UNA FESTA GUASTATA: DINNER PARTY E LA...

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Giornata Tondelli, Correggio, Palazzo dei Principi, 13 dicembre 2014. Intervento di Andrea Suverato : Una festa guastata : Dinner Party e la coscienza postmoderna. 1 UNA FESTA GUASTATA: DINNER PARTY E LA COSCIENZA POSTMODERNA di Andrea Suverato L'insostenibile frivolezza del Postmoderno «Questi ultimi anni dell'era postmoderna mi sono sembrati un po' come quando sei alle superiori e i tuoi genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party, e per un po' va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l'autorità parentale se ne è andata, è spodestata, il gatto è via e i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi o rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po' di ordine». (Foster Wallace, 2013, pp. 106-107) Non penso che Pier Vittorio Tondelli e David Foster Wallace si siano mai incontrati di persona, ma nel caso credo si sarebbero piaciuti molto. Credo soprattutto che se Tondelli non ci avesse lasciato nel dicembre di ventitré anni fa e gli fossero capitate sottomano queste parole che lo scrittore americano rilasciò in un intervista trascritta nella Review of contemporary fiction del 1993, vi avrebbe trovato molto di suo. E per la precisione, si sarebbe sentito trasportare indietro direttamente di dieci anni, quando simili immagini e pensieri incominciarono a prendere forma proprio dalla sua penna ma sarebbe meglio dire più forme, dal momento che ne vediamo gli esiti in più di una produzione dello scrittore emiliano.

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Giornata Tondelli, Correggio, Palazzo dei Principi, 13 dicembre 2014.

Intervento di Andrea Suverato : Una festa guastata : Dinner Party e la coscienza

postmoderna.

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UNA FESTA GUASTATA:

DINNER PARTY E LA COSCIENZA POSTMODERNA

di Andrea Suverato

L'insostenibile frivolezza del Postmoderno

«Questi ultimi anni dell'era postmoderna mi sono sembrati un po' come quando sei alle superiori e i tuoi genitori

partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party,

e per un po' va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l'autorità parentale se ne è andata, è spodestata, il gatto è via e

i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe

finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi o rovesciarsi, e ci sono

bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare

che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po' di ordine». (Foster Wallace, 2013, pp. 106-107)

Non penso che Pier Vittorio Tondelli e David Foster Wallace si siano mai incontrati di

persona, ma nel caso credo si sarebbero piaciuti molto. Credo soprattutto che se Tondelli non

ci avesse lasciato nel dicembre di ventitré anni fa e gli fossero capitate sottomano queste

parole che lo scrittore americano rilasciò in un intervista trascritta nella Review of

contemporary fiction del 1993, vi avrebbe trovato molto di suo. E per la precisione, si sarebbe

sentito trasportare indietro direttamente di dieci anni, quando simili immagini e pensieri

incominciarono a prendere forma proprio dalla sua penna – ma sarebbe meglio dire più forme,

dal momento che ne vediamo gli esiti in più di una produzione dello scrittore emiliano.

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Riferendosi al panorama letterario americano, Foster Wallace palesa una grossa insofferenza

per alcuni aspetti-cardine della cultura postmoderna, elementi che si rispecchiano nella

letteratura come nella società del tempo. In sintesi: l’esibizionismo sfrenato, la frivolezza

degli argomenti, l’ironia fine a se stessa e autoreferenziale. Tutti elementi pompati a

dismisura dalla molteplicità degli stimoli e dalla varietà degli intrattenimenti offerti, che

producono in letteratura come nella vita quotidiana dei pastiche tanto appariscenti quanto

sterili.

Naturalmente lo scenario non è così tetro; lo stesso Foster Wallace deve molto – in particolare

nelle fasi preliminari della sua carriera – all’opera di autori come Thomas Pynchon, John

Barth e Don DeLillo, protagonisti indiscussi di quell’epoca. Le critiche che muove vertono

chiaramente verso un certo tipo di Postmoderno, inteso come frivolo e autoreferenziale:

quello che appiattisce la grandissima quantità di informazioni e impulsi offerti dall’età

contemporanea su di uno stesso livello, dichiarando apertamente (e senza neanche troppo

scomporsi) l’assenza di un qualunque assetto verticale o scala gerarchica di valori, o

quantomeno di una differenza qualitativa del dato trattato.

È il caso di fare un’ulteriore precisazione: l’accostamento di alto e basso abbinato all’uso

dell’artificio ironico è un’arma potente e preziosa di cui diversi artisti contemporanei (nella

letteratura, nel cinema, nell’arte, nella musica: basti pensare allo stesso Foster Wallace, ma

pure a un Tarantino, a un Mimmo Rotella, a un Frank Zappa e così via) si sono serviti per

dare vita a opere davvero fenomenali: il discrimine tra un cattivo e un buon postmodernismo

non starebbe dunque nelle tecniche espressive, nei temi e negli artifici utilizzati, quanto nella

riflessione nascosta a cui sono sottesi e che questi vogliono stimolare. Viene facile a questo

punto citare Calvino, quando ci dice che «esiste una leggerezza della pensosità, così come

tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza; anzi la leggerezza pensosa può far

apparire la frivolezza come pesante e opaca». (Calvino, 2010, p. 15)

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Qui sta il discrimine. Ed è una partita che si gioca tutta oltre il velo della leggerezza

apparente: tra il profondo e il frivolo, tra l’eclettico e il kitsch, tra la comunicazione e

l’autoreferenzialità, tra ciò che è fertile e ciò che è sterile.

Pier Vittorio Tondelli sembra percepire ciò con grande anticipo, e lo vediamo tra le

pagine di un pezzo del 1991 intitolato Weekend, in cui racconta l’episodio all’origine di Un

weekend postmoderno, il progetto di romanzo critico sugli Anni Ottanta che conoscerà nel

tempo molteplici trasformazioni – tra le varie, un’opera teatrale che col proposito iniziale

condivide buona parte dei contenuti, dei temi e dei personaggi. Parlo dell’opera al centro di

questo saggio, Dinner party.

Il "weekend postmoderno" capitò più o meno in quel periodo: un fine-settimana della Bologna trend che, al pari

di tanti altri, si annunciava con qualche festicciola, un salto in discoteca, l'inaugurazione di una mostra, amici di

Roma e di Milano. […] Per me, gli anni ottanta finirono già lì, nel 1983, durante quel fine-settimana dove, sotto

l'apparenza di una fiesta mobile di ragazzi allegri, e anche scatenati, si rivelarono la follia dei rapporti, l'eccesso

di certi riti e anche la paura. (Tondelli, 2001, pp. 230-231)

Dunque, indietro di un decennio (dai due scritti proposti). Ci troviamo nel bel mezzo della

bagarre di quegli anni che qualcuno ha definito favolosi: tra le feste in discoteca fino al

sorgere del sole a Ibiza o sul lungomare di Rimini, lungo i viali di Bologna tra Piazza Verdi e

il Kinki Club, o ancora in certi salotti radical chic con compagnie ben selezionate, in cui flash

e strobo e metastasi di schermi televisivi si mescolano in un accostamento tutto trimalcionico

a piante tropicali, gadgets, opere d’arte, plastici che riproducono lo skyline di grandi città… il

tutto in bilico tra la nuova onda musicale inglese di Talking Heads e The Smiths (mescolata

nelle notti di Emilia a prodotti punk autoctoni come CCCP e Skiantos), la scintillante disco-

music e le ballate pop più âgé.

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È uno scenario del genere, quello delle feste in casa (tra Milano, Bologna, Firenze…) alle

quali Tondelli non faceva certo mancare la sua presenza, ad accoglierci all’inizio di Dinner

Party. I personaggi che vi prendono parte sono paradigmatici della "fauna d’arte" che

popolava quegli ambienti: c’è innanzitutto Didi, scrittore tormentato nonché alter-ego

dell’autore; Alberto, un giovane e promettente artista; Fredo, fratello di Didi, avvocato,

manager e scopritore di Alberto; Tommy, mercante d’arte americano, amico di vecchia data

della famiglia Oldofredi; Mavie, editrice ultracinquantenne; Giulia, stilista e moglie di Fredo,

che con Mavie allestirà una sfilata per l’inaugurazione di un locale.

I presenti si riuniscono a casa Oldofredi la sera dell'11 luglio 1982 (data della finale del

Mundial di Spagna), in occasione del ritorno in Italia di Tommy: le forme sono quelle di una

commedia borghese, in cui la conversazione la fa da padrone. Si parla tanto e di tutto:

dall'elettronica al calcio, dai Beatles a Christopher Isherwood, dalle riviste di moda ai

graffitisti come Keith Haring; sulla scia effervescente dei cocktail tropicali serviti con solerzia

dalla cameriera Jiga, immersi nel tepore di una sera estiva in cui l'aria vibra percorsa da una

misteriosa elettricità. Ma l'attesa generata da notti del genere, carica di tensione, può essere

tanto eccitante quanto minacciosa.

TOMMY: Marrakech... Ero a Marrakech. La tempesta di sabbia si fa sentire nell'aria molte ore prima. Tutti gli

abitanti lasciano le loro case, e la città è tetra e deserta, abbagliata da una luce innaturale, proprio come qui

adesso. (Tondelli, 2011, p. 61)

Il collezionista americano pronuncia queste parole osservando le vie vuote dalla terrazza,

assieme ad Alberto e Didi. Ciò che i tre non possono ancora sapere è che quella tensione si

tramuterà effettivamente in una tempesta, che si abbatterà sulla festa (e anche su di loro) nelle

forme di un inarrestabile gioco al massacro, che scava con la ferocia di un bisturi tra gli

inganni, le bugie e i non-detti (alcuni di questi con radici tanto profonde quanto le loro

conseguenze) per far emergere tutto quel che davvero ribolle sotto, lasciando nel finale la

carne nuda ed esposta. Ma lo svelamento spietato va ben al di là delle vite dei singoli

individui coinvolti, e – a mio modo di vedere – non si limita unicamente a far luce su aspetti

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estremamente delicati inerenti alla biografia dell'autore (per quanto una sorta di

autobiografismo esasperato sia un elemento tanto ricorrente quanto affascinante nell'opera di

Tondelli come di molti suoi colleghi contemporanei).

In Dinner party, Tondelli parte dalle forme del dramma borghese, ricorrendo al tòpos del

triangolo amoroso (marito, moglie e amante di questa, nonché stretto amico del primo), per

innescare una riflessione a più ampio raggio su quegli anni. Le crepe che si aprono qua e là

all'interno dell'opera ricalcano quelle affioranti sulla superficie apparentemente liscia, come

plastificata, dell'epoca in cui vive lo scrittore. Su questo piano, vediamo il dramma estendersi

ben oltre le mura di casa Oldofredi, diretto sull'intero mondo occidentale. Il referente

principale sarà allora quella società dei consumi fautrice del declino delle Grandi Narrazioni e

della nascita del culto dell'estetica (che, come vedremo, fonda le sue radici nella imposizione

della ricerca della felicità come unica e sola ideologia).

«Dov’è finita la leggerezza?» dice Giulia a inizio commedia, ma capiamo dalle sue parole

immediatamente successive – «l’essere frivoli» – che non le è chiaro il discrimine tra ciò che

chiede e ciò che realmente vuole. Ecco, certe invasioni di campo non saranno più possibili

dopo un'opera del genere. Ciò che Dinner party ci lascia è una rottura del velo postmoderno

che (con)fonde leggerezza e frivolezza; uno squarcio al quale segue inevitabilmente una

nuova presa di coscienza.

L'Internazionale Occidentale: una terra deconnotata

Tra le pagine di Dinner party si sviluppa un'amara riflessione – che non disdegna i toni

dell'accusa – nei confronti della società contemporanea, ritratta con crudo iperrealismo da

Tondelli. È una scrittura politica, che rimanda al contesto storico di quegli anni; una scrittura

che riflette sui temi della globalizzazione, del capitalismo, della produzione metastatica dei

prodotti e degli intrattenimenti, e sugli effetti di questi fenomeni all'interno della società

occidentale. Una società vista già come un unicum nelle parole che l'autore mette in bocca a

Didi, suo alter-ego: «l'Internazionale Occidentale. [...] l'impero senza più province: solo un

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grande cuore occidentale che pulsa in perfetta sincronia» (Tondelli, 2011, p. 49). Espressione

particolarmente felice, poiché se da un lato rimanda a una visione del mondo ancora diviso in

due fazioni opposte, dall'altro crea un legame inaspettato ma non casuale tra queste realtà.

L'Occidente non ha scelto l'ideologia manifesta. Ha mostrato, anzi, una sfiducia crescente nei

confronti delle Grandi Narrazioni del passato. Ma è stato proprio quell'Occidente iconoclasta

ad aver alimentato la fiamma dell'ideale più seducente a cui potersi appellare, covato su carta

per un paio di secoli nella dichiarazione d'indipendenza del Paese che ne è a capo: quello della

ricerca della felicità, che tra le maglie del capitalismo ha assunto come poli dialettici

l'accumulazione materiale e il consumo più sfrenato. È a questo che probabilmente si riferisce

Tondelli quando, nel reportage di un viaggio a Budapest raccolto in Un weekend

postmoderno, scrive: «da qui passa la linea di divisione fra un mondo che si finge libero e un

altro che si finge giusto ed equo, fra un mondo che offre la ricchezza e un altro che offre la

mancanza di emarginazione». (Tondelli, 2011, p. 420)

Ma questo vivere in perfetta sincronia e in piena libertà – l'abbattimento progressivo dei

confini tra nazioni, l'intensificazione del flusso di merci e persone – tutto ciò comporta anche

degli effetti collaterali. L'annullamento dei limiti e l'accelerazione entropica della vita

quotidiana hanno come gettato il soggetto postmoderno in uno spazio in continua espansione

in cui i punti cardinali del vivere sociale sembrano aver rinnegato la propria staticità,

iniziando a ruotare vorticosamente tra di loro: ne segue il disorientamento dell'Io e la

confusione dei prodotti e del paesaggio che lo circondano, in un generale processo di

deconnotazione.

Accende l'attenzione in questo senso la definizione di Occidente che Didi dà in seconda

battuta: l'impero senza più province. Lascia intuire il sospetto – a metà tra timore e stupore –

che, a un certo punto del suo incedere, l'intero Blocco non riesca più a distinguere i vari

elementi al suo interno, confusi tra di loro in maniera irreversibile come in una soluzione

omogenea.

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Uno dei fattori che confondono l'ecosistema occidentale è certamente la produzione seriale

dei prodotti: non a caso la battuta di Didi salta fuori quando Tommy scopre che lui era già in

possesso del recentissimo videogame portatogli direttamente da Tokyo. Il videogioco

giapponese in questione e la canzone When you call me lover, di cui parla Fredo poco dopo,

colpiscono l'immaginario con la stessa forza della serie di lattine Campbell's di Andy Warhol:

la produzione invasiva di prodotti che mira alla standardizzazione di questi fa sì che i loro

tratti peculiari vadano gradualmente scemando, fino al sopraggiungere della deconnotazione.

Come accennato sopra, i luoghi non attraversano certo indenni questo fenomeno. La canzone

citata da Fedro viene ascoltata all'aeroporto di Fiumicino a Roma, all'Heathrow di Londra, al

Kennedy di New York, a Los Angeles, nel New Messico, e per finire a Cagliari, su Radio

Nuraghe. Ecco che luoghi distanti tra di loro si ritrovano all'improvviso accomunati da un

prodotto del mercato musicale. È interessante, tra l'altro, sottolineare come il percorso

tracciato dal fratello di Didi non sia affatto casuale: la maggior parte dei luoghi elencati sono

aeroporti, luoghi di transito che ormai da una ventina d'anni siamo abituati a chiamare, sulla

scia di Marc Augé, nonluoghi. Tondelli mostra anche in questo caso ottime doti di osservatore

della realtà postmoderna, individuando con un certo anticipo (mancavano ancora otto anni alla

pubblicazione di Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité da parte

dell'etnologo francese) quegli spazi che – assieme ai supermercati e agli hotel – sono divenuti

i monumenti per eccellenza del paesaggio deconnotato tipico del mondo globalizzato.

E poi ci sono le persone che abitano questo mondo: come avviene per i prodotti, si ha a che

fare di nuovo con una produzione seriale. In questo caso, di slogan: video generation, look

generation, atomic generation. Generazione postmoderna, gommacea, detritacea. Nel giro di

due battute Mavie, cocktail alla mano, tira fuori un buon numero di definizioni per descrivere

Didi, Alberto, Fredo e gli altri loro coetanei. È l'inizio di una delle sezioni più flamboyant di

Dinner party, un botta e risposta tra lei e lo scrittore che vuole tirare fuori una fisionomia

quantomeno sommaria di questa «generazione dell'immagine» – altro tentativo – cresciuta tra

«la televisione, la musica rock, James Dean, l'elettronica».

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Ma a questi suoi tentativi unificanti risponde colpo su colpo la pronta voce dello scrittore, che

tiene a rimarcare le dovute differenze di gusto e stile: e allora scopriamo che a lui piacciono le

ballate pop, a Fredo il jazz e ad Alberto la dance-music; che quest'ultimo indossa solo

biancheria Calvin Klein (opportunamente acquistata da Boomingdale's), mentre Fredo

predilige quella anni '50 e Didi, semplicemente, non ne indossa; nel campo dell'arte Fredo

punta deciso sulla Transavanguardia, Alberto – naturalmente – sui graffitisti, mentre per Didi

c'è solo Jackson Pollock; e così via.

Nella società del consumo in cui si assiste a una crescita esponenziale, metastatica, degli

intrattenimenti e della velocità con cui questi vengono divorati e di seguito gettati – come se il

mondo (quello occidentale, s'intende) fosse diventato un immenso fast food – è impossibile

delineare uno schema coerente di gusti, tendenze e stili di vita, soprattutto se si prende come

oggetto d'esame la fascia giovanile della popolazione, quella più intensamente stimolata sul

versante del consumo estetico. Non a caso: non è tanto un vizio della gioventù, come si

potrebbe pensare sulle prime, quello di correre dietro a ogni nuovo slogan e moda. Se mai ciò

avviene proprio perché all'interno della società occidentale, dal Primo Dopoguerra, «la

gioventù comincia a essere un modello sociale da imitare» (Banti, 2009, pp. pp. 71-75).

È dagli anni '20 che i giovani iniziano ad acquisire un peso politico e culturale, capace di

condizionare importanti settori industriali all'interno di questa. Ma il discorso può essere

anche rovesciato, poiché l'industria – soprattutto quella culturale (tre settori a caso: quello del

cinema, della musica, della moda) – e la politica si sono presto rese conto del profitto

potenziale derivante da questa ampia fascia di persone nel fulgore degli anni, che un

benessere crescente rendeva sempre più emancipate e – sotto il profilo economico – libere di

spendere. Questo processo, innescatosi nei roaring twenties, è proseguito con proporzioni

sempre crescenti nel corso del Novecento – si pensi agli anni '50 dei baby boomers americani,

ai nostri anni '60, fino ad abbracciare verso gli ultimi decenni del ventesimo secolo l'intero

Occidente.

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Un vero e proprio loop consumistico – unica macchina del moto perpetuo che il processo

empirico ci consegna – in cui la società offre prodotti per giovani ai giovani, i quali

determinano nel tempo nuovi trend che la società poi assimila, trasformandoli in prodotti da

vendere. Il risultato di un simile meccanismo è quella produzione metastatica di

intrattenimenti di cui s'è detto; una produzione alla quale corrisponde una creazione altrettanto

metastatica di centinaia, milioni, infinite tribù (per usare una parola tondelliana), sottoculture

o sottogenerazioni; come le si voglia definire.

Messi davanti a questa situazione, le generalizzazioni sono più che mai inutili. Come in un

paradosso di Zenone, man mano che ci si immerge nell'insieme sociale dell'età

contemporanea, apparentemente finito, si trovano al suo interno infinite declinazioni che si

differenziano tra loro per tratti sempre più minuti, sfumature che eppure contano: vediamo

così i confini restare, per quanto labili ci possano apparire. E il verbo non è scelto a caso:

nella foresta dei segni il significante precede il significato, la forma il contenuto. Stiamo

parlando del regno dell'estetica, per stessa ammissione dei personaggi coinvolti: «una

generazione non si distingue forse da un'altra per il cambiamento dei gusti?» sentenzia Didi

con la voce ingrossata dall'alcol; una domanda alla quale Mavie annuisce convinta.

Proprio l'assottigliarsi dei confini, il primato dell'estetica – o la precessione della forma sul

contenuto – e la proliferazione delle apparenze giocano un ruolo determinante nel definire la

fauna postmoderna. Già nel 1980 Baudrillard descriveva nei Simulacri quella «leucemia dei

valori» data dal ritirarsi della storia nell'era della simulazione, in cui «diviene possibile

evocare alla rinfusa tutti i contenuti e risuscitare a mo' di accozzaglia la storia passata» poiché

«tutto è equivalente e si mescola indistintamente [...] nella stessa fascinazione rétro»

(Baudrillard, 2009, p. 22). Gli stessi elementi non sfuggono agli occhi attenti di Tondelli, che

tra le pagine di Un weekend postmoderno parla di un «vorticoso missaggio di tutti i look

preesistenti» e di un «azzeramento ideologico e semantico in funzione della sublimità del

sembiante» (Tondelli, 2011, p. 196).

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In un suo articolo dedicato a Londra leggiamo inoltre che «è questo forse l'unico tono

complessivo che attraversa, come la corda di un arco teso, la varietà del popolo londinese

postmoderno, facendo vibrare un identico atteggiamento o un'identica mania che risiede nel

punk come nel beat o nello ska: la forma esteriore, l'involucro, l'aspetto, cioè, come uniche

possibilità di comunicazione delle proprie intensità intime» (Tondelli, 2011, p. 389).

Queste parole del 1982 delineano tutto sommato un filo conduttore che lega atteggiamenti e

stili di vita di per sé molto diversi tra loro, ossia quello di affidare all'estetica la responsabilità

di trasmettere significato. La fauna postmoderna sceglie la forma esteriore come canale di

trasmissione delle istanze provenienti dall'interno. Una forma di comunicazione sicuramente

debilitata e facilmente esposta alle insidie dell'arbitrarietà, ma nella quale sembra ancora

essere riposta una qualche speranza. Quello di Tondelli qui non pare un tono del tutto

negativo.

Un'atmosfera ben diversa si respira tra le mura di casa Oldofredi, due anni dopo l'articolo su

Londra: il gioco tra Mavie e Didi si fa sempre più aspro e aggressivo; l'editrice comincia ad

annaspare in mezzo a un oceano di marche, capi d'abbigliamento, musica e luoghi dentro al

quale i tratti dei soggetti che cercava di delineare si mischiano l'uno con l'altro, si

deconnotano. Poco più tardi, proseguendo questo procedimento con Giulia, sembra quasi

venirle un colpo apoplettico: «forse Didi esce con la felpa perché sta in casa; Fredo con il

pantalone classico; e Alberto con un paio di jeans. Sì... No, no. Didi con i jeans, Fredo con

tuta e Alberto con il pantalone classico. No, impossibile. Vediamo... Se Alberto sceglie un

pantalone, sceglie un madras, certo, quindi la felpa a Didi e i jeans a Fredo. No, no. Fredo, i

knickerbockers, Alberto, i bermuda hawaiani, naturalmente; e Didi... Didi?»

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Didi le ha già risposto per quel tempo. Una risposta cruda e senza fronzoli, che traccia con un

taglio netto la visione di Tondelli sul tema generazionale. Vediamo che il tono si è incupito

parecchio rispetto alle pagine londinesi:

Non esistono più le generazioni; tutto si consuma troppo in fretta. [...] Non esistono proprio le generazioni

stratificate ogni venticinque, dieci o due anni. Sono delle spaccature verticali, degli abissi che fendono

diacronicamente il tempo. Lo sforzo sta tutto nel non essere accomunati agli altri poiché nessuno che abbia meno

di trent'anni è accomunabile a un altro. È un coacervo di stili altrui, è il vertice, l'apoteosi dell'inautenticità.

(Tondelli, 2011, p. 44)

Con queste parole Didi/Tondelli nega con convinzione l'esistenza di una qualsiasi

generazione, o perlomeno di una generazione comunemente intesa: un insieme finito

contraddistinto da tratti più o meno omogenei. Lo scrittore è disorientato di fronte al melting

pot che caratterizza l'età contemporanea; annaspa né più né meno che la sua interlocutrice. E

non potrebbe essere altrimenti: quella che sta vivendo è l'inedita esperienza di una

nongenerazione; prodotto della deconnotazione postmoderna, tanto quanto i nonluoghi.

Così, al paradosso di Zenone, che in un insieme apparentemente finito trova infiniti

sottoinsiemi, se ne aggiunge un altro – questa volta non desunto dall'antichità, ma prettamente

contemporaneo – dal momento che la nongenerazione (inautentica fin nel nome) è pure

antitetica nelle funzioni che svolge rispetto all'originale: se la generazione ha di per sé una

natura aggregativa, questa porta a una radicalizzazione del senso di isolamento e solitudine

dei membri che ne fanno parte.

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La fattoria degli animali postmoderni

Il fiume in piena della produzione di prodotti destinati al consumo estetico si traduce in

una pervasività, nel quotidiano dell'Impero Occidentale, di un immaginario sfavillante,

plastificato, seducente, ma di pura apparenza. È il regno dell'estetica, in cui si viene sommersi

a ogni angolo da spot pubblicitari accattivanti; tabelloni su cui si accalcano titoli di film e

spettacoli di prossima uscita; canzoni che filtrano da muri, auto, altoparlanti; vestiti che

scorrono sotto al proprio naso mentre si passeggia per strada o si sfoglia una rivista di moda; e

così via.

Inevitabile uno slittamento gerarchico interno al sistema di valori societario: «Fate di un sarto

un filosofo» – sbotta Didi parlando con Giulia, Tommy e Mavie; – «Di chiunque possieda una

Singer uno stilista. Fra poco, avrete talmente riempito le persone di queste fesserie che

andranno nelle boutique a chiedere di essere curate per il mal di denti e per l'ansia» (Tondelli,

2011, p. 77). Provocatorio, ma di certo non irrealistico.

Ancora più efficace risulta l'aneddoto spensierato di Annie poco dopo, che oscilla tra

l'esilarante e l'inquietante:

ANNIE: L'altro giorno cercavo Palazzo Campolungo. Ho chiesto a un ragazzo.

DIDI: Che tipo era?

ANNIE: Uno qualunque. Mi risponde subito: «Palazzo Campolungo? È facile. Attraversa la strada là di fronte ad

Armani. Svolta a destra dov'è Gianni Versace. Prosegui dritto verso Gianfranco Ferrè. Fai altri venti metri, passa

di fianco a Gucci e, proprio all'angolo, infila un vicolo. È il retro dello show-room di Missoni. Be', quel vicolo

sbuca sulla piazza.» «È facile,» diceva. A me sembrava di essere a Pitti Donna. «Poi,» dice, «attraversa la piazza

dalla parte dei negozi. Non puoi sbagliare. Ci stanno Biagiotti, Fendi, Ungaro e Lancetti. A destra c'è Palazzo

Campolungo. Vai lì, nella sede di Valentino?» (Tondelli, 2011, p. 77)

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Nella stroboscopica festa postmoderna si è costantemente esposti a un bombardamento di

misure tali da mutare persino l'urbanistica cittadina nella concezione del singolo («Vorrei

sapere che ne pensano Mazzini, Cavour e Garibaldi a essere così spiazzati», ribatte laconico

Didi). Ma non è solo l'immaginario cittadino risentire delle trasformazioni in atto nella società

occidentale: aumentando lo zoom sui singoli edifici e oltre i muri degli appartamenti, vediamo

che sono cambiati radicalmente anche il clima e i toni della convivenza. I rapporti sociali

vengono fortemente influenzati dalla devozione al fattore estetico.

Ma il culto dell'estetica, a differenza delle altre fedi, non è riservato a un Simbolo capace di

aggregare la comunità sotto le sue insegne, non è promosso da una forza centrifuga: al

contrario, si assiste a una forza centripeta che orienta su di sé l'oggetto della propria

venerazione. Ciò che viene fuori è una società individualista, narcisista e infinitamente

frammentata, che ha ormai confinato nell'armadio le vecchie ideologie – e quando, di rado,

queste si azzardano a uscire, appaiono ai più come ectoplasmi vagabondi e svuotati di forza,

attenti soltanto a non posare gli occhi sulle lettere in grassetto dei manifesti funebri.

Questo, l'identikit della società postmoderna. Fa sorridere e riflettere – con quella ironia

tragica che è la vera cifra stilistica di Dinner party – il termine che Tondelli usa per descrivere

i luoghi della convivenza "civile" in quest'epoca: fattorie. Ancora una volta è Didi a farsi

carico delle idee dell'autore:

È la contemporaneità che produce queste convivenze. Dieci anni fa erano prodotte dall'ideologia e le

chiamavamo "comuni". Ora se ne servono solo i tossici. La mancanza di appartamenti liberi produce invece

"fattorie". (Tondelli, 2011, p. 79)

E dunque, la fattoria. Ecco l'istituzione atta a ospitare gli animali postmoderni. Tutti così

connotati e iperdefiniti, e contemporaneamente deconnotati nel complesso; privi del benché

minimo elemento aggregante: ognuno sembra portatore di un linguaggio diverso dagli altri –

autoreferenziale.

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Eppure, tra le mura di casa Oldofredi, c'è chi pare più solo degli altri. Nonostante

l'appartamento sia affollato da elementi che si rivelano sempre più eterogenei, in più di una

discussione vediamo Didi isolato e osteggiato dagli altri partecipanti al party. Questo, almeno,

fino a quando non scoppia la bolla che innesca il dramma.

Didi è sbeffeggiato apertamente per la sua inconcludenza, il suo fare autolesionista e le sue

visioni tragiche della realtà: è l'elemento che guasta la festa, discorde dal resto del gruppo. E

tuttavia in prima battuta verrebbe da dire: «ma come, sono tutti fauna d'arte: scrittori, artisti,

editori, organizzatori di eventi, collezionisti d'arte – tutti ascrivibili al mondo della cultura;

possibile dunque una coalizione di massa contro uno solo di loro?» Non fosse che,

effettivamente, tra Didi e gli altri elementi della casa c'è un abisso.

Mavie, Giulia, Alberto, Tommy, Fredo: sono tutti perfettamente inseriti in un discorso di arte

consumista, che privilegia la bellezza estetica piuttosto che il contenuto, e che – soprattutto –

ha le forme di un vero e proprio business. Sono fertili agli occhi della società, poiché

producono con la propria attività. Didi invece più volte manifesta un fiero disprezzo nei

confronti di quel già citato «azzeramento ideologico e semantico in funzione della sublimità

del sembiante». (Tondelli, 2011, p. 196)

Così diverso da loro nei pensieri e nei gesti, lo scrittore finisce per assumere la posizione

dell'homo sacer latino: l'escluso, il reietto, l'outsider; colui che non dispone di alcun diritto, e

sul quale la comunità può scaricare tutto il suo disprezzo senza rimorsi di sorta o il timore di

una qualche punizione. A differenza degli altri, lui è sterile, come non manca di rammentargli

Alberto: «Hai quasi trent'anni, Didi,» gli dice, «e non hai prodotto nulla: solo questi abortini

di testi che anche tu non leggerai mai» (Tondelli, 2011, p. p. 28). La sua improduttività, tanto

difforme alle leggi della società contemporanea, non gli viene perdonata, e lo confina in

isolamento.

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Ancora una volta ci troviamo di fronte a due visioni del mondo contrastanti; in questo caso,

però, all'interno dello stesso Blocco: Didi è solo a fronteggiare cinque perfetti esponenti di

quella società postmoderna che rigetta la profondità scambiandola per pesantezza, ed esalta

ciò che è frivolo coprendogli il volto con la maschera della leggerezza. Si finisce così per

confondere con nonchalance concetti distanti tra di loro: la frivola Mavie, l'opportunista

Alberto e tutti gli altri si fanno Simboli del volto cattivo del Postmoderno. Esattamente ciò da

cui Tondelli con quest'opera si è voluto allontanare.

Quelli di fertilità e sterilità sono infatti dei concetti a doppio taglio. A ben guardare, il mondo

in cui i personaggi "produttivi" di Dinner party vivono è essenzialmente kitsch, superficiale,

autoreferenziale. È un mondo sterile. Come del resto sono concetti a doppio taglio quelli di

sobrietà ed ebbrezza. Notiamo che, alle frasi circa l'improduttività di Didi, si accompagnano

spesso anche le critiche per le sue derive etiliche. Gli altri rimangono perlopiù sobri durante

tutta la durata del party, mentre quello dello scrittore è un vertiginoso calare tra le pieghe

intorpidite dell'alcol, fino alla perdita di sensi del finale.

Dal punto di vista dell'analisi sinora effettuata, però, vediamo che gli "stati" si ribaltano:

Alberto, Giulia e gli altri si sono smarriti del tutto nel ritmo irrefrenabile di quegli anni, nella

colossale sbronza della festa postmoderna. La loro scarsa lucidità impedisce loro di vedere la

farsa che portano avanti. Didi è invece l'unico abbastanza sobrio da individuare gli elementi di

disturbo, quelle «bruciature di sigaretta sul sofà» di cui parla Foster Wallace nel estratto

d'apertura.

Alla luce di ciò, si può leggere il fastidio per certi eccessi mélo di Didi come una sorta di

timore. Quasi che gli altri scorgessero in lui il riflesso di qualcosa che li riguarda e li spaventa

a morte. Lo scrittore è l'elemento dissonante in casa Oldofredi. Non solo fa una brutta figura

di per sé, ma mette a disagio anche chi ha a che fare con lui: è quello che non balla quando gli

altri sono scesi in pista e resta in disparte a osservarli; è quell'invitato goffo e maldestro che si

teme possa rovinare la festa in qualunque momento. Succede quindi che gli sguardi di

rimprovero si addensino su di lui, nell'attesa di un suo passo falso.

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Ma non sarà l'homo sacer a scatenare la tempesta preconizzata da Tommy sulla terrazza. Non

ce ne sarà bisogno. Basterà un incidente triviale – l'ascolto involontario, da parte di Fredo, di

una cassetta su cui è stata registrata la voce di Giulia che dichiara il suo amore per Alberto – a

incrinare l'edificio farsesco costruito nel tempo col contributo dei diversi personaggi presenti

sulla scena. Saranno proprio Giulia e Alberto, con il loro tradimento, e Fredo e Tommy, con i

loro non-detti, a squarciare il velo che ha coperto i loro stessi occhi durante quegli anni. Come

venissero gettati nel mondo una seconda volta, si riscoprono fragili, soli e insicuri. La musica

è stata stoppata bruscamente e le luci abbassate: la festa è finita anche per loro e – in perfetto

sincrono con lo scivolare di Didi nell'oblio – giunge per ognuno la rottura del velo.

La nascita della coscienza postmoderna

Io... non sento più niente... Era il mio più caro amico e lei la mia... che dovrei fare? In casi come questi, si

piange? O si ride? O si prende con filosofia? O si sbatte la testa contro il muro? Come reagisce la gente a... casi

come questi? [...] Avevo un amico e non avevo niente, invece. [...] Avevo una ragazza che amavo: mi sono

riposato in lei, non avevo bisogno di nessun'altra. [...] Avevo... Avevo due amici, e ora... Come si fa in casi come

questi? (Tondelli, 2011, p. 59)

È il monologo silenzioso di Fredo verso la fine del primo atto e segnare ufficiosamente la fine

della farsa generale e l'inizio di quel gioco al massacro che occuperà la seconda parte del

dramma. Da qui, lo squarcio nel suo cielo personale si allarga impietosamente fino a

coinvolgere i mondi di tutti gli altri partecipanti al party.

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I primi a restare coinvolti saranno proprio i suoi due vecchi "amici": Alberto vede le proprie

finzioni rivoltarglisi contro, nella forma fin troppo concreta di Annie, che da nome di

copertura per la liaison dangereuse con Giulia si materializza nelle forme di un travestito

invitato da Fredo al party; Giulia, in preda alla vertigine di vedersi contemporaneamente

smascherata e tradita (poiché, come il resto dei presenti, cade nel tranello di Fredo) si

aggrappa "letteralmente" al suo tradizionale compagno, cercando in lui un vertice forte che la

porti via da quella situazione; Fredo stesso, in un imprevisto fuoco di ritorno, vede

smascherati da suo fratello Didi i suoi repressi istinti sessuali (rivolti, ironia del caso, verso

Alberto); e pure Tommy, il vecchio amico di famiglia venuto a trovarli dopo tanto tempo, non

è immune a questo gioco dei non-detti e dei rancori covati per lungo tempo: nelle battute

finali con Fredo, quest'ultimo fa alcune inquietanti allusioni circa la tragica morte del padre

(al tempo in Congo assieme a Tommy), prontamente taciute dal vecchio collezionista d'arte,

che poco dopo ammette con una risposta secca di essere sempre stato innamorato della madre

dei due.

Ci troviamo quindi nell'orizzonte del dramma borghese, in cui l'apparente rispettabilità viene

meno e le pulsioni della carne (represse o nascoste) prendono il sopravvento sulla scena. Se

Dinner party si fosse limitato a essere questo, sarebbe stata una fra le tante opere di Tondelli,

e niente più; confusa per di più nella vasta tradizione di drammi borghesi che sfruttano le

medesime forme e tematiche – con esiti anche molto più felici. Ma come si è cercato di

mostrare in questo saggio, gli elementi che connotano Dinner party, che lo irrobustiscono e

gli donano un nuovo vigore al di là della trama, sono altri.

Finora abbiamo esaltato l'osservazione precisa e lucida della festa postmoderna nel mondo

occidentale da parte dello scrittore; un processo di astrazione che dalla concretezza del party

casalingo si muove all'interno delle strutture della società e – come abbiamo sottolineato in

apertura – chiama anche in causa la letteratura e le altre forme d'arte. Il secondo elemento in

rilievo è la capacità di Tondelli di delineare – tramite alcuni dialoghi significativi – quegli

elementi che, nel complesso, ci conducono a quella che si potrebbe definire come coscienza

postmoderna.

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In un certo senso, le forme con cui si manifesta sono quelle di un ritorno all'ordine. Questa

volta però non sono gli orrori della guerra, i patimenti della fame e della povertà a fare

scaturire questo bisogno; bensì, la grande libertà e agiatezza del benessere capitalistico, e quei

desideri portati all'eccesso di un mondo del tutto volto al dionisiaco.

TOMMY: [...] Non vi è stato imposto nulla. Avete voluto distruggere, non credere a niente.

FREDO: Volevamo semplicemente qualcuno che ci comandasse.

TOMMY: Ogni regola, purché fosse veramente tale, vi mandava in bestia.

FREDO: Didi e io volevamo soltanto essere sottomessi: eravamo ragazzi; dovevamo essere istruiti alla vita. Ci

avete lasciati soli. (Tondelli, 2011, p. 101)

Tocca a Fredo, scomparsa per motivi fisiologici la figura di Didi, prendere le redini del

pensiero di Tondelli. Ci troviamo nelle ultime pagine di Dinner party, quando il grosso del

dramma si è ormai consumato. Il dialogo isterico tra lui e Tommy mette in mostra alcuni

aspetti dell'epoca finora taciuti ma che, riguadagnata la lucidità, non possono più passare

inosservati. E ciò che emerge è lo smarrimento di una intera nongenerazione che è tale per via

dell'assenza prolungata dei padri – intesi come quell'insieme di narrazioni e tradizioni, norme

e precetti, capaci di segnare la via ai propri discendenti.

La società postmoderna, con il suo libertarismo, si pone in antitesi a quella di stampo

totalitario: è una società che cerca l'orizzontalità dal punto di vista etico, e rifiuta il severo

verticalismo di uno Stato-Padre che parla per i suoi figli. Questo livellamento progressivo si

manifesta anche all'interno delle singole famiglie, in cui la figura del genitore autoritario

(padre o madre che sia) viene meno.

Un simile atteggiamento da un lato produce una libertà dalla costrizione e dall'imposizione,

ma dall'altro non ne insegna alcuna. Foster Wallace, in un passaggio del romanzo Infinite jest,

utilizza i concetti di libertà-da e libertà-di per descrivere le due varianti di questo tanto

masticato concetto.

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Il primo rimanda a una causa esterna: è la libertà dalla dittatura e dal dispotismo che le società

democratiche dell'Occidente possono offrire. Il secondo, sulle prime più sfuggente, necessita

di qualche precisazione in più:

«E libertà-di? Non si è solo liberi-da. Non tutti gli obblighi vengono dall'esterno. Voi fingete di non vedere

questo. Dov'è la libertà-di. Come fa la persona a scegliere liberamente? Come scegliere qualcosa di diverso dalle

scelte ingorde dei bambini se non c'è un padre pieno di amore a guidare, informare, insegnare alla persona come

scegliere? Come ci può essere libertà di scegliere se non si impara come scegliere?»

Steeply gettò via la sigaretta e si voltò lievemente verso Marathe, restando sull' orlo: «Ecco che arriva la storia

del ricco».

Marathe disse: «Il padre ricco che si può permettere sia le caramelle sia il cibo per i suoi figli: ma se lui strilla

"Libertà!" e permette al suo bambino di scegliere solamente quello che è dolce, di mangiare solo caramelle e non

la zuppa di piselli e il pane e le uova, allora suo figlio diventa debole e malato: e l'uomo ricco che strilla

"Libertà!" è un buon padre?» (Foster Wallace, 2006, p. 384)

Tornando su Dinner party, vediamo Tommy "idealmente" ribattere a quest'ultima battuta nel

suo scambio con Fredo:

TOMMY: Siete degli uomini, ora!

FREDO: Che vogliono ancora qualcuno che li comandi. Che non sanno agire. (Tondelli, 2011, p. 102)

Adulti come bambini, dunque: sopraffatti dalla propria ingordigia, da una strenua e inesausta

ricerca del piacere, senza una mano ferma che li guidi – che li educhi. Orfani alla vita. Liberi

dall'oppressione ma senza punti cardinali certi, e perciò incapaci di scegliere una rotta. Non è

vera libertà quella di chi non sa come scegliere: in questo messaggio le parole di Tondelli e

di Foster Wallace si sovrappongono nuovamente. Così si chiude Dinner party, con una lucida

riflessione critica sui detriti e le nausee che restano al termine di un'epoca inebriante e frivola,

come una festa.

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Ma questo momento di lucidità in cui ci si scopre a girare per casa producendo uno strappo

secco a ogni passo perché si è passati sopra qualcosa di vischioso, e c'è del vomito nel

portaombrelli, e le ante dell'armadio non si chiudono come dovrebbero, e si è stanchi di tutta

quell'esuberanza e si oscilla tra il compatimento e l'insofferenza per quei pochi che ancora si

trascinano sulla pista – in questo momento di resa dei conti, si insinua la chance di raccogliere

i cocci sparsi qua e là.

Foster Wallace, nel proseguo dell'estratto di apertura, parla di rendersi conto che mamma e

papà non torneranno più a ristabilire l'ordine, e che dunque «noi dovremo essere i genitori». E

una tale strada è, a mio modo di vedere, quella intrapresa da Tondelli nelle sue produzioni più

tarde: Camere separate e Un weekend postmoderno. Mentre la prima è un'intima riflessione

sul tema dell'amore, sul dolore della perdita e sui misteriosi canali della spiritualità; la

seconda, nella struttura e sin dal titolo si propone come una riflessione critica sulla decade

appena trascorsa.

Per tali ragioni mi sento di dissentire parzialmente dalle osservazioni di Paolo Landi in limine

all'introduzione a Dinner party: «la foto del gruppo in via di estinzione» – scrive, – «diventerà

progressivamente un autoritratto, il "noi" generazionale tenderà all'introversione dell'io e

anche le ultime opere di Tondelli testimonieranno la sua sostanziale incapacità di affrancarsi

dall'autorappresentazione, l'impossibilità definitiva di liberarsi senza dolore di se stesso».

(Tondelli, 2011, p. 15)

Il fatto che gli ultimi lavori di Tondelli prediligano un atmosfera solitaria a quella di

gruppo, non mi sembra da ricondurre a una voluta chiusura al mondo esterno. Non è un

posizione fetale quella assunta dallo scrittore. Mi sembra piuttosto un percorso di ricerca

interiore che punti a riflettere sul rapporto tra l'Io e il mondo circostante: da qui le relazioni

interpersonali e quelle amorose, la spiritualità, e le analisi sui contemporanei da osservatore

esterno. Da qui anche il dolore, che sceglie di abbracciare guardandolo fisso negli occhi,

senza anestetizzare più la vista come faceva un tempo.

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L'approccio di Tondelli ora è più posato. Anche la sua scrittura si è data una calmata dopo

aver sperimentato le ipocrisie e gli eccessi della nongenerazione, passata l'emicrania oftalmica

dell'ebbrezza estetica di quegli anni. Tondelli appare forse più solo in queste ultime opere, ma

direi che ciò dipende dal fatto che ha scelto la strada meno battuta. Ha scelto di osservare con

occhi lucidi la gabbia del solipsismo nella quale era relegato col nome di Didi – proprio

quando era circondato dal mondo dei suoi coetanei – per studiare le possibili vie di fuga. Una

raggiunta consapevolezza che rivendica con un orgoglio quasi rabbioso in alcune pagine del

1987, raccolte in Un Weekend postmoderno sotto il titolo Viaggiatore solitario:

In questi anni votati così spudoratamente alla fatuità e al perbenismo, anche starsene un po’ zitti e cercare di

crescere nell’interiorità può essere un gran bene. Questo ho pensato, fra le altre cose, durante il mio viaggio

solitario. E ve lo dico con un po’ di rabbia, perché mi sembra di trarre una morale da un’esperienza che

preferisco lasciare così, senza un senso definitivo. [...] Il dolore è sterile. Ma è l’unica cosa che ho, questo dolore,

per cercare di capire. (Tondelli, 2011, p. 382)

Il viaggio letterario e sentimentale di Tondelli, partito come esperienza di gruppo per poi

delinearsi in qualcosa di più personale, non si è mai scostato dal chiodo fisso della ricerca

dell'altro, di una comunicazione sincera e profonda, alleggerita dal peso della frivolezza,

insostenibile proprio perché pone una maschera che intralcia come un muro la libera

circolazione dei sentimenti umani, relegando l'Io e l'Altro in due Blocchi distinti.

Dinner party è la svolta – l'allontanamento – che conduce Tondelli su di un terreno poco

battuto, senza segnali e coordinate certe, ma che appare l'unico in grado di scavare una

breccia tra questi due mondi che, nella terra deconnotata dell'Internazionale Occidentale,

sembrano divenire sempre più distanti.

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BIBLIOGRAFIA

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Laterza, 2009.

Baudrillard, Jean. Simulacri e impostura. Bestie, Beauborg, apparenze e altri oggetti. A cura

di Matteo G. Brega. Milano: PGreco, 2009.

Calvino, Italo. Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio. Milano:

Mondadori, 2010.

Foster Wallace, David. Infinite jest. Traduzione di Edoardo Nesi. Torino: Einaudi, 2006.

—. Un antidoto contro la solitudine. Roma: Minimum Fax, 2013.

Tondelli, Pier Vittorio. L'abbandono. A cura di Fulvio Panzeri. Milano: Bompiani, 2001.

—. Dinner party. A cura di Fulvio Panzeri. Introduzione di Paolo Landi. Milano: Bompiani,

2011.