UNA FESTA GUASTATA: DINNER PARTY E LA...
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Giornata Tondelli, Correggio, Palazzo dei Principi, 13 dicembre 2014.
Intervento di Andrea Suverato : Una festa guastata : Dinner Party e la coscienza
postmoderna.
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UNA FESTA GUASTATA:
DINNER PARTY E LA COSCIENZA POSTMODERNA
di Andrea Suverato
L'insostenibile frivolezza del Postmoderno
«Questi ultimi anni dell'era postmoderna mi sono sembrati un po' come quando sei alle superiori e i tuoi genitori
partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party,
e per un po' va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l'autorità parentale se ne è andata, è spodestata, il gatto è via e
i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe
finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi o rovesciarsi, e ci sono
bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare
che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po' di ordine». (Foster Wallace, 2013, pp. 106-107)
Non penso che Pier Vittorio Tondelli e David Foster Wallace si siano mai incontrati di
persona, ma nel caso credo si sarebbero piaciuti molto. Credo soprattutto che se Tondelli non
ci avesse lasciato nel dicembre di ventitré anni fa e gli fossero capitate sottomano queste
parole che lo scrittore americano rilasciò in un intervista trascritta nella Review of
contemporary fiction del 1993, vi avrebbe trovato molto di suo. E per la precisione, si sarebbe
sentito trasportare indietro direttamente di dieci anni, quando simili immagini e pensieri
incominciarono a prendere forma proprio dalla sua penna – ma sarebbe meglio dire più forme,
dal momento che ne vediamo gli esiti in più di una produzione dello scrittore emiliano.
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Riferendosi al panorama letterario americano, Foster Wallace palesa una grossa insofferenza
per alcuni aspetti-cardine della cultura postmoderna, elementi che si rispecchiano nella
letteratura come nella società del tempo. In sintesi: l’esibizionismo sfrenato, la frivolezza
degli argomenti, l’ironia fine a se stessa e autoreferenziale. Tutti elementi pompati a
dismisura dalla molteplicità degli stimoli e dalla varietà degli intrattenimenti offerti, che
producono in letteratura come nella vita quotidiana dei pastiche tanto appariscenti quanto
sterili.
Naturalmente lo scenario non è così tetro; lo stesso Foster Wallace deve molto – in particolare
nelle fasi preliminari della sua carriera – all’opera di autori come Thomas Pynchon, John
Barth e Don DeLillo, protagonisti indiscussi di quell’epoca. Le critiche che muove vertono
chiaramente verso un certo tipo di Postmoderno, inteso come frivolo e autoreferenziale:
quello che appiattisce la grandissima quantità di informazioni e impulsi offerti dall’età
contemporanea su di uno stesso livello, dichiarando apertamente (e senza neanche troppo
scomporsi) l’assenza di un qualunque assetto verticale o scala gerarchica di valori, o
quantomeno di una differenza qualitativa del dato trattato.
È il caso di fare un’ulteriore precisazione: l’accostamento di alto e basso abbinato all’uso
dell’artificio ironico è un’arma potente e preziosa di cui diversi artisti contemporanei (nella
letteratura, nel cinema, nell’arte, nella musica: basti pensare allo stesso Foster Wallace, ma
pure a un Tarantino, a un Mimmo Rotella, a un Frank Zappa e così via) si sono serviti per
dare vita a opere davvero fenomenali: il discrimine tra un cattivo e un buon postmodernismo
non starebbe dunque nelle tecniche espressive, nei temi e negli artifici utilizzati, quanto nella
riflessione nascosta a cui sono sottesi e che questi vogliono stimolare. Viene facile a questo
punto citare Calvino, quando ci dice che «esiste una leggerezza della pensosità, così come
tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza; anzi la leggerezza pensosa può far
apparire la frivolezza come pesante e opaca». (Calvino, 2010, p. 15)
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Qui sta il discrimine. Ed è una partita che si gioca tutta oltre il velo della leggerezza
apparente: tra il profondo e il frivolo, tra l’eclettico e il kitsch, tra la comunicazione e
l’autoreferenzialità, tra ciò che è fertile e ciò che è sterile.
Pier Vittorio Tondelli sembra percepire ciò con grande anticipo, e lo vediamo tra le
pagine di un pezzo del 1991 intitolato Weekend, in cui racconta l’episodio all’origine di Un
weekend postmoderno, il progetto di romanzo critico sugli Anni Ottanta che conoscerà nel
tempo molteplici trasformazioni – tra le varie, un’opera teatrale che col proposito iniziale
condivide buona parte dei contenuti, dei temi e dei personaggi. Parlo dell’opera al centro di
questo saggio, Dinner party.
Il "weekend postmoderno" capitò più o meno in quel periodo: un fine-settimana della Bologna trend che, al pari
di tanti altri, si annunciava con qualche festicciola, un salto in discoteca, l'inaugurazione di una mostra, amici di
Roma e di Milano. […] Per me, gli anni ottanta finirono già lì, nel 1983, durante quel fine-settimana dove, sotto
l'apparenza di una fiesta mobile di ragazzi allegri, e anche scatenati, si rivelarono la follia dei rapporti, l'eccesso
di certi riti e anche la paura. (Tondelli, 2001, pp. 230-231)
Dunque, indietro di un decennio (dai due scritti proposti). Ci troviamo nel bel mezzo della
bagarre di quegli anni che qualcuno ha definito favolosi: tra le feste in discoteca fino al
sorgere del sole a Ibiza o sul lungomare di Rimini, lungo i viali di Bologna tra Piazza Verdi e
il Kinki Club, o ancora in certi salotti radical chic con compagnie ben selezionate, in cui flash
e strobo e metastasi di schermi televisivi si mescolano in un accostamento tutto trimalcionico
a piante tropicali, gadgets, opere d’arte, plastici che riproducono lo skyline di grandi città… il
tutto in bilico tra la nuova onda musicale inglese di Talking Heads e The Smiths (mescolata
nelle notti di Emilia a prodotti punk autoctoni come CCCP e Skiantos), la scintillante disco-
music e le ballate pop più âgé.
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È uno scenario del genere, quello delle feste in casa (tra Milano, Bologna, Firenze…) alle
quali Tondelli non faceva certo mancare la sua presenza, ad accoglierci all’inizio di Dinner
Party. I personaggi che vi prendono parte sono paradigmatici della "fauna d’arte" che
popolava quegli ambienti: c’è innanzitutto Didi, scrittore tormentato nonché alter-ego
dell’autore; Alberto, un giovane e promettente artista; Fredo, fratello di Didi, avvocato,
manager e scopritore di Alberto; Tommy, mercante d’arte americano, amico di vecchia data
della famiglia Oldofredi; Mavie, editrice ultracinquantenne; Giulia, stilista e moglie di Fredo,
che con Mavie allestirà una sfilata per l’inaugurazione di un locale.
I presenti si riuniscono a casa Oldofredi la sera dell'11 luglio 1982 (data della finale del
Mundial di Spagna), in occasione del ritorno in Italia di Tommy: le forme sono quelle di una
commedia borghese, in cui la conversazione la fa da padrone. Si parla tanto e di tutto:
dall'elettronica al calcio, dai Beatles a Christopher Isherwood, dalle riviste di moda ai
graffitisti come Keith Haring; sulla scia effervescente dei cocktail tropicali serviti con solerzia
dalla cameriera Jiga, immersi nel tepore di una sera estiva in cui l'aria vibra percorsa da una
misteriosa elettricità. Ma l'attesa generata da notti del genere, carica di tensione, può essere
tanto eccitante quanto minacciosa.
TOMMY: Marrakech... Ero a Marrakech. La tempesta di sabbia si fa sentire nell'aria molte ore prima. Tutti gli
abitanti lasciano le loro case, e la città è tetra e deserta, abbagliata da una luce innaturale, proprio come qui
adesso. (Tondelli, 2011, p. 61)
Il collezionista americano pronuncia queste parole osservando le vie vuote dalla terrazza,
assieme ad Alberto e Didi. Ciò che i tre non possono ancora sapere è che quella tensione si
tramuterà effettivamente in una tempesta, che si abbatterà sulla festa (e anche su di loro) nelle
forme di un inarrestabile gioco al massacro, che scava con la ferocia di un bisturi tra gli
inganni, le bugie e i non-detti (alcuni di questi con radici tanto profonde quanto le loro
conseguenze) per far emergere tutto quel che davvero ribolle sotto, lasciando nel finale la
carne nuda ed esposta. Ma lo svelamento spietato va ben al di là delle vite dei singoli
individui coinvolti, e – a mio modo di vedere – non si limita unicamente a far luce su aspetti
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estremamente delicati inerenti alla biografia dell'autore (per quanto una sorta di
autobiografismo esasperato sia un elemento tanto ricorrente quanto affascinante nell'opera di
Tondelli come di molti suoi colleghi contemporanei).
In Dinner party, Tondelli parte dalle forme del dramma borghese, ricorrendo al tòpos del
triangolo amoroso (marito, moglie e amante di questa, nonché stretto amico del primo), per
innescare una riflessione a più ampio raggio su quegli anni. Le crepe che si aprono qua e là
all'interno dell'opera ricalcano quelle affioranti sulla superficie apparentemente liscia, come
plastificata, dell'epoca in cui vive lo scrittore. Su questo piano, vediamo il dramma estendersi
ben oltre le mura di casa Oldofredi, diretto sull'intero mondo occidentale. Il referente
principale sarà allora quella società dei consumi fautrice del declino delle Grandi Narrazioni e
della nascita del culto dell'estetica (che, come vedremo, fonda le sue radici nella imposizione
della ricerca della felicità come unica e sola ideologia).
«Dov’è finita la leggerezza?» dice Giulia a inizio commedia, ma capiamo dalle sue parole
immediatamente successive – «l’essere frivoli» – che non le è chiaro il discrimine tra ciò che
chiede e ciò che realmente vuole. Ecco, certe invasioni di campo non saranno più possibili
dopo un'opera del genere. Ciò che Dinner party ci lascia è una rottura del velo postmoderno
che (con)fonde leggerezza e frivolezza; uno squarcio al quale segue inevitabilmente una
nuova presa di coscienza.
L'Internazionale Occidentale: una terra deconnotata
Tra le pagine di Dinner party si sviluppa un'amara riflessione – che non disdegna i toni
dell'accusa – nei confronti della società contemporanea, ritratta con crudo iperrealismo da
Tondelli. È una scrittura politica, che rimanda al contesto storico di quegli anni; una scrittura
che riflette sui temi della globalizzazione, del capitalismo, della produzione metastatica dei
prodotti e degli intrattenimenti, e sugli effetti di questi fenomeni all'interno della società
occidentale. Una società vista già come un unicum nelle parole che l'autore mette in bocca a
Didi, suo alter-ego: «l'Internazionale Occidentale. [...] l'impero senza più province: solo un
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grande cuore occidentale che pulsa in perfetta sincronia» (Tondelli, 2011, p. 49). Espressione
particolarmente felice, poiché se da un lato rimanda a una visione del mondo ancora diviso in
due fazioni opposte, dall'altro crea un legame inaspettato ma non casuale tra queste realtà.
L'Occidente non ha scelto l'ideologia manifesta. Ha mostrato, anzi, una sfiducia crescente nei
confronti delle Grandi Narrazioni del passato. Ma è stato proprio quell'Occidente iconoclasta
ad aver alimentato la fiamma dell'ideale più seducente a cui potersi appellare, covato su carta
per un paio di secoli nella dichiarazione d'indipendenza del Paese che ne è a capo: quello della
ricerca della felicità, che tra le maglie del capitalismo ha assunto come poli dialettici
l'accumulazione materiale e il consumo più sfrenato. È a questo che probabilmente si riferisce
Tondelli quando, nel reportage di un viaggio a Budapest raccolto in Un weekend
postmoderno, scrive: «da qui passa la linea di divisione fra un mondo che si finge libero e un
altro che si finge giusto ed equo, fra un mondo che offre la ricchezza e un altro che offre la
mancanza di emarginazione». (Tondelli, 2011, p. 420)
Ma questo vivere in perfetta sincronia e in piena libertà – l'abbattimento progressivo dei
confini tra nazioni, l'intensificazione del flusso di merci e persone – tutto ciò comporta anche
degli effetti collaterali. L'annullamento dei limiti e l'accelerazione entropica della vita
quotidiana hanno come gettato il soggetto postmoderno in uno spazio in continua espansione
in cui i punti cardinali del vivere sociale sembrano aver rinnegato la propria staticità,
iniziando a ruotare vorticosamente tra di loro: ne segue il disorientamento dell'Io e la
confusione dei prodotti e del paesaggio che lo circondano, in un generale processo di
deconnotazione.
Accende l'attenzione in questo senso la definizione di Occidente che Didi dà in seconda
battuta: l'impero senza più province. Lascia intuire il sospetto – a metà tra timore e stupore –
che, a un certo punto del suo incedere, l'intero Blocco non riesca più a distinguere i vari
elementi al suo interno, confusi tra di loro in maniera irreversibile come in una soluzione
omogenea.
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Uno dei fattori che confondono l'ecosistema occidentale è certamente la produzione seriale
dei prodotti: non a caso la battuta di Didi salta fuori quando Tommy scopre che lui era già in
possesso del recentissimo videogame portatogli direttamente da Tokyo. Il videogioco
giapponese in questione e la canzone When you call me lover, di cui parla Fredo poco dopo,
colpiscono l'immaginario con la stessa forza della serie di lattine Campbell's di Andy Warhol:
la produzione invasiva di prodotti che mira alla standardizzazione di questi fa sì che i loro
tratti peculiari vadano gradualmente scemando, fino al sopraggiungere della deconnotazione.
Come accennato sopra, i luoghi non attraversano certo indenni questo fenomeno. La canzone
citata da Fedro viene ascoltata all'aeroporto di Fiumicino a Roma, all'Heathrow di Londra, al
Kennedy di New York, a Los Angeles, nel New Messico, e per finire a Cagliari, su Radio
Nuraghe. Ecco che luoghi distanti tra di loro si ritrovano all'improvviso accomunati da un
prodotto del mercato musicale. È interessante, tra l'altro, sottolineare come il percorso
tracciato dal fratello di Didi non sia affatto casuale: la maggior parte dei luoghi elencati sono
aeroporti, luoghi di transito che ormai da una ventina d'anni siamo abituati a chiamare, sulla
scia di Marc Augé, nonluoghi. Tondelli mostra anche in questo caso ottime doti di osservatore
della realtà postmoderna, individuando con un certo anticipo (mancavano ancora otto anni alla
pubblicazione di Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité da parte
dell'etnologo francese) quegli spazi che – assieme ai supermercati e agli hotel – sono divenuti
i monumenti per eccellenza del paesaggio deconnotato tipico del mondo globalizzato.
E poi ci sono le persone che abitano questo mondo: come avviene per i prodotti, si ha a che
fare di nuovo con una produzione seriale. In questo caso, di slogan: video generation, look
generation, atomic generation. Generazione postmoderna, gommacea, detritacea. Nel giro di
due battute Mavie, cocktail alla mano, tira fuori un buon numero di definizioni per descrivere
Didi, Alberto, Fredo e gli altri loro coetanei. È l'inizio di una delle sezioni più flamboyant di
Dinner party, un botta e risposta tra lei e lo scrittore che vuole tirare fuori una fisionomia
quantomeno sommaria di questa «generazione dell'immagine» – altro tentativo – cresciuta tra
«la televisione, la musica rock, James Dean, l'elettronica».
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Ma a questi suoi tentativi unificanti risponde colpo su colpo la pronta voce dello scrittore, che
tiene a rimarcare le dovute differenze di gusto e stile: e allora scopriamo che a lui piacciono le
ballate pop, a Fredo il jazz e ad Alberto la dance-music; che quest'ultimo indossa solo
biancheria Calvin Klein (opportunamente acquistata da Boomingdale's), mentre Fredo
predilige quella anni '50 e Didi, semplicemente, non ne indossa; nel campo dell'arte Fredo
punta deciso sulla Transavanguardia, Alberto – naturalmente – sui graffitisti, mentre per Didi
c'è solo Jackson Pollock; e così via.
Nella società del consumo in cui si assiste a una crescita esponenziale, metastatica, degli
intrattenimenti e della velocità con cui questi vengono divorati e di seguito gettati – come se il
mondo (quello occidentale, s'intende) fosse diventato un immenso fast food – è impossibile
delineare uno schema coerente di gusti, tendenze e stili di vita, soprattutto se si prende come
oggetto d'esame la fascia giovanile della popolazione, quella più intensamente stimolata sul
versante del consumo estetico. Non a caso: non è tanto un vizio della gioventù, come si
potrebbe pensare sulle prime, quello di correre dietro a ogni nuovo slogan e moda. Se mai ciò
avviene proprio perché all'interno della società occidentale, dal Primo Dopoguerra, «la
gioventù comincia a essere un modello sociale da imitare» (Banti, 2009, pp. pp. 71-75).
È dagli anni '20 che i giovani iniziano ad acquisire un peso politico e culturale, capace di
condizionare importanti settori industriali all'interno di questa. Ma il discorso può essere
anche rovesciato, poiché l'industria – soprattutto quella culturale (tre settori a caso: quello del
cinema, della musica, della moda) – e la politica si sono presto rese conto del profitto
potenziale derivante da questa ampia fascia di persone nel fulgore degli anni, che un
benessere crescente rendeva sempre più emancipate e – sotto il profilo economico – libere di
spendere. Questo processo, innescatosi nei roaring twenties, è proseguito con proporzioni
sempre crescenti nel corso del Novecento – si pensi agli anni '50 dei baby boomers americani,
ai nostri anni '60, fino ad abbracciare verso gli ultimi decenni del ventesimo secolo l'intero
Occidente.
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Un vero e proprio loop consumistico – unica macchina del moto perpetuo che il processo
empirico ci consegna – in cui la società offre prodotti per giovani ai giovani, i quali
determinano nel tempo nuovi trend che la società poi assimila, trasformandoli in prodotti da
vendere. Il risultato di un simile meccanismo è quella produzione metastatica di
intrattenimenti di cui s'è detto; una produzione alla quale corrisponde una creazione altrettanto
metastatica di centinaia, milioni, infinite tribù (per usare una parola tondelliana), sottoculture
o sottogenerazioni; come le si voglia definire.
Messi davanti a questa situazione, le generalizzazioni sono più che mai inutili. Come in un
paradosso di Zenone, man mano che ci si immerge nell'insieme sociale dell'età
contemporanea, apparentemente finito, si trovano al suo interno infinite declinazioni che si
differenziano tra loro per tratti sempre più minuti, sfumature che eppure contano: vediamo
così i confini restare, per quanto labili ci possano apparire. E il verbo non è scelto a caso:
nella foresta dei segni il significante precede il significato, la forma il contenuto. Stiamo
parlando del regno dell'estetica, per stessa ammissione dei personaggi coinvolti: «una
generazione non si distingue forse da un'altra per il cambiamento dei gusti?» sentenzia Didi
con la voce ingrossata dall'alcol; una domanda alla quale Mavie annuisce convinta.
Proprio l'assottigliarsi dei confini, il primato dell'estetica – o la precessione della forma sul
contenuto – e la proliferazione delle apparenze giocano un ruolo determinante nel definire la
fauna postmoderna. Già nel 1980 Baudrillard descriveva nei Simulacri quella «leucemia dei
valori» data dal ritirarsi della storia nell'era della simulazione, in cui «diviene possibile
evocare alla rinfusa tutti i contenuti e risuscitare a mo' di accozzaglia la storia passata» poiché
«tutto è equivalente e si mescola indistintamente [...] nella stessa fascinazione rétro»
(Baudrillard, 2009, p. 22). Gli stessi elementi non sfuggono agli occhi attenti di Tondelli, che
tra le pagine di Un weekend postmoderno parla di un «vorticoso missaggio di tutti i look
preesistenti» e di un «azzeramento ideologico e semantico in funzione della sublimità del
sembiante» (Tondelli, 2011, p. 196).
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In un suo articolo dedicato a Londra leggiamo inoltre che «è questo forse l'unico tono
complessivo che attraversa, come la corda di un arco teso, la varietà del popolo londinese
postmoderno, facendo vibrare un identico atteggiamento o un'identica mania che risiede nel
punk come nel beat o nello ska: la forma esteriore, l'involucro, l'aspetto, cioè, come uniche
possibilità di comunicazione delle proprie intensità intime» (Tondelli, 2011, p. 389).
Queste parole del 1982 delineano tutto sommato un filo conduttore che lega atteggiamenti e
stili di vita di per sé molto diversi tra loro, ossia quello di affidare all'estetica la responsabilità
di trasmettere significato. La fauna postmoderna sceglie la forma esteriore come canale di
trasmissione delle istanze provenienti dall'interno. Una forma di comunicazione sicuramente
debilitata e facilmente esposta alle insidie dell'arbitrarietà, ma nella quale sembra ancora
essere riposta una qualche speranza. Quello di Tondelli qui non pare un tono del tutto
negativo.
Un'atmosfera ben diversa si respira tra le mura di casa Oldofredi, due anni dopo l'articolo su
Londra: il gioco tra Mavie e Didi si fa sempre più aspro e aggressivo; l'editrice comincia ad
annaspare in mezzo a un oceano di marche, capi d'abbigliamento, musica e luoghi dentro al
quale i tratti dei soggetti che cercava di delineare si mischiano l'uno con l'altro, si
deconnotano. Poco più tardi, proseguendo questo procedimento con Giulia, sembra quasi
venirle un colpo apoplettico: «forse Didi esce con la felpa perché sta in casa; Fredo con il
pantalone classico; e Alberto con un paio di jeans. Sì... No, no. Didi con i jeans, Fredo con
tuta e Alberto con il pantalone classico. No, impossibile. Vediamo... Se Alberto sceglie un
pantalone, sceglie un madras, certo, quindi la felpa a Didi e i jeans a Fredo. No, no. Fredo, i
knickerbockers, Alberto, i bermuda hawaiani, naturalmente; e Didi... Didi?»
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Didi le ha già risposto per quel tempo. Una risposta cruda e senza fronzoli, che traccia con un
taglio netto la visione di Tondelli sul tema generazionale. Vediamo che il tono si è incupito
parecchio rispetto alle pagine londinesi:
Non esistono più le generazioni; tutto si consuma troppo in fretta. [...] Non esistono proprio le generazioni
stratificate ogni venticinque, dieci o due anni. Sono delle spaccature verticali, degli abissi che fendono
diacronicamente il tempo. Lo sforzo sta tutto nel non essere accomunati agli altri poiché nessuno che abbia meno
di trent'anni è accomunabile a un altro. È un coacervo di stili altrui, è il vertice, l'apoteosi dell'inautenticità.
(Tondelli, 2011, p. 44)
Con queste parole Didi/Tondelli nega con convinzione l'esistenza di una qualsiasi
generazione, o perlomeno di una generazione comunemente intesa: un insieme finito
contraddistinto da tratti più o meno omogenei. Lo scrittore è disorientato di fronte al melting
pot che caratterizza l'età contemporanea; annaspa né più né meno che la sua interlocutrice. E
non potrebbe essere altrimenti: quella che sta vivendo è l'inedita esperienza di una
nongenerazione; prodotto della deconnotazione postmoderna, tanto quanto i nonluoghi.
Così, al paradosso di Zenone, che in un insieme apparentemente finito trova infiniti
sottoinsiemi, se ne aggiunge un altro – questa volta non desunto dall'antichità, ma prettamente
contemporaneo – dal momento che la nongenerazione (inautentica fin nel nome) è pure
antitetica nelle funzioni che svolge rispetto all'originale: se la generazione ha di per sé una
natura aggregativa, questa porta a una radicalizzazione del senso di isolamento e solitudine
dei membri che ne fanno parte.
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La fattoria degli animali postmoderni
Il fiume in piena della produzione di prodotti destinati al consumo estetico si traduce in
una pervasività, nel quotidiano dell'Impero Occidentale, di un immaginario sfavillante,
plastificato, seducente, ma di pura apparenza. È il regno dell'estetica, in cui si viene sommersi
a ogni angolo da spot pubblicitari accattivanti; tabelloni su cui si accalcano titoli di film e
spettacoli di prossima uscita; canzoni che filtrano da muri, auto, altoparlanti; vestiti che
scorrono sotto al proprio naso mentre si passeggia per strada o si sfoglia una rivista di moda; e
così via.
Inevitabile uno slittamento gerarchico interno al sistema di valori societario: «Fate di un sarto
un filosofo» – sbotta Didi parlando con Giulia, Tommy e Mavie; – «Di chiunque possieda una
Singer uno stilista. Fra poco, avrete talmente riempito le persone di queste fesserie che
andranno nelle boutique a chiedere di essere curate per il mal di denti e per l'ansia» (Tondelli,
2011, p. 77). Provocatorio, ma di certo non irrealistico.
Ancora più efficace risulta l'aneddoto spensierato di Annie poco dopo, che oscilla tra
l'esilarante e l'inquietante:
ANNIE: L'altro giorno cercavo Palazzo Campolungo. Ho chiesto a un ragazzo.
DIDI: Che tipo era?
ANNIE: Uno qualunque. Mi risponde subito: «Palazzo Campolungo? È facile. Attraversa la strada là di fronte ad
Armani. Svolta a destra dov'è Gianni Versace. Prosegui dritto verso Gianfranco Ferrè. Fai altri venti metri, passa
di fianco a Gucci e, proprio all'angolo, infila un vicolo. È il retro dello show-room di Missoni. Be', quel vicolo
sbuca sulla piazza.» «È facile,» diceva. A me sembrava di essere a Pitti Donna. «Poi,» dice, «attraversa la piazza
dalla parte dei negozi. Non puoi sbagliare. Ci stanno Biagiotti, Fendi, Ungaro e Lancetti. A destra c'è Palazzo
Campolungo. Vai lì, nella sede di Valentino?» (Tondelli, 2011, p. 77)
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Nella stroboscopica festa postmoderna si è costantemente esposti a un bombardamento di
misure tali da mutare persino l'urbanistica cittadina nella concezione del singolo («Vorrei
sapere che ne pensano Mazzini, Cavour e Garibaldi a essere così spiazzati», ribatte laconico
Didi). Ma non è solo l'immaginario cittadino risentire delle trasformazioni in atto nella società
occidentale: aumentando lo zoom sui singoli edifici e oltre i muri degli appartamenti, vediamo
che sono cambiati radicalmente anche il clima e i toni della convivenza. I rapporti sociali
vengono fortemente influenzati dalla devozione al fattore estetico.
Ma il culto dell'estetica, a differenza delle altre fedi, non è riservato a un Simbolo capace di
aggregare la comunità sotto le sue insegne, non è promosso da una forza centrifuga: al
contrario, si assiste a una forza centripeta che orienta su di sé l'oggetto della propria
venerazione. Ciò che viene fuori è una società individualista, narcisista e infinitamente
frammentata, che ha ormai confinato nell'armadio le vecchie ideologie – e quando, di rado,
queste si azzardano a uscire, appaiono ai più come ectoplasmi vagabondi e svuotati di forza,
attenti soltanto a non posare gli occhi sulle lettere in grassetto dei manifesti funebri.
Questo, l'identikit della società postmoderna. Fa sorridere e riflettere – con quella ironia
tragica che è la vera cifra stilistica di Dinner party – il termine che Tondelli usa per descrivere
i luoghi della convivenza "civile" in quest'epoca: fattorie. Ancora una volta è Didi a farsi
carico delle idee dell'autore:
È la contemporaneità che produce queste convivenze. Dieci anni fa erano prodotte dall'ideologia e le
chiamavamo "comuni". Ora se ne servono solo i tossici. La mancanza di appartamenti liberi produce invece
"fattorie". (Tondelli, 2011, p. 79)
E dunque, la fattoria. Ecco l'istituzione atta a ospitare gli animali postmoderni. Tutti così
connotati e iperdefiniti, e contemporaneamente deconnotati nel complesso; privi del benché
minimo elemento aggregante: ognuno sembra portatore di un linguaggio diverso dagli altri –
autoreferenziale.
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Eppure, tra le mura di casa Oldofredi, c'è chi pare più solo degli altri. Nonostante
l'appartamento sia affollato da elementi che si rivelano sempre più eterogenei, in più di una
discussione vediamo Didi isolato e osteggiato dagli altri partecipanti al party. Questo, almeno,
fino a quando non scoppia la bolla che innesca il dramma.
Didi è sbeffeggiato apertamente per la sua inconcludenza, il suo fare autolesionista e le sue
visioni tragiche della realtà: è l'elemento che guasta la festa, discorde dal resto del gruppo. E
tuttavia in prima battuta verrebbe da dire: «ma come, sono tutti fauna d'arte: scrittori, artisti,
editori, organizzatori di eventi, collezionisti d'arte – tutti ascrivibili al mondo della cultura;
possibile dunque una coalizione di massa contro uno solo di loro?» Non fosse che,
effettivamente, tra Didi e gli altri elementi della casa c'è un abisso.
Mavie, Giulia, Alberto, Tommy, Fredo: sono tutti perfettamente inseriti in un discorso di arte
consumista, che privilegia la bellezza estetica piuttosto che il contenuto, e che – soprattutto –
ha le forme di un vero e proprio business. Sono fertili agli occhi della società, poiché
producono con la propria attività. Didi invece più volte manifesta un fiero disprezzo nei
confronti di quel già citato «azzeramento ideologico e semantico in funzione della sublimità
del sembiante». (Tondelli, 2011, p. 196)
Così diverso da loro nei pensieri e nei gesti, lo scrittore finisce per assumere la posizione
dell'homo sacer latino: l'escluso, il reietto, l'outsider; colui che non dispone di alcun diritto, e
sul quale la comunità può scaricare tutto il suo disprezzo senza rimorsi di sorta o il timore di
una qualche punizione. A differenza degli altri, lui è sterile, come non manca di rammentargli
Alberto: «Hai quasi trent'anni, Didi,» gli dice, «e non hai prodotto nulla: solo questi abortini
di testi che anche tu non leggerai mai» (Tondelli, 2011, p. p. 28). La sua improduttività, tanto
difforme alle leggi della società contemporanea, non gli viene perdonata, e lo confina in
isolamento.
Giornata Tondelli, Correggio, Palazzo dei Principi, 13 dicembre 2014.
Intervento di Andrea Suverato : Una festa guastata : Dinner Party e la coscienza
postmoderna.
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Ancora una volta ci troviamo di fronte a due visioni del mondo contrastanti; in questo caso,
però, all'interno dello stesso Blocco: Didi è solo a fronteggiare cinque perfetti esponenti di
quella società postmoderna che rigetta la profondità scambiandola per pesantezza, ed esalta
ciò che è frivolo coprendogli il volto con la maschera della leggerezza. Si finisce così per
confondere con nonchalance concetti distanti tra di loro: la frivola Mavie, l'opportunista
Alberto e tutti gli altri si fanno Simboli del volto cattivo del Postmoderno. Esattamente ciò da
cui Tondelli con quest'opera si è voluto allontanare.
Quelli di fertilità e sterilità sono infatti dei concetti a doppio taglio. A ben guardare, il mondo
in cui i personaggi "produttivi" di Dinner party vivono è essenzialmente kitsch, superficiale,
autoreferenziale. È un mondo sterile. Come del resto sono concetti a doppio taglio quelli di
sobrietà ed ebbrezza. Notiamo che, alle frasi circa l'improduttività di Didi, si accompagnano
spesso anche le critiche per le sue derive etiliche. Gli altri rimangono perlopiù sobri durante
tutta la durata del party, mentre quello dello scrittore è un vertiginoso calare tra le pieghe
intorpidite dell'alcol, fino alla perdita di sensi del finale.
Dal punto di vista dell'analisi sinora effettuata, però, vediamo che gli "stati" si ribaltano:
Alberto, Giulia e gli altri si sono smarriti del tutto nel ritmo irrefrenabile di quegli anni, nella
colossale sbronza della festa postmoderna. La loro scarsa lucidità impedisce loro di vedere la
farsa che portano avanti. Didi è invece l'unico abbastanza sobrio da individuare gli elementi di
disturbo, quelle «bruciature di sigaretta sul sofà» di cui parla Foster Wallace nel estratto
d'apertura.
Alla luce di ciò, si può leggere il fastidio per certi eccessi mélo di Didi come una sorta di
timore. Quasi che gli altri scorgessero in lui il riflesso di qualcosa che li riguarda e li spaventa
a morte. Lo scrittore è l'elemento dissonante in casa Oldofredi. Non solo fa una brutta figura
di per sé, ma mette a disagio anche chi ha a che fare con lui: è quello che non balla quando gli
altri sono scesi in pista e resta in disparte a osservarli; è quell'invitato goffo e maldestro che si
teme possa rovinare la festa in qualunque momento. Succede quindi che gli sguardi di
rimprovero si addensino su di lui, nell'attesa di un suo passo falso.
Giornata Tondelli, Correggio, Palazzo dei Principi, 13 dicembre 2014.
Intervento di Andrea Suverato : Una festa guastata : Dinner Party e la coscienza
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Ma non sarà l'homo sacer a scatenare la tempesta preconizzata da Tommy sulla terrazza. Non
ce ne sarà bisogno. Basterà un incidente triviale – l'ascolto involontario, da parte di Fredo, di
una cassetta su cui è stata registrata la voce di Giulia che dichiara il suo amore per Alberto – a
incrinare l'edificio farsesco costruito nel tempo col contributo dei diversi personaggi presenti
sulla scena. Saranno proprio Giulia e Alberto, con il loro tradimento, e Fredo e Tommy, con i
loro non-detti, a squarciare il velo che ha coperto i loro stessi occhi durante quegli anni. Come
venissero gettati nel mondo una seconda volta, si riscoprono fragili, soli e insicuri. La musica
è stata stoppata bruscamente e le luci abbassate: la festa è finita anche per loro e – in perfetto
sincrono con lo scivolare di Didi nell'oblio – giunge per ognuno la rottura del velo.
La nascita della coscienza postmoderna
Io... non sento più niente... Era il mio più caro amico e lei la mia... che dovrei fare? In casi come questi, si
piange? O si ride? O si prende con filosofia? O si sbatte la testa contro il muro? Come reagisce la gente a... casi
come questi? [...] Avevo un amico e non avevo niente, invece. [...] Avevo una ragazza che amavo: mi sono
riposato in lei, non avevo bisogno di nessun'altra. [...] Avevo... Avevo due amici, e ora... Come si fa in casi come
questi? (Tondelli, 2011, p. 59)
È il monologo silenzioso di Fredo verso la fine del primo atto e segnare ufficiosamente la fine
della farsa generale e l'inizio di quel gioco al massacro che occuperà la seconda parte del
dramma. Da qui, lo squarcio nel suo cielo personale si allarga impietosamente fino a
coinvolgere i mondi di tutti gli altri partecipanti al party.
Giornata Tondelli, Correggio, Palazzo dei Principi, 13 dicembre 2014.
Intervento di Andrea Suverato : Una festa guastata : Dinner Party e la coscienza
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I primi a restare coinvolti saranno proprio i suoi due vecchi "amici": Alberto vede le proprie
finzioni rivoltarglisi contro, nella forma fin troppo concreta di Annie, che da nome di
copertura per la liaison dangereuse con Giulia si materializza nelle forme di un travestito
invitato da Fredo al party; Giulia, in preda alla vertigine di vedersi contemporaneamente
smascherata e tradita (poiché, come il resto dei presenti, cade nel tranello di Fredo) si
aggrappa "letteralmente" al suo tradizionale compagno, cercando in lui un vertice forte che la
porti via da quella situazione; Fredo stesso, in un imprevisto fuoco di ritorno, vede
smascherati da suo fratello Didi i suoi repressi istinti sessuali (rivolti, ironia del caso, verso
Alberto); e pure Tommy, il vecchio amico di famiglia venuto a trovarli dopo tanto tempo, non
è immune a questo gioco dei non-detti e dei rancori covati per lungo tempo: nelle battute
finali con Fredo, quest'ultimo fa alcune inquietanti allusioni circa la tragica morte del padre
(al tempo in Congo assieme a Tommy), prontamente taciute dal vecchio collezionista d'arte,
che poco dopo ammette con una risposta secca di essere sempre stato innamorato della madre
dei due.
Ci troviamo quindi nell'orizzonte del dramma borghese, in cui l'apparente rispettabilità viene
meno e le pulsioni della carne (represse o nascoste) prendono il sopravvento sulla scena. Se
Dinner party si fosse limitato a essere questo, sarebbe stata una fra le tante opere di Tondelli,
e niente più; confusa per di più nella vasta tradizione di drammi borghesi che sfruttano le
medesime forme e tematiche – con esiti anche molto più felici. Ma come si è cercato di
mostrare in questo saggio, gli elementi che connotano Dinner party, che lo irrobustiscono e
gli donano un nuovo vigore al di là della trama, sono altri.
Finora abbiamo esaltato l'osservazione precisa e lucida della festa postmoderna nel mondo
occidentale da parte dello scrittore; un processo di astrazione che dalla concretezza del party
casalingo si muove all'interno delle strutture della società e – come abbiamo sottolineato in
apertura – chiama anche in causa la letteratura e le altre forme d'arte. Il secondo elemento in
rilievo è la capacità di Tondelli di delineare – tramite alcuni dialoghi significativi – quegli
elementi che, nel complesso, ci conducono a quella che si potrebbe definire come coscienza
postmoderna.
Giornata Tondelli, Correggio, Palazzo dei Principi, 13 dicembre 2014.
Intervento di Andrea Suverato : Una festa guastata : Dinner Party e la coscienza
postmoderna.
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In un certo senso, le forme con cui si manifesta sono quelle di un ritorno all'ordine. Questa
volta però non sono gli orrori della guerra, i patimenti della fame e della povertà a fare
scaturire questo bisogno; bensì, la grande libertà e agiatezza del benessere capitalistico, e quei
desideri portati all'eccesso di un mondo del tutto volto al dionisiaco.
TOMMY: [...] Non vi è stato imposto nulla. Avete voluto distruggere, non credere a niente.
FREDO: Volevamo semplicemente qualcuno che ci comandasse.
TOMMY: Ogni regola, purché fosse veramente tale, vi mandava in bestia.
FREDO: Didi e io volevamo soltanto essere sottomessi: eravamo ragazzi; dovevamo essere istruiti alla vita. Ci
avete lasciati soli. (Tondelli, 2011, p. 101)
Tocca a Fredo, scomparsa per motivi fisiologici la figura di Didi, prendere le redini del
pensiero di Tondelli. Ci troviamo nelle ultime pagine di Dinner party, quando il grosso del
dramma si è ormai consumato. Il dialogo isterico tra lui e Tommy mette in mostra alcuni
aspetti dell'epoca finora taciuti ma che, riguadagnata la lucidità, non possono più passare
inosservati. E ciò che emerge è lo smarrimento di una intera nongenerazione che è tale per via
dell'assenza prolungata dei padri – intesi come quell'insieme di narrazioni e tradizioni, norme
e precetti, capaci di segnare la via ai propri discendenti.
La società postmoderna, con il suo libertarismo, si pone in antitesi a quella di stampo
totalitario: è una società che cerca l'orizzontalità dal punto di vista etico, e rifiuta il severo
verticalismo di uno Stato-Padre che parla per i suoi figli. Questo livellamento progressivo si
manifesta anche all'interno delle singole famiglie, in cui la figura del genitore autoritario
(padre o madre che sia) viene meno.
Un simile atteggiamento da un lato produce una libertà dalla costrizione e dall'imposizione,
ma dall'altro non ne insegna alcuna. Foster Wallace, in un passaggio del romanzo Infinite jest,
utilizza i concetti di libertà-da e libertà-di per descrivere le due varianti di questo tanto
masticato concetto.
Giornata Tondelli, Correggio, Palazzo dei Principi, 13 dicembre 2014.
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Il primo rimanda a una causa esterna: è la libertà dalla dittatura e dal dispotismo che le società
democratiche dell'Occidente possono offrire. Il secondo, sulle prime più sfuggente, necessita
di qualche precisazione in più:
«E libertà-di? Non si è solo liberi-da. Non tutti gli obblighi vengono dall'esterno. Voi fingete di non vedere
questo. Dov'è la libertà-di. Come fa la persona a scegliere liberamente? Come scegliere qualcosa di diverso dalle
scelte ingorde dei bambini se non c'è un padre pieno di amore a guidare, informare, insegnare alla persona come
scegliere? Come ci può essere libertà di scegliere se non si impara come scegliere?»
Steeply gettò via la sigaretta e si voltò lievemente verso Marathe, restando sull' orlo: «Ecco che arriva la storia
del ricco».
Marathe disse: «Il padre ricco che si può permettere sia le caramelle sia il cibo per i suoi figli: ma se lui strilla
"Libertà!" e permette al suo bambino di scegliere solamente quello che è dolce, di mangiare solo caramelle e non
la zuppa di piselli e il pane e le uova, allora suo figlio diventa debole e malato: e l'uomo ricco che strilla
"Libertà!" è un buon padre?» (Foster Wallace, 2006, p. 384)
Tornando su Dinner party, vediamo Tommy "idealmente" ribattere a quest'ultima battuta nel
suo scambio con Fredo:
TOMMY: Siete degli uomini, ora!
FREDO: Che vogliono ancora qualcuno che li comandi. Che non sanno agire. (Tondelli, 2011, p. 102)
Adulti come bambini, dunque: sopraffatti dalla propria ingordigia, da una strenua e inesausta
ricerca del piacere, senza una mano ferma che li guidi – che li educhi. Orfani alla vita. Liberi
dall'oppressione ma senza punti cardinali certi, e perciò incapaci di scegliere una rotta. Non è
vera libertà quella di chi non sa come scegliere: in questo messaggio le parole di Tondelli e
di Foster Wallace si sovrappongono nuovamente. Così si chiude Dinner party, con una lucida
riflessione critica sui detriti e le nausee che restano al termine di un'epoca inebriante e frivola,
come una festa.
Giornata Tondelli, Correggio, Palazzo dei Principi, 13 dicembre 2014.
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Ma questo momento di lucidità in cui ci si scopre a girare per casa producendo uno strappo
secco a ogni passo perché si è passati sopra qualcosa di vischioso, e c'è del vomito nel
portaombrelli, e le ante dell'armadio non si chiudono come dovrebbero, e si è stanchi di tutta
quell'esuberanza e si oscilla tra il compatimento e l'insofferenza per quei pochi che ancora si
trascinano sulla pista – in questo momento di resa dei conti, si insinua la chance di raccogliere
i cocci sparsi qua e là.
Foster Wallace, nel proseguo dell'estratto di apertura, parla di rendersi conto che mamma e
papà non torneranno più a ristabilire l'ordine, e che dunque «noi dovremo essere i genitori». E
una tale strada è, a mio modo di vedere, quella intrapresa da Tondelli nelle sue produzioni più
tarde: Camere separate e Un weekend postmoderno. Mentre la prima è un'intima riflessione
sul tema dell'amore, sul dolore della perdita e sui misteriosi canali della spiritualità; la
seconda, nella struttura e sin dal titolo si propone come una riflessione critica sulla decade
appena trascorsa.
Per tali ragioni mi sento di dissentire parzialmente dalle osservazioni di Paolo Landi in limine
all'introduzione a Dinner party: «la foto del gruppo in via di estinzione» – scrive, – «diventerà
progressivamente un autoritratto, il "noi" generazionale tenderà all'introversione dell'io e
anche le ultime opere di Tondelli testimonieranno la sua sostanziale incapacità di affrancarsi
dall'autorappresentazione, l'impossibilità definitiva di liberarsi senza dolore di se stesso».
(Tondelli, 2011, p. 15)
Il fatto che gli ultimi lavori di Tondelli prediligano un atmosfera solitaria a quella di
gruppo, non mi sembra da ricondurre a una voluta chiusura al mondo esterno. Non è un
posizione fetale quella assunta dallo scrittore. Mi sembra piuttosto un percorso di ricerca
interiore che punti a riflettere sul rapporto tra l'Io e il mondo circostante: da qui le relazioni
interpersonali e quelle amorose, la spiritualità, e le analisi sui contemporanei da osservatore
esterno. Da qui anche il dolore, che sceglie di abbracciare guardandolo fisso negli occhi,
senza anestetizzare più la vista come faceva un tempo.
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L'approccio di Tondelli ora è più posato. Anche la sua scrittura si è data una calmata dopo
aver sperimentato le ipocrisie e gli eccessi della nongenerazione, passata l'emicrania oftalmica
dell'ebbrezza estetica di quegli anni. Tondelli appare forse più solo in queste ultime opere, ma
direi che ciò dipende dal fatto che ha scelto la strada meno battuta. Ha scelto di osservare con
occhi lucidi la gabbia del solipsismo nella quale era relegato col nome di Didi – proprio
quando era circondato dal mondo dei suoi coetanei – per studiare le possibili vie di fuga. Una
raggiunta consapevolezza che rivendica con un orgoglio quasi rabbioso in alcune pagine del
1987, raccolte in Un Weekend postmoderno sotto il titolo Viaggiatore solitario:
In questi anni votati così spudoratamente alla fatuità e al perbenismo, anche starsene un po’ zitti e cercare di
crescere nell’interiorità può essere un gran bene. Questo ho pensato, fra le altre cose, durante il mio viaggio
solitario. E ve lo dico con un po’ di rabbia, perché mi sembra di trarre una morale da un’esperienza che
preferisco lasciare così, senza un senso definitivo. [...] Il dolore è sterile. Ma è l’unica cosa che ho, questo dolore,
per cercare di capire. (Tondelli, 2011, p. 382)
Il viaggio letterario e sentimentale di Tondelli, partito come esperienza di gruppo per poi
delinearsi in qualcosa di più personale, non si è mai scostato dal chiodo fisso della ricerca
dell'altro, di una comunicazione sincera e profonda, alleggerita dal peso della frivolezza,
insostenibile proprio perché pone una maschera che intralcia come un muro la libera
circolazione dei sentimenti umani, relegando l'Io e l'Altro in due Blocchi distinti.
Dinner party è la svolta – l'allontanamento – che conduce Tondelli su di un terreno poco
battuto, senza segnali e coordinate certe, ma che appare l'unico in grado di scavare una
breccia tra questi due mondi che, nella terra deconnotata dell'Internazionale Occidentale,
sembrano divenire sempre più distanti.
Giornata Tondelli, Correggio, Palazzo dei Principi, 13 dicembre 2014.
Intervento di Andrea Suverato : Una festa guastata : Dinner Party e la coscienza
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BIBLIOGRAFIA
Banti, Alberto Mario. L'età contemporanea. Dalla Grande Guerra a oggi. Roma-Bari:
Laterza, 2009.
Baudrillard, Jean. Simulacri e impostura. Bestie, Beauborg, apparenze e altri oggetti. A cura
di Matteo G. Brega. Milano: PGreco, 2009.
Calvino, Italo. Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio. Milano:
Mondadori, 2010.
Foster Wallace, David. Infinite jest. Traduzione di Edoardo Nesi. Torino: Einaudi, 2006.
—. Un antidoto contro la solitudine. Roma: Minimum Fax, 2013.
Tondelli, Pier Vittorio. L'abbandono. A cura di Fulvio Panzeri. Milano: Bompiani, 2001.
—. Dinner party. A cura di Fulvio Panzeri. Introduzione di Paolo Landi. Milano: Bompiani,
2011.