Trattamento farmacologico della depressione in comorbidità nelle malattie internistiche

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Trattamento farmacologico della depressione in comorbidità nelle malattie internistiche R. Delle Chiaie Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche; Università degli Studi “La Sapienza”, Roma Articolo originale Med Psicosom 2012; 57 (1-2):1-9 Corrispondenza: [email protected] All’interno dell’area dei disturbi dell’umore vengono distinte alcune entità, la cui principale caratterizzazione del quadro clinico consiste nelle presenza di una disregolazione affettiva che si presenta in comorbidità con una affezione internistica. L’associazione tra malattie somatiche e depressione è particolarmente frequente in tutti i setting. La depressione produce diversi effetti maladattativi nei confronti delle malattie mediche: a) amplifica i sintomi somatici, in particolare il dolore e la disabilità funzionale; b) riduce la motivazione del paziente a seguire le prescrizioni terapeutiche; c) induce modifica- zioni fisiopatologiche dirette che possono, a loro volta, peggiorare la prognosi della malattia concomitante. Questo tipo di comorbidità comporta pertanto un incremento di morbidità e mortalità, un maggiore ricorso a strutture sanitarie ed un più elevato tasso di ospedalizzazione. Nel corso dell’ultimo decennio, soprattutto in seguito alle numerose scoperte provenienti dal settore delle neuroscienze, le tecniche per il trattamento farmacologico della depressione e dell’ansia sono state perfezionate in modo significativo. In questo articolo verranno passati in rassegna in modo sistematico i vari aspetti, sia teorici che operativi, di questo settore della clinica. Inizialmente verranno analizzati i dati di studi epidemiologici. Successivamente verranno passati in rassegna i dati dei principali trial clinici di efficacia finora effettuati per la valutazione degli antidepressivi in alcuni di questi quadri. La terapia farmacologica della depressione in pazienti con malattie somatiche dovrebbe tener conto della particolare fragilità di questi soggetti. Per questi motivi l’antidepressivo ideale da impiegare in questo settore, oltre a delle solide dimostrazioni di efficacia, dovrebbe presentare soprattutto una buona dote di tollerabilità e sicurezza d’uso e dovrebbe essere privo di sostanziali interazioni farmacodinamiche e farmacocinetiche Le malattie somatiche possono spesso rappresentare il fattore scatenante a cui si associa l’emergenza di un episodio depressivo La depressione è sempre riconoscibile come la con- seguenza, in soggetti con predisposizione costituzionale, dell’esposizione ad un evento traumatico. Una reazione di stress è infatti riconoscibile quasi sempre nei soggetti che abbiano sviluppato un episodio depressivo. Tra gli eventi stressanti riscontrabili con maggiore frequenza vi sono i lutti, le difficoltà relazionali all’interno di una coppa, i problemi legali, i problemi economici, problemi associati alla perdita di ruolo (ad esempio il pensionamento), ecc. Tra questi eventi esistenziali stressanti con valenza depressogena, un ruolo sicuramente importante è rappresentato dal fatto di contrarre una malattia, sia di tipo acuto che cronico. Il venir meno dello stato di salute rappresenta infatti un evento di perdita molto rilevante, che nei casi in cui si associa ad una compromissione significativa di funzionamento, può favorire lo sviluppo di un reazione psichica di lutto. Al di là di questo effetto psicologico mediato dalla va- lenza di evento perdita della malattia stessa, in grado quindi scatenare una reazione di lutto, è comunque di rilievo che l’azione “depressogena” delle malattie somatiche, sia anche modulata da una serie di fattori biologici. Nel corso di una malattia fisica, soprattutto se di tipo cronico, si verifica infatti la liberazione nel torrente circolatorio di una serie di media- tori immunitari (inter-leuchine, citochine), le quali sono in grado di esercitare una azione diretta sui circuiti cerebrali che controllano il tono dell’umore, modulandone l’attività. L’attività diretta sul sistema nervoso di molti di questi fattori (ed esempio interleuchina-6, interferone, ecc.) è testimoniata dal fatto che nei casi in cui essi vengono somministrati per scopi terapeutici, spesso si assiste all’emergenza di sintomi depressivi, anche in soggetti che non avevano mai sofferto in passato di questa patologia. Nel corso di una malattia somatica, questo tipo di effetto depressogeno dovuto ad una azione diretta sul sistema nervoso centrale può essere rile- vato anche in via secondaria all’attività di altri fattori, quali ad esempio scompensi di tipo ormonale, danneggiamenti della circuitazione neuronale di origine ischemica o di altra natura, oppure in conseguenza dell’effetto depressogeno di alcune categorie di farmaci impiegati per il trattamento della malattia internistica

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1Trattamento farmacologico della depressione in comorbidità nelle malattie internistiche

Trattamento farmacologico della depressione in comorbidità nelle malattie internisticheR. Delle Chiaie

Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche; Università degli Studi “La Sapienza”, Roma

Articolo originale Med Psicosom 2012; 57 (1-2):1-9

Corrispondenza: [email protected]

All’interno dell’area dei disturbi dell’umore vengono distinte alcune entità, la cui principale caratterizzazione del quadro clinico consiste nelle presenza di una disregolazione affettiva che si presenta in comorbidità con una affezione internistica. L’associazione tra malattie somatiche e depressione è particolarmente frequente in tutti i setting. La depressione produce diversi effetti maladattativi nei confronti delle malattie mediche: a) amplifica i sintomi somatici, in particolare il dolore e la disabilità funzionale; b) riduce la motivazione del paziente a seguire le prescrizioni terapeutiche; c) induce modifica-zioni fisiopatologiche dirette che possono, a loro volta, peggiorare la prognosi della malattia concomitante. Questo tipo di comorbidità comporta pertanto un incremento di morbidità e mortalità, un maggiore ricorso a strutture sanitarie ed un più elevato tasso di ospedalizzazione.

Nel corso dell’ultimo decennio, soprattutto in seguito alle numerose scoperte provenienti dal settore delle neuroscienze, le tecniche per il trattamento farmacologico della depressione e dell’ansia sono state perfezionate in modo significativo.

In questo articolo verranno passati in rassegna in modo sistematico i vari aspetti, sia teorici che operativi, di questo settore della clinica. Inizialmente verranno analizzati i dati di studi epidemiologici. Successivamente verranno passati in rassegna i dati dei principali trial clinici di efficacia finora effettuati per la valutazione degli antidepressivi in alcuni di questi quadri.

La terapia farmacologica della depressione in pazienti con malattie somatiche dovrebbe tener conto della particolare fragilità di questi soggetti. Per questi motivi l’antidepressivo ideale da impiegare in questo settore, oltre a delle solide dimostrazioni di efficacia, dovrebbe presentare soprattutto una buona dote di tollerabilità e sicurezza d’uso e dovrebbe essere privo di sostanziali interazioni farmacodinamiche e farmacocinetiche

Le malattie somatiche possono spesso rappresentare il fattore scatenante a cui si associa l’emergenza di un episodio depressivo

La depressione è sempre riconoscibile come la con-seguenza, in soggetti con predisposizione costituzionale, dell’esposizione ad un evento traumatico. Una reazione di stress è infatti riconoscibile quasi sempre nei soggetti che abbiano sviluppato un episodio depressivo. Tra gli eventi stressanti riscontrabili con maggiore frequenza vi sono i lutti, le difficoltà relazionali all’interno di una coppa, i problemi legali, i problemi economici, problemi associati alla perdita di ruolo (ad esempio il pensionamento), ecc. Tra questi eventi esistenziali stressanti con valenza depressogena, un ruolo sicuramente importante è rappresentato dal fatto di contrarre una malattia, sia di tipo acuto che cronico. Il venir meno dello stato di salute rappresenta infatti un evento di perdita molto rilevante, che nei casi in cui si associa ad una compromissione significativa di funzionamento, può favorire lo sviluppo di un reazione psichica di lutto.

Al di là di questo effetto psicologico mediato dalla va-lenza di evento perdita della malattia stessa, in grado quindi

scatenare una reazione di lutto, è comunque di rilievo che l’azione “depressogena” delle malattie somatiche, sia anche modulata da una serie di fattori biologici. Nel corso di una malattia fisica, soprattutto se di tipo cronico, si verifica infatti la liberazione nel torrente circolatorio di una serie di media-tori immunitari (inter-leuchine, citochine), le quali sono in grado di esercitare una azione diretta sui circuiti cerebrali che controllano il tono dell’umore, modulandone l’attività. L’attività diretta sul sistema nervoso di molti di questi fattori (ed esempio interleuchina-6, interferone, ecc.) è testimoniata dal fatto che nei casi in cui essi vengono somministrati per scopi terapeutici, spesso si assiste all’emergenza di sintomi depressivi, anche in soggetti che non avevano mai sofferto in passato di questa patologia. Nel corso di una malattia somatica, questo tipo di effetto depressogeno dovuto ad una azione diretta sul sistema nervoso centrale può essere rile-vato anche in via secondaria all’attività di altri fattori, quali ad esempio scompensi di tipo ormonale, danneggiamenti della circuitazione neuronale di origine ischemica o di altra natura, oppure in conseguenza dell’effetto depressogeno di alcune categorie di farmaci impiegati per il trattamento della malattia internistica

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3Trattamento farmacologico della depressione in comorbidità nelle malattie internistiche

La depressione (DM) è spesso presente in pazienti con comorbidità mediche:

Numerose indagini epidemiologiche hanno confermato l’esistenza di uno stretto legame tra le malattie internisti-che e la depressione. Infatti dai risultati di questi studi è emerso che in presenza di disturbi somatici, la comparsa di depressione è facilitata, al punto che la sua incidenza tra i pazienti affetti da patologie internistiche concomitanti si rivela significativamente maggiore rispetto ai tassi rilevabili nell’ambito della popolazione generale. Questa facilitazione allo sviluppo della depressione non appare una peculiarità di una singola area medica, ma è individuabile in modo decisa-mente ubiquitario in tutti i settori in cui è stata indagata. Di particolare rilevanza, sia per gli elevati tassi di prevalenza, sia per importanti ripercussioni sul decorso della malattia, si sono rivelate le comorbidità depressive nei pazienti con malattie cardiovascolari, con HIV, con diabete e con pato-logie oncologiche.

Quando è presente la depressione peggiora la prognosi delle malattie internistiche:

Il legame che associa le malattie internistiche con la depressione, quando presente in comorbidità, è di tipo bidi-rezionale. Si è visto infatti che, parallelamente alla capacità delle malattie internistiche di facilitare l’insorgenza di un episodio depressivo, una volta insorto, quest’ultimo ha a sua volta la capacità di aggravare in modo significativo il decorso del disturbo somatico.

I meccasmi attraverso i quali la depressione è in grado di esercitare un effetto negativo sui processi patofisiologici delle malattie fisiche presenti in associazione, sono fonda-mentalmente riconducibili alle numerose disregolazioni psicobiologiche che accompagnano questo disturbo.

Fondamentalmente, nel corso di un episodio depressivo, si verificano uno sbilanciamento dell’equilibrio neurovege-tativo di tipo simpatico-tonico ed un’attivazione dell’asse

Anche la DM predice outcomes più criticiper le malattie internistiche

Katon WJ, Biol Psychiatry 2003; 54(3):216-226Narasimhan M, Curr Psychiatry Rep 2008; 10(3):191-194Evans DL, Biol Psychiatry 2005:58(3)-175-189

endocrino ipotalamo-ipofisi-corticosurrene. A questi due elementi, si associa l’emergenza di una serie di disequili-bri funzionali, rilevabili a carico del sistema immunitario, dell’agglutinabilità piastrinica, dei parametri bioelettrici dell’eccitabilità cardiaca, della motilità gastro-intestinale, della regolazione glicemica e di vari altri parametri me-tabolici. Nei casi in cui concomiti una malattia somatica in comorbidità, alle disregolazioni funzionali di questi parametri biologici che accompagnano ogni condizione depressiva, si associa un aggravamento molto significativo della malattia fisica ed una accelerazione del suo decorso. Questi elementi, insiti alla psico-biologia della depressione, si comportano pertanto alla stregua di veri e propri fattori di rischio “primari” per la malattia internistica presente e sono in grado di aggravarne in modo significativo il decorso.

Nei pazienti internistici con comorbidità depressiva, l’affezione psichiatrica tuttavia spesso si comporta anche alla stregua di fattore di rischio definibile “secondario”, in quanto la presenza della depressione quasi sempre condi-ziona anche una minore aderenza da parte del paziente ai regimi farmacologici o dietetici prescritti, oltre che alcuni loro stili di vita in cui frequentemente risultano individua-bili comportamenti a rischio per la salute (alcol, fumo, vita sedentaria, eccedenza ponderale ecc.).

Sulla base di queste premesse è facile comprendere i motivi per cui in numerosissimi studi, la presenza della depres-sione psichica in pazienti affetti numerosi disturbi internistici ad andamento cronico (in ambito cardiologico, oncologico, neurologico, disendocrino-metabolico, infettivologico, ecc.) ha dimostrato di poterne aggravare il decorso in modo rile-vante. In questi casi quindi la depressione, quando presente, compromette non solo la qualità di vita, ma anche la prognosi quoad vitam: indipendentemente dalla natura del problema fisico, nei casi in cui sia presente una comorbidità depressi-va, al crescere dell’intensità dei sintomi psicologici si rileva un’incremento significativo della probabilià di exitus.

Circa 1/5 dei pazienti colpiti da infarto del miocardio, dopo l’incidente cardiovascolare acuto, manifestano la comparsa di sintomi della depressione maggiore.

Il primo studio pionieristico in cui fu dimostrata l’esi-stenza di una relazione tra l’insorgenza della depressione dopo un infarto acuto del miocardio ed un incremento delle probabilità di exitus nel corso di un follow-up a 6 mesi, è

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Mortalità dopo un attacco cardiaco per pazienti depressi e non-depressi

Frasure-Smith et al. JAMA, 1993, 270:1819

stato pubblicato nel 1993 da Nancy Frasure-Smith, una ricer-catrice canadese. In questo studio, in un gruppo di 172 pazienti colpiti da un infarto del miocardio recente ed appena ricoverati presso un’unità coronarica, all’ingresso, venne misurato il livel-lo di gravità dei sintomi depressivi mediante la scala di Beck. I pazienti vennero così suddivisi in due sottogruppi, i “depressi” (N=35; punteggio della scala di Beck superiore a 13) ed i “non depressi” (N= 137; punteggio della scala di Beck inferiore a 13). Seguiti per un follow-up di 6 mesi, fu così possibile rilevare che i pazienti infartuati che avevano sviluppato la depressione dopo incidente cardiovascolare acuto, già a partire dal terzo mese dopo l’infarto, evidenziavano una frequenza di complicazioni letali significativamente maggiore.

Una analoga potenzialità della depressione a complicare il decorso della malattia e ad aumentare il rischio di mortalià è stata dimostrata anche in pazienti affetti da diabete. In uno studio epidemiologico condotto su una popolazione molto estesa si è visto che, rispetto a soggetti non depressi/non diabetici, che evidenziano un determinato tasso di mortalità nell’arco di un follow-up a 10 anni, coloro che risultano invece depressi/diabetici, mostrano tassi significativamente più elevati. È evidente pertanto che in presenza delle disre-golazioni bio-umorali associate alla disinibizione funzionale dell’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene che accompagna la depressione, il decorso della malattia diabetica, quando presente, si rivela sensibilmente aggravato.

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Sul piano probabilistico, lo sviluppo di un quadro depres-sivo successivamente ad un evento cerebrovascolare acuto, rappresenta una eventualità estremamente frequente. Oltre al potenziale depressogeno insito in ogni stato di malattia fisica, associato alla perdita di autonomia e di efficienza funzionale, in questo caso concorrono ad aumentare il rischio di depressione anche i danni neurologici che conseguono allo

stroke, soprattutto nei casi in cui venga colpito l’emisfero cerebrale destro.

Anche per questo tipo di comorbidità, in cui la depres-sione si associa alle conseguenze neurologiche permanenti di un’incidente cerebro-vascolare acuto, è stato dimostrato che la presenza del disturbo dell’umore riduce in modo significativo la probabilità di sopravvivenza del paziente.

Aumento del rischio di mortalitànel post-stroke associato alla depressione

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Si è dimostrata l’utilità di trattare la depressione in pazienti con comorbidità somatica

Nei principali settori clinici in cui si è visto che, alla presenza di un disturbo inernistico può affiancarsi in comor-bidità un disturbo dell’umore, si è visto che in presenza di questa associazione si rileva generalmente una significativa riduzione della probabilità di sopravvivenza del paziente. Su questa capacità degli episodi affettivi di esercitare un effetto aggravante sul decorso delle malattie somatiche con-comitanti, c’è ormai un consenso unanime da parte di tutti i ricercatori che hanno indagato in questo settore.

A questo punto, traslando queste osservazioni ad un ambito più squisitamente operativo, molti clinici si sono chiesti se l’impiego degli antidepressivi potesse risultare vantaggioso per ottenere un contenimento sintomatologico in queste forme di depressione associate in comorbidità con malattie internistiche.

Al fine di verificare questo quesito sono stati effettuati numerosi trial clinici ed i risultati di queste indagini sono stati successivamente analizzati in modo cumulativo. Dalla valutazione complessiva di questo pool di dati è emerso che gli antidepressivi rivelano levelli di efficacia significativi nel trattamento di questa tipologia di quadri depressivi.

Bisogna, quindi, trattare la depressione senza però interferire con il trattamento farmacologico della malattia internistica

Esiste tuttavia una caratteristica abbastanza specifica di questi quadri di comorbidità tra depressione e malattie internistiche, al punto di rappresentarne una peculiarità contraddistintiva. Questa è rappresentata dal fatto che questi pazienti che neccessitano di essere avviati ad una terapia an-

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tidepressiva, già hanno in corso di assunzione numerosi altri composti, appartenenti a differenti categorie farmacologiche, che vengono impiegati per il trattamento dell’affezione inter-nistica concomitante. Ovviamente ciò comporta il rischio di incorrere in interazioni farmacologiche (drug-drug interac-tions), che possono essere sia di tipo farmacodinamico che farmacinetico. Nel primo caso è possibile che i meccanismi d’azione esercitati a livello recettoriale nel Sistema Nervoso Centrale dal farmaco psicotropo, vengano modificati dall’in-terazione con il farmaco internistico. A ciò può seguire una riduzione dell’efficacia antidepressiva del farmaco o la com-parsa di effetti collaterali inusuali. Un esempio di questo tipo di interazione farmacodinamica è rappresentato, ad esempio, dall’effetto depotenziante sulla neurotrasmissione noradre-nergica esercitato dai beta-bloccanti o dagli alfa-adrenolitici, farmaci di frequente impiego in cardiologia. In questi casi si rileva una riduzione di efficacia antidepressiva del timo-lettico impiegato. Nel caso di interazioni farmacocinetiche vi possono essere invece effetti di un farmaco sui sistemi enzimatici delle vie cataboliche che controllano l’escrezione dell’altro farmaco assunto in modo concomitante. Nel caso in cui l’eliminazione sia ostacolata, si può andare incontro a fenomeni di sovradosaggio del farmaco la cui escrezione viene rallentata. Al contrario se un farmaco crea un’indu-zione enzimatica sui sistemi che controllano il catabolismo di un altro composto, si può verificare un abbassamento dei livelli circolanti di quest’ultimo, con conseguente perdita di efficacia. Un esempio di questo tipo di interazione è rap-presentato dall’effetto attivante esercitato dalla paroxetina e da altri SSRI sul citocromo che controlla l’eliminazione del tamoxifene, un farmaco impiegato per il trattmento di alcuni tumori. In questi casi pertanto, al trattamento della depressione con questo tipo di composti, può corrispondere una immediata perdita di efficacia del farmaco anti-tumorale, con rapida ricomparsa di metastasi.

La same ha rischio nullo ed è efficace

Il rischio di causare l’emergenza di effetti collaterali di tipo farmacocinetico, non è identico per tutti gli anti-

depressivi, ma può variare da composto a composto e, in linea generale, la sua entità non è correlabile al fatto che si tratti di una molecola di sintesi oppure un composto naturale. Infatti si è osservato che gli estratti di Hypericum hanno un rischio di causare interazioni farmacologiche tra i più elevati, così come anche del resto è stato evidenziato per il succo di pompelmo. Tra i composti impiegabili nel trattamento della depressione, si è visto che la SAMe presenta il rischio più basso (rischio nullo) di creare problemi di interazione farmacocinetica o farmacodina-mica con altri farmaci. Questa caratterstica si può rivelare pertanto particolarmente vantaggiosa nel trattamento di pazienti depressi, affetti in modo concomitante anche da altre patologie internistiche, per il trattamento delle quali siano pertanto in corso di assunzione altri composti più o meno numerosi.

Pertanto in questi casi di depressione in comorbidità con altri disturbi internistici, a parità di efficacia antidepressiva, la caratteristica della scarsità di interazioni farmacologiche può rappresentare un elemento determinante per il buon esito della cura.

L’efficacia antidepressiva della SAMe è stata testata in numerosi trial clinici condotti sia in disegno sperimentale aperto che con gruppi di controllo (sia verso placebo che verso altri antidepressivi). La valutazione cumulativa di queste casistiche è stata effettuata in 2 meta-analisi, dai cui risultati è emerso che la SAMe possiede un’efficacia che risulta superiore a quella del placebo e che è paragonabile a quella di altri comparatori attivi. Più recentemente sono stati effettuati 4 studi multicentrici, controllati, randomiz-zati per confermare l’efficacia della SAMe, condotti su popolazioni molto ampie e realizzati con estrema accura-tezza metodologica. Dai risultati di questi studi (MC3 ed MC4) è emerso che la SAMe, somministrata sia per via orale (MC3), sia per via i.m. (MC4), è in grado di esibire un’efficacia paragonabile a quella dell’imipramina, un golden standard tra i comparatori attivi, a tutto vantaggio però di una tollerabilità e di una sicurezza d’uso nettamente superiori.

Nuovi antidepressivi: Rischi di interazione

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La Same orodispersibile ha il vantaggio di fornire la migliore biodisponibilità di same

Dai dati degli studi MC3 ed MC4 è emerso che l’efficacia antidepressiva della SAMe è paragonabile a quella della depressione maggiore ma che la sua tollerabilità risulta nettamente superiore. Da questi due studi tuttavia è emerso che i dosaggi necessari affinchè questa buona efficacia si manifesti, appaiono nettamente differenziati a seconda che la SAMe venga somministrata per via orale (MC3) o per via i.m. (MC4). Infatti, laddove ricorrendo alla via i.m. per ottenere un’efficacia paragonabile a quella dell’imipramina è sufficiente una dose giornaliera di 400 mg, per raggiungere lo stesso risultato attraverso la via orale è necessario invece impiegare una dose giornaliera di 1600 mg. Questo comporta una serie di problemi, soprattutto riconducibili all’onerosità

della cura, che limitano l’uso della formulazione orale, avvan-taggiando invece quella i.m. È stato rilevato però che anche per la via di somministrazione i.m. esistono comunque una serie di problemi collegati all’accettabilità della cura. Questa necessità di somministrare dosi molto elevate per ottenere una buona efficacia quando si ricorre alla via di somministrazione orale, fondamentalmente dipende dal fatto che assunta per questa via la SAMe rivela una biodisponibilità molto scarsa, ostacolo superabile solamente ricorrendo a dosaggi molto alti. Il motivo della scarsa biodisponibilità per via orale è fonda-mentalmente riconducibile al fatto che, assunta per bocca, nel corso del primo passaggio epatico il fegato trattiene all’incirca il 60% della dose ingerita. È per questo motivo quindi che la somministrazione i.m., poiché non ha un primo passaggio epatico, raggiunge livelli di efficacia significativi ad una dose giornaliera di 4 volte inferiore (400 mg).

Recentemente è stata realizzata ed introdotta in commercio una formulazione orale di SAMe di tipo orodispersibile. Questa formulazione ga-rantisce un’assorbimento della SAMe attraverso il plesso venoso sub-linguale, che immettendo il sangue refluo direttamente in vena cava superiore, garantisce pertanto un’immissione del principio attivo direttamente nella grande circolazione, ottenuta attraverso un “salto” del primo passaggio epatico. Studi farmacocinetici in cui sono state messe a confronto la AUC re-lativa all’assunzione di una singola dose orale di SAMe di 200 mg orodispersibile e quella relativa all’assunzione di una dose analoga in compresse gastro-resistenti, hanno confermato che la formulazione orodispersibile garantisce effettivamente una biodisponibilità nettamente superiore della SAMe, che risulta paragonabile a quella che caratterizza la via di somministra-zione i.m.

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