senza parole coloro che lo ricevono, non è un

semplice gesto di gentilezza, ma un vero e proprio atto salvifico. Per questo Beatrice è presentata

come una creatura celeste. Il carattere soprannaturale dell’apparizione è sottolineato dalla totale

essenza di riferimenti all’aspetto fisico di Beatrice non è trasfigurata dallo sguardo soggettivo di un

innamorato che proietta su di lei i suoi sentimenti, ma è presentato su quello che è veramente, tanto

da farla poi diventare la guida di Dante nel Paradiso.

Nei testi stilnovisti, si trovano nomi di donne amate, come ad attestare un impegno autobiografico;

così abbiamo la Beatrice di Dante, la Selvaggia di Cino, la Giovanna di Cavalcanti. Ognuno dei

poeti cerca di rappresentare la propria vicenda amorosa come un qualcosa di esemplare, ma le varie

vicende non sono raccontate seguendo una trama narrativa e le donne cantate non acquistano

consistenza figurativa o drammatica, perché donne e vicende non sono che metafore della scoperta

della propria anima. Questo si può notare mettendo a confronto i tre sonetti degli esponenti più

importanti del dolce stil novo, sopra riportati.

Negli ultimi decenni del 1200, a Firenze, si forma il nucleo più importante di una nuova tendenza

poetica: il “dolce stil novo”. Questa formula è stata coniata da Dante: “Io sono uno che quando

Amore m’ispira, noto, e a quel modo che ditta dentro vo’ significando” (quando l’amore lo ispira,

egli lo analizza in base a ciò che gli comunica: il tema che indaga l’animo del poeta è quello

dell’amore profondo e complesso / Purgatorio 24° canto).

Gli stilnovisti si collocano nella tradizione letteraria con alcune tematiche già note:

L’esaltazione di un Amore come suprema forma di aristocrazia spirituale; l’affermazione che la

vera nobiltà non deriva dal diritto di nascita, ma che essa risiede nell’animo; ma soprattutto la

rappresentazione della donna come figura angelica.

Originale è invece il loro definirsi come un pubblico nuovo di produttori ed utenti della poesia,

come libero gruppo di “cori gentili”, capaci di vivere e intendere la nobilitante esperienza d’amore.

Essi fondano la loro superiorità sulla cultura, che è conquista individuale, e formano un gruppo di

intellettuali che non coincide più con una corte, ma vive nella civiltà cittadina. Di conseguenza la

loro dottrina d’amore non è espressa secondo i canoni del galateo cortese, ma s’ispira alla filosofia

insegnata nelle Università, specialmente in quella di Bologna. Questo gruppo di poeti, costituisce

una corte tutta “ideale”, in cui si ritrova una cerchia ristretta di “spiriti eletti”, cioè l’idea di ricreare

una specie di circolo esclusivo, in cui si distinguono delle teste intelligenti, pensanti, superiori alla

massa.

Gli stilnovisti intendono definire l’origine e la natura d’amore e riconducono alla vita della

coscienza tutte le esperienze amorose, come la gioia, il tormento, la contemplazione, la passione.

Sul piano dei contenuti, si sostituisce una visione molto più spiritualizzata della donna amata che,

appunto, viene gradualmente esaltata non solo per le sue qualità femminili, ma soprattutto come una

figura angelica, come se fosse un angelo in terra. In quanto donna-angelo, la donna diventa

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dispensatrice, cioè colei che può donare all’uomo la salvezza, e una mediatrice tra Dio e l’uomo:

l’amore per la donna diventa la via per arrivare a Dio. La donna è simbolo della bellezza di Dio, cui

l’anima aspira, e amore è questa ispirazione. Però la donna è pur sempre ispiratrice di passioni, per

cui la gioia della contemplazione è sempre insidiata dalla sorda resistenza della passione, dal quale

rapporto fra amore terreno e amore celeste e la giustificazione del primo sul piano morale e

conoscitivo. Questa è la tematica dello stilnovismo, anche se i vari autori esprimono questa ascesa

in modo diverso.

Si capisce quindi come ognuno dei poeti segua una propria strada per arrivare a Dio tramite la

contemplazione della bellezza della donna, e ciò fa di questi poeti non una “scuola”, dove le

rappresentazioni sono corali, ma ognuno rivela una propria identità.

Rosa Maria Virgili

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Bradamante in Ariosto: la donna guerriera

Bradamante è la progenitrice della casa d'Este, una valorosa paladina e un'accanita sostenitrice della

fede cristiana. Ella ha combattuto molte battaglie al fianco di Re Carlo e si è distinta sempre per il

suo valore, il suo coraggio e la sua sensibilità.

Questa donna, come tutti gli altri personaggi dell’Orlando Furioso, è piatta, dominata da un impulso

o da una passione. Ariosto ha uno scarso interesse, infatti, verso l’approfondimento psicologico,

così che accentua il dinamismo delle vicende attraverso l’estrema volubilità e la “duttilità” dei suoi

personaggi.

Bradamante si innamora però di uno dei suoi nemici, cioè un

guerriero saraceno: Ruggiero.

Inizialmente è difficile immaginarla donna, tanto è esperta di

cavalleria: nascosta nella sua singolare armatura, ella cavalca

fiera il suo cavallo, sconfigge cavalieri e maghi, sempre a

testa alta. Sotto la ferrea veste, Bradamante occulta una

straordinaria femminilità, che si può capire soprattutto dal suo

animo delicato e sensibile all'amore, nonostante fosse una

forte guerriera.

Una particolare caratteristica di Bradamante è il fatto che

durante i combattimenti ella lascia sempre in vita il nemico,

non come era solito accadere nei duelli tra uomini, in cui uno

dei due veniva obbligatoriamente ucciso. In almeno due

celebri casi, negli scontri con Sacripante e con lo stesso

Atlante, si può comprendere facilmente come sotto l'armatura

bianca si nasconda una donna dall'animo gentile e

caritatevole, che prova pietà nei confronti del nemico. Ariosto

le attribuisce questa caratteristica perché la donna ha la

tenerezza.

Ma altrove possiamo scoprire anche una Bradamante preda di

una terribile gelosia nei confronti di Marfisa, un’altrettanto

valorosa guerriera saracena, intenta a curare e consolare

Ruggiero ferito. Bradamante a sentir questo diviene pazza di

gelosia, di rabbia e giura di vendicarsi

E perfido Ruggier di nuovo chiama.

- Non ti bastava, perfido (disse ella),

che tua perfidia sapessi per fama,

se non mi facevi anco veder quella?

Di cacciarmi da te veggo c'hai brama:

e per sbramar tua voglia iniqua e fella,

io vo' morir; ma sforzerommi ancora

che muora meco chi è cagion ch'io mora. - (XXXVI, 45).

La valorosa e innamorata paladina si trasforma, diventando disperata e furibonda; così si scontra

con Marfisa in un'aspra battaglia, in cui risalta l'odio della figlia d'Amone

Sdegnosa più che vipera, si spicca,

così dicendo, e va contra Marfisa;

et allo scudo l'asta sì le appicca,

che la fa a dietro riversare in guisa,

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che quasi mezzo l'elmo in terra ficca;

né si può dir che sia colta improvisa:

anzi fa incontra ciò che far si puote;

e pure in terra del capo percuote. (XXXVI, 46)

Non è da meno però la rivale, tanto che l'Ariosto commenta:

Ma tarda è la sua giunta; che si trova

Marfisa incontra, e di tanta ira piena

(poi che s'ha vista alla seconda prova

cader sì facilmente su l'arena),

che pregar nulla, e nulla gridar giova

a Ruggier che di questo avea gran pena:

sì l'odio e l'ira le guerriere abbaglia,

che fan da disperate la battaglia. (XXXVI, 48)

Durante il duello, anche Ruggiero interviene per dividere le due donne, che liberate dalle armi

combattono imbestialite

Quando pur vede che 'l pregar non vale,

di partirle per forza si dispone:

leva di mano ad amendua il pugnale,

et al piè d'un cipresso li ripone.

Poi che ferro non han più da far male,

con prieghi e con minaccie s'interpone:

ma tutto è invan; che la battaglia fanno

a pugni e a calci, poi ch'altro non hanno. (XXXVI, 50).

La battaglia si conclude per l'improvvisa voce del mago Atlante, che fin dalla tomba persiste nel

voler salvare Ruggiero, svelando la parentela tra lo stesso e Marfisa e liberando così Bradamante

dall'odio e dalla gelosia. Ancora però non è arrivato il tempo del matrimonio dei due giovani che,

nuovamente divisi, potranno incontrarsi solo dopo altre pene. L'eroina Bradamante quindi deve

subire nuovi tormenti perché è destinata dai genitori ad altre nozze.

Né negar, né mostrarsene contenta

s'ardisce; e sol sospira, e non risponde:

poi quando è in luogo ch'altri non la senta,

versan lacrime gli occhi a guisa d'onde;

e parte del dolor che la tormenta,

sentir fa al petto et alle chiome bionde,

che l'un percuote, e l'altro straccia e frange;

e così parla, e così seco piange: (XLIV, 40)

perché sebbene forte guerriera, anche figlia ubbidiente sempre in preda all'Amore, che non le

consente però la forza sufficiente di contraddire la volontà materna:

Sta Bradamante tacita, né al detto

de la madre s'arrisca a contradire;

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che l'ha in tal riverenzia e in tal rispetto,

che non potria pensar non l'ubbidire.

Da l'altra parte terria gran difetto,

se quel che non vuol far, volesse dire.

Non vuol, perché non può; che 'l poco e 'l molto

poter di sé disporre Amor le ha tolto. (XLIV, 39)

In conclusione, solo nell'ultimo canto dell'opera possiamo veder celebrate le nozze, anticipate nello

stesso proemio.

Da sottolineare è l'abilità dell'autore nel descrivere il carattere di Bradamante non attraverso

specifiche descrizioni, ma tramite le sue stesse azioni.

Come gli altri personaggi, anche lei è in cerca di qualcosa, cioè il suo amato. Ma, sempre come

accade agli altri, non riesce a “prenderlo” perché lo trova ma poi lo perde.

Per tutto il poema Ruggero e Bradamante non fanno che inseguirsi e perdersi; e ogni volta che si

perdono di vista Ruggero si trova invischiato in un duello, o in un'altra avventura, che introduce una

amplificazione per linee interne sulla trama dell'inseguimento reciproco dei due innamorati. Ma le

distrazioni dal suo percorso sono altrettante variazioni sul tema del "gentil Ruggero", dove il poeta

sviluppa una serie di modulazioni diverse secondo il filo narrativo a cui si aggancia, cioè secondo i

personaggi con cui l'eroe si invischia, lasciandoci stupiditi davanti alle metamorfosi del virtuoso

fidanzato di Bradamante.

Alla fine però Ruggero tornerà in sé e sposerà Bradamante, unione dalla quale discenderà la stipe

d’Este. Bradamante è quindi un personaggio forte, che continua ad inseguire il suo amato in

qualunque circostanza senza perdersi d’animo e affondando anche molte difficoltà.

È un personaggio dinamico, che modifica il suo comportamento e il suo atteggiamento durante

tutto il poema.

Elena Anastasi

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Carlo Goldoni, , La locandiera

Uh, che mai ha detto! L'eccellentissimo signor Marchese Arsura mi sposerebbe? Eppure, se mi

volesse sposare, vi sarebbe una piccola difficoltà. Io non lo vorrei. Mi piace l'arrosto, e del fumo

non so che farne. Se avessi sposati tutti quelli che hanno detto volermi, oh, avrei pure tanti mariti!

Quanti arrivano a questa locanda, tutti di me s'innamorano, tutti mi fanno i cascamorti; e tanti e

tanti mi esibiscono di sposarmi a dirittura. E questo signor Cavaliere, rustico come un orso, mi

tratta sì bruscamente? Questi è il primo forestiere capitato alla mia locanda, il quale non abbia

avuto piacere di trattare con me. Non dico che tutti in un salto s'abbiano a innamorare: ma

disprezzarmi così? è una cosa che mi muove la bile terribilmente. È nemico delle donne? Non le

può vedere? Povero pazzo! Non avrà ancora trovato quella che sappia fare. Ma la troverà. La

troverà. E chi sa che non l'abbia trovata? Con questi per l'appunto mi ci metto di picca. Quei che

mi corrono dietro, presto presto mi annoiano. La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e non

la stimo. Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia

debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non ci penso nemmeno; non

ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non

m'innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature di amanti spasimati; e voglio usar

tutta l'arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi,

che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura. (La Locandiera, Atto I, Scena IX)

Mirandolina viene assiduamente corteggiata da tutti gli

ospiti della locanda e in modo particolare dal marchese di

Forlipoli e dal conte d’Albafiorita; il primo cerca di

conquistarla con il suo titolo nobiliare convinto che basti

la sua protezione e le sue promesse per conquistare la

giovane, mentre il conte arricchitosi cerca di comprarla

con innumerevoli regali. L’astuta locandiera non si

concede a nessuno dei due ma nel frattempo gli lascia

l’illusione di una futura conquista, riuscendo da buona

mercante a trarre ugualmente i benefici da entrambi. A

spezzare l’armonia c’è l’arrivo del cavaliere di Ripafratta

un superbo aristocratico che disprezza ogni donna.

Appena mette piede nella locanda inizia a lamentarsi

dello scadente servizio rimproverando e dettando ordini a

Mirandolina, che umiliata si ripromette di farlo innamorare. In breve tempo il cavaliere cede,

tramutando tutto il suo odio in un appassionato amore che non riesce a contenere. Mirandolina, però

lo rifiuta, appena si accorge di non riuscire più a controllare la situazione. Nonostante il cavaliere

voleva possederla a tutti i costi,infatti, anche i due corteggiatori gelosi delle attenzioni che dedicava

al cavaliere vogliono vendicarsi. Malgrado la grande confusione la locandiera riesce con un abile

stratagemma a riappacificare i nobili e si sposa con Fabrizio il cameriere della locanda, che l’aveva

sempre amata. Ella non ama Fabrizio ma aveva promesso a suo padre, prima della morte, che lo

avrebbe sposato.

Mirandolina, esuberante, complessa, affascinante, sempre lucida e sincera, capace di autocontrollo,

domina la commedia superando ogni ostacolo per fare a proprio modo, badare ai propri affari di

locandiera, assicurandosi tranquillità, agi, reputazione e libertà,è la significativa immagine della

donna del 700. Una donna lavoratrice e padrona del suo destino che permette una rivalutazione

della figura femminile sulla scena e un’evoluzione dello stereotipo che esula dalla sola seduzione e

dal peccato che aveva caratterizzato la donna in passato ma che include anche valori familiari che

prima erano prettamente maschili.

Federica Sorino, Francesca De Luca

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Giacomo Leopardi, A Silvia

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Silvia, rimembri ancora

quel tempo della tua vita mortale,

quando beltà splendea

negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,

e tu, lieta e pensosa, il limitare

di gioventù salivi?

Sonavan le quiete

stanze, e le vie d'intorno,

al tuo perpetuo canto,

allor che all'opre femminili intenta

sedevi, assai contenta

di quel vago avvenir che in mente avevi.

Era il maggio odoroso: e tu solevi

così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri

talor lasciando e le sudate carte,

ove il tempo mio primo

e di me si spendea la miglior parte,

d’in su i veroni del paterno ostello

porgea gli orecchi al suon della tua voce,

ed alla man veloce

che percorrea la faticosa tela.

Mirava il ciel sereno,

le vie dorate e gli orti,

e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.

Lingua mortal non dice

quel ch’io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,

che speranze, che cori, o Silvia mia!

Quale allor ci apparia

la vita umana e il fato!

Quando sovviemmi di cotanta speme,

un affetto mi preme

acerbo e sconsolato,

e tornami a doler di mia sventura.

O natura, o natura,

perché non rendi poi

quel che prometti allor? perché di tanto

inganni i figli tuoi?

Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,

da chiuso morbo combattuta e vinta,

perivi, o tenerella. E non vedevi

il fior degli anni tuoi;

non ti molceva il core

la dolce lode or delle negre chiome,

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or degli sguardi innamorati e schivi;

né teco le compagne ai dì festivi

ragionavan d’amore.

Anche perìa fra poco

la speranza mia dolce: agli anni miei

anche negaro i fati

la giovinezza. Ahi come,

come passata sei,

cara compagna dell’età mia nova,

mia lacrimata speme!

Questo è il mondo? questi

i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,

onde cotanto ragionammo insieme?

questa la sorte delle umane genti?

All’apparir del vero

tu, misera, cadesti: e con la mano

la fredda morte ed una tomba ignuda

mostravi di lontano. La Silvia di Leopardi come il binomio Lucia e Gertrude di Manzoni rappresenta gli ideali, i valori

del suo autore, oltre che la vittima sacrificale.

Nella primavera del 1828, Leopardi rievoca una fanciulla

della sua adolescenza, cui dà il nome di Silvia, anche se con

probabilità si tratta di Teresa, la figlia del cocchiere di casa

Leopardi.

Nell’immagine creata dal poeta Silvia e Giacomo hanno

vissuto in attesa della giovinezza, nutrendosi di sogni e di

speranze: hanno faticato, lei al telaio canticchiando, lui

piegato sui libri, alzando ogni tanto gli occhi, attirato da

quella voce femminile, ma si sono abbandonati

fiduciosamente nell’ attesa di un domani bello e piacevole.

Purtroppo, però Silvia è morta giovanissima e il poeta ha

visto intristire e svanire ogni speranza.

Con questo scritto, Leopardi si impegna nel recupero della memoria del passato e, in particolare, nel

ricordo delle care illusioni della giovinezza perduta. Silvia diventa simbolo della giovinezza, della

speranza e dei suoi sogni traditi dalla natura che, secondo l’autore, è matrigna, perché inganna i

propri figli. Ella lascia che essi si costruiscano illusioni che in futuro produrranno solo delusioni.

Questo personaggio è la figura che Leopardi "utilizza" per cantare la gioiosa speranza e l’ignara

giovinezza destinata sempre a finire.

Giulia Franco

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Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River

Margaret Fuller Slack

Sarei stata grande come Geroge Elliot

ma il destino non volle.

Guardate il ritratto che mi fece Penniwit,

col mento appoggiato alla mano e gli occhi fondi

e grigie indagati lontano.

Ma c'era il vecchio, l'etemo problema:

celibato, matrimonio o impudicizia!

Venne il ricco esercente John Slack,

con la promessa che avrei potuto scrivere a mio agio,

e io lo sposai, misi al mondo otto figli,

e non ebbi più tempo per scrivere.

Per me comunque era tutto finito

quando l'ago mi trafìsse la mano

mentre lavavo i panni del bambino,

e morii di tetano, un'ironica morte.

Anime ambiziose, ascoltate

il sesso è la rovina della vita!

La poesia tratta dall’Antologia di Spoon River narra la storia di una donna aspirante scrittrice che

perse il suo sogno dopo il matrimonio con Giovanni Slack. Margaret infatti diede alla luce otto

bambini e non ebbe più il tempo per scrivere. La sua vita si concluse senza la sua realizzazione

personale perché morì di tetano trafitta da un ago mentre lavava i panni del suo bambino.

Margaret conclude dicendo: "il sesso è la rovina della vita". In questa frase il sesso simboleggia la

maledizione che avvelena l'ambizione dell'anima, la prigione dell'anima. Le ha impedito di

realizzare il suo sogno di diventare come George Elliot. In questa poesia emerge la condizione

della donna, che non poteva realizzarsi pienamente nel lavoro perché doveva dedicarsi

all'allevamento della prole, alla cura della casa e doveva mantenere rigidamente il ruolo che gli era

imposto dalla società di quel tempo. Spesso le scrittrici, come il personaggio creato da Lee

Masters, per esercitare la propria passione e pubblicare un libro e dovevano firmarsi con nomi

maschili e questo era riduttivo per la figura femminile.

Edgar Lee Masters nacque il 23 agosto 1868 a Gamett in Kansas, dove il padre esercitava l'attività

forense. La famiglia ritornò presto nella fattoria dei nonni paterni nella contea di Menard in

Illinois. Nel 1880 si trasferirono a Lewiston dove Edgar frequentò la scuola superiore e potè

realizzare le sue prime pubblicazioni per il Chicago Daily News. Il clima culturale della città, il

cimitero cittadino a Oak Hill e il vicino fiume Spoon furono per Edgar preziose fonti di ispirazione

per l’Antologia di Spoon River, in primo luogo, e per le sue opere più famose e celebrate.

L'Antologia che rappresentava la sua vendetta contro l'ipocrisia e la mentalità ristretta di una

piccola città, ogni poesia racconta la vita di un personaggio, ci sono 19 storie che coprono

praticamente tutte le categorie e i mestieri umani, in ognuna di esse ogni defunto parla della

propria vita davanti alla propria tomba. Il bello dei personaggi di E.L.Masters infatti è che essendo

morti non hanno più niente da perdere e quindi possono raccontare la loro vita in assoluta sincerità.

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Umberto Saba, A mia moglie

Tu sei come una giovane

una bianca pollastra.

Le si arruffano al vento

le piume, il collo china

per bere, e in terra raspa;

ma, nell'andare, ha il lento

tuo passo di regina,

ed incede sull'erba

pettoruta e superba.

È migliore del maschio.

È come sono tutte

le femmine di tutti

i sereni animali

che avvicinano a Dio,

Così, se l'occhio, se il giudizio mio

non m'inganna, fra queste hai le tue uguali,

e in nessun'altra donna.

Quando la sera assonna

le gallinelle,

mettono voci che ricordan quelle,

dolcissime, onde a volte dei tuoi mali

ti quereli, e non sai

che la tua voce ha la soave e triste

musica dei pollai.

Tu sei come una gravida

giovenca;

libera ancora e senza

gravezza, anzi festosa;

che, se la lisci, il collo

volge, ove tinge un rosa

tenero la tua carne.

se l'incontri e muggire

l'odi, tanto è quel suono

lamentoso, che l'erba

strappi, per farle un dono.

È così che il mio dono

t'offro quando sei triste.

Tu sei come una lunga

cagna, che sempre tanta

dolcezza ha negli occhi,

e ferocia nel cuore.

Ai tuoi piedi una santa

sembra, che d'un fervore

indomabile arda,

e così ti riguarda

come il suo Dio e Signore.

Quando in casa o per via

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segue, a chi solo tenti

avvicinarsi, i denti

candidissimi scopre.

Ed il suo amore soffre

di gelosia.

Tu sei come la pavida

coniglia. Entro l'angusta

gabbia ritta al vederti

s'alza,

e verso te gli orecchi

alti protende e fermi;

che la crusca e i radicchi

tu le porti, di cui

priva in sé si rannicchia,

cerca gli angoli bui.

Chi potrebbe quel cibo

ritoglierle? chi il pelo

che si strappa di dosso,

per aggiungerlo al nido

dove poi partorire?

Chi mai farti soffrire?

Tu sei come la rondine

che torna in primavera.

Ma in autunno riparte;

e tu non hai quest'arte.

Tu questo hai della rondine:

le movenze leggere:

questo che a me, che mi sentiva ed era

vecchio, annunciavi un'altra primavera.

Tu sei come la provvida

formica. Di lei, quando

escono alla campagna,

parla al bimbo la nonna

che l'accompagna.

E così nella pecchia

ti ritrovo, ed in tutte

le femmine di tutti

i sereni animali

che avvicinano a Dio;

e in nessun'altra donna.

Il testo è un vero elogio alla moglie Lina realizzato attraverso termini di paragone inconsueti . che

di solito non rientrano nel linguaggio della lirica amorosa. Saba con la poesia vuole anche celebrare

la superiorità del genere femminile e la sua maggiore vicinanza alla natura , mettendone in evidenza

la grande energia vitale e la prorompente fisicità.

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A mia moglie è un testo semplice nel linguaggio e trasparente nei significati, in grado di evocare in

modo immediato immagini , suoni e stati d'animo.. Le strofe iniziano tutte allo stesso modo : " Tu

sei come" , introducendo di volta in volta il paragone con gli animali.

Il poeta usa volutamente questi toni per essere "naturale" e in accordo con il soggetto che tratta. E'

evidente che non c'è ironia alcuna , da parte di Saba, quando rispecchia la moglie nell'esistenza di

modesti animali come la pollastra (v20), la mucca, la cagna (v38) o la coniglia (v53) . Ne sottolinea

la protettività materna (v25) , la dolcezza che si unisce alla gelosia aggressiva(v41) , l'eleganza delle

movenze come nella rondine (v69), la fedeltà laboriosa come quella della formica (v77).

Insomma il poeta non vuole assolutamente mancare di rispetto alla moglie e alla donna in genere ,

ma lodarle con una concezione del femminile non proprio "moderna".

Parlando della moglie , Saba, descrive le maggiori virtù della donna secondo una visione

tradizionale. Tutto questo nasce dall'osservazione della sua naturalezza e della sua fisicità .

Osserviamo nel finale tre parole chiave collocate ognuna a fine verso ( animali/donna/Dio) , che

rispecchiano l'opinione di Saba secondo il quale la donna , come gli animali , avvicina a Dio.

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Khaled Hosseini, Mille Splendidi Soli

Questo libro è ambientato prima nei pressi di Herat e poi a

Kabul. Narra della storia di due donne, della loro vita durante i

vari conflitti che negli anni si sono susseguiti in Afghanistan fino

ad oggi. Mariam, una harami ("bastarda" essendo figlia

illegittima del padre Jalil e della sua serva Nana) nata a Herat nel

1959 è la protagonista del libro, insieme a Laila, nata nel 1978,

una giovane e bella ragazza educata in una famiglia di una classe

sociale elevata e aperta all'innovazione e la vicenda narra del

loro incontro prima ostico, poi di fortissima solidarietà. Il

romanzo è dedicato a Haris e Farah e alle donne

dell'Afghanistan.

Mariam è nata nel 1959 da una relazione tra sua padre e una

serva. Poiché è un' harami, non ha una vita normale come i suoi

coetanei. Per il suo quindicesimo compleanno desidera

conoscere la vita di suo padre e vedere la sua casa e nonostante il

divieto della madre va a casa di suo padre che però nono vuole

riceverla. Amareggiata, torna a casa dove trova la madre si è

suicidata. Viene ospitata a casa di suo padre Jalil fino a quando

suo padre non le trova un marito per sbarazzarsi di lei. A soli 15 anni è costretta a sposarsi dal padre

e dalle mogli con uno sconosciuto che abita a Kabul, Rashid, uomo violento e irascibile e dopo 27

anni di matrimonio, Mariam non è riuscita a dare un figlio a suo marito. L’altra protagonista, Laila è

nata a Kabul la notte del colpo di stato del 1978 e la sua storia si apre nel 1987 quando lei ha 9 anni.

I suoi fratelli sono partiti per la guerra nel 1980 e lei non li ha mai conosciuti e al loro funerale non

soffre più di tanto, al contrario sua madre cade in depressione. Ma per Laila il vero fratello è il suo

amico Tariq, 2 anni più grande di lei, è lui che la difende dai prepotenti. Nel 1992 sotto i

bombardamenti , Laila e Tariq si scoprono innamorati. Purtroppo lui è costretto a partire per il

Pakistan e il giorno prima della partenza Laila e Tariq si abbandonano l'uno all'altra. Anche il padre

di Laila decide di partire per il Pakistan e convince sua moglie a venire. Ma la famiglia di Laila non

partirà poiché proprio mentre si preparavano a partire la casa viene colpita da un razzo e a causa

dello scoppio rimangono uccisi i genitori di Laila. La ragazza viene estratta dalle macerie da

Rashid, il marito di Mariam. Dopo un primo periodo nel quale Laila si riprende dal trauma, Rashid

decide di sposarla e la ragazza accetta senza esitazione dal momento che si era accorta di aspettare

un bambino da Tariq. Inizialmente Mariam e Laila non si vedevano di buon occhio, poiché Rashid

trattava la quest'ultima come una principessa, sperando che potesse dargli il bambino che Mariam

non era riuscita a partorire dopo diversi cicli.

Dopo la nascita di Aziza, avvenuta nel 1993, la figlia illegittima nata dal rapporto di Laila con

Tariq, però il comportamento di Rashid nei confronti della ragazza diventa più rude, poiché l’uomo

desiderava un figlio maschio. I rapporti tra Laila e Mariam migliorano a causa delle violenze di

Rashid che entrambe ricevevano e le due donne diventano amiche. Dopo continue violenze Mariam

e Laila decidono di fuggire portando via la bambina, ma il loro tentativo fallisce e Rashid si vendica

e rischia di far morire Laila e la bambina. Successivamente Laila rimane di nuovo in cinta, questa

volta da Rashid, e partorisce un figlio maschio, Zalmai, che è molto affezionato al padre.

A questo punto però torna a Kabul Tariq, che incontra Laila, che era stata ingannata da Rashid

poiché pensava che il suo amore giovanile fosse morto. Rashid viene a sapere della visita di Tariq e

in seguito a un litigio cerca di uccidere Laila, ma viene colpito a morte da Mariam che interviene

per impedire l’omicidio dell’amica. Le due donne sono costrette a fuggire, ma Mariam decide di

confessare il suo crimine, nonostante Laila cerchi di persuaderla, e viene giustiziata. Laila fugge

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così insieme a Tariq e i due bambini in Pakistan, dove ha un altro figlio e vive felice per un lungo

periodo. La donna decide però di tornare a Kabul e, quando arriva in Afghanistan visita la kolba di

Mariam e gli viene consegnata una lettera del padre dell’amica giustiziata in cui chiedeva il perdono

della figlia. Laila infine torna a Kabul dove gestisce un orfanotrofio con Tariq. Mariam, nata nel

1959, ha quindici anni quando la storia si apre. è la protagonista del libro, insieme a Laila, e

indiscussa eroina della vicenda. E' una harami, una bastarda, nata da una relazione tra suo padre e

una serva, e per questo non ha una vita serena come le altre bambine della sua età. Fin da piccola le

viene insegnato dalla madre che le donne devono sopportare le ingiustizie degli uomini. Dopo la

morte di sua madre è costretta a sposare a soli 15 anni Rashid e dopo 18 anni di matrimonio non è

riuscita a portare a termine una gravidanza.

Lo scrittore di origine afgana Khaled Hosseini ci presenta in questo romanzo il punto di vista

femminile attraverso le vicende delle protagoniste Mariam e Laila. Due donne completamente

diverse: Mariam, la reietta destinata a vivere ai margini della società, additata come figlia del

peccato; Laila figlia di un insegnante di scuole superiori, sembra invece avere un destino diverso e

migliore. Avviene però che le loro vite si intreccino trovandosi a vivere sotto lo stesso tetto, mogli

dello stesso perfido uomo a condividere un destino tragico. Hosseini ci dice che, nonostante

l’avvicendarsi dei regimi politici, invasione russa, sistema talebano e forze Onu, la condizione della

donna in Afghanistan non è mai cambiata. Spirito di sopportazione e sacrificio, violenza e dolore,

umiliazione profonda e sottomissione: sono questi i sentimenti e le situazioni che una donna afgana

è sempre costretta a subire. Il personaggio di Mariam è forse l'emblema più evidente della

condizione "disumana" della donna in Afghanistan. Ma forse ciò che consente di sopravvivere e

sperare è l’amicizia e la solidarietà che possono tenere unite, legate fino all’estremo le due

protagoniste.

Eleonora Tunetti

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LE DONNE SI RACCONTANO

L’arte di raccontare è femminile. Un tempo, la sera davanti al fuoco, le donne più anziane

intrattenevano i familiari con antiche storie, tramandando così fiabe, leggende, miti e tradizioni che

costituiscono il nostro patrimonio culturale più antico. Spesso è proprio da queste esperte narratrici

che studiosi del folclore e scrittori di fiabe hanno raccolto la testimonianza di testi popolari

antichissimi.

“Sarei capace di scommettere che è Anonimo, il quale scrisse tante poesie senza firmarle, spesso

era una donna” (V. Woolf).

La prima scrittrice a cui si fa riferimento nella tradizione letteraria è la poetessa greca Saffo; a lei si

sono ispirate la maggior parte delle autrici successive.

La letteratura tra il ‘300 e il ‘500 attribuisce un ruolo centrale alla figura femminile, vista come

oggetto di desiderio, passione, ammirazione, idealizzazione. La donna in questo periodo letterario è

stata la musa ispiratrice delle opere maschili, elemento tramite per raggiungere il Divino.

Vi è una totale assenza di testi scritti da donne nella storia della letteratura. Ciò è spiegabile con il

numero limitato che nel Medioevo avevano accesso alla scrittura.

Dalla letteratura scritta dagli uomini emergono diverse immagini più realistiche e concrete come “la

donna diavolo, cortese e angelo”. Contemporaneamente alcune donne come Contessa di Dia,

Compiuta Donzella, Caterina da Siena, hanno lasciato degli scritti con i quali intendevano affermare

il valore della propria individualità e rappresentare con concretezza un aspetto della condizione

femminile del tempo.

È solo nel ‘500 le donne dei ceti elevati cominciarono a scrivere e pubblicare libri.

Veronica Franco e Gaspara Stampa rappresentano due figura tipiche dell’epoca; una la prostituta

colta e di nobili frequentazioni che scambia con i suoi cortigiani lettere in versi di esplicita

spregiudicatezza; l’altra l’amante passionale e fedele in contrasto con l‘amato “empio in amore”.

Nel ‘700 e nei primi dell’800 la donna prende la parola per rivendicare i propri diritti.

L’inglese Mary Wollstonecraft, presa coscienza della condizione discriminata delle donne, lotta

contro le istituzioni e nel 1792 scrive “La Dichiarazione dei Diritti Delle Donne”, in cui sono

esposte per la prima volta le idee chiave dei movimenti femministi.

La figura della donna scrittrice risulta profondamente cambiata: non è più aristocratica e cortigiana,

ma esponente della classe media. Il numero delle lettrici esplode, fioriscono i salotti letterari e

mondani in cui sono ammesse anche le donne. Tra queste la francese Madame de Stael.

Il romanticismo apre nuove prospettive nella valutazione della donna e del suo ruolo sociale.

Ma come testimonia George Sand, la donna ha ancora bisogno di un nome e di un travestimento

maschile per trovare la propria libertà di scrittrice: “Ero particolarmente assetata di teatro. Perciò

mi feci fare una regondtè-gueritè di pesante panno grigio con pantaloni e panciotto in tinta.

Aggiungendovi un grande cappello grigio e una grande cravatta di lana, ero un perfetto studente

del primo anno…Mi sembrava che avrei potuto fare il giro del mondo. Senza contare che i miei

abiti non avevano paura di nulla: uscivo con qualunque tempo, rientravo a qualunque ora, sedevo

in platea a teatro, perché nessuno mi guardava”(G. Sand).

Alla fine del ‘700 il modello di donna rimane quello di moglie e madre. L’istruzione è considerata

come uno snaturamento.

Alle giovani non si insegna a scrivere per evitare che esse possano affermarsi nella società, ed è

proprio in questo periodo che la donna, paradossalmente, riesce ad accedere alla cultura e

all’editoria.

Le donne hanno un ruolo centrale nel romanzo del ‘700, sia come protagoniste, sia come lettrici.

In un epoca romantica le figure femminili si caricano di un forte valore simbolico, legato ai conflitti

e ai problemi che attraversano la cultura dell’epoca.

In questo studio passando a rassegna solo testi scritti da donne non si vuole cercare una definizione

in grado di analizzare la scrittura femminile ma si vuole far comprendere le differenza fra i sessi

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che non sono solo biologiche “Il mondo è uno, ma è abitato da due sessi, diversi non solo per

biologia, ma anche per le esperienze”. (M L. Wandruszka)

Nel secondo ‘800 le donne esprimono la propria soggettività in modo più conflittuale o più

condiscendente rispetto i canoni dominanti; come in Emily Dickinson, la più importate della

letteratura americana; in Matilde Serao che lotta per integrarsi nella società letteraria. Entrambe

partecipano al dibattito culturale ed artistico affrontando nei propri romanzi temi sociali di attualità.

Nel ‘900 Virginia Woolf ha un ruolo centrale, nella quale molte scrittrici contemporanee trovano

riferimento. I suoi saggi sono caratterizzati da una riflessione sulla svolta culturale legandosi

all’analisi dei rapporti tra la donna e la letteratura.

Nel suo libro Una stanza tutta per se presenta quella che può essere definita la mancanza, per

l’universo femminile, di affermazione: la stanza può essere intesa oltre che come luogo fisico,

anche come spazio simbolico; uno spazio in cui la donna può esprimersi liberamente e cercare di

creare un proprio linguaggio.

Dal primo ‘900 le donne scrittrici sono più accettate specialmente soprattutto grazie al successo di

alcune di esse. Possiamo ricordare Agatha Christie che si è affermata come maestra del genere

poliziesco. Dalla lettura di un brano di un’altra autrice, Liala, scaturisce un’analisi sulle

caratteristiche del genere “rosa” come forma di narrativa popolare per un pubblico femminile.

Se Agatha Christie e Liala sono perfettamente collocabili all’interno di un genere non può essere

detta la stessa cosa per scrittrici come Grazia Deledda che dedica alla sua Sardegna opere

“inattuali”, sospese tra realtà e magia. Anche le scrittrici italiane della generazione successiva

seguono percorsi originali e autonomi, dando voce a una pluralità di sguardi femminili nel mondo:

- Elsa Morante, dialoga con la grande narrativa ottocentesca intrecciando un senso fisico e

tattile con la sottigliezza dello scavo psicologico;

- Anna Maria Ortese racconta una storia di povertà ed emarginazione con una prenotazione

introspettiva e una sintonia con il “dolore delle vittime”:

- Natalia Ginzburg rilegge eventi e personaggi della storia politica e letteraria da un angolo di

visuale insieme ironica e affettuosa.

Le scrittrici delle generazioni successive dialogano con le tematiche del femminismo più recente, un

esempio lo abbiamo nei racconti di Dacia Maraini e Clara Sereni; le quali accostano al tema della

differenza femminile quello della diversità dei deboli e degli emarginati.

Nel ‘900 la rigida divisione che stabiliva ruoli diversi per i due sessi non è più presente, poiché le

donne sono diventate libere di avanzare negli studi e di ricoprire cariche di responsabilità in

qualsiasi campo, da quello sociale a quello politico. Purtroppo questo cambiamento radicale che ha

portato alla fine di questo atteggiamento discriminatorio verso l’essere femminile si è verificato

solo nei paesi Occidentali: infatti, negli Stati Islamici più tradizionalisti il principio della superiorità

maschile vige ancora ed è sancito anche dal Corano. La donna, quindi in alcuni paesi, svolge un

ruolo marginale, se non nullo, all’interno della società ed è ancora soggetta all’autorità maschile .

Nelle opere di donne più recenti prevale la volontà di esprimere se stesse, che si contamina con il

desiderio di raccontare le modificazioni e i processi sociali in atto nella realtà in cui vivono.

La creazione letteraria, nel corso della storia, ha rappresentato, per molte donne, il territorio in cui

comunicare la propria condizione di esclusione; l’ambito della scrittura permette che si realizzi un

processo di riconoscimento culturale della propria identità.

La scrittura mette in gioco totalmente l’individuo, in esse c’è l’anima dello scrittore, ed anche il suo

essere, indipendentemente, donna o uomo.

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Compiuta Donzella, A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora

A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora

acresce gioia a tutti fin’amanti,

e vanno insieme a li giardini alora

che gli auscelletti fanno dolzi canti;

la franca gente tutta s’inamora,

e di servir ciascun tragges’inanti,

ed ogni damigella in gioia dimora;

e me, n’abondan marrimenti e pianti.

Ca lo mio padre m’ha messa ‘n errore,

e tenemi sovente in forte doglia:

donar mi vole a mia forza segnore,

ed io di ciò non ho disìo né voglia,

e ‘n gran tormento vivo a tutte l’ore;

però non mi ralegra fior né foglia.

Il tema della poesia è centrato su uno degli aspetti più tipici della poesia cortese: i limiti della

famiglia feudale, fondata sui matrimoni di interesse, privi di amore. La donna, infatti, soffre proprio

perché dovrà sposare, senza amarlo, un signore scelto dal padre. Proprio quando la natura, nel pieno

del suo fiorire, chiama all'amore, questa giovane, invece, dovrà patire le pene più terribili per dover

sposare uno sconosciuto, rinunciando all'amore. La prima parte del sonetto, in poche e delicate

righe, esprime tutta la condizione del risveglio amoroso in primavera, della purezza degli amanti,

del valore dell'amore cortese, della disponibilità, da parte di chi prova amore, a porsi al servizio di

questo sentimento e della donna amata. L'aria è colma dei canti degli uccellini. Questi canti sono,

appunto "nuovi" poiché nuovo è il sentimento che i giovani provano passeggiando nei giardini in

fiore, anch'essi sbocciati dai nuovi germogli di una nuova stagione. "Che gli augeletti fanno nuovi

canti", ha quindi un profondo valore simbolico ed esprime tutta la tensione fra una scena di vita di

eccezionale bellezza, che la damigella in questione, però, non potrà vivere poiché le sarà preclusa la

conoscenza e la partecipazione a questa situazione "nuova". Il sentimento d'amore sarà destinato a

rimanere ignoto. E' per questo che soffre, più che per essere destinata sposa a un signore. La

sofferenza nasce dalla mancanza d'amore, dal non poter provare questo nuovo "canto", dal non

poter condividere le gioie di questa stagione nuova, che rischia di restare per sempre sconosciuta.

La poesia non fa menzione di un essere amato, perchè il dolore, in questo caso, non scaturisce

dall'amore per un soggetto concreto, che non potrà essere realizzato, ma proprio dal rischio, molto

più grande e profondo, di non poter mai più avere l'occasione di provare il sentimento d'amore in

quanto tale. La poesia esprime il timore di non poter condividere i sentimenti, le sensazioni, gli stati

d'animo, degli innamorati che passeggiano nei giardini primaverili. Si tratta di una sottrazione

intollerabile, di una privazione, di un isolamento brutale, che emerge in tutta la sua profondità nella

seconda parte e nella conclusione del sonetto, molto dura, priva di alcuna prospettiva: "E in gran

tormento vivo a tutte l'ore: / Però non mi rallegra fior né foglia".

Mentre la poesia cortese indirizza i suoi sentimenti all'amata, che di solito esiste ed è incarnata da

una donna, da un oggetto che l'amante ha conosciuto e visto e verso il quale indirizza l'amore, in

questo sonetto l'amore non si rivolge a un oggetto specifico. Il dolore non nasce dalla lontananza,

dalla mancanza di libertà o dalla mancata corrispondenza dei sentimenti. Il dolore appare come

ancor più cosmico, universale e inaccettabile, poiché scaturisce dal non poterlo conoscere, dal fatto

che alla damigella viene impedito, forse per tutta la vita, di provare questo sentimento. L'amore le

viene precluso in quanto amore, cioè prima ancora che lo possa provare. La condizione degli amanti

nei giardini, che la poetessa osserva e descrive, a causa del ditkat di suo padre, le sarà preclusa per

sempre. Ella osserva e descrive un mondo del quale non farà mai parte, dal quale non viene "tolta",

ma le viene impedito di entrare. A mio parere ciò attribuisce a questa poesia e alla sensibilità

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femminile che ne è alla base, tutto il suo grande valore. Mentre l'amore cortese visto dagli occhi di

un soggetto maschile, si rivolge sempre a un oggetto amato che esiste e che si desidera possedere,

essendo una facoltà maschile e una condizione sociale dell'uomo stesso il poterlo conquistare, alla

donna invece si presenta una privazione di partenza, una sottrazione iniziale, il vuoto angosciante di

una mancanza permanente, di un "non vissuto": ella non potrà appropriarsi di nulla poiché quel

mondo, quella condizione, le vengono sottratte in anticipo. Il soggetto maschile che canta le sue

poesie d'amore, per quanto soffra è invece all'interno di quel mondo, ne fa parte, prova un vuoto e

un'angoscia d'amore, non può provare un vuoto e un'angoscia esistenziale. Questa poesia esprime

dunque, nelle condizioni in cui era possibile all'epoca, una tematica esistenziale, leopardiana,

filosofica, di eccezionale valore, che ci è totalmente sconosciuta se ci riferiamo solo ai testi dei

poeti cortesi (maschi), dell'epoca. E, sotto certi aspetti, ci è sconosciuta perfino in Dante e Petrarca,

poiché anche nel loro caso l'amore è comunque un dato che proviene da un'esperienza vissuta,

indirizzandosi a un oggetto determinato (Beatrie e Laura), il cui fine è rappresentato dal possesso. I

sentimenti amorosi di un uomo e di una donna prendono strade diverse e la poesia di Compiuta

Donzella lo mette in evidenza in modo chiaro e netto. Perciò questa poesia, oltre che per la

raffinatezza delle espressioni linguistiche e della tecnica, ha un valore eccezionale proprio perchè ci

offre un punto di vista unico e radicalmente differente rispetto all’usuale sguardo cui siamo abituati.

Compiuta Donzella è lo pseudonimo di una donna fiorentina vissuta nel XIII secolo della quale ci

sono stati tramandati tre sonetti di gusto trobadorico e giullaresco, due dei quali di una perfezione

formale molto vicina a quella del Petrarca.

Si tratta, forse, della prima poetessa italiana: la prima cioè a comporre versi in volgare. Nulla si sa

con certezza della sua vita, tranne che visse nell’ambiente toscano della seconda metà del XIII

secolo. L’autenticità viene confermata dalla presenza del suo nome fra i sonetti del Torrigiano e per

un abbastanza esplicito richiamo ad essa in una lettera di Guittone d’Arezzo. Ebbe un’educazione e

una cultura rare in tempi in cui l’analfabetismo era molto diffuso, specialmente tra le donne.

Resta un enigma storico: il nome, o lo pseudonimo, sotto cui si cela. Per mancanza di altri riscontri,

letterarî o biografici, la Compiuta (nome, peraltro, usuale nella Firenze del tempo in cui visse) è

stata a lungo oggetto d’inattendibili ipotesi spesso di carattere romanzesco.

Nadia Saifi

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Contessa di Dia, Come vorrei una sera tenere

Come vorrei una sera tenere

il mio cavaliere, nudo, tra le braccia,

ch'egli si riterrebbe felice

se solo gli facessi da guanciale;

che ne sono più incantata

di quanto Fiorio di Biancofiore;

io gli dono il mio cuore e il mio amore,

la mia ragione, i miei occhi e la mia vita.

Bell'amico, amabile e buono,

quando vi avrò in mio potere?

Potessi giacere al vostro fianco una sera

potessi darvi un bacio appassionato!

Sappiate , avrei gran desiderio

di avervi al posto di mio marito,

con la condizione che mi concedeste

di far tutto ciò ch'io volessi.

Nella poesia che segue è espresso chiaramente l’erotismo, la donna manifesta un amore per il suo

cavaliere e esprime il desiderio di possederlo. Ama senza nascondersi, esalta la felicità che dà

l'amore, ma c’è anche la continua allusione al giudizio invidioso degli "altri". Essa è una donna

sposata e dunque va contro la morale: meraviglia che tradisca la fedeltà coniugale e maggiormente

che esprima così liberamente i propri desideri quasi a confermare l’immagine di tentatrice che

traspare nell’immaginario dell’epoca. D’altra parte all’epoca il perfetto amante, nell’intimità come

in società, era semplicemente un servitore della sua dama, suo dovere era quello di piacerle, di

esserle fedele, di decantarne le virtù;infatti nella fine della poesia dice che vuole fare tutto ciò che

vuole. Dunque la donna interpreta a suo modo la lirica provenzale raffigurando nell’amato amante

quel che la donna rappresenta nell’uomo .Un sentimento non realizzabile in quanto irraggiungibile.

Un desiderio e una passione nascosta,da tener segreta.Il sentimento amoroso del cavaliere verso la

sua dama si configurava concretamente come un “servizio” di natura feudale, un rapporto da

“signora” a “vassallo”, che attraverso una serie di livelli, sublimava l’eros lussurioso in visione

mistica della donna. Il punto più alto, ovvero l’acme amoroso, era rappresentato nella lirica

generalmente da un casto bacio In cambio la dama, sua Signora, doveva rendergli conto del suo

comportamento. Ma è pur vero che, oltre al bacio, il cavaliere poteva aspirare ad avere altre due

ricompense: contemplare il corpo nudo della dama e essere sottoposto all’asag, ovvero alla “prova”

(in francese essai) in cui tutto era permesso, eccetto l’amplesso vero e proprio. Un’eco di codesta

pratica potremmo scorgerlo proprio nei versi della trovatrice Beatrice, contessa di Dia, allorquando

brama di riconquistare i favori di un cavaliere al quale ancora non ha avuto il coraggio di

concedergli amore. Il suo desiderio recondito è allora quello di giacere a letto con lui, di

abbracciarlo nudo ed offrirgli il suo seno come cuscino. Ciò le procurerà felicità perché è ben

consapevole che lui non oserà mai andare oltre ciò che lei (ovvero la ritualità dell’amor cortese) gli

avrà consentito.

Lucrezia Paolini

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Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé

Comunque non potevo fare a meno di pensare, mentre guardavo le opere di Shakespeare nello

scaffale, che almeno in questo il vescovo aveva ragione; sarebbe stato completamente e

interamente impossibile che una donna scrivesse i drammi di Shakespeare nell'epoca di

Shakespeare. Consentitemi di immaginare, giacché ci riesce così difficile procurarci dei dati di

fatto, cosa sarebbe successo se Shakespeare avesse avuto una sorella meravigliosamente dotata, di

nome Judith, diciamo. Molto probabilmente Shakespeare frequentò- sua madre era un'ereditiera - la

scuola secondaria, dove avrà imparato il latino - Ovidio, Virginio e Orazio - ed elementi di

grammatica e di logica. Era, come si sa, un ragazzo indisciplinato, che cacciava di frodo i conigli,

e magari uccideva qualche daino; e dovette, un po' a precipizio, sposare una donna dei dintorni,

che gli dette un figlio un po' prima del dovuto. Questa avventura lo spinse a cercar fortuna a

Londra. Pare avesse inclinazione per il teatro; cominciò facendo la guardia ai cavalli all'ingresso

degli attori. Cominciò prestissimo a recitare, diventò un attore di successo, e si trovò al centro della

società contemporanea; incontrava tutti, conosceva tutti, sfoggiava la sua arte sulla scena, il suo

spirito per strada, e riuscì perfino ad essere ricevuto a palazzo reale. Intanto la sua sorella così

straordinariamente dotata, supponiamo, restava in casa. Non era meno avventurosa, fantasiosa e

desiderosa di conoscere il mondo di quanto lo fosse lui. Ma non l'avevano mandata a scuola. Non

aveva avuto la possibilità di imparare la grammatica e la logica, non diciamo di leggere Orazio e

Virgilio. Di tanto in tanto prendeva un libro, forse uno di suo fratello, e leggeva qualche pagina.

Ma poi arrivavano i genitori e le dicevano di rammendare le calze o di ricordarsi dello stufato, e di

non perder tempo fantasticando tra libri e carte. Avranno parlato con decisione ma con gentilezza,

perché erano persone agiate, che sapevano come deve viver una donna, e amavano la loro figlia;

anzi, è molto probabile che lei fosse la pupilla dell'occhio di suo padre. Forse, in soffitta,

scribacchiava furtivamente qualche pagina, ma aveva cura di nasconderla o di bruciarla. Ad ogni

modo, ancora adolescente, era stata promessa al figlio di un vicino mercante di lane. La ragazza

protestò che il matrimonio le era odioso, e perciò fu picchiata duramente da suo padre. Poi lui

smise di rimproverarla e la pregò invece di non arrecargli questo danno, questa vergogna di

rifiutare il matrimonio. Le avrebbe regalato una collana di perle, oppure una bella gonna, diceva

con le lacrime agli occhi. Come poteva disubbidirgli? Come poteva spezzargli il cuore?

Solo la forza del suo talento la spinse a questo. Una sera d'estate fece un fagottino con le sue cose,

si calò dalla finestra con una corda e prese la strada di Londra. Non aveva ancora diciassette anni.

Gli uccelli che cantavano sulle siepi non erano più musicali di lei. Aveva, come suo fratello, la più

vivace fantasia per la musica delle parole. Come lui, si sentiva attratta dal teatro. Bussò alla porta

degli attori. Voleva recitare, disse. Gli uomini le risero in faccia. Il capocomico - un uomo grasso,

dalle labbra spesse - sghignazzò. Muggì qualcosa sui barboncini che ballano e sulle donne che

recitano; nessuna donna, disse, poteva fare l'attrice. Alluse invece... potete immaginare a cosa.

Nessuno le avrebbe insegnato l'arte. D'altronde, poteva mangiare nelle taverne o girare per le

strade a mezzanotte? Eppure il suo genio era letterario, e desiderava nutrirsi abbondantemente

della vita degli uomini e delle donne, e dello studio dei loro costumi. Alla fine (poiché era molto

giovane, e di viso somigliava spiccatamente a Shakespeare, con gli stessi occhi grigi e le

sopracciglia rotonde) Nick Green, l'attore-capocomico, ebbe pietà di lei; si trovò incinta di questo

signore, e così - chi può misurare il fervore e la violenza del cuore di un .poeta quando si trova

prigioniero e intrappolato in un corpo di donna? - si uccise, una notte d'inverno, e venne sepolta a

un incrocio, là dove ora si fermano gli autobus, presso Elephant and Castle.

Così, più o meno, sarebbe andata la storia, penso, se ai tempi di Shakespeare una donna avesse

avuto il genio di Shakespeare. Perché un genio come quello di Shakespeare non nasce fra la gente

di fatica, ignorante, servile. In Inghilterra non era nato fra i sassoni e i britanni. Non nasce oggi fra

le classi lavoratrici. Come poteva dunque nascere allora fra donne che cominciavano a lavorare,

secondo il professor Trevelyan, appena erano uscite dall'infanzia, che vi erano costrette dai genitori

e spinte da tutto il peso della legge e della tradizione? Eppure, qualche specie di genio dev'essere

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esistito fra le donne, come dev'essere esistito fra i lavoratori. Di tanto in tanto appaiono fulgidi una

Emily Bronte o un Robert Burns, e ne dimostrano la presenza. Ma certo non sarà mai giunto ad

esprimersi per iscritto. Tuttavia, quando leggo di una strega gettata nel fiume, di una donna

posseduta dai diavoli, di una levatrice esperta di erbe, o perfino dell'esistenza della madre di

qualche uomo notevole, penso che siamo sulle tracce di un romanziere perduto, di un poeta

costretto al silenzio, di qualche muta e ingloriosa Jane Austen, di qualche Emily Bronte che si sarà

fracassata il cervello fra le brughiere, oppure avrà vagato gemendo per le strade, resa pazza dalla

tortura inflittale dal proprio talento. Infatti sarei capace di scommettere che Anonimo, il quale

scrisse tante poesie senza firmarle, spesso era una donna. È stata una donna, suggerì Edward

Fitzgeraid, credo, a comporre le ballate e i canti popolari, accordandoli al ritmo della culla, oppure

per ingannare il tempo mentre filava, durante le lunghe sere d'inverno. Questo può essere vero,

oppure falso - chi può dirlo? - ma quel che è indubbio, così mi pareva rileggendo la storia della

sorella di Shakespeare così come l'avevo inventata, era che qualunque donna, nata nel Cinquecento

con un grandissimo talento, sarebbe certamente impazzita, o si sarebbe sparata, o avrebbe finito i

suoi giorni in qualche capanna solitaria fuori del villaggio, metà strega, metà maga, temuta e

schernita. Perché non ci vuole un grande acume psicologico per essere sicuri che una ragazza di

grande talento, che avesse cercato di usarlo per far poesia, sarebbe stata così ostacolata e impedita

dagli altri, così torturata e dilaniata dai propri istinti contraddittori, da finire sicuramente per

perdere la salute e la ragione. [...]

Vivere una vita libera nella Londra del Cinquecento avrebbe significato per una donna, che fosse

poetessa e drammaturga, una tensione nervosa e un dilemma tali da ucciderla. E se pure fosse

sopravvissuta, i suoi scritti sarebbero stati comunque contorti e deformi, appunto per il fatto di

essere il prodotto di un'immaginazione forzata e morbosa. E senza dubbio, pensavo riguardando lo

scaffale in cui non ci sono commedie scritte da donne, le sue opere non avrebbero circolato con la

sua firma. Almeno di questa difesa si sarebbe avvalsa. Era il residuo del senso di castità ad imporre

l'anonimità alla donna, ancora nell'Ottocento. Currer Bell, George Eliot, George Sand, tutte e tre

vittime dei loro intimi conflitti, come provano i loro scritti, cercarono invano di nascondersi dietro

un nome maschile. Così rendevano omaggio all'idea convenzionale che, se non imposta dall'altro

sesso, era da questo incoraggiata liberalmente («La massima gloria per una donna è che non si parli

di lei», disse Pericle, un uomo di cui si è parlato molto): l'idea che la pubblicità nelle donne è

detestabile. L'anonimità scorre loro nel sangue. Il desiderio di velarsi le possiede ancora.

da Una stanza tutta per sé, [1928] tr. it. di M. Del Serra, Newton Compton, Roma.

Una stanza tutta per sé, un luogo della casa, cioè, dove potersi dedicare a quell’attività di

riflessione, di pensiero richiesta dal concepimento e realizzazione di un’opera

letteraria, musicale, figurativa, scenica, scientifica o altra. Di questo ci parla il

saggio di Virginia Woolf che percorre la storia, soprattutto culturale,

evidenziando come la donna abbia avuto in essa un posto sempre ridotto, come

non le sia mai stato possibile ottenere.

E non solo di una “stanza” ha bisogno la donna, ma anche una rendita annuale

(almeno cinquecento sterline) sarebbero occorse ad una donna perché

acquistasse quella “libertà intellettuale nel cui seno nascono le grandi opere”.

Invece per secoli i tempi, i costumi le hanno negato tutto questo e soltanto

adesso, scrive la Woolf, si può dire che lo stia ottenendo come dimostra la sua

presenza negli ambiti di lavoro, compreso quello intellettuale.

Le donne sono state da sempre costrette ad assumersi obblighi, incarichi, mansioni di carattere

pratico, materiale, sono state quasi unicamente figlie, mogli, madri, nonne quando non serve o

schiave e, perciò, impedite a pensare ad altro. Né per gli uomini è stata sempre possibile quella

“libertà intellettuale” che sola conduce all’arte dal momento che soltanto una condizione di vita

agiata, sicura, sostiene la Woolf, può garantirla mentre la povertà, la contingenza costringono ad

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impegni più immediati, più concreti. Mentre l’uomo “viveva” a pieno la sua realtà umana, la donna

veniva relegata in casa. Ruolo questo che, dietro ad un’immagine di grande moralità, nascondeva,

però, una pericolosa oppressione nella quale la donna diventava incapace di esprimere sé stessa, sia

negli affetti, che nel sociale ognuna di queste donne, infatti,vissero intensamente la loro epoca, e si

ritrovò a non poter decidere tra due strade: se chinare il capo al dovere, abbandonando desideri e

aspirazioni, oppure,decidere di vivere la propria vita senza limiti, assistendo però alla distruzione

della sua immagine”pubblica” e della sua “rispettabilità”. Spesso divenendo incapace di darsi una

possibilità di scelta.

In seguito, quando la situazione sociale cambiò le donne dovettero decidere. Virginia Woolf fu una

di queste donne, di questi geni senza sesso e senza tempo. ”Si perché il genio non ha sesso”.

L’artista appartiene al sublime. Rappresenta il tramite fra il Divino e i comuni mortali. E fu una

donna scissa, spaccata in due. Il suo animo gentile fu squassato da ansie, paure, depressioni. La sua

identità sessuale spesso confusa. Il dominio di sé sempre precario. Fu consapevole della realtà della

condizione femminile, dei problemi delle scrittrici donna, del loro isolamento psichico e culturale, e

di tutti i pregiudizi sociali che lei per prima incontrò, e soltanto in quanto “donna”; e a questa realtà

complessa dedicherà una delle sue opere critiche più apprezzate, un pilastro della critica letteraria

sull’universo femminile il saggio Una Stanza Tutta Per Sé. Nata in piena età vittoriana, non solo

dovette affrontare il caos morale e sociale di questa epoca così profondamente contraddittoria, ma

anche farsi largo nel “logos” maschile ed in ciò che era stata, da sempre,è unica prerogativa

dell’uomo:la cultura.

Molto furono gli sforzi che lei, per prima, dovette compiere per ritagliarsi uno spazio autonomo,

una zona franca in cui la sua penna potesse imprimersi con libertà sulla pagina bianca. Dopo anni di

buio, tentativi, cadute e risalite, Virginia riuscirà ad affermarsi; ma solo in seguito alla morte del

padre: il grande critico letterario Leslie Stephen; colui che impersonava, di fatto, il potere

patriarcale della cultura vittoriana. Prima di riuscire a sentirsi finalmente libera di scrivere, Virginia

dovrà uccidere dentro di sé questo universo patriarcale La catarsi, la rinascita di questo genio

indiscusso, sono passate attraverso la morte iniziatica, quella del padre prima, poi la sua stessa.

Virginia riuscirà là dove molte donne artiste falliranno ma il prezzo pagato sarà molto alto :la sua

salute e l’equilibrio della sua mente ne risulteranno,infatti,profondamente compromessi tanto che

arrivo al suicidio. L’opera della Woolf ha prodotto le fra le pagine più ricche ed intense della

letteratura femminile del secolo scorso,ma ha affrontato e messo in evidenza,come impegno sociale

prima ancora che culturale della discriminazione sessuale della donna in ambito intellettuale.

Adeline Virginia Stephen nasce a Londra il 25 gennaio 1882, da Leslie

Stephen, uomo di lettere, e da Julia Duckworth. Nel 1895 la madre muore

ed il padre entra in una profonda depressione che si ripercuote gravemente

su Virginia. Da quel momento fino alla sua morte nel 1897 si occupa della

famiglia Stella Duckworth, la sorella di Julia.

Nel 1904 muore anche il padre e Virginia tenta il suicidio gettandosi da

una finestra.

Nel 1905 Virginia e i fratelli, Toby, Adrian e Vanessa, si trasferiscono nel

quartiere londinese di Bloomsbury e Virginia pubblica il suo primo

saggio, inizia a lavorare per il “Times Literary Supplement “ e ad

insegnare in una scuola per studenti-lavoratori.

Dopo la morte di Toby nel 1906 ed il matrimonio di Vanessa nel 1907,

anche Virginia si sposa nel 1912 con Leonard Woolf, ma ha altri esaurimenti nervosi che non le

impediscono però di scrivere la novella The Voyage Out che verrà pubblicata nel 1915 e di iniziare

a scrivere I diari.

Nel 1917, insieme al marito, fonda la casa editrice Hogarth Press. Nel 1929 pubblica A room of

one's own nel quale, così come in Three guineas, la scrittrice prende una ben precisa posizione a

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favore del nuovo ruolo sociale della donna, vista come persona titolare degli stessi diritti dell'uomo.

Afferma, cioè, il diritto della donna di crearsi un'indipendenza, anche economica, dall'uomo, in

modo tale che le possano essere concesse le stesse opportunità e accordati gli stessi trattamenti.

Il 28 marzo del 1941, si riempì le tasche di sassi e si annegò nel fiume Ouse, non lontano da casa,

nei pressi di Rodmell. Lasciò una toccante nota al marito:

Virginia fu sempre molto attiva all’interno dei movimenti femministi per il suffragio delle donne e

riflette più volte nelle sue opere della condizione femminile.

Greta Maldera

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Dacia Maraini, La Lunga vita di Marianna Ucrìa

"Un padre e una figlia eccoli lì"... Così inizia il bellissimo libro

di Dacia Maraini, un romanzo che racconta la storia di una

bambina che appartiene ad una famiglia nobile e che, come le

sue sorelle, è destinata al matrimonio o alla clausura.

Il rapporto che unisce il padre e la figlia, anzi "il signor pad re"

e "la mutola", è una sorta di legame indissolubile che, se pur

inserito in un contesto settecentesco e quindi di carattere

prevalentemente arcaico dove all'uomo e alla donna spettano

diritti e doveri profondamente diversi, restiste al tempo e

prevalica anche il rapporto che la bambina stessa ha con la

madre. Come già detto, il romanzo si inserisce in uno scenario

che coincide con la seconda metà del Settecento, sullo sfondo di

una terra ancorata alle sue tradizioni, ricca di pregiudizi e di

arroganza nobiliare come la Sicilia, dove la piccola Marianna

Ucrìa crescerà in balìa del suo handicap. La bambina, infatti, è

sordomuta e può comunicare con gli altri solo attraverso la

scrittura; però conserva un ricordo remoto nella sua mente di

quando era in grado di parlare normalmente e di percepire

distintamente ciò che le accadeva intorno. Così domanderà più volte al padre se è sempre stata muta

e il padre negherà dicendo che è affetta da questa malattia fin dalla nascita. La verità le verrà

rivelata solo in età adulta dal fratello che segretamente le confiderà che la causa de suo male è da

attribuire allo zio, che all'età di sei anni l'aveva violentata e da allora lei non aveva più parlato.

Nonostante ciò, "il signor padre" per guarirla l'esporrà sempre a scene forti come l'impiccagione

pubblica di un ragazzo condannato a morte dal tribunale dell'Inquisizione, nel tentativo di

provocarle uno shock da cui riacquistare l'uso della parola. "Devi parlare, devi aprire quella

maledetta bocca di pesce...", così l'aveva spronata vedendo che, nemmeno dopo questo episodio

macabro e violento, Marianna rimaneva in silenzio.

Essendo questo il periodo dei matrimoni combinati dai genitori che si vogliono assicurare sempre

più ricchezze e prestigio, la protagonista, all'età di tredici anni, verrà data in moglie allo zio, lo

stesso che in passato le aveva inflitto violenza. Lui, però, non sarà un cattivo marito: non la

sevizierà mai, a parte quei rapidi sporadici episodi dai quali ogni volta nascerà un figlio.

Il padre, forse per farsi perdonare di averla fatta assistere così piccola ad un impiccagione, le porterà

a casa la figlia di un condannato, Fila, che vivrà con lei nascondendo il fratello Saro, che diverrà il

suo amante solo dopo la morte del "signor marito zio". Il ragazzo le farà apertamente la corte,

imparando ad ascoltare i suoi silenzi ed a scrivere in modo da poter parlare con lei, fino a quando

riuscirà a rubarle un bacio. Essendo vittima di una mentalità profondamente tradizionalista e

condizionata dai pregiudizi dei compaesani, fuggirà dal suo amore dando Saro in sposa ad una

popolana, Peppinedda. Fila accoltellerà la cognata ma, sbagliando nell'infliggere i colpi, rischierà di

uccidere il fratello. Questi fatti di sangue spingeranno Marianna ad abbandonare la Sicilia per un

lungo viaggio per l'Italia con la figliastra Fila, che libererà prima dalla condanna a morte e poi dalla

prigionia del manicomio.

L'immaginario che fornisce questo famoso romanzo sul mondo femminile è molto ampio: viene

descritta una realtà Settecentesca in cui la donna è sottoposta all'autorità del sesso dominante, dove

subisce la sua condizione di invalidità. Non le venivano riconosciuti persino i diritti fondamentali

umani e civili:la donna, infatti, non godeva della libertà di spostamento, non poteva procedere negli

studi e ne tantomeno ricoprire cariche pubbliche. Quelle appartenenti ad un ceto medio-alto, come

Marianna, venivano iniziate ad una cultura fondata sul rigoroso rispetto di tre principi fondamentali,

ovvero la castità , il silenzio e l'obbedienza. Erano poste ad un livello inferiore rispetto all'uomo e,

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invece che persone, venivano considerate come delle proprietà prima di proprietà del padre e poi,

nella vita coniugale, del marito. L'istruzione che gli veniva impartita comprendeva l'acquisizione di

competenze e abilità relative esclusivamente alla gestione domestica. Non potevano decidere nella

della propria vita ne di quella dei loro figli. Il principio della superiorità maschile che dominava a

quel tempo, e che è continuato a persistere fino a pochi decenni fa, limitava l'essere donna ,

privandola di ogni forma di diritto o di tutela.

Il libro, scritto da una delle più conosciute scrittrici femministe italiane contemporanee, fornisce un

prezioso osservatorio su la visione Settecentesca della donna, come strumentalizzazione delle

volontà dell'uomo, e quella attuale. Il momento della presa di coscienza della sua condizione, priva

di soggettività e autonomia, non è altro che il risultato finale di un lungo e faticoso processo che ha

previsto una lotta radicale: una lotta contro la natura, contro la cultura, contro le disuguaglianze

imposte dal potere per ottenere il riconoscimento delle proprie diversità.

Dacia Maraini, nata a Firenze nel 1936 e ancora attiva nella sua carriera letteraria, attraverso "la

lunga vita di Marianna Ucrìa", rende possibile un confronto vero e proprio tra la donna di ieri e

quella di oggi: attualmente, non si parla più di superiorità o d'inferiorità ma un riconoscimento

totale della piena parità fra i due sessi e non si assiste più a forme di discriminazioni radicate nel

sistema politico- sociale. Al giorno d'oggi, la donna è in possesso degli stessi diritti di cui fa uso

l'uomo e può usufruire di tutte le forme di tutela legale o giuridica per salvaguardare la propria

persona. La donna non è più subordinata all'uomo, ma è un soggetto attivo e indipendente che

agisce all'interno della società e, che come tale, va rispettata nella sua individualità.

Dopo decenni di lotte, la convinzione che relegava la donna all'interno delle mura domestiche è

stata profondamente cambiata: la rigida divisione che stabiliva ruoli diversi per i due sessi non è più

presente nelle società contemporanee, poiché sono libere di avanzare negli studi e di ricoprire

cariche di responsabilità in qualsiasi campo, da quello sociale a quello politico. Questo

cambiamento radicale ha portato alla fine di questo atteggiamento discriminatorio verso l'essere

femminile, dopo anni di lotte per uscire dalla condizione di inferiorità e per riappropriarsi dei diritti

di cui le donne erano state private.

Elisabetta Porcari

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Tracy Chevalier, Quando cadono gli angeli

Il libro ha la capacità di descrivere abilmente e molto chiaramente il momento di passaggio tra due

secoli l’Ottocento e il Novecento servendosi della storie di due famiglie i

Coleman e i Waterhouse incarnanti gli opposti e contrastanti sentimenti

che sorgono con l’avvento del XX sec.

La prima famiglia, quella dei Coleman, è sicuramente la più liberale

(anche se in realtà è Kitty, la madre e moglie, ad interpretare il ruolo della

donna moderna che utilizza metodi naturali per il controllo delle

gravidanze senza avvertire il marito, che legge e ha una buona cultura e

che si ritrova proprio per il suo essere “all’avanguardia” a vivere in un

mondo che la annoia e delude) mentre la seconda famiglia, quella dei

Waterhouse, risulta essere decisamente più tradizionalista e conservatrice,

legata alla figura dell’ormai defunta regina Vittoria quanto al secolo

passato, poco incline ai cambiamenti imposti dallo scorrere del tempo.

Il libro si avvale del racconto dell’amicizia delle due bambine delle

famiglie Maude Coleman e Lavinia Waterhouse proprio per introdurre i

vari, piccoli e importanti tasselli che vanno a comporre il mosaico di un futuro che è ormai per noi

storia: le suffraggette, le relazioni extra coniugali, gli aborti clandestini occultati e nascosti come

ogni dettaglio che esuli da quella insopportabile e stancante “facciata” di fondo, tesa a dimostrare

che tutto va sempre e comunque bene.

L’ambiente in cui si svolgono le vicende centrali del romanzo è, non a caso, un cimitero proprio a

segnare la fine di un passato che non trova e che non ha posto nel futuro e che in fretta sta cedendo

il passo ad avvenimenti che si susseguono troppo veloci per essere fermati, e che si rivelano essere

troppo moderni ed estremi per essere compresi o condivisi.

È un romanzo in cui le donne sono al centro: sono loro a determinare il ritmo, le abitudini, il

temperamento della famiglia e del romanzo stesso (impostato in capitoli in cui ogni personaggio

diventa di volta in volta voce narrante, illustrando gli eventi che si succedono dal proprio punto di

vista) sono loro che rappresentano i due secoli, il passaggio, la speranza, ma anche la disperazione e

la tristezza date da ruoli spesso troppo oppressivi, pesanti, senza scampo che portano le persone a

reagire (oggi come cento anni fa) in due modi: opponendosi o adattandosi. Questo è ciò che

possiamo trovare in questo romanzo: l’eterna lotta tra ciò che si è, tra ciò che si vorrebbe essere e si

sa di non poter diventare, tra speranza e oblio, tra futuro e passato, tra sogno e realtà,

combattimento che guida il lettore alla scoperta di un modo positivo nel negativo e viceversa che

cerca nel “nuovo” il riscatto della propria storia

Francesca Arciero

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IL LINGUAGGIO

Il linguaggio è un sistema si segni tipicamente umano adoperato per comunicare.

Il linguaggio sessista è la visione unilaterale del mondo, di una cultura elaborata da un gruppo

socialmente dominante e da esso imposta al gruppo subalterno. la lingua è il prodotto della cultura

di un popolo di conseguenza ognuno di noi usa spesso dei termini portatori di ideologie e

pregiudizi;nella lingua italiana ne esistono molti antidonna. .per rendersi conto di ciò basta

rileggere le definizioni di "donna" e di "uomo" riportate nei vari Dizionari e Vocabolari della

lingua italiana.

Donna: "femmina (dell'uomo)/figlia di Eva, costola d'Adamo/moglie, consorte, sposa, fidanzata,

compagna, amante, druda/padrona, signora gentildonna, matrona, madama, dama, madonna

(ant.)/serva, domestica, fantesca/ (nei giochi) regina/bel sesso, gentil sesso, sesso debole, secondo

sesso".

Uomo: "creatura di Dio, persona, creatura intelligente, cristiano, essere umano, figlio di Adamo,

figlio di Eva, mortale, maschio, cittadino, soldato, guerriero/marito, sesso forte, viro, prossimo,

genere umano, mortale/specie umana, adulto".

Negli ultimi anni numerosi studiosi di linguistica hanno sottolineato come il linguaggio sia

fortemente sessista: in italiano, ad esempio, si usa comunemente la parola “uomo” per indicare

genericamente “l’uomo e la donna”. Molte università, soprattutto nei paesi anglosassoni, hanno

oggi adottato norme linguistiche atte a evitare l’insorgenza della discriminazione; alcune misure

legislative di questo genere, dirette soprattutto alla pubblica amministrazione, sono state adottate

anche in Italia. Inoltre Alma Sabatini ha scritto un libro riguardante proprio il tema del sessismo

nella nostra lingua.

ALMA SABATINI E IL SESSISMO NELLA LINGUA ITALIANA

Uno dei trattati di maggior rilievo e importanza nel panorama italiano degli ultimi anni è

sicuramente Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana della scrittrice e

giornalista Alma Sabatini (estratto dal libro Il sessismo nella lingua italiana) a lei commissionato

dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e Commissione Nazionale per la Pari Opportunità tra

Uomo e Donna, e pubblicato nel 1987.

Sembra quasi un paradosso pensare che a più di 20 anni di distanza dall’uscita del volume, i temi da

esso trattato risultino ancora di primo piano e sconvolgente attualità e che la richiesta della

diffusione di un linguaggio non sessista (nella fattispecie del nostro stato non maschilista) sia

ancora tra le riforme più ricercate dalle femministe e dalle donne in genere, con lo scopo non di

imporsi sull’uomo ma di dare maggiore “visibilità linguistica alle donne e pari valore linguistico a

termini riferiti al sesso femminile”.

Alla base dell’uso di un linguaggio discriminatorio verso la donna, la compianta scrittrice individua

infatti un pensiero sessista, che determina in coloro che lo utilizzano e ascoltano atteggiamenti e

comportamenti a loro volta sessisti (anche a livello inconscio), perchè la parola risulta essere uno

strumento potente, “una materializzazione, un’azione vera e propria”.

È un dato di fatto che modificare però la lingua di un paese sia un passo arduo e complesso davanti

al quale, nella maggior parte dei casi, le persone ostentano scetticismo e diffidenza, perchè è un

comportamento che viene visto come teso ad abbattere la tradizione e la storia di un popolo (e con

essa quella di ciascun individuo) .

Eppure tutti noi utilizziamo ogni giorno termini presi da culture diverse dalla nostra (e quindi

estranei) senza alcun problema ed è inoltre quasi continua l’introduzione nel nostro linguaggio di

neologismi che vengono comunemente e pacificamente accettati dall’opinione pubblica. Cosa

determina allora l’astio verso un cambiamento della lingua che non favorisca ma tuteli la donna?

Alma Sabatini propone nel suo trattato tre risposte con lo scopo di spiegare le motivazioni che

determino la diffidenza popolare e istituzionale verso tale modificazione.

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In primo luogo, come sinteticamente spiegato da Bruno Maglioni, “un termine nuovo viene spesso

giudicato brutto solo in quanto nuovo, cioè urta contro la purezza, la continuità e la tradizione” e

questo secondo la scrittrice, non ci consente di accorgerci che il mancato uso del termine nuovo

causa in sè stesso dissonanze e errori linguistici.

Inoltre si ritiene spesso che le energie spese a favore della modificazione del linguaggio vadano

indirizzate verso l’ottenimento di traguardi più “alti”, basandosi sull’errato pensiero che le energie

di cui disponiamo come appartenenti alla “razza” umana siano scarse e rare, mentre la giornalista

ritiene che dalla produzione e dal consumo dell’ energia spesa per una causa si ottenga una nuova

linfa da redistribuire per raggiungere le successive conquiste. Infine “ vi è poi l’obiezione di coloro

che considerano qualsiasi proposta di cambiamento linguistico come un attentato alla libertà di

parola”, fattore determinato soprattutto, sempre secondo Alma Sabatini dalle imposizioni

linguistiche e comportamentali attuate nei secoli dai vari regimi rivoluzionari/autoritari che hanno

creato nell’individuo l’inconscia paura che a cambiamenti di tipo comportamentale o linguistico

corrispondano repressione, controllo, minore libertà.

Nonostante le varie “censure” morali riscontrate nel popolo e nelle istituzioni la Sabatini insiste sul

bisogno di un cambiamento linguistico, innanzitutto per raggiungere o quanto meno avvicinare la

tanto ricercata parità tra i sessi intesa non come adeguamento della condizione della donna a

quella dell’uomo (da tutti comunemente considerata la migliore e la norma da seguire), ma come

pari possibilità di sviluppo e realizzazione per tutti gli esseri umani non a seconda del proprio sesso

o ruolo sociale.

Secondo il nostro punto di vista è arrivato il momento di prendere una decisione e di scegliere come

portare avanti e far evolvere la nostra lingua. Io non so se i cambiamenti linguistici proposti da

Alma Sabatini siano attuabili, possibili o auspicabili ma ciò che vedo quotidianamente è la difficoltà

e l’incertezza di ciascun individuo davanti a situazioni in cui viene ad esempio richiesto di

interloquire con il preside donna di una scuola e il conseguente imbarazzo nel dover scegliere quale

tra “la signora preside” o “la preside” o “la presidentessa” o, per non creare discriminazioni “il

preside” sia la forma più adatta da utilizzare. È giunto il momento di compiere una scelta, di

chiarire cosa debba risultare corretto o sbagliato, di dare un’indicazione valida e uguale per tutti,

senza essere discriminatori perchè le donne si stanno muovendo e non solo ideologicamente ma

anche praticamente, stanno raggiungendo traguardi fino a pochi decenni fa considerati impossibili,

inimmaginabili e questo è il dato di fatto da cui partire (lo ripetiamo) non per favorire ma per

tutelare la donna al pari di quanto oggi viene già fatto con l’uomo.

La linguistica femminista rivendica la presenza di aspetti discriminanti nei confronti della donna nel

sistema stesso della lingua: il sessismo quindi pervaderebbe la lingua nella sua interezza. Un

concetto questo che si rifà, da un punto di vista linguistico, all’ipotesi secondo la quale la lingua

non solo manifesta, ma anche condiziona il nostro modo di pensare: essa incorpora una visione del

mondo e ce la impone. Alla luce di questa premessa, la politica femminista ha assunto un vero e

proprio atteggiamento di intervento nei confronti del linguaggio per modificarne i tratti più

esplicitamente sessisti.

- Riportiamo ora solo alcuni esempi di forme linguistiche da evitare o promuovere secondo il parere

di Alma Sabatini:

1) Evitare l’uso delle parole “uomo” e “uomini” in senso universale. Esse potranno essere sostituite

a seconda del contesto, da: persona/e; essere/i umano/i; specie umana, popolo ecc.; donna e uomo

(donne e uomini) alternato con uomo e donna (uomini e donne) perchè, se si continua ad anteporre

il maschile al femminile, si persiste nel considerare il maschio più importante; oppure

dall’aggettivo: umano/a.

Esempio:

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NO SI

Il corpo dell’uomo Il corpo umano

2) Evitare di usare sempre ed unicamente il maschile neutro parlando di popoli, categorie,

gruppi, ecc.

Esempio:

NO SI

I bambini, i ragazzi, i vecchi.. le bambine e i bambini, l’infanzia,

i ragazzi e le ragazze, l’adolescenza,

i vecchi e le vecchie oppure le

persone vecchie.

3) Evitare di accordare il participio passato al maschile, quando i nomi sono in prevalenza

femminili. Si suggerisce in tal caso di accordare con il genere largamente maggioritario oppure con

il genere dell’ultimo sostantivo della serie:

Esempio:

NO SI

Carla, Maria, Giacomo e Sandra Carla, Maria, Giacomo e Sandra

sono arrivati stamattina. sono arrivate stamattina.

4) Evitare di usare il maschile di nomi di mestieri, professioni, cariche, per segnalare posizioni di

prestigio quando il femminile esiste ed è regolarmente usato solo per lavori gerarchicamente

inferiori e tradizionalmente collegati al “ruolo” femminile.

Esempio:

NO SI

Maria Rossi, procuratore legale.. Maria Rossi, procuratrice legale..

L’IRONIA NEL SESSISMO

Inoltre c'è da porre l'accento oltre che sui termini, anche sul modo di scherzare degli uomini nei

confronti delle donne: non sono di certo divertenti le battute che utilizzano le violenze sulle donne

o argomenti comunque molto delicati per creare battute, scherzi, barzellette riguardo soggetti su

cui non vi è assolutamente nulla su cui scherzare.

Si è poi soliti definire “ironicamente” il linguaggio femminile come ambiguo o poco chiaro, senza

tenere conto del fatto che, probabilmente, questo atteggiamento deriva dalla sudditanza storica della

donna nei confronti dell’uomo, dal suo conseguente bisogno di tutelarsi da scatti di ira, prese di

posizione, burle e, conseguentemente, dal suo dover sempre prestare estrema attenzione al modo di

rivolgersi all’altro (se di sesso maschile), senza poter essere mai realmente libera di esprimere

esplicitamente il proprio parere, pensiero, idea.

Ecco riportati di seguito alcuni esempi di ironia nei confronti della donna e del suo utilizzo del

linguaggio...

Il Linguaggio della donna Sì= No

No = Sì

Forse = No

Abbiamo bisogno = voglio

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Decidi tu = La decisione giusta dovrebbe essere ovvia

Fai come ti pare = La pagherai in seguito

Dobbiamo parlare = Ho bisogno di lamentarmi di qualcosa

Certo, fallo pure se vuoi = Non voglio che tu lo faccia

Non sono arrabbiata = Certo che sono arrabbiata, idiota!

Certo che stasera sei proprio carino con me = Possibile che pensi sempre al sesso?

Questa cucina è così poco pratica = Voglio una casa nuova

Mi ami? = Sto per chiederti qualcosa di costoso

Quanto mi ami? = Ho fatto qualcosa che non ti piacerà per niente

Devi imparare a comunicare = Devi solo essere d’accordo con me

Francesca Arciero, Sara Guarino, Francesco Orefice, Andrea Cavazzana

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USCIRE DAL SILENZIO

LE DONNE NELL’IMMAGINARIO MASCHILE 2

Giacomo Lentini, Meravigliosamente un amor mi distringe 4

La donna angelicata 6

Bradamante in Ariosto: la donna guerriera 9

Carlo Goldoni, , La locandiera 12

Giacomo Leopardi, A Silvia 13

Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River 15

Umberto Saba, A mia moglie 17

Khaled Hosseini, Mille Splendidi Soli 19

LE DONNE SI RACCONTANO 21

Compiuta Donzella, A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora 23

Contessa di Dia, Come vorrei una sera tenere 25

Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé 26

Dacia Maraini, La Lunga vita di Marianna Ucrìa 30

Tracy Chevalier, Quando cadono gli angeli 32

IL LINGUAGGIO 33