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Esercizi di comprensione di lettura Virginia Woolf Lappin e Lapinova Luigi Pirandello La veste lunga James Joyce Un incontro Elsa Morante Il piroscafo Unità 4 Crescere e riconoscersi

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Esercizi di comprensione di lettura

Virginia Woolf Lappin e LapinovaLuigi Pirandello La veste lungaJames Joyce Un incontroElsa Morante Il piroscafo

Unità 4Crescere e riconoscersi

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VIRGINIA WOOLF

Lappin e Lapinova

Per la scrittrice londinese Virginia Woolf (1882-1941), nota soprattutto per i romanzi, la compo-sizione dei racconti brevi riveste un carattere sperimentale. Eliminato definitivamente l’intreccioromanzesco, non accade nulla nel senso tradizionale del termine: i personaggi, divenuti spettatoridi se stessi e dei loro sentimenti, sfuggono, labili e inconsistenti, a qualsiasi determinazione e carat-terizzazione. In Lappin e Lapinova l’impossibilità di un amore che sia comunione piena di due esseri è colta daun’angolatura intima, tramite i pensieri e le sensazioni di Rosalind, la giovane moglie. Di lei vengo-no riportati i pensieri, con un flusso di coscienza che ne rivela le sensazioni più riposte, le incertez-ze e le esitazioni. Ernest vive riflesso nella coscienza di Rosalind, prende consistenza attraverso ilsuo sguardo. Da qui prende avvio tra i due sposi una storia fantastica, in cui, con un linguaggio cifra-to, realtà e invenzione si intrecciano: Ernest e Rosalind, divenuti protagonisti di un universo magi-co di cui sono indiscussi padroni, inventano storie in cui la realtà è trasfigurata con ironia. Ma il fra-gile mondo di Lappin e Lapinova non è destinato a durare: la comunione spirituale tra due esseriche, paradossalmente, era avvenuta proprio con l’ideazione di un mondo fittizio e alternativo, nonresiste di fronte alla realtà. Una crescente sensazione di estraneità nei confronti di un marito che siera illusa di poter conoscere riprende Rosalind che, con angoscia fisica, percepisce di aver persoper sempre la capacità di comunicare.

Erano sposati. Risuonò la marcia nuziale. I piccioni si alzarono in volo. Ragaz-zini con la giacca di Eton1 gettarono il riso; un fox terrier attraversò lemme lem-me2 il sentiero; ed Ernest Thorburn condusse la sposina verso la macchina attra-verso quella piccola, invadente folla di perfetti estranei che sempre si raccogliea Londra per godere della felicità, o dell’infelicità, altrui. Lui era indubbiamen-te bello, lei indubbiamente timida. Venne lanciato altro riso, e la macchina siallontanò.

Era martedì, quel giorno. E adesso era sabato. Rosalind non si era ancoraabituata all’idea di essere la signora Thorburn. Forse non si sarebbe mai abitua-ta all’idea di essere la moglie di Ernest Thorburn, pensava, seduta nel bovindo3,guardando le montagne al di là del lago, in attesa che il marito scendesse a farcolazione. Ernest non era un nome a cui fosse facile abituarsi. Non era certo iltipo di nome che avrebbe scelto lei. [...]

Ma eccolo. Grazie al cielo, non aveva affatto l’aria di chiamarsi Ernest – tut-t’altro. Ma che aria aveva? Lo guardò di sottecchi4. Be’, quando mangiava le fet-te di pane tostato... del coniglio. Non che chiunque altro potesse trovare unasomiglianza tra una creaturina così minuscola e timida e quel giovanottone cosìelegante, con il naso diritto, gli occhi azzurri, la bocca decisa. Ma proprio que-sto rendeva ancor più divertente il paragone. Quando mangiava, arricciava unpo’ il naso, proprio come faceva il coniglietto di casa sua. Rosalind continuò aosservare quel naso fremente, e quando lui la sorprese a studiarlo attentamen-te fu costretta a spiegare perché le venisse da ridere.

«Perché somigli a un coniglio, Ernest» disse. «Un coniglio selvatico, un ReConiglio; un coniglio che detta legge a tutti gli altri conigli».

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1. Eton: prestigiosa scuola privata superiore, che prepara all’in-gresso nelle migliori università.2. lemme lemme: molto lentamente.

3. bovindo: costruzione che sporge dalla facciata di un edificio,simile a un balcone chiuso da vetrate.4. di sottecchi: dal basso in alto.

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. Ernest non trovò niente da ridire sul fatto di esser paragonato a quel gene-re di coniglio, e poiché lei si divertiva a vedergli arricciare il naso – non avevamai saputo, lui, che il proprio naso si arricciasse – lo arricciò di proposito. Leirise a più non posso; e lui rise a sua volta, tanto che le anziane zitelle e il pesca-tore e il cameriere svizzero con la giacca nera sporca di unto colsero nel segno:capirono che erano molto felici, loro due. Ma quanto dura quel genere di felici-tà? si chiesero; e ciascuno rispose a seconda delle proprie vicende personali.

All’ora di pranzo, mentre era seduta su un ciuffo d’erica in riva al lago, Rosa-lind chiese «Un po’ di lattuga, coniglio?» porgendo la lattuga fornita dall’alber-go per essere mangiata con le uova sode. «Prendila dalla mia mano» aggiunse,al che lui si allungò, mordicchiò la lattuga e arricciò il naso.

«Bravo il mio coniglio, bello il mio coniglio», lo incoraggiò lei dandogli dellepacchettine affettuose, come faceva sempre col suo mite coniglietto di casa. [...]

«Lappin, Lappin, re Lappin!» ripeté. Quel nome gli andava proprio a pennel-lo: non era Ernest, lui, era re Lappin. Perché? Chissà. Quando la conversazionelanguiva durante le loro lunghe passeggiate solitarie – e pioveva, li avevanoavvertiti tutti quanti, del resto, che sarebbe piovuto – o quando erano sedutiaccanto al fuoco, la sera, perché faceva freddo [...], lei concedeva alla sua fan-tasia di trastullarsi con la storia della tribù dei Lappin. Sotto le sue mani – leicuciva; lui leggeva – i Lappin diventavano molto reali, molto vivi, molto diver-tenti. Ernest deponeva il giornale e collaborava. C’erano conigli neri e coniglirossi; conigli nemici e conigli amici. C’erano i boschi in cui vivevano, e, all’intor-no, praterie e paludi. Su tutto quanto regnava re Lappin, che, lungi dall’avere5

un unico vezzo – quello di arricciare il naso – via via che i giorni passavano diven-tava un animale di grande carattere; Rosalind gli trovava sempre nuove quali-tà. [...] «E cos’ha fatto oggi il re?» chiese Rosalind l’ultimo giorno di luna di mie-le. [...]

«Oggi» disse Ernest, e arricciando il naso strappò via coi denti la base delsigaro, «oggi ha catturato una lepre». Fece una pausa; accese un fiammifero earricciò di nuovo il naso.

«Una lepre femmina» aggiunse.«Una lepre bianca!» esclamò Rosalind, come se non aspettasse altro. «Piut-

tosto piccola, color grigio argento, con grandi occhi scintillanti?»«Sì» confermò Ernest, guardandola esattamente come l’aveva guardato lei.

«Un animaletto piuttosto piccolo; con gli occhi in fuori e le due zampette ante-riori ciondoloni». Proprio così lei stava seduta in quel momento, col lavoro dicucito ciondolante dalle mani sospese; e i suoi occhi, così grandi e luminosi,sporgevano effettivamente un po’ all’infuori.

«Ah, Lapinova» mormorò Rosalind.«Si chiama così?» disse Ernest. «La vera Rosalind?» Guardò la moglie. Si sen-

tiva molto innamorato.«Sì, proprio così si chiama: Lapinova». E prima che loro due si coricassero,

quella sera, era già tutto stabilito: lui era re Lappin; lei la regina Lapinova. Era-no l’uno l’opposto dell’altra: lui grintoso e deciso; lei cauta e imprevedibile. Luiregnava sull’affaccendato mondo dei conigli; il mondo di lei era un luogo deso-lato e misterioso, in cui si aggirava perlopiù sotto la luce della luna. Ciò nono-stante, i loro territori si sfioravano: erano il re e la regina.

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5. lungi dall’avere: invece di avere.

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Così, al ritorno dalla luna di miele, si trovarono in possesso di un mondo pri-vato, popolato, ad eccezione di quell’unica lepre bianca, esclusivamente da coni-gli. Nessuno sospettava l’esistenza di un luogo simile, e questo naturalmenterendeva ancora più divertente il loro gioco. [...]

Senza quel mondo, si chiedeva Rosalind, come sarebbe potuta sopravviverea quell’inverno? Perché ci fu, per esempio, il ricevimento per le nozze d’oro,quando tutti i Thorburn si riunirono a Porchester Terrace per festeggiare il cin-quantesimo anniversario di quell’unione benedetta dal cielo – non aveva forseprodotto Ernest Thorburn? – e così feconda6 – non aveva prodotto anche altrinove figli, maschi e femmine, molti dei quali a loro volta si erano sposati e ave-vano prolificato7? Lei era terrorizzata da quella festa, ma non poteva evitarla.Nel salire al piano superiore avvertì tutta l’amarezza di essere figlia unica, orfa-na per giunta; solo una goccia in mezzo a tutti quei Thorburn riuniti nel sontuo-so salotto con la tappezzeria di seta lucida e i prestigiosi ritratti di famiglia. [...]Tenendo in mano il suo regalo avanzò verso la suocera, sontuosa nella sua mise8

di raso giallo, e verso il suocero, che portava un superbo garofano giallo all’oc-chiello. [...] Poi scesero per la cena. Lei era seminascosta dagli splendidi crisan-temi che incurvavano i propri petali rossi e oro a formare grandi sfere ben chiu-se. Era d’oro tutto quanto. [...] Soltanto lei, con il suo candido abito da sposa egli occhi strabuzzati nel vuoto, sembrava insolubile9 come un ghiacciolo.

Via via che procedeva la cena, però, la stanza per il gran caldo si riempì divapore. Gocce di sudore brillavano sulla fronte degli uomini. Ebbe la sensazio-ne che il ghiacciolo stesse trasformandosi in acqua. Si stava liquefacendo, disper-dendo, dissolvendo nel nulla; presto sarebbe svenuta. Poi, attraverso il tumul-to che aveva nella testa e il frastuono nelle orecchie, sentì una donna esclamare:«Ma figliano tanto10!»

I Thorburn – sì, in effetti figliano tanto, le fece mentalmente eco, guardandotutti quei volti rotondi, rossi, che parevano raddoppiati nello stordimento chela sopraffaceva11, ingranditi nell’alone di nebbia dorata che li avvolgeva. “Figlia-no tanto”. Poi John tuonò:

«Quelle piccole pesti!... Bisognerebbe sparargli! Schiacciarli sotto agli stiva-li! Non c’è altro modo di trattarli... i conigli!»

A quella parola, a quella magica parola, lei si rianimò. Sbirciando tra i crisan-temi vide il naso di Ernest arricciarsi. Incresparsi in tutta una serie di fremiti.E a quel punto una misteriosa catastrofe si abbatté sui Thorburn. La tavola dora-ta divenne una brughiera con le ginestre in piena fioritura; il frastuono di vocisi trasformò nel trillo felice di un’allodola che risuonava in cielo. Un cielo azzur-ro azzurro – le nubi vi scorrevano lentamente. Ed erano cambiati tutti quanti –i Thorburn. Guardò il suocero, un ometto dal fare furtivo, con i baffi tinti. Lasua passione segreta era collezionare oggetti – sigilli, scatoline smaltate, cosuc-ce provenienti dalle toelette del ’700, che ficcava nei cassetti del suo studio pernasconderli alla vista della moglie. Adesso lo vedeva per quello che era... unbracconiere che si allontanava di soppiatto12 col cappotto gonfio di fagiani e per-nici, che poi gettava di soppiatto in un recipiente a tre gambe, nella sua fumo-sa casetta. Ecco cos’era suo suocero in realtà: un bracconiere! [...] Poi guardò

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6. feconda: fertile.7. prolificato: procreato.8. mise: abito.9. insolubile: incapace di sciogliersi.

10. figliano tanto: fanno tanti figli.11. sopraffaceva: vinceva.12. di soppiatto: di nascosto.

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. la suocera – che loro due avevano soprannominato “lo Squire”. Rossa in volto,rude, prepotente – era tutto questo mentre, in piedi, scambiava convenevoli congli invitati, ma adesso che Rosalind – ossia Lapinova – la vedeva nella sua real-tà, vedeva altresì alle sue spalle la cadente villa di famiglia, l’intonaco che si stac-cava dalle pareti, e la sentiva, col singhiozzo nella voce, ringraziare i propri figli(che la odiavano) per un mondo che aveva cessato di esistere. All’improvviso sifece silenzio. Tutti erano in piedi, adesso, col bicchiere alzato; tutti bevvero; poila festa si concluse.

«Oh, re Lappin» esclamò mentre col marito tornava a casa nella nebbia «seil tuo naso non si fosse arricciato proprio in quel momento sarei stata in trap-pola!»

«Invece sei al sicuro» disse re Lappin stringendole la zampetta.«Sì, sì, al sicuro».Tornarono a casa in macchina attraverso il parco, re e regina della palude,

della foschia e della brughiera odorosa di ginestre.Passò il tempo; un anno; due anni. E in una sera d’inverno, che, guarda caso,

coincideva con l’anniversario del ricevimento per le nozze d’oro – ma la signo-ra Thorburn era morta, la casa presto sarebbe stata affittata, e al momento viabitava solo un custode – Ernest rincasò dall’ufficio. Abitavano in un graziosoappartamento appena sopra un negozio di sellaio, a South Kensington13, nonlontano dalla stazione della metropolitana. Faceva freddo, c’era nebbia nell’aria,e Rosalind era seduta accanto al fuoco, a cucire.

«Sai cosa mi è successo oggi?» attaccò non appena lui fu comodamente sedu-to con le gambe protese verso il calore delle fiamme. «Stavo attraversando ilruscello quando...»

«Quale ruscello?» la interruppe Ernest.«Quello laggiù, dove il nostro bosco s’incontra col bosco nero» spiegò lei.Per un attimo Ernest restò totalmente inespressivo.«Di cosa diamine stai parlando?» chiese.«Oh, Ernest!» esclamò lei, sgomenta. «Re Lappin...» aggiunse, facendo cion-

dolare le zampette sotto la luce del fuoco. Ma il naso di lui non si arricciò. Lemani di Rosalind – erano ridiventate delle mani – si strinsero attorno al lavorodi cucito; gli occhi si spinsero all’infuori. Ci vollero cinque minuti buoni perchéErnest Thorburn si trasformasse in re Lappin; e lei, mentre aspettava, avverti-va una strana pressione sulla nuca, come se qualcuno stesse per torcerle il col-lo. Alla fine lui si trasformò in re Lappin; il suo naso si arricciò; e la serata fu tra-scorsa a vagare per i boschi, come al solito.

Ma dormì male, Rosalind. Nel cuore della notte si svegliò con la sensazioneche le fosse successo qualcosa di strano. Era rigida e fredda. Alla fine accese laluce e guardò Ernest, sdraiato al suo fianco. Dormiva profondamente. Russava.Ma, anche nel russare, il suo naso rimaneva perfettamente immobile. [...]

Lei, invece, non riuscì a prender sonno. Stette raggomitolata nella sua partedi letto, come una lepre nella sua tana. Aveva spento la luce, ma il lampionestradale illuminava fiocamente il soffitto e gli alberi all’esterno vi proiettavanouna specie di merletto, quasi che sul soffitto ci fosse un piccolo bosco pieno diombre in cui lei si aggirava senza posa, correndo qua e là, dentro e fuori, cac-ciando, essendo cacciata, sentendo l’abbaiare dei cani e dei corni; fuggendo,

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13. South Kensington: quartiere di Londra.

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cercando di mettersi in salvo... finché la cameriera non aprì gli scuri14 e non por-tò il tè del mattino.

Il giorno dopo non riuscì a concludere niente. Le sembrava di aver perso qual-cosa. Aveva la sensazione che il suo corpo si fosse rimpicciolito, fosse diventa-to minuscolo, nero e duro. [...] Alla fine si mise il cappello e uscì. Risalì Crom-well Road15 e ogni stanza in cui sbirciava, passandoci davanti, le pareva una salada pranzo in cui la gente mangiasse seduta sotto incisioni in acciaio, con pesan-ti tende di pizzo giallo e credenze di mogano. Alla fine giunse al Museo di Sto-ria Naturale; le piaceva, da piccola. Ma la prima cosa che vide nell’entrare fuuna lepre impagliata, con gli occhi di vetro rosa, ritta su della neve finta. Presea tremare in tutto il corpo. Forse le cose sarebbero andate meglio all’imbruni-re. Tornò a casa e si sedette accanto al fuoco, senza nessuna luce, e cercò d’im-maginarsi da sola in una brughiera16; c’era un vivace ruscello, e al di là del ruscel-lo un bosco scuro. Ma lei non riusciva a spingersi oltre il ruscello. Alla fine siaccucciava sulla sponda, nell’erba umida. Restò tutta raggomitolata sulla sedia,con le mani vuote penzoloni e gli occhi inespressivi, come fossero di vetro, nelchiarore del fuoco. Poi risuonò una fucilata... Sussultò come se fosse stata col-pita. Era solo Ernest, che ruotava la chiave nella toppa. Aspettò, tutta treman-te. Lui entrò e accese la luce. Rimase lì, alto, bellissimo, sfregandosi le maniarrossate dal freddo.

«Perché stai seduta nel buio?» chiese.«Oh, Ernest, Ernest!» esclamò lei, trasalendo.«Be’, adesso cosa c’è?» chiese lui in tono brusco, scaldandosi le mani al fuo-

co.«Si tratta di Lapinova...» balbettò lei guardandolo disperata con i grandi occhi

spaventati. «È sparita, Ernest. L’ho persa!»Ernest si rabbuiò. Strinse le labbra. «Oh, quello...» fece, con un sorrisetto

piuttosto sarcastico. Per dieci secondi restò lì impalato, in silenzio; lei aspettò,con la sensazione di mani premute contro la sua nuca.

«Sì» disse lui alla fine. «Povera Lapinova...» Si aggiustò la cravatta guardan-dosi nello specchio sopra la mensola del camino.

«Finita in trappola, uccisa» disse. E si sedette a leggere il giornale.Fu la fine di quel matrimonio.

(V. Woolf, Momenti di essere e altri racconti, trad. di M. Torre, Milano, Rizzoli, 1995)

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14. scuri: imposte interne.15. Cromwell Road: lunghissima strada di Londra.

16. brughiera: ampia area di terra non coltivata, ricoperta dibassi arbusti (soprattutto erica e ginestra).

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1 La protagonista del racconto ti sembra presentata con precisione? Che cosa sappiamo di lei?

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2 Quale ti sembra essere il tema centrale di questo racconto?

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3 Nel racconto viene attribuita più importanza alle vicende esterne o alle riflessioni e alle sensazioni diRosalind?

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5 Rileggi la scena dedicata al ricevimento a casa dei suoceri e spiega perché è tanto importante per Rosalind.

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6 Che funzione ha la vista della lepre impagliata al Museo di Storia Naturale?

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7 Perché nella scena finale il rientro di Ernest evoca in Rosalind l’idea di una fucilata?

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8 Che tipo di linguaggio utilizza l’autrice? Con quali finalità?

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9 Vi sono nel racconto parti in flashback? E parti prolettiche?

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10 Che tipo di narratore è presente? Qual è il suo livello di conoscenza rispetto alla storia narrata?

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11 Qual è il punto di vista dominante?

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12 Con quali tecniche vengono riportati nel racconto i pensieri di Rosalind?

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13 Che ruolo ha, a tuo parere, lo spazio in questo racconto? La descrizione ambientale ti sembra oggettiva ofiltrata dal punto di vista di Rosalind?

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14 In quale arco temporale si svolge la vicenda narrata? Vi sono indicazioni precise che possono aiutare il let-tore a ricostruire il tempo reale degli avvenimenti?

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. LUIGI PIRANDELLO

La veste lunga

La novella di Luigi Pirandello (1867-1936). pubblicata per la prima volta nel 1913, parla di unviaggio che la protagonista deve affrontare: lo spostamento nello spazio è però una chiara metafo-ra di un percorso esistenziale che, attraverso una presa di coscienza della condizione femminile,porta a una tragica conclusione. Orfana di madre, Didì vive drammaticamente il passaggio dall’etàadolescenziale a quella adulta. Priva di figure che possano farle da guida in questo momento deli-cato della vita, incapace di accettare un matrimonio di convenienza imposto dal padre, trova nel sui-cidio l’unica via di scampo per sfuggire a una situazione insostenibile: per lei non si compirà il pas-saggio all’età adulta, simboleggiato dalla prima “veste lunga”, segno di una matura condizionefemminile. Nel corso della novella, costruita interamente sulla durata del tragitto compiuto dal tre-no, al viaggio reale si sovrappone il percorso interiore della protagonista, con ricordi del passato eanticipazioni di un futuro che non ha su di lei alcuna attrattiva, fino alla consapevolezza finale di chivede nella morte l’unica possibilità di sottrarsi a un destino ineluttabile.

Era il primo viaggio lungo di Didì. Da Palermo a Zùnica1. Circa otto ore di fer-rovia.

Zùnica per Didì era un paese di sogno, lontano lontano, ma più nel tempoche nello spazio. Da Zùnica infatti il padre recava un tempo, a lei bambina, cer-ti freschi deliziosi frutti fragranti, che poi non aveva più saputo riconoscere, néper il colore, né per il sapore, né per la fragranza, in tanti altri che il padre leaveva pur recati di là: celse more2 in rustici ziretti3 di terracotta tappati conpampini di vite; perine ceree da una parte e sanguigne dall’altra, con la corona;e susine iridate e pistacchi e lumie4.

Tuttora, dire Zùnica e immaginare un profondo bosco d’olivi saraceni e poidistese di verdissimi vigneti e giardini vermigli con siepi di salvie ronzanti d’apie vivai muscosi e boschetti d’agrumi imbalsamati di zagare5 e di gelsomini, eraper Didì tutt’uno, quantunque già da un pezzo sapesse che Zùnica era una pove-ra arida cittaduzza dell’interno della Sicilia, cinta da ogni parte dai lividi tufiarsicci6delle zolfare e da scabre7 rocce gessose fulgenti alle rabbie del sole, eche quei frutti, non più gli stessi della sua infanzia, venivano da un feudo, det-to di Ciumìa, parecchi chilometri lontano dal paese.

Aveva queste notizie dal padre: lei non era mai stata più là di Bagheria8, pres-so Palermo, per la villeggiatura: Bagheria, sparsa tra il verde, bianca, sotto il tur-chino ardente del cielo. L’anno scorso, era stata anche più vicino, tra i boschid’aranci di Santa Flavia, e ancora con le vesti corte.

Ora, per il viaggio lungo fino a Zùnica indossava anche, per la prima volta,una veste lunga.

E le pareva d’esser già un’altra. Una damina proprio per la quale9. Aveva lostrascico finanche negli sguardi; alzava, a tratti, le sopracciglia come a tirarlosu, questo strascico dello sguardo; e teneva alto il nasino ardito10, alto il mentocon la fossetta, e chiusa la bocca. Bocca da signora con la veste lunga; boccache nasconde i denti, come la veste lunga i piedini.

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1. Zùnica: è presentata come un luogo “reale” nel testo ma è difatto inesistente.2. celse more: more del gelso.3. ziretti: piccoli vasi panciuti.4. lumie: frutti simili ai limoni.5. zagare: fiori d’arancio.

6. lividi tufi arsicci: pietre bruciate dal sole.7. scabre: ruvide.8. Bagheria: centro a 15 km da Palermo, residenza un tempo pre-ferita dai palermitani benestanti.9. per la quale: fatta e finita.10. ardito: spavaldo, sicuro.

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Se non che, seduto dirimpetto a lei, c’era Cocò, il fratello maggiore, quel bir-bante di Cocò il quale, col capo abbandonato su la spalliera rossa dello scom-partimento di prima classe, tenendo gli occhi bassi e la sigaretta attaccata allabbro superiore, di tanto in tanto, le sospirava, stanco:

«Didì, mi fai ridere».Dio, che rabbia! Dio, che prurito nelle dita!Ecco: se Cocò non si fosse rasi i baffi come voleva la moda, Didì gliel’avreb-

be strappati, saltandogli addosso come una gattina.Invece, sorridendo con le ciglia alzate, gli rispondeva, senza scomporsi:«Caro mio, sei un cretino».Ridere della sua veste lunga e anche, se vogliamo, delle arie che si dava, dopo

il serio discorso che le aveva tenuto la sera avanti a proposito di questo viaggiomisterioso a Zùnica...

Era o non era, questo viaggio, una specie di spedizione, un’impresa, qualco-sa come la scalata a un castello ben munito in cima a una montagna? Erano onon erano macchine da guerra per quella scalata le sue vesti lunghe? E dunque,che c’era da ridere se lei, sentendosi armata con esse per una conquista, pro-vava di tratto in tratto le armi col darsi quelle arie?

Cocò, la sera avanti, le aveva detto che finalmente era venuto il tempo di pen-sare sul serio ai casi11 loro.

Fin da bambina, vedendo andare il padre ogni settimana e talvolta anche duevolte la settimana a Zùnica, e sentendo parlare del feudo di Ciumìa e delle zol-fare di Monte Diesi e d’altre zolfare e poderi e case, Didì aveva sempre credu-to che tutti questi beni fossero del padre, la baronia dei Brilla.

Erano, invece, dei marchesi Nigrenti di Zùnica. Il padre, barone Brilla, ne erasoltanto l’amministratore giudiziario12. E quell’amministrazione da cui per ven-t’anni al padre era venuta la larga agiatezza, della quale loro due, Cocò e Didì,avevano sempre goduto, sarebbe finita tra pochi mesi.

Didì era veramente nata e cresciuta in mezzo a quell’agiatezza; aveva pocopiù di sedici anni; ma Cocò ne aveva ventisei; e Cocò serbava una chiara, perquanto lontana memoria dei gravi stenti tra cui il padre s’era imbattuto primad’esser fatto, per maneggi e brighe13 d’ogni sorta, amministratore giudiziariodell’immenso patrimonio di quei marchesi di Zùnica.

Ora, c’era tutto il pericolo di ricadere in quegli stenti che, se anche minori,sarebbero sembrati più duri dopo l’agiatezza. Per impedirlo, bisognava che riu-scisse, ora, ma proprio bene e in tutto, il piano di battaglia architettato dal padre,e di cui quel viaggio era la prima mossa.

La prima, no, veramente. Cocò era già stato a Zùnica col padre, circa tre mesiaddietro, in ricognizione; vi si era trattenuto quindici giorni, e aveva conosciu-to la famiglia Nigrenti.

La quale era composta, salvo errore, di tre fratelli e di una sorella. Salvo erro-re, perché nell’antico palazzo in cima al paese c’erano anche due vecchie ottua-genarie14, due zônne (zie-donne), che Cocò non sapeva bene se fossero deiNigrenti anche loro, cioè se sorelle del nonno del marchese o se sorelle dellanonna.

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11. casi: problemi.12. giudiziario: voluto dalla legge.

13. maneggi e brighe: intrighi e litigi.14. ottuagenarie: ottantenni.

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. Il marchese si chiamava Andrea; aveva circa quarantacinque anni e, cessatal’amministrazione giudiziaria, sarebbe stato per le disposizioni testamentarie ilmaggior erede. Degli altri due fratelli, uno era prete – don Arzigogolo, come lochiamava il padre – l’altro, il così detto Cavaliere, un villanzone. Bisognava guar-darsi dall’uno e dall’altro, e più dal prete che dal villanzone. La sorella avevaventisette anni, un anno più di Cocò, e si chiamava Agata, o Titina: gracile comeun’ostia e pallida come la cera; con gli occhi costantemente pieni d’angoscia econ le lunghe mani esili e fredde che le tremavano di timidezza, incerte e schi-ve15. Doveva essere la purezza e la bontà in persona, poverina: non aveva maidato un passo fuori del palazzo: assisteva le due vecchie ottuagenarie, le duezônne; ricamava e sonava “divinamente” il pianoforte.

Ebbene: il piano del padre era questo: prima di lasciare quell’amministrazio-ne giudiziaria, concludere due matrimoni: dare cioè a Didì il marchese Andrea,e Agata a lui, Cocò.

Didì al primo annunzio era diventata in volto di bragia16 e gli occhi le aveva-no sfavillato di sdegno. Lo sdegno era scoppiato in lei più che per la cosa in sestessa, per l’aria cinicamente rassegnata17 con cui Cocò la accettava per sé e laprofferiva18 a lei come una salvezza. Sposare per denari un vecchio, uno cheaveva ventotto anni più di lei?

«Ventotto, no» le aveva detto Cocò, ridendo di quella vampata di sdegno.«Che ventotto, Didì! Ventisette, siamo giusti, ventisette e qualche mese».

«Cocò, mi fai schifo! Ecco: schifo!» gli aveva allora gridato Didì, tutta fremen-te, mostrandogli le pugna19.

E Cocò:«Sposo la Virtù, Didì, e ti faccio schifo? Ha un annetto anche lei più di me;

ma la Virtù, Didì mia, ti faccio notare, non può esser molto giovane. E io n’hotanto bisogno! sono un discolaccio, un viziosaccio, tu lo sai: un farabutto, comedice papà: metterò senno: avrò ai piedi un bellissimo pajo di pantofole ricama-te, con le iniziali in oro e la corona baronale, e col fiocco di seta, bello lungo. Ilbaronello Cocò La Virtù... Come sarò bello, Didì mia!»

E s’era messo a passeggiare melenso melenso20, col collo torto21, gli occhibassi, il bocchino22 appuntito, le mani una su l’altra, pendenti dal mento, a bar-ba di capro.

Didì, senza volerlo, aveva sbruffato una risata23.E allora Cocò s’era messo a rabbonirla24, carezzandola e parlandole di tutto

il bene che egli avrebbe potuto fare a quella poveretta, gracile come un’ostia,pallida come la cera, la quale già, nei quindici giorni ch’egli s’era trattenuto aZùnica, aveva mostrato, pur con la timidezza che le era propria, di vedere in luiil suo salvatore. Ma sì! certamente! Era interesse dei fratelli di quel così dettoCavaliere (il quale aveva con sé, fuori del palazzo, una donnaccia25 da cui ave-va avuto dieci, quindici, venti, insomma, non si sa quanti figliuoli) ch’ella restas-se nubile, tappata lì a muffir26 nell’ombra. Ebbene, egli sarebbe stato il sole per

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15. schive: impacciate.16. di bragia: color rosso fuoco (bragia è la brace).17. per l’aria cinicamente rassegnata: per il tono di rassegna-zione unito a indifferenza.18. profferiva: presentava.19. le pugna: i pugni.20. melenso melenso: facendo il verso con ricercata grazia agliatteggiamenti eleganti dei nobili.

21. col collo torto: con la testa piegata da un lato.22. il bocchino: la bocca stretta.23. aveva sbruffato una risata: aveva riso rumorosamente, sen-za potersi trattenere.24. rabbonirla: placarla.25. donnaccia: donna volgare, che si concede con facilità.26. muffir: ammuffire, quindi invecchiare.

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lei, la vita. La avrebbe tratta fuori di lì, condotta a Palermo, in una bella casanuova: feste, teatri, viaggi, corse in automobile... Bruttina era, sì; ma pazienza:per moglie, poteva passare. Era tanto buona poi, e avezza a non aver mai nulla,si sarebbe contentata anche di poco.

E aveva seguitato27 a parlare a lungo, apposta, di sé solamente, su questotono, cioè del bene che pur si riprometteva di fare, perché Didì, stuzzicata cosìda una parte e, dall’altra, indispettita di vedersi messa da canto, alla fine doman-dasse:

«E io?»Venuta fuori la domanda, Cocò le aveva risposto con un profondo sospiro:«Eh, per te, Didì, per te la faccenda è molto, ma molto più difficile! Non sei

sola».Didì aveva aggrottato le ciglia.«Che vuol dire?»«Vuol dire... vuol dire che ci sono altre attorno al marchese, ecco. E una spe-

cialmente... una!»Con un gesto molto espressivo Cocò le aveva lasciato immaginare una stra-

ordinaria bellezza.«Vedova, sai? Sui trent’anni. Cugina, per giunta...»E, con gli occhi socchiusi, s’era baciate le punta delle dita.Didì aveva avuto uno scatto di sprezzo.«E se lo pigli!»Ma subito Cocò:«Una parola, se lo pigli! Ti pare che il marchese Andrea... (Bel nome, Andrea!

Senti come suona bene: il marchese Andrea... In confidenza però potresti chia-marlo Nenè, come lo chiama Agata, cioè Titina, sua sorella). È davvero un uomo,Nenè, sai? Ti basti sapere che ha avuto la... la come si chiama... la fermezza distar vent’anni chiuso in casa. Vent’anni, capisci? non si scherza... dacché tuttoil suo patrimonio cadde sotto amministrazione giudiziaria. Figurati i capelli, Didìmia, come gli sono cresciuti in questi venti anni! Ma se li taglierà. Puoi essernesicura, se li taglierà. Ogni mattina, all’alba, esce solitario... ti piace? solitario eavvolto in un mantello per una lunga passeggiata fino alla montagna. A cavallo,sai? La cavalla è piuttosto vecchiotta, bianca; ma lui cavalca divinamente. Sì,divinamente, come la sorella Titina suona divinamente il pianoforte. E pensa,oh, pensa, che da giovine, fino a venticinque anni, cioè finché non lo richiama-rono a Zùnica per il rovescio finanziario28, lui “fece vita”, e che vita, cara mia!fuori, in Continente, a Roma, a Firenze; corse29 il mondo; fu a Parigi, a Londra...Ora pare che da giovanotto abbia amato questa cugina di cui t’ho parlato, chesi chiama Fana Lopes. Credo si fosse anche fidanzato con lei. Ma, venuto il dis-sesto, lei non volle più saperne e sposò un altro. Adesso che egli ritorna nel pri-mier30 stato... capisci? Ma è più facile che il marchese, guarda, per farle dispet-to, sposi un’altra cugina, zitellona anche questa, una certa Tuzza La Dia, checredo abbia sospirato sempre in segreto per lui, pregando Iddio. Dati gli umoridel marchese e i suoi capelli lunghi, dopo questi venti anni di clausura, è temi-bile anche questa zitellona, cara Didì. Basta» aveva concluso la sera avanti Cocò,«ora chinati, Didì, e tienti con la punta delle dita l’orlo della veste su le gambe».

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27. seguitato: continuato.28. rovescio finanziario: crollo economico.

29. corse: attraversò viaggiando.30. primier: precedente.

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. Stordita da quel lungo discorso, Didì s’era chinata, domandando: «Perché?»E Cocò: «Te le saluto. Quelle ormai non si vedranno più!»Gliele aveva guardate e le aveva salutate con ambo le mani; poi, sospirando,

aveva soggiunto: «Rorò! Ricordi Rorò Campi, la tua amichetta? Ricordi che salu-tai le gambe anche a lei, l’ultima volta che portò le vesti corte? Credevo di nondovergliele più rivedere. Eppure gliele rividi!»

Didì s’era fatta pallida pallida e seria.«Che dici?»«Ah, sai, morta!» s’era affrettato a risponderle Cocò. «Morta, te lo giuro, glie-

le rividi, povera Rorò! Lasciarono la cassa mortuaria aperta, quando la portaro-no in chiesa, a San Domenico. La mattina io ero là, in chiesa. Vidi la bara, tra iceri, e mi accostai. C’erano attorno alcune donne del popolo, che ammiravanoil ricco abito da sposa di cui il marito aveva voluto che fosse parata31, da morta.A un certo punto, una di quelle donnette sollevò un lembo della veste per osser-vare il merletto della sottana, e così io rividi le gambe della povera Rorò».

Tutta quella notte Didì s’era agitata sul letto senza poter dormire.Già, prima di andare a letto, aveva voluto provarsi ancora una volta la veste

lunga da viaggio, davanti allo specchio dell’armadio. Dopo il gesto espressivo,con cui Cocò aveva descritto la bellezza di colei... come si chiamava? Fana...Fana Lopes... – si era veduta lì, nello specchio, troppo piccola, magrolina, mise-rina... Poi s’era tirata su la veste davanti per rivedersi quel tanto, pochino pochi-no, delle gambe che finora aveva mostrato, e subito aveva pensato alle gambedi Rorò Campi, morta.

A letto, aveva voluto riguardarsele sotto le coperte: impalate, stecchite; imma-ginandosi morta anche lei, dentro una bara, con l’abito da sposa, dopo il matri-monio col marchese Andrea dai capelli lunghi...

Che razza di discorsi, quel Cocò!

Ora, in treno, Didì guardava il fratello sdrajato sul sedile dirimpetto e si sen-tiva prendere a mano a mano da una gran pena per lui.

In pochi anni aveva veduto sciuparsi la freschezza del bel volto fraterno, alte-rarsi l’aria di esso, l’espressione degli occhi e della bocca. Le pareva ch’egli fos-se come arso32, dentro. E quest’arsura interna, di trista33 febbre, gliela scorge-va negli sguardi, nelle labbra, nell’aridità e nella rossedine34 della pelle,segnatamente35 sotto gli occhi. Sapeva ch’egli rincasava tardissimo ogni notte;che giocava; sospettava altri vizi in lui, più brutti, dalla violenza dei rimproveriche il padre gli faceva spesso, di nascosto a lei, chiusi l’uno e l’altro nello scrit-tojo36. E che strana impressione, di dolore misto a ribrezzo, provava da alcuntempo nel vederlo da quella trista vita impenetrabile accostarsi a lei; al pensie-ro che egli, pur sempre per lei buon fratellino affettuoso, fosse poi, fuori di casa,peggio che un discolo, un vizioso, se non proprio un farabutto, come tante vol-te nell’ira gli aveva gridato in faccia il padre. Perché, perché non aveva egli pergli altri lo stesso cuore che per lei? Se era così buono per lei, senza mentire,come poteva poi, nello stesso tempo, essere così tristo per gli altri?

Ma forse la tristezza era fuori; fuori, là, nel mondo, ove a una certa età, lascia-ti i sereni, ingenui affetti della famiglia, si entrava coi calzoni lunghi gli uomini,

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31. parata: rivestita.32. arso: prosciugato e vuoto.33. trista: cattiva.

34. rossedine: rossore.35. segnatamente: soprattutto.36. scrittojo: studio.

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con le vesti lunghe le donne. E doveva essere una laida37 tristezza, se nessunoosava parlarne, se non sottovoce e con furbeschi ammiccamenti38, che indispet-tivano chi – come lei – non riusciva a capirci nulla; doveva essere una tristezzadivoratrice, se in sì poco tempo suo fratello, già così fresco e candido, s’era ridot-to a quel modo; se Rorò Campi, la sua amicuccia, dopo un anno appena, ne eramorta...

Didì si sentì pesare sui piedini, fino al giorno avanti liberi e scoperti, la vestelunga, e ne provò un fastidio smanioso39: si sentì oppressa da una angoscia sof-focante, e volse lo sguardo dal fratello al padre, che sedeva all’altro angolo del-la vettura, intento a leggere alcune carte d’amministrazione, tratte da una bor-setta di cuojo aperta sulle ginocchia.

Entro quella borsetta, foderata di stoffa rossa, spiccava lucido il turacciolosmerigliato di una fiala. Didì vi fissò gli occhi e pensò che il padre, era, da anni,sotto la minaccia continua d’una morte improvvisa, potendo da un istante all’al-tro essere colto da un accesso del suo male cardiaco, per cui portava semprecon sé quella fiala.

Se d’un tratto egli fosse venuto a mancarle... Oh Dio, no, perché pensare aquesto? Egli, pur con quella fiala lì davanti, non ci pensava. Leggeva le suecarte d’amministrazione e, di tratto in tratto, si aggiustava le lenti insellate40

su la punta del naso; poi, ecco, si passava la mano grassoccia, bianca e pelo-sa, sul capo calvo, lucidissimo; oppure staccava gli occhi dalla lettura e li fis-sava nel vuoto, restringendo un po’ le grosse palpebre rimborsate. Gli occhiceruli, ovati41, gli s’accendevano allora di un’acuta vivezza maliziosa, in con-trasto con la floscia stanchezza della faccia carnuta e porosa42, da cui schiz-zavano, sotto il naso, gl’ispidi e corti baffetti rossastri, già un po’ grigi, a cespu-gli.

Da un pezzo, cioè dalla morte della madre, avvenuta tre anni addietro, Didìaveva l’impressione che il padre si fosse come allontanato da lei, anzi staccatocosì, che lei, ecco, poteva osservarlo come un estraneo. E non il padre soltan-to: anche Cocò. Le pareva che fosse rimasta lei sola a vivere ancora della vitadella casa, o piuttosto a sentire il vuoto di essa, dopo la scomparsa di colei chela riempiva tutta e teneva tutti uniti.

Il padre, il fratello s’erano messi a vivere per conto loro, fuori di casa, certo;e quegli atti della vita, che seguitavano a compiere lì insieme con lei, erano qua-si per apparenza, senza più quella cara, antica intimità, da cui spira quell’alito43

familiare, che sostiene, consola e rassicura.Tuttora Didì ne sentiva un desiderio angoscioso, che la faceva piangere insa-

ziabilmente, inginocchiata innanzi a un’antica cassapanca, ov’erano conservatele vesti della madre.

L’alito della famiglia era racchiuso là, in quella cassapanca antica, di noce,lunga e stretta come una bara; e di là, dalle vesti della mamma, esalava, a ine-briarla amaramente coi ricordi dell’infanzia felice.

Tutta la vita s’era come diradata e fatta vana44, con la scomparsa di lei; tut-te le cose pareva avessero perduto il loro corpo e fossero diventate ombre. Eche sarebbe avvenuto domani? Avrebbe ella sempre sentito quel vuoto, quella

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37. laida: turpe e vergognosa.38. ammiccamenti: cenni degli occhi.39. smanioso: incontrollabile.40. insellate: collocate.

41. ceruli, ovati: azzurri, un po’ sporgenti.42. carnuta e porosa: carnosa e con la pelle dai pori dilatati.43. spira quell’alito: proviene quel soffio vitale.44. vana: inutile.

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. smania di un’attesa ignota, di qualche cosa che dovesse venire a colmarglielo,quel vuoto, e a ridarle la fiducia, la sicurezza, il riposo?

Le giornate erano passate per Didì come nuvole davanti alla luna.Quante sere, senz’accendere il lume nella camera silenziosa, non se n’era sta-

ta dietro le alte invetriate45 della finestra a guardar le nuvole bianche e cineree46

che avviluppavano47 la luna! E pareva che corresse la luna, per liberarsi da queiviluppi. E lei era rimasta a lungo, lì nell’ombra, con gli occhi intenti e senza sguar-do, a fantasticare; e spesso gli occhi, senza che lei lo volesse, le si erano riem-piti di lagrime.

Senza più guida, senza più nulla di consistente attorno, non sapeva che cosadovesse fare della vita, qual via prendere. Un giorno avrebbe voluto essere inun modo, il giorno appresso in un altro. Aveva anche sognato tutta una notte,di ritorno dal teatro, di farsi ballerina, sì, e suora di carità la mattina dopo, quan-d’erano venute per la questua48 le monacelle49 del Boccone del povero. E un po’voleva chiudersi tutta in se stessa e andar vagando per il mondo assorta nellascienza teosofica50, come Frau Wenzel, la sua maestra di tedesco e di pianofor-te; un po’ voleva dedicarsi tutta all’arte, alla pittura. Ma no, no: alla pittura vera-mente, no, più: le faceva orrore, ormai, la pittura, come se avesse preso corpoin quell’imbecille di Carlino Volpi, figlio del pittore Volpi, suo maestro, perchéun giorno Carlino Volpi, venuto invece del padre ammalato, a darle lezione...Com’era stato?... Lei, a un certo punto, gli aveva domandato:

«Vermiglione o carminio51?»E lui, muso di cane: «Signorina, carminio... così!»E l’aveva baciata in bocca.Via, da quel giorno e per sempre, tavolozza, pennelli e cavalletto! Il cavallet-

to glielo aveva rovesciato addosso e, non contenta, gli aveva anche scagliato infaccia il fascio di pennelli, e lo aveva cacciato via, senza neanche dargli il tem-po di lavarsi la grinta impudente52, tutta pinticchiata53 di verde, di giallo, di ros-so.

Era alla discrezione54 del primo venuto, ecco... Non c’era più nessuno, in casa,che la proteggesse. Un mascalzone, così, poteva entrarle in casa e permettersi,come niente, di baciarla in bocca. Che schifo le era rimasto, di quel bacio! S’erastropicciate55 a sangue le labbra; e ancora a pensarci, istintivamente, si porta-va una mano alla bocca.

Ma aveva una bocca, veramente?... Non se la sentiva! Ecco: si stringeva for-te forte, con due dita, il labbro, e non se lo sentiva. E così, di tutto il corpo. Nonse lo sentiva. Forse perché era sempre assente da se stessa, lontana?... Tuttoera sospeso, fluido e irrequieto dentro di lei.

E le avevano messo quella veste lunga, ora così... su un corpo, che lei non sisentiva. Assai più del suo corpo pesava quella veste! Si figuravano che ci fossequalcuna, una donna, sotto quella veste lunga, e invece no; invece lei, tutt’alpiù, non poteva sentirvi altro, dentro, che una bambina; sì, ancora, di nascostoa tutti, la bambina ch’era stata, quando tutto ancora intorno aveva per lei unarealtà, la realtà della sua dolce infanzia, la realtà sicura che sua madre dava alle

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45. invetriate: vetri.46. cineree: grigie.47. avviluppavano: avvolgevano.48. questua: richiesta di offerte per beneficenza.49. monacelle: suorine.50. teosofica: relativa alla conoscenza del divino.

51. vermiglione o carminio: tonalità di rosso intenso.52. grinta impudente: quel suo viso sfrontato.53. pinticchiata: colorata.54. alla discrezione: in balìa, esposta ai capricci.55. stropicciate: strofinate.

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cose col suo alito e col suo amore. Il corpo di quella bimba, sì, viveva e si nutri-va e cresceva sotto le carezze e le cure della mamma. Morta la mamma, lei ave-va cominciato a non sentire più neanche il suo corpo, quasi che anch’esso si fos-se diradato56, come tutt’intorno la vita della famiglia, la realtà che lei non riuscivapiù a toccare in nulla.

Ora, questo viaggio...Guardando di nuovo il padre e il fratello, Didì provò dentro, a un tratto, una

profonda, violenta repulsione.Si erano addormentati entrambi in penosi atteggiamenti. Ridondava57 al padre,

da un lato, premuta dal colletto, la flaccida giogaja58 sotto il mento. E aveva lafronte imperlata di sudore. E nel trarre il respiro, gli sibilava un po’ il naso.

Il treno, in salita, andava lentissimamente, quasi ansimando, per terre deso-late, senza un filo d’acqua, senza un ciuffo d’erba, sotto l’azzurro intenso e cupodel cielo. Non passava nulla, mai nulla davanti al finestrino della vettura; solo,di tanto in tanto, lentissimamente, un palo telegrafico, arido anch’esso, coi quat-tro fili che s’avvallavano59 appena.

Dove la conducevano quei due, che anche lì la lasciavano così sola? A un’im-presa vergognosa. E dormivano! Sì, perché forse, era tutta così, e non era altro,la vita. Essi, che già c’erano entrati, lo sapevano; c’erano ormai avvezzi e, andan-do, lasciandosi portare dal treno, potevano dormire... Le avevano fatto indos-sare quella veste lunga per trascinarla lì, a quella laida impresa, che non facevapiù loro alcuna impressione. Giusto lì la trascinavano, a Zùnica, ch’era il paesedi sogno della sua infanzia felice! E perché ne morisse dopo un anno, come lasua amichetta Rorò Campi?

L’ignota attesa, l’irrequietezza del suo spirito, in che si sarebbero fermate?In una cittaduzza morta, in un fosco palazzo antico, accanto a un vecchio mari-to dai capelli lunghi... E forse le sarebbe toccato di sostituire la cognata nellecure di quelle due vecchie ottuagenarie, seppure60 il padre fosse riuscito nellasua insidia.

Fissando gli occhi nel vuoto, Didì vide le stanze di quel fosco61 palazzo. Nonc’era già stata una volta? Sì, in sogno, una volta, per restarvi per sempre... Unavolta? Quando? Ma ora, ecco... e già da tanto tempo, vi era, e per starvi per sem-pre, soffocata nella vacuità62 d’un tempo fatto di minuti eterni, tentato da unronzio perpetuo, vicino, lontano, di mosche sonnolente nel sole che dai vetripinticchiati delle finestre sbadigliava sulle nude pareti gialle di vecchiaia, o sistampava polveroso sul pavimento di logori mattoni di terracotta.

Oh Dio, e non poter fuggire... non poter fuggire... legata com’era, qua, dalsonno di quei due, dalla lentezza enorme di quel treno, uguale alla lentezza deltempo là, nell’antico palazzo, dove non si poteva far altro che dormire, comedormivano quei due...

Provò a un tratto in quel fantasticare che assumeva nel suo spirito una real-tà massiccia, ponderosa63, infrangibile, un senso di vuoto così arido, che istinti-vamente, proprio senza volerlo, cauta, allungò una mano alla borsetta di cuojo,che il padre aveva posato, aperta, sul sedile. Il turacciolo smerigliato della fialaaveva già attratto con la sua iridescenza64 lo sguardo di lei.

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56. diradato: dissolto.57. ridondava: pendeva in eccesso.58. giogaja: doppio mento.59. s’avvallavano: pendevano.60. seppure: se.

61. fosco: buio e inquietante.62. vacuità: inutilità.63. massiccia, ponderosa: pesante e incombente.64. iridescenza: fenomeno ottico che dona colorazione mutevo-le nei toni dell’arcobaleno agli oggetti colpiti dalla luce.

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. Il padre, il fratello seguitavano a dormire. E Didì stette un pezzo a esamina-re la fiala, che luceva65 col veleno roseo. Poi, quasi senza badare a quello chefaceva, la sturò pian piano e lentamente l’accostò alle labbra, tenendo fissi gliocchi ai due che dormivano. E vide, mentre beveva, che il padre alzava unamano, nel sonno, per scacciare una mosca, che gli scorreva su la fronte, lieve.

A un tratto, la mano che reggeva la fiala le cascò in grembo, pesantemente.Come se gli orecchi le si fossero all’improvviso sturati, avvertì enorme, fragoro-so, intronante il rumore del treno, così forte che temette dovesse soffocare ilgrido che le usciva dalla gola e gliela lacerava... No... ecco, il padre, il fratellobalzavano dal sonno... le erano sopra... Come aggrapparsi più a loro?

Didì stese le braccia; ma non prese, non vide, non udì più nulla.Tre ore dopo, arrivò, piccola morta con quella sua veste lunga, a Zùnica, al

paese di sogno della sua infanzia felice.(L. Pirandello, Novelle, a cura di N. Gazich, Milano, Principato, 1993)

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65. luceva: brillava.

Esercizi1 Il personaggio di Didì è centrale nella novella: è una figura di adolescente, che non sa e non vuole affron-

tare il passaggio all’età adulta. La definiresti personaggio vivo, ben caratterizzato?

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2 Analizza i personaggi maschili: quale ti sembra essere il ruolo del fratello? E quello del padre? Chi dei dueè caratterizzato più negativamente e perché?

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3 Il marchese Andrea, promesso sposo di Didì, non compare nel vivo della narrazione, ma è comunque pre-sente come oggetto dei pensieri della giovane e caratterizzato in senso negativo. Rintraccia, nel testo, ipunti in cui tale giudizio appare evidente.

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4 Tra i personaggi evocati nel ricordo di Didì, il più importante è sicuramente la madre. Quale ruolo ti sem-bra avere nella novella? Perché si parla tanto di lei?

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5 Quale ti sembra essere il significato più profondo del viaggio di Didì?

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6 Analizza il motivo simbolico della «veste lunga» nello svolgimento della novella.

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7 Quali sono, secondo te, le motivazioni profonde del suicidio di Didì?

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8 Vi sono parti prolettiche? Se sì, in quali punti?

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9 Che tipo di narratore è presente nella novella?

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10 In quale passaggio il punto di vista diventa quello di Didì?

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11 Evidenzia nel testo i passaggi in cui le parole e i pensieri dei personaggi sono riportati con la tecnica deldiscorso indiretto libero.

12 La Zùnica reale e la Zùnica mitica si contrappongono nella novella. Con quale significato, a tuo parere?

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13 Dalla storia di Didì è possibile ricavare anche alcune informazioni sulla condizione della donna in Sicilia aitempi di Pirandello. Quale ti sembra essere il suo giudizio?

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. JAMES JOYCE

Un incontro

Con la raccolta Gente di Dublino lo scrittore irlandese James Joyce (1882-1941) offre in quin-dici racconti un quadro della città e dei suoi abitanti, ma Dublino, amata e nello stesso tempo odia-ta da Joyce per la sua immobilità culturale, non è solo un luogo geografico, quanto piuttosto il sim-bolo di quell’inerzia del mondo e dell’uomo del Novecento che lo scrittore irlandese definiva “paralisi”:nello spazio grigio di questa città senza vita, l’esistenza appare bloccata in una condizione di stasi eil destino dei personaggi viene deciso da situazioni banali e insignificanti. Il racconto è la storia di una giornata di libertà che due ragazzi, allievi del severo collegio dei gesui-ti, si prendono, marinando la scuola, fino all’incontro con un uomo strano, vecchio e malvestito. Trai ragazzi e lo sconosciuto si sviluppa un dialogo sottilmente ambiguo: si parla in un primo momen-to in modo assolutamente banale di scuola e di ragazze, ma in seguito, rimasto solo col vecchio, l’ionarrante coglie nelle sue parole un’intonazione misteriosa e segreta che lo turba profondamente.Nelle oscure parole e nelle affermazioni contraddittorie, l’adolescente intuisce la presenza di unpericolo, una cattiveria senza ragione: per la prima volta comprende di trovarsi di fronte al male, adelusioni e a fallimenti della vita adulta che, proiettando un’ombra buia sulla sua giornata di sole,chiudono per sempre la stagione dell’adolescenza, aprendogli le porte della consapevolezza.

Fu Joe Dillon a farci conoscere il Far West. Aveva una sua bibliotechina mes-sa su coi vecchi numeri dell’Union Jack, del Pluck e dell’Halfpenny Marvel1. Tut-te le sere, usciti dalla scuola, ci si riuniva nel giardino, sul retro di casa sua, pergiocare agli indiani. Lui e quel grassone del fratello minore, Leo, lo sfaticato,difendevano il soppalco della stalla, mentre noi cercavamo di prenderlo d’assal-to; quando addirittura non si combattevano battaglie campali sull’erba. Ma perquanto ce la mettessimo tutta, non riuscimmo a vincere una sola volta né unassedio né una battaglia e tutte le nostre imprese si concludevano con la vitto-riosa danza di guerra di Joe Dillon. Tutte le mattine i suoi genitori andavano allamessa delle otto nella chiesa di Gardiner Street e nel vestibolo si diffondeva ilsoave profumo della signora Dillon. Per noi, che eravamo più piccoli e più timi-di, i suoi giochi erano troppo violenti. Sembrava un vero indiano quando si met-teva a scorrazzare su e giù per il giardino con una vecchia copriteiera sulla testa,battendo col pugno su una latta e urlando:

«Ya! Yaka, yaka, yaka, ya!»Restammo di stucco quando dissero in giro che aveva la vocazione e che vole-

va fare il prete. Eppure era vero.Uno spirito di rivolta si diffuse fra noi e sotto la sua influenza furono messe

da parte diversità di cultura e di temperamento. Formammo tutti quanti un’uni-ca banda, chi per arditezza, chi per scherzo e chi per paura; fra questi ultimiindiani recalcitranti che avevano timore di passare per scriccioli o per sgobbo-ni, c’ero anch’io [...].

S’approssimavano le vacanze estive allorché mi risolsi a rompere almeno perun giorno la monotonia della vita di scuola. Insieme a Leo Dillon e a un ragazzoche si chiamava Mahony progettai di marinarla per tutto un giorno. Avevamomesso da parte sei pence2 ciascuno. Ci saremmo dovuti incontrare sul ponte delCanale alle dieci del mattino. La sorella più grande di Mahony gli avrebbe scrit-to la giustificazione e Leo Dillon avrebbe fatto dire a suo fratello che era amma-

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1. Union Jack… Halfpenny Marvel: sono tutte riviste di rac-conti rivolte a un pubblico di adolescenti.

2. pence: centesimi di sterlina.

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lato. Avevamo stabilito di percorrere la Wharf Road fino all’attracco delle navi,quindi di prendere il traghetto e proseguire a piedi per vedere la Colombaia.Leo Dillon temeva che incontrassimo padre Butler o qualcun altro della scuo-la; Mahony tuttavia obiettò a fil di logica che non capiva cosa ci sarebbe anda-to a fare padre Butler dalle parti della Colombaia. Una volta rassicurati, portaia termine il primo atto della congiura raccogliendo dagli altri due le monete dasei pence, mostrando loro allo stesso tempo la mia. Quando prendemmo gli ulti-mi accordi, alla vigilia, avvertimmo un brivido d’eccitazione. Ci stringemmo lamano, ridendo, e Mahony disse:

«A domani, compagni».Quella notte dormii agitato. Al mattino fui il primo ad arrivare al ponte, dato

che ci abitavo il più vicino. Nascosi i libri nell’erba alta vicino all’immondezza-io, giù in fondo al giardino, dove non andava nessuno e allungai il passo lungola riva del canale. Era un mattino della prima settimana di giugno, dolce e soleg-giato. Mi misi a sedere sul parapetto del ponte e presi ad ammirare le leggerescarpe di tela che avevo imbiancato a dovere la sera prima e a scrutare i man-sueti cavalli che trainavano un omnibus3 carico di gente indaffarata su per lacollina. I rami delle alte piante che costeggiavano il viale erano un tripudio difoglioline verdi colpite di sbieco dalla luce del sole che andava a riflettersi sul-l’acqua. La pietra del parapetto cominciava a intiepidirsi e io presi a batterla colpalmo della mano seguendo il ritmo di un motivetto che mi frullava per la testa.Sprizzavo felicità [...].

Allorché arrivammo al molo era già mezzogiorno e poiché pareva che gli ope-rai se ne fossero andati a pranzo, comprammo un paio di focacce con l’uva pas-sa e ce le mangiammo seduti sulle tubature vicino al fiume. Ce la spassavamo aosservare il via vai della Dublino commerciale: le chiatte che gli sbuffi di fumolanuginoso annunciavano da lontano, i pescherecci scuri oltre il Ringsend, ilmaestoso veliero candido che veniva scaricato dall’altra parte della banchina.Mahony disse che sarebbe stato bello prendere la via del mare in uno di queibastimenti e anch’io, guardando le alte alberature, vedevo o m’immaginavo divedere prender man mano forma sotto i miei occhi quella geografia che a scuo-la mi veniva insegnata in maniera tanto effimera. Scuola e casa sembrava d’al-tronde che s’allontanassero e con esse svanisse ogni loro influenza [...].

Era molto tardi e ci sentivamo troppo stanchi per portare a compimento ilprogetto di visitare la Colombaia. Dovevamo essere di ritorno prima delle quat-tro, se non si voleva che scoprissero la nostra avventura. Mahony gettò unosguardo contrito alla fionda e da parte mia dovetti proporre di tornare in trenoperché ritrovasse un po’ di baldanza. Il sole scomparve dietro le nubi lascian-doci soli con i nostri stracchi pensieri e le briciole delle provviste.

Non c’era nessuno nel campo all’infuori di noi. Eravamo sdraiati sulla scar-pata da un pezzo, senza dire una parola, quando vidi avvicinarsi un uomo dallimite estremo del campo. L’osservai con indolenza masticando uno di quei filid’erba coi quali le ragazze predicono il futuro. Camminava pian pianino lungola scarpata. Teneva una mano sul fianco e nell’altra aveva un bastone col qualesaggiava il terreno erboso. Vestito miseramente, indossava un abito nero-ver-dastro e in testa portava quel che definivamo un cappello a cupola alta un po’malconcio. Sembrava piuttosto vecchio perché aveva i baffi grigio cenere. Quan-

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3. omnibus: tram a cavalli.

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. do ci passò davanti ci gettò un rapido sguardo, poi proseguì per la sua strada.Lo seguimmo con gli occhi e ci accorgemmo che, dopo aver fatto una cinquan-tina di passi o giù di lì, si volse e fece il percorso a ritroso. Camminava verso dinoi molto piano, senza smettere di saggiare il terreno col bastone, così pianoche credetti che stesse cercando qualcosa fra l’erba.

Una volta raggiuntici, si fermò e ci rivolse il saluto. Gli rispondemmo e lui simise a sedere accanto a noi sulla proda4, adagio adagio, con gran precauzione.Comincio a parlare del tempo, dicendo che sarebbe stata un’estate torrida einoltre che le stagioni non erano più quelle di quando lui era ragazzo, tanto tem-po fa. Disse che i giorni più belli della vita sono quelli di scuola e che avrebbedato qualsiasi cosa pur di ritornare giovane. Mentre dava sfogo a questi senti-menti che ci tediarono un po’, ce ne stemmo muti. Poi prese a parlare di scuo-la e di libri. Ci chiese se avevamo letto le poesie di Thomas Moore o i romanzidi Walter Scott e di Lord Lytton. Feci finta di aver letto tutti quanti i libri cheaveva citato [...].

Poi ci chiese chi dei due avesse più fidanzate. Mahony affermò a cuor legge-ro che aveva tre ragazzine. Mi domandò allora quante ne avevo io. Gli risposiche non ne avevo nessuna. Non mi credette e disse che una dovevo avercela disicuro. Non feci motto.

«Diteci voi allora» domandò Mahony con fare sfrontato «quante ne avete?»L’uomo sorrise come prima e rispose che quando era della nostra età aveva

ragazzine a non finire.«Tutti i ragazzi» disse «ce l’hanno l’innamorata».Rimasi colpito dalla strana libertà con cui un vecchio come lui parlava di cer-

te faccende. Pensavo fra me che quanto aveva detto dei ragazzi e delle loro inna-morate era giusto. Ma quelle parole nella sua bocca mi stonavano e mi chiesiperché fosse rabbrividito una o due volte, come se temesse qualcosa o l’avessecolto un gelo improvviso. Mentre riprendeva il discorso notai che aveva un buonaccento. Cominciò a parlarci delle ragazze e dei loro bei capelli soffici e delleloro mani morbide, e di come non fossero affatto delle santarelline, niente nien-te che uno imparava a conoscerle. La cosa che gli piaceva di più, disse, era guar-dare una fanciulla giovane e bella, le sue belle mani candide e i suoi bei capellisoffici. Mi dette l’impressione che stesse ripetendo qualcosa imparato a memo-ria o che la sua mente, magnetizzata dalle proprie parole, stesse lentamente vol-vendo5 tutto intorno seguendo la medesima orbita. Capitava che parlasse comese alludesse semplicemente a cose risapute; a volte abbassava la voce e assu-meva un’aria di mistero come se ci stesse confidando un segreto che gli altrinon dovevano sentire. Non si stancava di ripetere sempre le stesse frasi, giran-dole e rigirandole con voce monotona. Mentre l’ascoltavo, tenevo lo sguardo fis-so ai piedi del dirupo.

Dopo un bel pezzo il monologo s’interruppe. Si levò adagio adagio, dicendoche doveva lasciarci per un minuto o due solamente e senza che mutassi la dire-zione dello sguardo lo vidi allontanarsi da noi verso il limite più vicino del cam-po. Quando se ne fu andato, rimanemmo senza parole. Dopo alcuni minuti disilenzio sentii Mahony che esclamava:

«Ma dico io! Guarda che sta facendo!»

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4. proda: sponda.5. volvendo: girando.

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Poiché non rispondevo né alzavo gli occhi, Mahony esclamò di nuovo:«Ma dico io... Lo sai che deve essere un bel tipo!»«Caso mai ce lo chiedesse» dissi «tu ti chiami Murphy e io Smith».Non ci dicemmo niente altro. Stavo ancora riflettendo se dovevo andarme-

ne o meno, quando l’uomo ritornò e ci sedette di nuovo accanto. S’era appenachinato che Mahony, avvistato il gatto che gli era sfuggito prima, balzò in piedie lo rincorse per il campo. L’uomo e io osservammo l’inseguimento. Il gatto sela filò anche questa volta e Mahony prese a lanciar sassi contro il muro su cuis’era arrampicato. Quando smise, si dette a vagare senza meta al limite estre-mo del campo.

Dopo una pausa l’uomo riprese a parlarmi. Disse che il mio amico era pro-prio uno scapestrato e mi chiese se a scuola gli facevano assaggiare spesso lafrusta. Stavo per rispondergli pieno di indignazione che non eravamo allievi del-la scuola statale ai quali si fa assaggiare la frusta, come la chiamava lui; ma nonproferii verbo. Cominciò a parlare dei modi in cui si puniscono i ragazzi. Magne-tizzata dal nuovo argomento, sembrava che la sua mente cominciasse a volver-si attorno al nuovo centro. Disse che quando i ragazzi erano a quel modo, dove-vano essere frustati di santa ragione. Quando si è rudi e sventati il rimediomigliore è una bella frustata. Bacchettate sulle dita o manrovesci sulle orecchiedicono poco: quel che ci vuole davvero è una bella frustata. Rimasi sorpreso daquesto suo modo di sentire e senza volerlo lo guardai in faccia. Fu così che incon-trai lo sguardo di un paio di occhi verde-bottiglia che mi scrutavano da sotto lafronte aggrottata. Ne distolsi subito i miei.

L’uomo riprese col suo monologo. Sembrava che avesse dimenticato l’indul-genza di poco prima. Sostenne anzi che se avesse trovato un ragazzo a parlarecon una fanciulla o uno che aveva l’innamorata, l’avrebbe frustato di santa ragio-ne; gliela avrebbe fatta passare lui la voglia di parlare alle ragazze. Se poi unoavesse avuto l’innamorata sul serio e avesse mentito sulla faccenda, ne avreb-be prese come nessun altro al mondo. Disse che ne avrebbe tratto un gustoimmenso. Prese a descrivermi come avrebbe frustato un ragazzo simile, quasiche mi stesse rivelando un complicato mistero. Gli sarebbe piaciuto, disse, piùdi qualsiasi cosa; e mentre mi guidava attraverso il mistero la sua voce mono-tona si fece più tenera, come se volesse supplicarmi di capirlo.

Attesi che il monologo s’interrompesse per una nuova pausa. Balzai in pieditutto a un tratto. Per non tradire il mio turbamento indugiai qualche minutofacendo finta di stringere il nodo della scarpa e poi lo salutai dicendogli che mene dovevo andare. Risalii il pendio lemme lemme ma il cuore mi batteva a per-difiato per paura che quello mi pigliasse alle caviglie. Quando raggiunsi la som-mità mi volsi dattorno e, evitando di guardarlo, gridai verso il campo:

«Murphy!»Un tono di forzata spavalderia risuonò nella mia voce e provai vergogna per

quel trucco meschino. Dovetti ripetere ancora quel nome prima che Mahony miscorgesse e mi lanciasse un grido di risposta. Come mi batteva il cuore mentrecorreva verso di me attraverso il campo! Correva come per portarmi aiuto. Ebbiun senso di rimorso perché in fondo l’avevo sempre un po’ disprezzato.

(J. Joyce, Gente di Dublino, trad. di A. Brilli, Milano, A. Mondadori, 1987)

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1 La vicenda si può dividere in quattro blocchi: rintraccia i singoli blocchi nel testo, quindi analizzali, illustran-done le diverse caratteristiche.

a. L’antefatto.

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b. L’avventura.

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c. L’incontro col vecchio.

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d. La conclusione.

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2 Come si presenta il personaggio protagonista? Come introduce i suoi amici, in modo particolare Mahony?

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3 Da quale punto di vista viene presentato, secondo te, il vecchio? Quali effetti provoca la sua comparsaimprovvisa?

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4 Analizza le parole del vecchio: con quale tecnica sono riportate nel testo?

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5 Sottolinea nel testo i discorsi indiretti liberi.

Esercizi

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6 Che significato ha, secondo te, questo racconto?

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7 La vicenda del protagonista, più che un caso individuale, potrebbe essere simbolo di un preciso momentodel percorso di crescita: la fine dell’adolescenza del protagonista coincide così con la sua scoperta doloro-sa della realtà. Rifletti su questa proposta di interpretazione e scrivi un commento in merito.

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. ELSA MORANTE

Il piroscafo

L’isola di Arturo di Elsa Morante (1912-1985) è il romanzo del difficile passaggio dall’infanziaall’adolescenza e da questa alla giovinezza. Il protagonista Arturo Gerace, orfano di madre, vive aProcida un’esistenza libera e solitaria, colma di sogni e di fantasie, ma due sono i momenti di rottu-ra dell’equilibrio: l’arrivo della giovane matrigna Nunziata (che segna la fine dell’infanzia e l’iniziodell’adolescenza) e la scoperta dell’omosessualità del padre Wilhelm (che scandisce il passaggio delprotagonista dall’adolescenza alla giovinezza). Nel romanzo la stagione privilegiata della vita restal’infanzia: come afferma la Morante nell’introduzione, «fuori del limbo non v’è eliso», fuori dall’in-fanzia non esiste innocenza. Per Arturo il crollo delle apparenze che avevano suscitato le sue aspet-tative gloriose non prelude dunque a nulla di alternativo, ma apre la strada a una consapevolezzadolorosa della realtà. Crescere, diventare adulti significa assistere al crollo dei propri sogni, non alchiarimento del senso della vita che, anzi, resta sempre misterioso, facendosi più fitto e disperatoquando viene meno anche la speranza di poterlo un giorno decifrare.Del romanzo proponiamo le pagine finali del doloroso abbandono di Procida.

Il risveglio naturale mi sopravvenne, però, assai presto. Faceva ancora buiofondo, e alla luce di un fiammifero potei leggere sulla sveglia (tolta a prestitoda Silvestro in paese) che mancavano più di trenta minuti all’ora della nostraalzata. Tuttavia, non avevo più nessuna voglia di dormire; e badando a non distur-bare il sonno di Silvestro (il quale seguitava a russare, sebbene con più discre-zione) scivolai fuori della grotta.

Tenevo la coperta sulle spalle alla moda siciliana, per uso di mantello; ma inverità non faceva freddo, neanche adesso che il vento sciroccale era caduto. Sicapiva, dal riflesso lustro dei sassi, che doveva aver piovuto durante la notte.Qua e là, per il cielo stracciato, erano visibili le piccole stelle dicembrine, e un’ul-tima falce di luna spargeva un pallidissimo barlume di crepuscolo. Il mare, ste-so dalla pioggia senza vento, oscillava appena assonnato e monotono. E io, avan-zando lungo il mare in quel grande mantello, mi sentivo già una specie dimasnadiero1, senza casa, né patria, con un teschio ricamato sulla divisa!

Dalla campagna, già si udivano cantare i galletti. E d’un tratto, un rimpiantosconsolato mi si appesantì sul cuore, al pensiero del mattino che si sarebbe leva-to sull’isola, uguale agli altri giorni: le botteghe che si aprivano, le capre che usci-vano dai capanni, la matrigna e Carminiello che scendevano nella cucina… Se,almeno, fosse durato sempre il presente inverno, malaticcio e smorto, sull’isola!Ma no, anche l’estate, invece, sarebbe tornata immancabilmente, uguale al soli-to. Non la si può uccidere, essa è un drago invulnerabile che sempre rinasce, conla sua fanciullezza meravigliosa. Ed era un’orrida gelosia che mi amareggiava,questa: di pensare all’isola di nuovo infuocata dall’estate, senza di me! La rena2

sarà di nuovo calda, i colori si riaccenderanno nelle grotte, i migratori, di ritor-no dall’Africa, ripasseranno il cielo... E in simile festa adorata, nessuno: neppu-re un qualsiasi passero, o una minima formica, o un infimo pesciolino del mare,si lagnerà di questa ingiustizia: che l’estate sia tornata sull’isola, senza Arturo! Intutta l’immensa natura, qua intorno, non resterà neppure un pensiero per A. G.Come se, per di qua, un Arturo Gerace non ci fosse passato mai!

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1. masnadiero: brigante di strada.2. rena: sabbia.

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Mi stesi, nella mia coperta, su quei sassi bagnati e lividi, e chiusi gli occhi,fingendo per un poco d’esser tornato indietro, a qualche bella, passata stagio-ne; e di trovarmi disteso sulla rena della mia spiaggetta; e che quel vicino fru-scio fosse il mare sereno e fresco di là in basso, pronto a ricevere la Torpedinie-ra delle Antille. Il fuoco di quella infinita stagione puerile mi montò al sangue,con una passione terribile che quasi mi faceva mancare. E l’unico amore mio diquegli anni tornò a salutarmi. Gli dissi ad alta voce, come se davvero lui fosse lìaccosto: «Addio, pà».

Subitaneo, il ricordo della sua persona mi accorse alla mente: non come unafigura precisa, ma come una specie di nube che avanzava carica d’oro, azzurrotorbido; o come un sapore amaro; o un vocio quasi di folla, ma invece erano gliechi numerosi dei suoi richiami e parole, che ritornavano da ogni punto della miavita. E certi tratti propri di lui, ma quasi trascurabili: una sua alzata di spalle; unsuo ridere distratto; oppure la forma grande e negletta3 delle sue unghie; le giun-tura delle sue dita; o un suo ginocchio graffiato dagli scogli... ritornavano isola-ti, a farmi battere il cuore, quasi unici simboli perfetti di una grazia molteplice,misteriosa, senza fine... E di un dolore che mi si faceva più acerbo per questomotivo: perché sentivo che esso era una cosa fanciullesca; pari a un incontro dicorrenti turbinose, esso si precipitava tutto quanto in questo presente, brevepassaggio d’addio! E dopo, lo avrei dimenticato, naturalmente, tradito. Di quisarei passato a un’altra età, e avrei riguardato a lui come a una favola.

Ormai, gli perdonavo ogni cosa. Anche la sua partenza con un altro. E perfi-no quel suo severo discorso finale, nel quale, alla presenza di Stella, m’avevachiamato, oltre al resto, “rubacuori e Don Giovanni”; e che lì per lì mi aveva offe-so non poco.

(In seguito, ripensandoci a distanza, mi son domandato se, in fondo, quel suodiscorso non fosse poi giusto, almeno in parte… Forse, davvero io, mentre micredevo innamorato di questa o quella persona, o di due o anche tre personeinsieme, in realtà non ne amavo nessuna. Il fatto è che, in generale, io ero trop-po innamorato dell’innamoramento: questa è sempre stata la vera passione mia!

Può darsi, in coscienza, ch’io non abbia mai amato sul serio W.G. E in quan-to a N., chi era, poi, questa famosissima donna? una povera napoletanella sen-za niente di speciale, come a Napoli ce ne sono tante!

Sì, ho il fondato sospetto che quel discorso non fosse del tutto sbagliato. Ilsospetto non proprio la certezza… Così dunque la vita è rimasta un mistero. Eio stesso, per me, sono ancora il primo mistero!

Da questa infinita distanza, adesso, ripenso a W.G. Me lo immagino, forse, piùche mai invecchiato, imbruttito dalle rughe, coi capelli grigi. Che va e torna,solo, scombinato, adorando chi gli dice parodia4. Non amato da nessuno – giac-ché perfino N., che pure non era bella, amava un altro… E vorrei fargli sapere:non importa, anche se sei vecchio. Per me, tu resterai sempre il più bello.

…Di lei, a suo tempo, ebbi qualche notizia, a Napoli, attraverso viaggiatorivenuti da Procida. Stava bene, di salute, per quanto dimagrata molto. E segui-tava la solita sua vita nella Casa dei guaglioni, con Carmine5 che si faceva ognigiorno più simpatico. Essa, però, non usava più chiamarlo Carmine, lo chiama-va a preferenza col suo secondo nome di Arturo. E per me, io sono contento

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3. negletta: trasandata.4. parodia: soprannome dato al padre dal giovane amante.

5. Carmine: il fratellastro di Arturo.

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. che sull’isola vi sia un altro Arturo Gerace, biondino, che a quest’ora, forse, cor-re libero e beato per le spiagge...).

Dalla grotta, che avevo lasciata socchiusa, mi giunse il trillo della sveglia.Accorsi, nel timore che esso non bastasse a scuotere il sonno del mio balio6; matrovai, invece, costui già seduto frammezzo alle coperte, che si stropicciava gliocchi intontito e borbottava degli accidenti contro quel trillo importuno. Imme-diatamente, facendomi accosto a lui, io gli annunciai, con impazienza trionfale:

«Ehi! Lo sai che russi?»«Che?» egli fece senza ben capire, ancora tutto insonnolito. Io allora gli gri-

dai nell’orecchio, con una voce tonante, e una voglia di ridere che mi scoppia-va fra le parole:

«lo – sai – che – quando – dormi – russi?»«Eh! mi fai il solletico col fiato!» egli protestò, sfregandosi l’orecchia. «Rus-

so… ah… e che c’è? si capisce», seguitò poi, principiando appena a ridestarsi,«che, non dovrei russare? Ogni cristiano, quando dorme, russa».

«Già» esclamai io, rotolandomi addirittura in terra dalle risate, «però, c’èmaniera e maniera! Tu batti il campionato mondiale! Sembri un’orchestra radioal massimo!»

«Ah, sì? ci ho piacere assai» egli ribatté, ormai del tutto sveglio e piuttostoimpermalito7, «ma perché, forse, tu, guagliò, ti crederesti per caso di russare pia-no?! Che stanotte io, a una cert’ora, ho dovuto uscire sulla spiaggia per fare ungoccio d’acqua, e là, a una distanza di dieci metri, si sentiva ancora un russare,dalla grotta, come se passasse una squadriglia d’apparecchi a bassa quota!»

Simile notizia mi rese felice. Difatti, se russavo a questa maniera, era chiarosegno che potevo ormai considerarmi cresciuto, maturo e realmente virile, sot-to tutti i riguardi.

Ci caricammo dei bagagli, coperte, ecc. e ci avviammo verso il paese, per lariviera che incominciava a sbianchirsi nell’alba. Lungo la linea di levante, uncolore rosso, sotto strisce di nubi cupe, annunciava una giornata di tempo volu-bile. Come giungemmo alla piazza, Silvestro si diresse verso la Capitaneria, giàaperta, per consegnare a un tale suo conoscente i vari oggetti avuti ieri in pre-stito, da restituirsi ai diversi proprietari. Egli s’incaricò pure di acquistare ibiglietti per la nostra traversata, mentre io lo precedevo verso il molo.

I primi raggi del sole, interrotti e corruschi8, si allungavano sul mare quasiliscio. Io pensai che fra poco avrei veduto Napoli, il continente, le città, chissàquali moltitudini! E mi prese una smania improvvisa di partire, via da quellapiazza, e da quella banchina.

Il piroscafo era già là, in attesa. E al guardarlo, io sentii tutta la stranezza del-la mia tramontata infanzia. Aver veduto tante volte quel battello attraccare esalpare, e mai essermi imbarcato per il viaggio! Come se quella, per me, non fos-se stata una povera navicella di linea, una specie di tranvai; ma una larva sco-stante e inaccessibile, destinata a chi sa quali ghiacciai deserti!

Silvestro ritornava coi biglietti; e i marinai andavano disponendo la scalettaper l’imbarco. Mentre il mio balio conversava con loro, io, senza farmi vedere,trassi di tasca quel cerchietto d’oro9 che N. mi aveva inviato la sera prima. E dinascosto lo baciai.

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6. mio balio: Silvestro.7. impermalito: indispettito.8. corruschi: fiammeggianti.

9. cerchietto d’oro: è l’orecchino che Arturo aveva strappato aNunziata dopo aver tentato di baciarla.

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A riguardarlo, d’un tratto una debolezza inebriante mi oscurò la vista. In quelmomento, l’invio dell’orecchino mi si tradusse in tutti i suoi significati: d’addio,di confidenza; e di civetteria amara e meravigliosa! Così, adesso avevo saputoche era anche civetta, la mia cara innamoratella! Senza conoscersi, certo, ma loera. Difatti, quale altro saluto di donna potrebbe mai esprimere una civetteriapiù bella di questa sua, nella sua ignoranza? Mandarmi in ricordo non il segnod’una mia carezza, o d’un bacio; ma di un maltrattamento infame. Come a dir-mi: anche i tuoi maltrattamenti, sono cose d’amore, per me.

Provai la tentazione furiosa di tornare indietro, correndo, fino alla Casa deiguaglioni. E di coricarmi accanto a lei: di dirle: «Fammi dormire un poco assie-me a te. Partirò domani. Non dico che dobbiamo fare l’amore, se tu non vuoi.Ma almeno lascia ch’io ti baci qua all’orecchio, dove ti ho ferito».

Già, però, il marinaio, ai piedi della scaletta, stracciava i nostri biglietti per ilcontrollo; già Silvestro saliva, assieme a me, la scaletta. La sirena dava il fischiodella partenza.

Come fui sul sedile accanto a Silvestro, nascosi il volto sul braccio, contro loschienale. E dissi a Silvestro: «Senti. Non mi va di vedere Procida mentre s’al-lontana, e si confonde, diventa come una cosa grigia… Preferisco fingere chenon sia esistita. Perciò, fino al momento che non se ne vede più niente, saràmeglio ch’io non guardi là. Tu avvisami, a quel momento».

E rimasi col viso sul braccio, quasi in un malore senza nessun pensiero, finchéSilvestro mi scosse con delicatezza, e mi disse: «Arturo, su, puoi svegliarti».

Intorno alla nostra nave, la marina era tutta uniforme, sconfinata come unoceano. L’isola non si vedeva più.

(E. Morante, L’isola di Arturo, Torino, Einaudi, 1957)

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Volume 1, Unità 4

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1 A chi appartiene la voce narrante nel testo?

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2 Quale paesaggio e quale ora del giorno fanno da sfondo alla partenza di Arturo?

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3 Quale importanza occupano nel racconto le riflessioni e le sensazioni del ragazzo?

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Esercizi

Page 29: Unità 4 Crescere e riconoscersi - loescher.itrisorseante2010/galeottofu/download... · Era martedì, quel giorno. E adesso era sabato. Rosalind non si era ancora abituata all’idea

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. 4 Quali ricordi del passato emergono suscitando maggior dolore?

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5 Che sensazioni prova Arturo alla vista del piroscafo?

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6 Chi è Silvestro?

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7 «L’isola non si vedeva più»: quale significato ha questa affermazione all’interno del processo di crescita diArturo?

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8 Che tipo di linguaggio utilizza l’autrice? Con quali finalità?

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9 Vi sono nel racconto parti in flashback? E parti prolettiche?

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10 Qual è il punto di vista dominante?

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11 Con quali tecniche vengono riportati nel testo i pensieri di Arturo?

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12 Che ruolo ha, a tuo parere, lo spazio in questo racconto? La descrizione ambientale ti sembra oggettiva ofiltrata dal punto di vista del giovane che sta per lasciare la sua isola?

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GIUDIZIO .............................................................................................................................................................................................................................

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