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TRASFERIMENTI PUBBLICI IN MONETA VERSUS TRASFERIMENTI IN NATURA Donato Morea* JEL Classification: H23, H42 Parole chiave: Trasferimenti in moneta ed in natura 1. Il quadro di riferimento dell’analisi I trasferimenti pubblici 1 sono uno dei due principali strumenti, l’altro essendo le imposte, con cui le politiche del bilancio pubblico intervengono sulla distribuzione delle ricchezze, determinata dalla distribuzione dei diritti di proprietà e dalla accumulazione del risparmio, e dalla distribuzione dei redditi reali lordi prodotta dai mercati. La dottrina – scienza delle finanze – ha studiato sia i processi che conducono alle scelte degli obiettivi redistributivi delle politiche di bilancio, sia gli effetti economici prodotti dagli interventi redistributivi, così da conoscere la loro coerenza con gli obiettivi prescelti e gli eventuali altri effetti economici diversi da quelli che realizzano tali obiettivi. I risultati degli studi scaturiscono dal quadro di riferimento delle analisi, ovvero le motivazioni e i meccanismi delle scelte collettive delle politiche di bilancio, e il modello di funzionamento del sistema economico, basato sulle previsioni dei comportamenti (che si * Titolare di contratto di collaborazione didattica in Scienza delle Finanze presso la Facoltà di Economia della Luiss Guido Carli, Roma. 1 Nella letteratura sugli interventi redistributivi si definiscono trasferimenti pubblici in natura (o specifici, o di genere) i trasferimenti di risorse in beni e servizi dal settore pubblico ai beneficiari, o il sussidio pubblico al loro consumo; tali beni e servizi potrebbero essere (o sono) prodotti anche dal settore privato (servizi della sanità, dell’istruzione, dell’abitazione, del trasporto, beni alimentari, assistenza agli anziani ed altri servizi di interesse sociale). Si assume che il beneficiario non possa rivendere il bene o servizio perché altrimenti il trasferimento in natura sarebbe equivalente al trasferimento in moneta. A tali trasferimenti pubblici in natura vengono contrapposti i trasferimenti in moneta, che invece non impongono al beneficiario il consumo dei beni e servizi scelti dallo Stato. La questione della scelta se “sia più appropriato fornire al destinatario della spesa un trasferimento monetario o la prestazione di un servizio” è posta con chiarezza, ad es., da Bosi (2003), pp. 330-331: l’autore pone in evidenza che “anche nel caso di programmi di spesa rivolti a ridurre la povertà, non è affatto ovvio che sia più equo ed efficiente dare ai meno abbienti denaro oppure offrire loro beni o servizi. Dal punto di vista teorico questo aspetto costituisce un problema molto dibattuto”. Cfr. per le ipotesi adottate per il confronto tra i due tipi di trasferimenti Arachi (1993), pp. 591 e ss. e gli autori ivi citati. Tali definizioni di “trasferimenti” non coincidono, pertanto, con quelle impiegate nei documenti ufficiali della contabilità pubblica e nazionale. 261

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TRASFERIMENTI PUBBLICI IN MONETA VERSUS TRASFERIMENTI IN NATURA

Donato Morea*

JEL Classification: H23, H42 Parole chiave: Trasferimenti in moneta ed in natura 1. Il quadro di riferimento dell’analisi

I trasferimenti pubblici1 sono uno dei due principali strumenti, l’altro essendo le imposte, con cui le politiche del bilancio pubblico intervengono sulla distribuzione delle ricchezze, determinata dalla distribuzione dei diritti di proprietà e dalla accumulazione del risparmio, e dalla distribuzione dei redditi reali lordi prodotta dai mercati. La dottrina – scienza delle finanze – ha studiato sia i processi che conducono alle scelte degli obiettivi redistributivi delle politiche di bilancio, sia gli effetti economici prodotti dagli interventi redistributivi, così da conoscere la loro coerenza con gli obiettivi prescelti e gli eventuali altri effetti economici diversi da quelli che realizzano tali obiettivi. I risultati degli studi scaturiscono dal quadro di riferimento delle analisi, ovvero le motivazioni e i meccanismi delle scelte collettive delle politiche di bilancio, e il modello di funzionamento del sistema economico, basato sulle previsioni dei comportamenti (che si

* Titolare di contratto di collaborazione didattica in Scienza delle Finanze presso la Facoltà di Economia della Luiss Guido Carli, Roma. 1 Nella letteratura sugli interventi redistributivi si definiscono trasferimenti pubblici in natura (o specifici, o di genere) i trasferimenti di risorse in beni e servizi dal settore pubblico ai beneficiari, o il sussidio pubblico al loro consumo; tali beni e servizi potrebbero essere (o sono) prodotti anche dal settore privato (servizi della sanità, dell’istruzione, dell’abitazione, del trasporto, beni alimentari, assistenza agli anziani ed altri servizi di interesse sociale). Si assume che il beneficiario non possa rivendere il bene o servizio perché altrimenti il trasferimento in natura sarebbe equivalente al trasferimento in moneta. A tali trasferimenti pubblici in natura vengono contrapposti i trasferimenti in moneta, che invece non impongono al beneficiario il consumo dei beni e servizi scelti dallo Stato. La questione della scelta se “sia più appropriato fornire al destinatario della spesa un trasferimento monetario o la prestazione di un servizio” è posta con chiarezza, ad es., da Bosi (2003), pp. 330-331: l’autore pone in evidenza che “anche nel caso di programmi di spesa rivolti a ridurre la povertà, non è affatto ovvio che sia più equo ed efficiente dare ai meno abbienti denaro oppure offrire loro beni o servizi. Dal punto di vista teorico questo aspetto costituisce un problema molto dibattuto”. Cfr. per le ipotesi adottate per il confronto tra i due tipi di trasferimenti Arachi (1993), pp. 591 e ss. e gli autori ivi citati. Tali definizioni di “trasferimenti” non coincidono, pertanto, con quelle impiegate nei documenti ufficiali della contabilità pubblica e nazionale.

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assumono razionali) degli agenti economici. Nell’evoluzione degli studi della scienza delle finanze è prevalso, come riferimento, il modello neo-classico degli equilibri generali, fondato sulle assunzioni dell’utilitarismo individuale, che motiverebbe le scelte degli agenti economici, e dell’esistenza di mercati concorrenziali perfetti, che realizzano situazioni di equilibrio ottimale, prendendo come date (analisi statica) le preferenze dei consumatori e le loro dotazioni iniziali, le disponibilità dei fattori produttivi e delle tecnologie. Le realtà storiche hanno, però, ampliamente mostrato che vi sono molteplici situazioni in cui i mercati, benché lasciati liberi di operare, non riescono a conseguire equilibri ottimali. I cosiddetti “fallimenti del mercato” sono, perciò, la giustificazione principale, che si ritrova in letteratura, degli interventi pubblici nei sistemi ad economia di mercato, onde sanare tali “fallimenti” o ridurre gli effetti negativi2. Come è noto, l’esistenza dei beni pubblici, caratterizzati dalla non rivalità e dalla non escludibilità nel consumo, costituisce un caso di “fallimento del mercato”. Nella dottrina molto si è dibattuto sulle possibilità di sviluppare una teoria della finanza pubblica che sappia rendere coerente, nel suo ambito, l’assunzione comportamentale di base del modello economico di riferimento, che gli agenti massimizzano le loro funzioni di utilità, con la spiegazione delle scelte di bilancio dell’offerta di beni pubblici3; tale coerenza è necessaria perché resti valida la conclusione che il modello di riferimento produce risultati ottimali.

Anche la questione dell’“ottimalità” della distribuzione del reddito, e perciò della logica ed opportunità degli interventi pubblici redistributivi, 2 Come si legge in uno dei libri di testo oggi tra i più diffusi, “il quadro di riferimento utilizzato per analizzare gli effetti degli interventi pubblici è l’economia del benessere, la branca della teoria dell’economica che si occupa di stabilire la desiderabilità sociale di allocazioni economiche alternative…utile a distinguere le condizioni in cui si può attendere che il mercato funzioni adeguatamente da quelle in cui non produce i risultati desiderati”: H.S. Rosen (ed. italiana, 2003), p.21 3 Il problema di fondo è che occorrerebbe indurre gli individui a rivelare le loro preferenze relative ai beni pubblici. I principi del beneficio e quello della capacità contributiva non offrono indicazioni sufficienti ed operative. L’esame dei processi della decisione politica attraverso i meccanismi delle votazioni ha chiarito casi di indeterminatezza e arbitrarietà dei risultati, e differenti implicazioni dei diversi sistemi di votazione; ma non ha portato ad individuare le soluzioni che corrispondono alle preferenze vere degli individui ed a definire criteri oggettivi di scelta tra posizioni alternative sulla frontiera (cfr. per tali aspetti l’approfondita rassegna dello stato della teoria in Musgrave (1959), capp. 4,5,6 e le conclusioni a pp. 133-135). Osserva, inoltre, Bosi (2003, pp. 53,54): “Dal punto di vista normativo, il problema che maggiormente ha colpito gli economisti pubblici è stato lo studio delle relazioni tra processo del voto e formazione delle scelte sociali,ovvero la costruzione della funzione del benessere sociale…Il teorema dell’impossibilità di Arrow sembra dunque aver posto un ulteriore enorme ostacolo alla possibilità di definire dei criteri di formazione delle scelte collettive coerenti con i presupposti della teoria normativa della moderna Economia del benessere”. Cfr. inoltre il commento di Rosen (2003) pp. 80-81 sulle implicazioni del teorema di Arrow per l’impiego di una funzione del benessere sociale.

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risulta difficilmente trattabile (secondo parte della dottrina non è trattabile) all’interno del modello dell’equilibrio ottimale del sistema dei mercati concorrenziali. Il secondo teorema fondamentale dell’economia del benessere mostra che lo Stato può ridistribuire le dotazioni iniziali degli agenti economici in modo da ottenere la distribuzione ritenuta “equa” delle risorse; e che quindi attuata la redistribuzione, gli agenti se lasciati liberi di operare nei mercati perfettamente concorrenziali raggiungeranno l’allocazione delle risorse pareto-efficiente. Ma il teorema presuppone la specificazione della funzione del benessere sociale, che deve rappresentare le preferenze della società sulla distribuzione delle utilità dei singoli individui; e presuppone la non interferenza degli interventi redistributivi nelle scelte allocative (cosicché gli aspetti distributivi, o dell’ “equità”, possano essere tenuti separati da quelli allocativi, o dell’ “efficienza”). La validità di entrambi i presupposti è stata messa in discussione e da una parte della dottrina contestata4.

Sono state mosse rilevanti critiche al significato del concetto di “ottimalità paretiana” e all’impiego del concetto di “efficienza” riferito a tale definizione di “ottimalità”. Si è, infatti, contestata la pretesa “neutralità morale” del principio di Pareto, fondato logicamente sull’utilitarismo individuale, e si è quindi concluso che la “Pareto ottimalità non può essere

4 Scrive ad es. Rosen (2003), p. 36: “Nonostante l’economia del benessere fornisca il quadro generale a cui tradizionalmente si fa riferimento per riflettere sul ruolo dello Stato nell’economia, è vero che ci sono aspetti della stessa teoria che sono ancora oggetto di discussione. Innanzitutto, l’approccio si basa su una visione strettamente individualistica, che mette al centro di tutto l’utilità degli individui e la sua massimizzazione…con l’introduzione della funzione del benessere sociale”. Riguardo alle problematiche relative al trattamento della distribuzione separatamente dalla allocazione nell’ambito del modello neo – classico, esse sono sintetizzate di seguito nel testo e in particolare nel paragrafo 3, e nella nota 18. – Altre critiche sono state mosse all’applicabilità del teorema: quella all’ipotesi di informazione completa, sottostante al teorema (Arachi, 1993, pp. 594 e s.s.) è considerata più avanti. Bosi (2003), p. 29 efficacemente sintetizza: “In realtà, il valore del secondo teorema è prevalentemente di tipo negativo…Nella realtà in cui viviamo ci troviamo quasi sempre in situazioni di Second Best, dovute o all’assenza di condizioni di concorrenza perfetta o all’uso di strumenti non neutrali messi in atto per realizzare equilibri distributivi coerenti con la funzione del benessere sociale”. Tuttavia, lo studioso ritiene che “Dal punto di vista del metodo la rilevanza della distinzione tra efficienza ed equità conserva tuttavia un notevole valore euristico e può utilmente servire da guida nell’analisi dei problemi di finanza pubblica”. Peraltro tale valutazione, che è prevalente presso gli studiosi, non è accettata da quella parte della dottrina economica che sostiene l’infondatezza logica del modello neo-classico – a monte della discutibile applicabilità delle sue assunzioni alle economie reali – perché il sistema dei prezzi “efficienti” sarebbe, nel modello indeterminato, non essendo logicamente fondata la determinazione del tasso del profitto come misura della produttività marginale del capitale (quindi risulterebbe indeterminato anche il salario e tutto il sistema dei prezzi): vedi successivo paragrafo 3.

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considerata in generale una corretta approssimazione della nozione di efficienza”5.

Una corrente importante del pensiero economico ha affermato che è inaccettabile la pretesa “neo-classica” di trattare separatamente distribuzione ed allocazione delle risorse (i termini del dibattito sulla questione sono sintetizzati nel successivo paragrafo 3).

Peraltro, gli studiosi che rivolgono la loro attenzione al funzionamento dei sistemi economici reali necessariamente si trovano ad affrontare la questione della distribuzione del reddito e degli interventi pubblici attuati per modificarla; è questo un tema, infatti, che si è affermato storicamente, ma con esso l’impostazione neo-classica ha mostrato forti difficoltà a confrontarsi.

2. Gli interventi redistributivi nella teoria neo-classica della finanza pubblica Il tentativo più rigoroso e completo di costruire la teoria della finanza

pubblica sulle basi della teoria neo-classica e dei criteri di valutazione dell’ottimalità posti dalla economia del benessere, mi pare a tutt’oggi rappresentato dallo studio di R. A. Musgrave6.

5 Arachi (1993), p. 586, che annota: “l’analisi dovrebbe essere sufficientemente generale da contenere un ampio spettro di criteri benesseristi, dall’altro deve essere limitata per escludere ogni valutazione non benesserista” (ovvero, le uniche informazioni utilizzate dal ricercatore, nell’ordinare lo spazio dei risultati, devono essere le utilità individuali). Arachi riprende, in particolare, le analisi di Sen (1970, 1979, 1986), Dasgupta (1982), Petretto (1988), Zamagni (1986), e pone in evidenza che “l’assunzione che ha rilevanza morale solo ciò che ha effetto sulle utilità individuali è uno dei cardini dell’utilitarismo” me che essa “non è tuttavia compatibile con la maggior parte delle teorie etiche” (p. 585). Rinvio, inoltre, alle successive osservazioni a p. 18 e ss. di questo articolo. Stiglitz (2003), p.32 opportunamente ricorda che “Quando gli economisti parlano di efficienza, si riferiscono normalmente al concetto di efficienza paretiana”. 6 Musgrave (1959), definisce la sua una “teoria normativa dell’economia pubblica basata sulla premessa delle preferenze dell’individuo in una società democratica”, e riferita alla “regola di base che le risorse siano allocate in risposta alle domande effettive del consumatore, determinate dalle preferenze individuali e dal prevalente stato della distribuzione” (p. 13). Pertanto, la “funzione classica del bilancio pubblico” è quella assegnata, nel suo studio, alla “Branca allocativa” che deve provvedere ad assicurare i “necessari aggiustamenti nell’allocazione delle risorse fatta dal mercato”, ovvero nei casi dei “fallimenti del mercato”, tra essi l’offerta dei beni pubblici (pp. 6 e ss.). E’ da segnalare la cautela con cui Musgrave giustifica gli interventi pubblici, onde limitarne la portata: “Troviamo così una ampia serie di situazioni in cui il meccanismo del mercato involve vari gradi di inefficienza nell’allocazione delle risorse – inefficienze che sorgono collaterali alla soddisfazione dei desideri privati. Ciò nonostante, la soddisfazione di questi desideri nella più parte dei casi è meglio sia lasciata al mercato. A seconda della natura e severità di queste inefficienze un’azione correttiva può essere desiderabile e praticabile; ma questa azione quando è effettuata rimane più o meno marginale” (pp. 4,7,8).

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L’autore riconosce l’importanza dell’intervento pubblico redistributivo, che nella sua opera assegna alla apposita “Branca della distribuzione”, e afferma: “Nel formulare il bilancio della “Branca dell’allocazione”, assumiamo che esista uno stato iniziale desiderato o appropriato della distribuzione. Questo è necessario per due ragioni. Se non è dato lo stato della distribuzione, gli individui non possono trasferire le loro preferenze, sia per desideri privati sia per quelli pubblici, in una scheda di domanda effettiva. E se il dato stato della distribuzione non può essere accettato come quello appropriato, la risultante scheda della domanda effettiva non può essere accettata nel fornire una guida all’uso efficiente delle risorse. E’ compito della “Branca della distribuzione” determinare e assicurare lo stato appropriato della distribuzione”7. E conclude lo studioso: “deve essere predisposto un meccanismo con il quale le correzioni nello stato della distribuzione possono essere fatte in modo ordinato e tale da arrecare il minimo danno al funzionamento efficiente della economia. Tale meccanismo è dato dal sistema di imposte e trasferimento della Branca della distribuzione”8.

E’ interessante annotare che l’autore ricorda che vi sono altri strumenti dell’intervento pubblico che possono incidere nella distribuzione, come le norme sui salari minimi, il sostegno ai prezzi di determinati prodotti agricoli, la protezione tariffaria, le leggi sul commercio ed altri. Ma egli sottolinea la superiorità dell’intervento.del bilancio (imposte e trasferimenti) perché “questo approccio al trasferimento di reddito, se realizzato correttamente, involve un minimo di interferenza nell’allocazione delle risorse quale determinata dal sistema dei prezzi”9.

Pertanto, l’impostazione di Musgrave appare coerente con l’ipotesi fondamentale della teoria-neoclassica che l’allocazione efficiente delle risorse è determinata dalle preferenze individuali dei consumatori10; ed 7 Musgrave (1959), p. 17. 8 Musgrave (1959), p. 18. 9 Musgrave (1959), p. 18. L’autore aggiunge che l’azione di bilancio è anche più efficiente in quanto permette di raggiungere tutti i membri di ogni gruppo desiderato e non soltanto quelli coinvolti in particolari occupazioni o transazioni di mercato. 10 Nel trattare del compito della Branca della allocazione di promuovere la soddisfazione dei desideri sociali, con l’offerta di beni pubblici, l’autore pone la premessa che “gli individui possono valutare i desideri sociali, cioè che questi desideri formano parte delle scale di preferenza individuale insieme ai desideri privati…non vedo una ragione perché gli individui non possono valutare i benefici che derivano dalla soddisfazione dei desideri sociali, insieme alla valutazione dei benefici che discendono dalla soddisfazione dei desideri privati…la nostra proposizione basilare è che i desideri sociali sono parte integrante della struttura delle preferenze dell’individuo”. (Musgrave, 1959), p. 11. - Peraltro, lo studioso dopo avere approfonditamente analizzato sia il principio del beneficio sia quello della capacità contributiva, e quindi la determinazione del bilancio attraverso le regole del voto, come tecnica per indurre gli individui a rivelare le loro preferenze per i desideri sociali, conclude che il meccanismo del voto, insieme all’applicazione coercitiva del bilancio così deciso, “significa

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appare coerente con il secondo teorema dell’economia del benessere che implica la separazione logica tra criteri dell’efficienza allocativa e criteri di valutazione della distribuzione.

Tuttavia, nel procedere nell’analisi dell’operare della Branca della distribuzione, Musgrave correttamente pone in luce le difficoltà a trattare gli interventi redistributivi all’interno di un modello teorico fondato sulle massimizzazioni delle funzioni di utilità individuali. “La difficoltà è di decidere quale dovrebbe essere lo stato appropriato delle distribuzione”11, poiché non è decisione che può scaturire da un processo di mercato.

La funzione del benessere sociale di tipo utilitaristico può offrire indicazioni agli interventi pubblici redistributivi se si assume che tutti gli individui hanno uguale capacità di ritrarre utilità dal reddito12. Una funzione del benessere sociale che assume ad obiettivo la massimizzazione dell’utilità dell’individuo avente il più basso livello di utilità (il criterio del maximin) implica che si persegua l’uguaglianza nella distribuzione del reddito13. Entrambe le funzioni comportano che la redistribuzione del reddito migliori la condizione di alcuni ma peggiori quella di altri, e quindi violano il criterio paretiano dell’ottimalità.

Musgrave, ricordando i dubbi sul significato delle comparazioni interpersonali del benessere, considera anche il criterio della uguaglianza delle opportunità, ma ne rileva le differenti possibili interpretazioni (possibilità di educazione, opportunità di lavoro in base al merito, mobilità sociale ecc.). La conclusione dello studioso è che “il concetto di uno stato appropriato della distribuzione…porta in un insieme assai difficile di che la risultante soluzione non sarà ottimale” (p. 134). Inoltre, conclude che, anche se si potesse assumere che le vere preferenze degli individui sono conosciute, risulterebbe “necessaria una specifica funzione del benessere sociale per scegliere tra i punti sulla frontiera dell’utilità; poiché, dovendo la medesima offerta dei beni pubblici essere consumata da tutti, non vi è una singola soluzione ottimale per la quantità offerta e la distribuzione dei costi. Ma la scelta tra un numero di soluzioni che sono ottime nel senso che non è possibile migliorare la posizione di nessun membro della collettività senza danneggiare la posizione di qualcun altro, “di nuovo richiede un processo politico” (pp. 134-135). 11 Musgrave (1959), p. 19. 12 Se le funzioni di utilità sono identiche tra gli individui, e tutte hanno utilità marginale decrescente rispetto al reddito, e se è data la quantità di reddito disponibile, la funzione del benessere sociale additiva indica allo Stato la scelta di una redistribuzione tale da raggiungere l’uguaglianza dei redditi. 13 Può essere, però, accettata la disparità della distribuzione se essa implica per chi sta peggio una maggiore utilità rispetto all’ipotesi che si diminuisca la disuguaglianza distributiva (questo potrebbe avvenire se la redistribuzione avesse effetti negativi sugli incentivi): Rosen (2003), p. 98, che collega il “criterio del maximin” alla impostazione etica di Rawls (1971). Riguardo alla costruzione teorica di Rawls (1971), Bosi (2003), pp. 35-36 osserva che essa “non è tuttavia bene espressa dal solo principio del max-min citato”, perché nell’affermare il principio di libertà “Rawls trova il fondamento alla garanzia per ogni membro della società di un insieme fondamentale di diritti primari…Un principio che presenta forti affinità con il cosiddetto egualitarismo specifico”, che in questo articolo è considerato nei paragrafi 7 e 8.

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problemi etici, sociali ed economici. Inoltre…non è per nulla ovvio come misurare le posizioni economiche relative che si intendono correggere…il criterio più ampiamente accettato è il reddito, ma non è il solo possibile…e non è affatto ovvio come il reddito deve essere definito”14.

3. Distribuzione e allocazione nel modello neo-classico La difficoltà maggiore della impostazione neo-classica consiste

nell’assumere l’indipendenza degli obiettivi e degli interventi redistributivi da quelli dell’efficienza allocativa. Tale assunzione è necessaria per l’utilizzo delle funzioni del benessere sociale utilitaristiche. Già Musgrave aveva avvertito che “dobbiamo ammettere che il reddito totale (definito ad includere beni e riposo) disponibile per la distribuzione può esso stesso essere funzione dello stato della distribuzione”15.

Invero, questa non è solo questione degli effetti (importanti) della redistribuzione sugli incentivi; è un aspetto della generale interdipendenza tra distribuzione e produzione16 che pone dubbi sulla coerenza interna del modello neo-classico e sul significato operativo del secondo teorema dell’economia del benessere. Ancora Musgrave riconosce17 che il programma della Branca dell’allocazione dipende dalla struttura delle domande effettive risultante dalle correzioni apportate dalla Branca della distribuzione, e che il programma di questa a sua volta dipende dalla determinazione dei redditi dei fattori nel mercato, su cui influiscono le politiche per l’allocazione.

Sono riconoscimenti che, ritengo, aprono essi stessi la strada ad accogliere alla critica di fondo che nella teoria economica è stata mossa alla determinazione della distribuzione del reddito nel modello neo – classico. Nella soluzione di equilibrio del modello, le remunerazioni dei fattori produttivi (per semplicità, saggio del salario e del profitto) sono uguagliate alle loro produttività marginali, queste determinate dalle relative offerte e domande dei fattori e dalle tecnologie (assunte come date). Se si accetta la critica che, tale spiegazione della distribuzione del reddito è logicamente incoerente - in estrema sintesi, perché la determinazione della produttività marginale del capitale presuppone si conosca il suo valore, e questo presuppone un determinato tasso del profitto (il ragionamento diviene circolare)18– si deve concludere che la distribuzione è, in tale modello,

14 Musgrave (1959), p. 20. 15 Musgrave (1959), p. 20. 16 Su questo tema cfr. le osservazioni critiche di Leccisotti – Pedone (2002), p. 13-23, che sottolineano “come il problema stesso dell’efficienza sia intimamente legato a quello della distribuzione”. 17 Musgrave (1959), p. 21. 18 La polemica tra la teoria neo-classica e le teorie che non accettano l’affermazione che il prezzo del capitale (tasso del profitto) corrisponde alla sua produttività marginale, ha

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indeterminata, e quindi lo è il sistema dei prezzi, che dovrebbe invece garantire l’allocazione “efficiente” delle risorse.

Parte della teoria economica pone, dunque, seri ostacoli ad accogliere e legittimare la distinzione, all’interno del medesimo schema teorico (il modello neo-classico) tra processi dell’allocazione e processi della distribuzione, e quindi a legittimare la distinzione tra le valutazioni dell’equità dell’intervento pubblico e quelle della sua efficienza nell’ambito dello stesso modello economico di riferimento. Il sistema dei prezzi relativi, che nella teoria degli equilibri concorrenziali ottimali guida gli agenti economici alla efficiente allocazione delle risorse, è il sistema medesimo che esprime la distribuzione (come insegnavano gli economisti classici)19.

Nel cercare di dare sistematicità e coerenza alla teoria della finanza pubblica collocata nell’ambito della teoria economica neo-classica, Musgrave incontra evidenti (a mio parere) difficoltà quando deve riconoscere le “ interdipendenze” tra gli obiettivi e le azioni della Branca allocativa e quelli della Branca distributiva. Riferendosi alla funzione primaria della Branca allocativa, cioè la soddisfazione dei desideri sociali (l’offerta di beni pubblici) l’autore afferma che “data la distribuzione dei reddito, possiamo

punteggiato l’evoluzione del pensiero economico. Il dibattito teorico è stato particolarmente acceso negli anni ‘50 e ’60. La teoria neo-classica è stata, in quel periodo, contestata con particolare vigore e ricchezza di argomentazioni soprattutto dagli economisti neo-keynesiani e neo-ricardiani (e neo-marxiani) della scuola di Cambridge (Inghilterra), tra i quali si ricordano gli allievi diretti di Keynes, Kahn e J. Robinson, inoltre Kaldor e, in posizione di primissimo piano gli economisti italiani Sraffa, Garegnani e Pasinetti. 19 La critica alla validità del modello neo – classico e all’ottimalità degli equilibri generali concorrenziali investe, oltre alla questione della distribuzione, le assunzioni che le preferenze individuali e le tecnologie sono date, esogene al modello in cui si determinano i prezzi relativi e quindi gli assetti allocativi e distributivi. Invero, gli economisti classici erano pienamente consapevoli che chi ha la proprietà del capitale decide sulla sua accumulazione e sulle direzioni del suo impiego, quindi decide anche sulle tecnologie da sviluppare. I prezzi relativi dei fattori, determinati dalla loro rispettiva “forza contrattuale”, contribuiscono, inoltre, a formare le convenienze relative a quali tecnologie impiegare nei processi produttivi (e quando). I contributi più recenti alla teoria dello sviluppo hanno sottolineato la rilevanza, tra le variabili esplicative del progresso tecnologico, del capitale umano (il progresso tecnologico fondato sulle conoscenze). Inoltre, gli indirizzi ed il controllo delle tecnologie e dei moderni mezzi di comunicazione di massa sono tra i fattori determinanti gli “stili di vita”, ovvero i “gusti” (preferenze) dei consumatori, che sono indotti ad assumere tali preferenze. Anche le politiche pubbliche relative ad infrastrutture, ambiente, regolazione degli insediamenti nel territorio, contribuiscono a determinare tali “stili di vita”, o forse più spesso ad assecondare e facilitare quelli proposti dalle imprese che guidano l’evoluzione tecnologica e le direzioni di impiego del capitale. Il principio della “sovranità del consumatore”, che costituisce uno dei fondamenti culturali della costruzione neo-classica (ad esso fa esplicito riferimento Musgrave, come si è ricordato alle note 6 e 10), tende a perdere significato se lo si confronta con le esperienze anche degli ultimi decenni, che hanno evidenziato significativi cambiamenti degli stili di vita e di consumo e la loro crescente diffusione, con le nuove possibilità tecnologiche della comunicazione di massa, nel contesto globale. Tali considerazioni sono riprese nel paragrafo conclusivo.

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visualizzare un insieme effettivo di schede di domanda per la soddisfazione dei desideri sociali”, e quindi “sappiamo che esiste un insieme di soluzioni ottimali per la loro soddisfazione. Sicuramente, la scelta tra queste soluzioni ottimali ancora involve considerazioni distributive”. Pertanto, egli riconosce che “i problemi della Branca dell’allocazione e della distribuzione non possono essere nell’insieme separate”. Ma conclude che “allo stesso tempo la determinazione di queste soluzioni ottimali può essere trattata più prontamente in termini economici, che quella della distribuzione appropriata” e quindi che “una separazione delle Branche della allocazione e della distribuzione rimane consigliabile”20 .

A mio parere, tale conclusione non è convincente, perché la necessità di formulare giudizi di valore al momento delle scelte non esclude la necessità di scelte consapevoli, ovvero di conoscere, attraverso l’analisi economica, i processi che determinano la distribuzione, nelle interdipendenze con i processi dell’allocazione (parte della teoria, si è ricordato, respinge l’uguaglianza teorica della remunerazione dei fattori alle produttività marginali, che consentirebbe di determinare la soluzione distributiva e quella allocativa all’interno del medesimo modello). Mi sembra, piuttosto, che tale conclusione contiene il presupposto per riconoscere validità all’affermazione che “il mercato e il procedimento politico costituiscono due metodi alternativi per l’impiego delle risorse”21.

E’ affermazione che, nella sostanza, si rileva nella teoria stessa di Musgrave, dove l’autore – pur cercando di limitarne la portata22 (ovvero di limitare il danno alla unitarietà della teoria neo-classica della finanza pubblica) – riconosce, tra i desideri soddisfatti dal bilancio pubblico, anche la particolare categoria dei “desideri meritori”: infatti, “la soddisfazione dei desideri meritori (merit wants), per sua stessa natura, involve l’interferenza nelle preferenze dei consumatori”23. Essi non rispettano, perciò, la logica dell’utilitarismo individualistico; e contraddicono la logica neo-classica dell’autore, quando egli afferma che “come questione concettuale le schede di domanda individuale per i servizi offerti nella soddisfazione dei desideri pubblici possono essere derivati dalla struttura d’indifferenza delle preferenze

20 Musgrave (1959), pp. 134-135. Appaiono significative, a indiretto commento, le osservazioni di Stiglitz (2003), p. 72: “Alcuni economisti ritengono che la teoria economica dovrebbe focalizzare la propria attenzione esclusivamente sull’analisi di tipo positivo, sulla descrizione delle conseguenze dei programmi pubblici e della natura dei processi politici, piuttosto che sull’analisi normativa, relativa a ciò che lo Stato dovrebbe fare. Peraltro, i dibattiti degli economisti (e di altri) sul ruolo che lo Stato “dovrebbe” svolgere sono una parte importante del processo politico nelle democrazie moderne”. 21 Leccisotti, Pedone (2002), p. 18. 22 Come è esposto di seguito nel testo. 23 Musgrave (1959), p. 13. La rilevanza dei “desideri meritori” nella critica all’impostazione utilitaristica è approfondita nei paragrafi 6 e 7.

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individuali, così come sono derivate le schede di domanda per i servizi offerti nella soddisfazione dei beni privati”24.

Di questa rottura dell’unitarietà logica dell’impostazione neo-classica, causa il riconoscimento dei “desideri meritori”, Musgrave appare consapevole. “Un differente tipo di intervento si attua quando la politica pubblica punta ad una allocazione delle risorse che devia da quella riflessa dalla sovranità del consumatore”, ovvero nell’offerta di beni e servizi che potrebbero essere offerti dal mercato, ma non lo sono: “la ragione, quindi, per l’azione di bilancio è di correggere la scelta individuale”25. In contrapposizione logica a tale categoria dei “merit wants”, Musgrave ribadisce che la gran parte dei “social wants” sono costituiti dai “pubblic wants” che, pur non potendo essere soddisfatti dal mercato, perché i relativi beni non hanno le proprietà della rivalità ed escludibilità nel consumo, tuttavia ricadono logicamente, a differenza dei “merit wants”, “nel regno della sovranità del consumatore, così come la soddisfazione dei desideri privati”26 .

Ma, riconosciuta la categoria dei “desideri meritori”, risulta evidente, nell’opera di Musgrave, la preoccupazione di salvaguardare la generalità della teoria neo-classica dell’allocazione efficiente delle risorse, conseguita attraverso i processi di massimizzazione delle funzioni di utilità degli agenti economici. La preoccupazione è esplicita quando l’autore cerca di circoscrivere ed affievolire l’importanza dei “merit wants” rispetto all’insieme dei “social wants” (ricordiamo ancora che, almeno in linea di principio, le offerte dei beni per soddisfare i “desideri pubblici” possono essere derivate dalla struttura delle preferenze individuali).

Afferma l’autore: “Il fenomeno dei desideri meritori non è così generale come può sembrare a prima vista. Quelli che appaiono essere “merit wants” sono in molti casi “social wants”, perché – l’autore cita gli esempi dei servizi dell’educazione e della sanità forniti gratuitamente – non solo il particolare allievo o paziente, ma ciascuno trae guadagno dal vivere in una comunità più educata o più sana; ovvero l’autore si riferisce a situazioni configurabili come casi di interdipendenza delle utilità individuali27.

24 Musgrave (1959), p. 133. 25 Musgrave (1959), p. 9. 26 Musgrave (1959), pp. 13, 133-135. 27 Musgrave (1959), p. 89 e p. 13. L’autore afferma inoltre che “la soddisfazione dei merit wants è frequentemente associata a considerazioni distributive” (p. 21) e aggiunge che “la determinazione dei merit wants è realizzata nello stesso processo di votazione relativo ai social wants” (p. 135). La scelta degli interventi pubblici per soddisfare i “desideri meritori” parteciperebbe, dunque, frequentemente alle difficoltà, suesposte, di scegliere interventi redistributivi compatibili con gli schemi neo-classici dell’allocazione efficiente fondati sui criteri della massimizzazione delle utilità individuali.

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Lo studioso di scuola neo-classica che ritiene, che il riconoscimento dei “merit wants” – con le suesposte precisazioni di Musgrave limitative della loro importanza – ed inoltre che le ricordate difficoltà a trattare della distribuzione nell’ambito del modello dell’ottimalità paretiano, tuttavia non inficiano la validità interpretativa e normativa di tale impostazione neo-classica, ritiene perciò legittima nel suo ambito l’analisi della questione dei trasferimenti pubblici redistributivi.

A tale tipo di analisi sono dedicati i due prossimi paragrafi; in quelli successivi la questione sarà riformulata nell’ambito di impostazioni alternative, non fondate sull’utilitarismo individuale e sui criteri dell’ottimalità paretiana.

4. I trasferimenti pubblici in moneta: la tesi della loro superiorità Gli interventi pubblici economici, attraverso il bilancio, quando non

realizzano l’offerta di beni pubblici, generalmente sono attuati o nella forma di trasferimenti in moneta (prestazioni pensionistiche, indennità di malattia o di disoccupazione, sussidi assistenziali, sgravi tributari, trasferimenti alle imprese e simili) oppure nella forma di trasferimenti di risorse in natura (detti anche specifici o di genere)28, di cui sono esempi i servizi sanitari gratuiti, l’istruzione obbligatoria pubblica, l’edilizia pubblica ed i servizi abitativi, l’offerta gratuita di pasti, servizi di trasporto, servizi per la gestione del tempo libero e di specifici servizi alla persona. Si suole assumere che il beneficiario del trasferimento in natura non possa rivendere sul mercato il bene o servizio ricevuto perché se ciò fosse possibile il trasferimento formalmente in natura assumerebbe il significato economico del trasferimento monetario (se esiste la possibilità tecnica della rivendita, ma essa è soggetta a divieti giuridici, sorge il pericolo che si formino mercati illegali, ad es. dei prodotti medicinali, del materiale scolastico e persino, se i controlli sono carenti, dei servizi abitativi).

Dalle considerazioni svolte nei precedenti paragrafi segue che nell’impostazione neo-classica (utilitaristica) della teoria della finanza pubblica “è difficile trovare una giustificazione dei trasferimenti in forma specifica. E’ infatti possibile dimostrare che in generale è meglio realizzare un trasferimento di risorse a favore di un individuo utilizzando lo strumento monetario e non imponendo il consumo di un certo bene. La ragione è coerente con uno dei cardini di quella teoria: la superiorità dell’individuo nel giudicare il proprio benessere e quindi la maggiore libertà di scelta che viene consentita attraverso lo strumento monetario”29. Pertanto, “la teoria economica ritiene preferibili i trasferimenti monetari. I trasferimenti, o la

28 Cfr. la precedente nota 1. 29 Bosi (1996), p. 108.

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distribuzione, in natura sono infatti equivalenti o inferiori a quelli monetari. Sono inferiori quando obbligano gli individui a consumare un particolare bene in quantità diversa da quella desiderata. Sono equivalenti quando, non modificando le scelte dei consumatori, riproducono gli stessi risultati di quelli monetari”30.

Invero, si possono configurare casi in cui, per talune strutture delle preferenze dei beneficiari, i trasferimenti in natura, anche nella teoria tradizionale neo-classica, non risultano inferiori a quelli in moneta: questo avviene quando la restrizione imposta al beneficiario di consumare almeno un dato livello del servizio (o bene) offerto dal bilancio pubblico equivale ad un livello di consumo di quel servizio non superiore a quello che il beneficiario avrebbe scelto (date le sue preferenze) se avesse ottenuto un trasferimento in moneta. In tale ipotesi, infatti, le scelte razionali del beneficiario del trasferimento in natura lo situano al medesimo livello di utilità che nell’ipotesi di trasferimento in denaro equivalente ( ai prezzi di mercato).

In tali casi in cui i trasferimenti in natura non sono teoricamente “inferiori”, perché non modificano le scelte del consumatore, rispetto a equivalenti trasferimenti in moneta, è stato osservato che la scelta del “policy maker” potrebbe avere riguardo ai costi e all’efficacia della gestione dell’intervento. Da un lato, la gestione dell’intervento redistributivo in natura potrebbe avere costi amministrativi elevati. Dall’altro lato, l’individuazione del beneficiario del trasferimento, quanto al possesso dei requisiti (situazione di povertà singola e/o familiare, impedimenti obiettivi ad un’attività lavorativa sufficientemente remunerativa, ecc.), risulta più agevole nei confronti del beneficiario del trasferimento in natura, perchè il servizio o bene non è (tecnicamente o giuridicamente) rivendibile nel mercato, o perchè il suo consumo è legato a condizioni ambientali di povertà (ad. es. l’alloggio in edilizia popolare, la fruizione dei buoni pasto o mense, ecc.) assai spesso non accettabili da chi non è in povertà ma tenterebbe di figurare per ottenere, invece, sussidi in moneta31.

E’ opportuno, pertanto, riprendere lo schema logico di riferimento, per gli interventi redistributivi valutati con i criteri dell’ottimalità Paretiana, rappresentato dal secondo teorema fondamentale dell’economia del

30 Artoni (1999), p. 296. Bosi (2003), pp. 331-332; Rosen (2003), pp. 100-103. 31 Cfr. ad es. Rosen (2003), p. 104. Nel prossimo paragrafo si considerano i tentativi di incorporare in schemi dell’ottimalità paretiana aspetti importanti per le decisioni del “policy maker” quali l’asimmetria delle informazioni. Bosi (2003), pp. 332-333, osserva inoltre che, anche mantenendo la logica dell’impostazione neo-classica, i trasferimenti specifici risultano giustificabili quando vi siano esternalità positive di un particolare consumo, e non siano disponibili (nella realtà) imposte di tipo “lump sum”. Si può osservare che alcune limitazioni dell’analisi neo-classica sono state da tempo poste in luce nel valutare il significato e la portata dell’ “eccesso di pressione delle imposte indirette”.

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benessere. Il teorema implica che ogni allocazione ottimale, in senso Paretiano, può essere conseguita dallo Stato scegliendo un insieme di trasferimenti monetari (“lump sum”, e assumendo che essi non abbiano costi) così da modificare la distribuzione ma lasciando quindi ai mercati di determinare i prezzi efficienti di equilibrio. “I trasferimenti di genere non dovrebbero quindi essere utilizzati perché o il risultato da essi generato è replicabile da un vettore di trasferimenti monetari o è interno alla frontiera”32.

Come abbiamo già ricordato (pp. 2 e ss.) le assunzioni su cui si fonda la validità del teorema sono molte e appaiono per lo più restrittive (irrealistiche) se poste a confronto con la realtà dei sistemi economici nei quali il “policy maker” deve prendere le sue decisioni riguardo alle forme della redistribuzione.

Invero, l’economia del benessere, “ la branca della teoria economica che si occupa di stabilire la desiderabilità sociale di allocazioni economiche alternative”33, ha concentrato l’analisi sulle ipotesi dei “fallimenti del mercato”. Nella sua analisi sistematica delle cause di insufficienza del mercato “ciascuna delle quali è stata usata per giustificare la possibilità di un intervento pubblico nel mercato”, Stiglitz enumera otto possibili cause, di cui “le prime sei sono relative a circostanze nelle quali il mercato può non essere efficiente in senso paretiano (insufficiente concorrenza; monopolio; beni pubblici; esternalità; mercati incompleti; carenza di informazione)”;mentre “le ultime due descrivono situazioni in cui l’intervento pubblico può essere giustificato anche se l’economia è efficiente in senso paretiano”34: “fallimento macroeconomico” e “redistribuzione e beni meritori”.

La letteratura che ha esaminato gli interventi pubblici per correggere le inefficienze del mercato nel senso Paretiano (mantenendo, quindi, la logica neo-classica della analisi) presenta riferimenti puntuali ai casi dei mercati incompleti, delle esternalità e delle asimmetrie informative35. Nel campo della sanità si rileva che ai servizi per la salute sono associate forti esternalità positive; e inoltre che i singoli hanno informazioni imperfette sul loro stato di salute e sulle cure adeguate (e il rischio di sbagliare è alto e può avere conseguenze gravi)36. Esternalità e insufficienze informative (e di offerta, quanto alla distribuzione territoriale del servizio), possono essere addotte a giustificazione degli interventi pubblici nel servizio dell’istruzione. Le

32 Arachi (1993), p. 592. 33 Rosen (2003), p. 21. 34 Stiglitz (1989), p. 115 e ss. e (2003), pp. 66-67. 35 Si hanno mercati incompleti quando vi è un bene o servizio che non è offerto dal mercato privato, benché vi siano consumatori disponibili a pagare un prezzo che copre il costo di produzione. L’assenza o incompletezza di un mercato può dipendere da informazioni asimmetriche tra le parti coinvolte nella transazione (si suole fare l’esempio delle assicurazioni). 36 Bosi (2003), p. 372.

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carenze informative e l’incompletezza dei mercati stanno anche alla base delle giustificazioni (compatibili con lo schema logico neo-classico) dell’intervento pubblico nel sistema previdenziale.

5. La superiorità dei trasferimenti in natura in modelli di ottimalità paretiana Agli inizi degli anni ’80 diversi studiosi hanno analizzato situazioni in

cui “è troppo costoso per lo Stato acquisire le informazioni necessarie per determinare gli opportuni trasferimenti personalizzati in somma fissa e gestire la struttura burocratica necessaria per la loro realizzazione”37.

Approfondendo l’analisi compiuta sull’ipotesi che vi sia incompletezza dell’informazione presso l’Autorità, si è posto in luce “un tipico problema di selezione avversa: gli agenti si rendono conto che l’obiettivo del governo è di assegnare le allocazioni in base a delle caratteristiche che non conosce”; gli agenti potranno quindi “manipolare il meccanismo di allocazione al loro favore. Il comportamento massimizzante diviene quindi un vincolo per le possibilità redistributive del decisore. E’ noto che in presenza di questi vincoli occorre cercare di sfruttare le differenze nelle preferenze che sono correlate con le caratteristiche rilevanti. Gli insiemi di bilancio individuali dovranno essere disegnati in maniera tale che il consumatore di un dato tempo scelga liberamente il paniere che si desidera assegnarli”38.

Un’esemplificazione stilizzata è stata presentata da Blackorby – Donaldson39, riprendendo e sviluppando le analisi di precedenti autori40. I due studiosi hanno dimostrato che, accogliendo le assunzioni del modello paretiano degli equilibri generali, ma abbandonando l’assunzione che lo Stato possieda informazioni perfette sulle preferenze dei consumatori, i trasferimenti pubblici in natura risultano generalmente preferibili (“superiori” secondo i criteri della ottimalità paretiana) a quelli in moneta. La ragione è che anche i soggetti che non avrebbero, nella realtà, in requisiti in base ai quali lo Stato intende assegnare i trasferimenti redistributivi, possono essere indotti a pretendere di possedere tali requisiti, allo scopo di migliorare la loro posizione economica, ottenendo trasferimenti in moneta. Tali comportamenti sono da escludere (perché non razionali), quando invece i trasferimenti sono effettuati in natura e si può assumere che per le loro caratteristiche tecniche (ad es. servizi alla persona: insegnamento, assistenza medica personale e simili), oppure per divieto fatto rispettare, i beni e servizi trasferiti dallo Stato

37 Arachi (1993), p. 594 e la letteratura ivi citata. 38 Arachi (1993), p. 595. 39 Blackorby – Donaldson (1988). 40 Cfr. gli autori citati in Blackorby – Donaldson (1988) e in Munro (1992).

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non sono rivendibili sul mercato41. I due autori utilizzano gli schemi dell’analisi degli equilibri ottimi paretiani in un modello che stilizza la suddivisione della popolazione in un tipo rappresentativo di individuo sano e in uno di individuo malato; epperò abbandona l’ipotesi che lo Stato abbia informazione completa sulle condizioni dei due tipi di individui42: si ammette, quindi, la possibilità che il “sano” possa trovare conveniente dichiararsi “malato” e viceversa43.

In tale modello i due autori dimostrano che utilizzando la redistribuzione in natura: a) esistono soluzioni di first best che appartengono anche alla frontiera delle allocazioni di second best (quando i livelli di utilità dei due individui non sono molto diversi). Le allocazioni che sono insieme second best optima e first best favoriscono l’individuo sano, che rimane sulla frontiera di utilità di “first best”, rispetto a quello malato44. b) Esistono allocazioni di second best, che perciò soddisfano i vincoli di autoselezione, che non sono soluzioni di first best; per tali soluzioni “il servizio medico è sovraprodotto, eccedente la quantità di first best (il saggio marginale di sostituzione per l’individuo malato è minore del saggio marginale di trasformazione), ovvero il consumatore è “forzato” a consumare

41 Osserva Munro in conclusione del suo lavoro (1992), p. 1196 che “l’appropriato focus di ricerca negli schemi di trasferimenti in natura dovrebbe essere sul tema della trasferibilità”: la questione è ripresa più avanti. 42 Il modello assume che sono offerti ai consumatori, rappresentati dai due individui (sano e malato) due panieri alternativi di beni: il primo, destinato all’individuo sano, contiene soltanto reddito monetario, il secondo contiene anche cure mediche che non possono essere rivendute. Se lo Stato dispone di informazione piena sulle preferenze dei consumatori, esistono soluzioni di ottimo paretiano (“first best”), in un economia convessa con mercati perfetti, realizzando l’uguaglianza, per l’individuo malato, del tasso marginale di sostituzione con quello di trasformazione dei bene sanitario. Se vi è informazione perfetta è dunque applicabile il secondo teorema dell’economia del benessere (non considerando le critiche “esterne” ai presupposti su cui è costituito il teorema) e pertanto resta soluzione preferibile, in senso paretiano, la redistribuzione con trasferimenti in moneta. 43 I citati autori assumono, pertanto, che lo Stato non conosce quali individui sono sani e quali malati, ma è limitato alla conoscenza della proporzione di ciascuno dei due tipi nella popolazione: Blackorby – Donaldson (1988), p.692. L’individuo “sano” (o “malato”) trova conveniente dichiararsi “sano” (o “malato”) se con tale dichiarazione ottiene una utilità maggiore di quella che otterrebbe dichiarandosi “malato” (o “sano”). La massimizzazione delle utilità individuali è perciò soggetta ai vincoli della autoselezione. Una chiara presentazione di tale modello, che ne coglie i significati essenziali, è in Artoni (1999), pp. 296 e ss. 44 Gli autori annotano, pertanto, che il giudizio di preferibilità delle allocazioni di “second best” che sono anche “first best”, rispetto alle altre allocazioni di “second best”, richiede “addizionali criteri etici” (rispetto a quelli dell’utilitarismo individuale su cui è fondato il modello) da cui ricavare la preferenza tra le differenti soluzioni distributive (p. 698).

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i servizi sanitari oltre il livello che egli sceglierebbe nella posizione di equilibrio di “first best” e con un reddito monetario equivalente45. c) Ne consegue che nei casi delle allocazioni di ottimo secondo, che rispettano il vincolo di autoselezione per l’individuo sano, la disponibilità a pagare al margine, per ottenere una dose addizionale di servizio sanitario, non è un test appropriato (ancorché utilizzato nelle analisi “costi-benefici”) per valutare i programmi sanitari pubblici.

Tale analisi consente ai citati autori di procedere al confronto delle soluzioni allocative di “second best”, raggiungibili con la redistribuzione in natura, con le soluzioni ottenibili invece con la redistribuzione in moneta46. Per rappresentare il secondo caso gli autori suppongono che lo Stato fissi un prezzo al quale i servizi sanitari possono essere venduti nel mercato. Assumendo che l’informazione è imperfetta, lo Stato può usare il prezzo del servizio sanitario per modificare la distribuzione (delle utilità, nella concezione “benesserista”) rispettando il vincolo di autoselezione, che impone che il valore dei due panieri di consumo47, offerti ai due individui rappresentativi, siano uguali (altrimenti l’individuo di un tipo pretenderebbe di figurare appartenente all’altro tipo).

Gli autori dimostrano che in tali ipotesi – escludendo il caso della uguale distribuzione del reddito – esistono con la redistribuzione in moneta allocazioni ottimali di “third best”, ma che ciascuna di tali allocazioni è dominata da una soluzione di “second best” ottenibile con la redistribuzione in natura. Pertanto, in tale modello le soluzioni di mercato, attraverso i trasferimenti in moneta risultano inferiori (secondo i criteri paretiani) a quelle ottenute attraverso il trasferimento in natura di beni o servizi (non rivendibili nel mercato).

E’ interessante la conclusione che gli autori ne traggono: “le nostre intuizioni sulla politica sociale sono formate in un mondo di imperfezioni. Così le accuse di paternalismo contro chi favorisce l’offerta sociale razionata48di beni come il servizio sanitario possono essere malposte”49.

Raccogliendo tale conclusione dei due citati autori, mi pare che l’interrogativo da porre è se nel nostro reale “mondo di imperfezioni” – ben diverso da quello della “economia perfetta” rappresentato nella costruzione

45 Blackorby – Donaldson (1988), pp. 694 – 696. Questo perchè se si ricorresse, in alternativa, a maggiori trasferimenti monetari essi indurrebbero l’individuo sano a fingersi malato. 46 Si ricorda che i consumatori beneficiari dei trasferimenti in natura sono “ razionati”, cioè non possono, per ipotesi, rivendere tali servizi sul mercato o acquistarne di più: Blackorby – Donaldson (1988), pp. 696 – 698. 47 Un paniere contiene anche il bene sanitario. 48 Ricordiamo che con il termine “razionamento” si intende che la quantità effettivamente consumata del bene o servizio in offerta razionata deve essere minore o uguale a quella fissata. Il caso è riferibile all’offerta del servizio sanitario pubblico. 49 Blackorby – Donaldson (1988), pp. 692.

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logica di Walras-Pareto – abbia un significato operativo, utile alla formulazione delle concrete politiche sociali, l’abbandonare una delle condizioni dei mercati perfetti (nel modello esaminato, l’informazione perfetta) per ricercare, mantenendo ferme le altre condizioni dell’economia perfetta, le conseguenti soluzioni “ottimali” ( di “first, second, third best”).

Che “i trasferimenti in natura possono scoraggiare le domande da parte di chi non ha i titoli per fare richiesta”, mentre “alcuni di coloro che appartengono alla classe media sono disposti a mentire per ottenere denaro”50, è osservazione di buon senso raggiungibile senza necessità di affidarsi al modello neo-classico dell’ottima allocazione delle risorse.

Analoghe osservazioni possono essere rivolte al successivo (cronologicamente) modello di Munro51 che intende mostrare il carattere di generalità degli schemi di autoselezione, rispetto al citato lavoro di Blackorby – Donaldson e ad altri52, che utilizzano esempi specifici in un modello a due beni e due agenti. La tesi di Munro è che gli schemi ottimali di autoselezione tipicamente involvono un trasferimento in natura ed una tariffa per il servizio. L’autore dimostra che53 tali schemi dominano, secondo i criteri paretiani, il sistema di tassazione (e sussidio) lineare. Peraltro, l’analisi di Munro conduce anche al risultato che, in generale, schemi di trasferimento in natura senza tariffazione sono paretianamente inferiori alle imposte lineari ottimali54.

50 Rosen (2003), p. 104. D’altra parte, osserva Bosi (2003, p. 332, già citato alla nota 31) che la realtà mostra altri casi di imperfezione (“fallimenti”) del mercato, ad esempio le esternalità del consumo, tipiche del settore sanitario. 51 Munro (1992). 52 Cfr. i riferimenti bibliografici a precedenti lavori, tra cui quello citato di Blackorby – Donaldson: Munro (1992), pp. 1184-5; 1191-2. 53 L’autore rappresenta una situazione in cui lo Stato applica un’imposta lineare sul reddito e un trasferimento. La soluzione ottimale si ottiene massimizzando la funzione utilitaristica del benessere sociale nel rispetto del vincolo di bilancio. Semplificando con il caso di due beni e due agenti, di cui uno ha più alta produttività e reddito e paga l’imposta, mentre l’altro riceve un trasferimento netto, lo Stato – che possiede informazione incompleta – può attraverso il trasferimento in natura costruire per l’agente più povero il vincolo di bilancio che lo fa consumare il paniere corrispondente all’obbiettivo pubblico redistributivo nel rispetto del vincolo del bilancio pubblico. Cfr. anche l’esposizione di tale modello semplificato in Artoni (1999), pp. 297-9 e in Arachi (1993), pp. 595-6. 54 Riprendendo lo studio di Atkinson – Stiglitz (1980), Munro sintetizza la formula della imposta lineare ottima come: cov [b, xjh/(Xj/H)] = - Dj, dove: cov indica la covarianza, b è l’utilità netta marginale sociale del reddito; h = 1,…, H rappresenta ciascun consumatore, Xj è il consumo totale del bene jmo; mentre la parte sinistra dell’equazione, tipicamente negativa, può essere espressa da Dj = ∑h (djh /H), dove djh ≡ - ∑tisij (t è aliquota dell’imposta sul bene i, e Sij è il termine di sostituzione dell’equazione di Slutsky del bene i per il bene bene jmo); ∑tiSin è il cambiamento della domanda compensata per il bene n-mo causato dalla tassazione. Pertanto, - ∑tiSij ≡ djh è lo “scoraggiamento” del consumo del bene j, e Dj è lo “scoraggiamento aggregato” (di tutti i consumatori). L’autore (pp. 1185- 1190) dimostra che: se il bene nmo (oggetto del trasferimento) è scoraggiato dal sistema di tassazione non esiste uno schema di

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6. I limiti dell’ “ottimalità” riferita ai criteri dell’utilitarismo Vi è un’implicazione dell’analisi di Munro che mi sembra di particolare

interesse per la questione in esame. L’autore mostra che55 i trasferimenti in natura accompagnati da tariffa,

tali da soddisfare i vincoli di autoselezione, possono determinare tre risultati. Se l’offerta del bene trasferito sta sotto il livello di consumo che sarebbe stabilito dal mercato, allora gli agenti con redditi più alti preferiscono il settore privato. Se invece l’offerta sta sopra il livello del consumo proprio del mercato, allora i redditieri più bassi preferiscono il settore privato. Un terzo caso è riferibile ad un gruppo di redditieri della fascia media che accetterebbero il trasferimento in natura, quando invece quelli inclusi nelle altre due fasce (superiore e inferiore) della distribuzione del reddito preferiscono la soluzione di mercato; questo avviene quando i redditieri maggiori trovano che l’offerta pubblica del bene o servizio con tariffa è insufficiente, e invece quelli a basso reddito trovano che l’utilità che ritrarrebbero dal consumo del bene trasferito, con tariffa, è troppo bassa rispetto alle utilità ritraibili dagli altri beni privati56.

Quando invece i trasferimenti in natura non sono accompagnati da tariffa sicuramente i redditieri delle fasce più basse optano per essi: “mentre un trasferimento pubblico in natura senza tariffa deve essere diretto a quelli con bassi salari, non necessariamente ciò è vero quando è possibile applicare una tariffa57”. L’autore ne trae la conclusione che “il focus dell’analisi degli schemi del trasferimento di genere dovrebbe essere la tariffa58”.

Questo risultato dell’analisi di Munro contraddice, per alcuni casi59, e mette in dubbio, per altri casi, il principio che, invece, di regola guida le politiche sociali e redistributive: ovvero che la spesa pubblica sociale deve

trasferimento in natura “puro” (senza tariffazione) che aumenti il benessere. Invece, uno schema di trasferimento in natura accompagnato da appropriata tariffa tende a compensare gli effetti del sistema fiscale. Quando il bene n-mo è “scoraggiato”, l’offerta pubblica del bene o servizio in natura, con tariffa, al di sopra del livello di consumo che sarebbe stabilito dal mercato, accresce il benessere. 55 Munro (1992), pp. 1191-1194. 56 Munro (1992), p. 1192; l’autore cita per analogia il servizio pubblico educativo post obbligatorio negli Stati Uniti che è consumato soprattutto da ragazzi di famiglie della fascia media di reddito, mentre quelli delle classi più ricche acquistano privatamente l’istruzione e quelli, invece, delle famiglie più povere tendono a lasciare la scuola. Avverte, però, Munro che l’esempio dell’istruzione non si applica perfettamente alle fasce più povere perché per esse la “tariffa” è rappresentata anche dai redditi di lavoro non guadagnati dagli scolari 57 Munro (1992), p. 1194. 58 Munro (1992), p. 1195. 59 Quelli in cui risulta preferibile – nel suo modello delle condizioni di ottimalità con i vincoli di autoselezione e il vincolo del bilancio pubblico – che il programma di redistribuzione in natura sia utilizzato dalle classi più alte di redditieri; e quelli in cui risulta preferibile che il programma di redistribuzione in natura sia utilizzato dalle classi situate in posizione mediana nella distribuzione dei redditi.

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essere diretta (prioritariamente) alle classi più povere della popolazione. Nelle parole dell’autore “non trova quì conferma” l’assunzione, che comunemente si adotta, che la spesa pubblica dovrebbe essere diretta in favore delle persone a basso reddito (la variante “bassa” nel suo modello), eliminando quindi le varianti sia della preferibilità dei trasferimenti in natura per le classi alte (al di sopra di un livello critico di reddito) sia per quelle posizionate nel mezzo della struttura per classi di reddito60.

Mi sembra che tali risultati dell’analisi di Munro sulla scelta ottimale dei beneficiari, per classi di reddito, dei trasferimenti pubblici, che a prima vista possono sembrare sorprendenti, sono diretta conseguenza dei criteri dell’utilitarismo individualistico, e quindi sono evidente dimostrazione dei limiti di tali criteri, quanto alla fecondità delle conseguenti prescrizioni per le politiche redistributive. Se la definizione di “ottimalità” dell’allocazione delle risorse viene riferita ad un insieme di criteri che non comprende (o non soltanto) quelli riferiti all’utilitarismo individuale, ma si compone di criteri riferiti, ad es., alle motivazioni del “patto sociale” fra cittadini (e classi di cittadini) – che sta alla base e giustifica le organizzazioni sociali contemporanee – oppure a principi etici o anche religiosi non utilitaristici, allora perde di significato l’utilizzo del modello della ottimalità paretiana per definire le scelte preferibili delle politiche redistributive e sociali61.

La scelta di tali criteri (“sociali”) diversi da quelli dell’utilitarismo individuale (l’utilità è funzione del reddito individuale) conferisce, invece, nell’organizzazione e gestione politica dei rapporti sociali, significato e rilevanza alle politiche redistributive, e in particolare ai trasferimenti in 60 Osserva Munro (1992), p. 1192: “Solo nel significato debole che, persuadendo gli agenti a più alto reddito ad optare per un esistente programma in natura di norma si abbasserà il gettito per lo Stato, mentre incoraggiando ad optare per il programma gli agenti a più basso reddito si può generare gettito e quindi si può aumentare il benessere, la variante “bassa” (trasferimenti ai redditieri più poveri) e più probabile che risulti ottima”. 61 La letteratura critica dell’impostazione neo-classica e dell’utilizzo del principio dell’ottimalità paretiana come guida alla definizione delle politiche economiche “efficienti”, ha contestato la pretesa “neutralità morale” del principio paretiano: cfr. Arachi (1993), pp. 580-6, che richiama i principali risultati di tale letteratura, in particolare degli studi di Sen e Dasgupta. Arachi (p. 586) sottolinea che, logicamente “E’ infatti sufficiente costatare la non neutralità morale del principio di Pareto per poter concludere che la Pareto ottimalità non può essere considerata in generale una corretta approssimazione della nozione di efficienza”: cfr. la precedente nota 5. Segue che, evidenzia l’autore, l’impiego della nozione di “trade-off tra equità ed efficienza” di cui si servono molti studi nella valutazione degli interventi pubblici, identificando l’efficienza nell’adesione al criterio dell’ottimalità paretiana, risulta “particolarmente insidioso” perché tale “nozione di efficienza è legata all’idea di neutralità morale” (p. 588); e conclude: “L’idea secondo cui non è possibile ottenere il massimo di efficienza e di equità allo stesso tempo tende a sottolineare l’esistenza di un vincolo al livello di redistribuzione desiderabile. L’argomento appena proposto evidenzia invece che le politiche redistributive potrebbero forse risultare più efficaci qualora il comportamento del governo e degli agenti economici non si conformasse strettamente ai dettami della teoria neo-classica del comportamento razionale” (p. 591).

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natura62; significato e rilevanza che non possono essere colti, applicando solo criteri “benesseristi”, all’interno dei modelli dell’ottimalità paretiana.

D’altra parte, i tentativi logici di mantenere in vita l’approccio dell’utilitarismo individuale attraverso il riconoscimento dell’interdipendenza delle utilità individuali63 mi sembrano essere razionalizzazioni ex-post di quanto si osserva nelle società reali. Si può osservare, infatti, che l’individuo tende a comportarsi secondo criteri utilitaristici individuali quando ritiene di operare nella sua sfera “privata”; ma egli tiene ben presente che tale sfera “privata” è delimitata da altri criteri, espressione del “patto sociale” (non determinati dal mercato) che definiscono la struttura dei rapporti tra individui, ovvero l’organizzazione sociale64.

La libera esplicazione delle preferenze individuali (la “sovranità del consumatore”)65 nella sfera privata esiste in quanto l’organizzazione sociale la permette e la delimita; appare logico che l’autorità pubblica, che gestisce l’organizzazione sociale, nel decidere i propri interventi (tra questi gli interventi redistributivi) faccia riferimento ai criteri propri dell’organizzazione sociale (prioritariamente il mantenimento del “patto sociale”) che trascendono i criteri dell’utilitarismo individuale.

La contrapposizione, che sopra ho sottolineato, tra valutazioni degli interventi pubblici fondate sui criteri “benesseristi” e valutazioni riferite ai criteri sociali, che trascendono la sfera dell’utilitarismo individualistico, ha portata generale, e cercherò di trarne (nei prossimi paragrafi) le implicazioni rilevanti per le politiche dei trasferimenti in natura.

62 La questione è approfondita nel paragrafo conclusivo. 63 Cfr. anche i riconoscimenti in Musgrave (1959) pp. 11, 14, 80. L’argomento è sviluppato nel paragrafo seguente. 64 Nell’esporre la tesi dei “merit wants”, Bosi (2003), pp. 43-44, efficacemente osserva: “La presenza di interferenze nelle preferenze individuali è un fenomeno fatalmente diffuso nella vita sociale…La giustificazione delle interferenze è quindi un punto delicato a cui molti studiosi, filosofi in particolare, hanno cercato di dare una risposta. Alcuni dei tentativi più interessanti cercano di teorizzare la presenza di sistemi di preferenza multipli. Gli individui allorché compiono scelte individuali ordinarie (ad es. che beni acquistare, che lavoro fare, ecc.) agirebbero sulla base di un sistema di preferenze diverso da quello che uniforma il loro comportamento in sfere di scelte più elevate come quella politica o etica. Questa molteplicità di sistemi di preferenze potrebbe giustificare scelte contraddittorie alla luce di un solo sistema di preferenze”. Arachi (1993), p. 581 rileva che l’introduzione di valutazioni sociali mette in discussione la validità della “Pareto efficienza” (che considera soltanto valutazioni “benesseriste”) come appropriato concetto di efficienza: cfr. la precedente nota 61. 65 Come già ho rilevato, appare peraltro insoddisfacente, nel confronto con le realtà che osserviamo, la tesi della “sovranità del consumatore”, non solo per il noto fenomeno della pubblicità che ne condiziona le scelte, bensì per il fatto – assai più importante e generale – che le imprese che decidono la struttura dell’accumulazione del capitale (investimenti, tecnologie, e quindi tipologie dei prodotti) nei fatti decidono gli stili di vita (ovvero le “preferenze”) dei consumatori; tali stili di vita oggi vengono diffusi su scala globale dai moderni mezzi di telecomunicazione (cfr. la precedente nota 19) .

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Per concludere sui modelli, sopra richiamati, che hanno utilizzato lo schema dell’analisi neo-classica e la nozione di ottimalità paretiana, però abbandonando l’assunzione della informazione perfetta da parte dello Stato (è ammessa l’ipotesi di selezione morale avversa), certamente tali modelli hanno avuto il pregio – volendo accogliere le loro non convincenti assunzioni – di mostrare che i trasferimenti in natura possono risultare preferibili, contrariamente ad un’opinione diffusa. Tuttavia, anche se si accantonano le critiche su esposte, fattuali e logiche, alle loro assunzioni, vi sarebbe da chiedersi a quali risultati potrebbero condurre tali modelli neo-classici qualora si lasciassero cadere altre ipotesi caratterizzanti l’economia “perfetta”66, che la letteratura stessa dell’economia del benessere ha giudicato irrealistiche, e che perciò ha sostituito con i casi di “fallimenti” del mercato.

Munro ad esempio, nel concludere la sua analisi che utilizza lo schema paretiano, si pone la questione della rilevanza dell’assunzione che i prezzi del settore privato sono dati in quanto concorrenziali: “ per servizi come l’educazione scolastica o la sanità, gli agenti spesso si trovano di fronte a un numero limitato di imprese private, perciò non si può assumere che la produzione privata alternativa al trasferimento avviene in concorrenza”. L’autore ne trae l’indicazione che in situazioni di concorrenza imperfetta l’aumento di benessere ritraibile dai trasferimenti di genere senza tariffa può risultare più elevato che nella situazione competitiva67. Ma, se si allarga l’analisi oltre le assunzioni del modello statico di equilibrio dell’economia in concorrenza perfetta, vengono meno i presupposti per predeterminare l’ordine di preferibilità delle posizioni di equilibrio e degli interventi pubblici (secondo i criteri della ottimalità) che è, invece, l’aspetto intellettualmente più attraente di tale impostazione (anche per questo forse assai seguita in letteratura).

66 E’ la critica che già ho avanzato ai modelli di Blackorby – Donaldson e Munro alle pp. 16 e 17; e cfr. inoltre le osservazioni di Bosi (2003), p. 29, richiamate alla precedente nota 4, circa la non corrispondenza delle assunzioni dell’economia concorrenziale perfetta alle realtà economiche, e le sue osservazioni sul caso delle esternalità del consumo (note 31 e 50). 67 Cfr. Munro (1992), pp. 1195-6. Allargando l’analisi oltre i limiti delle assunzioni del modello tradizionale, Rosen (2003) ad esempio osserva (p. 104) che i trasferimenti in natura possono avvantaggiare i produttori dei beni i cui consumi si vogliono assicurare a tutti (ad es. l’industria edilizia può trarre vantaggio dai programmi di edilizia popolare). Si deve inoltre ricordare che, se si abbandona il metodo dell’analisi statica, ci si deve confrontare con l’osservazione che nella realtà assai spesso le grandi imprese con potere di mercato mostrano economie di scala e superiore capacità di sviluppo e di innovazione rispetto alle imprese concorrenziali “price takers”. Cfr., tra molti, Schumpeter (1947), pp. 100 e ss.

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7. L’approccio neo-classico e l’interdipendenza delle utilità individuali Ho sopra osservato che l’impostazione neo-classica della teoria della

finanza pubblica ha incontrato gravi difficoltà nel tentativo di riportare le motivazioni dell’intervento pubblico all’utilitarismo individualistico.

Musgrave aveva dovuto formulare la categoria non utilitarista dei “desideri meritori”, ma aveva cercato di delimitarne la portata ed affievolirne l’importanza68 mostrando evidente disagio a collocarla nella sua teoria neo-classica. Scrivendo trent’anni dopo Stiglitz aveva annotato che anche quando l’economia concorrenziale dei liberi mercati rappresenta un ottimo paretiano, esistono altre due possibili motivazioni per l’intervento pubblico: “la prima riguarda la distribuzione del reddito; i mercati di tipo concorrenziale possono dar luogo ad una distribuzione del reddito molto sperequata… La seconda motivazione deriva dalla preoccupazione che l’individuo possa compiere azioni che non sono nel suo interesse”69: ovvero l’insoddisfazione verso la distribuzione del reddito e la presenza di “beni meritori”70. Nelle sue esemplificazioni, l’autore cita gli interventi pubblici “meritori” nei confronti del fumo, delle droghe e degli alcolici, e l’imposizione di strumenti di sicurezza (la cintura e il casco per la guida di autovetture e motocicli, e l’imposizione di standard antisismici nelle costruzioni); e, nel campo della spesa sociale, l’istruzione elementare obbligatoria e altre cure verso i minori e l’assicurazione di vecchiaia71 . Si tratta di interventi pubblici che, nella scia della definizione di Musgrave, interferiscono nelle e vincolano le scelte utilitaristiche dei consumatori.

Come già Musgrave, anche Stiglitz mostra disagio nell’accogliere, nella sua impostazione, la categoria dei “beni meritori”. Stiglitz giudica tale categoria di interventi pubblici “paternalistica”, ricordando che “molti economisti e filosofi sociali ritengono che lo Stato debba rispettare le preferenze dei consumatori. In virtù di quale diritto, chiede chi si oppone al ruolo paternalistico dello Stato, un gruppo di individui può imporre la propria volontà e le proprie preferenze ad un altro gruppo?” Ed ancora: “Molti ritengono che un ruolo paternalistico non sia appropriato per lo Stato e che, invece, nella valutazione delle politiche pubbliche si debba tener conto soltanto della percezione che gli individui hanno dell’effetto delle politiche sul loro benessere. Il timore è che una volta che lo Stato assumesse un ruolo paternalistico, singoli gruppi di interesse tenterebbero di strumentalizzarlo per favorire le loro convinzioni su come gli individui dovrebbero 68 Vedi il precedente paragrafo 3 (pp. 9 e ss.). 69 Stiglitz (1989), pp. 156-7, che ho ricordato in proposito a p. 13; e Stiglitz (2003), p. 67. 70 Stiglitz (1989), p. 115 e p. 126 e Stiglitz (2003), p. 67-70; Musgrave (1959), p. 14. 71 L’assicurazione di vecchiaia è riferita al “bene meritorio” perché lo Stato “costringe i singoli ad essere previdenti”, però con la precisazione che accettare tale giustificazione “implica solo che lo Stato dovrebbe imporre agli individui di assicurarsi, non di acquistare l’assicurazione dallo Stato stesso”: Stiglitz (1989), p. 363.

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comportarsi”72. Il riferimento di Stiglitz al ruolo “paternalistico” dello Stato, a alle possibili critiche ad esso, porta alla luce la preoccupazione di fondo degli studiosi di economia pubblica che assumono l’impostazione neo-classica: riaffermare la superiorità della economia di mercato, governata dalle preferenze degli individui (massimizzanti le loro funzioni di utilità) e con distribuzione data (esogena al modello) della proprietà delle risorse e del fattore capitale, rispetto a modelli alternativi di organizzazione sociale (e quindi economica), in particolare quelli organizzati in forme collettive73, o comunque caratterizzati da esteso intervento pubblico nell’economia.

Riguardo a tale preoccupazione, mi pare evidente che con essa si passa sul terreno dei “giudizi di valore”74, che non è possibile comparare, scientificamente, secondo criteri oggettivi, ma che lo studioso deve correttamente esplicitare quando li utilizza nelle assunzioni poste a base dell’analisi e nelle valutazioni conclusive.

La questione è posta correttamente da Bosi che, in commento alle implicazioni del riconoscimento dei “merit goods”, annota: “Su questa via si potrebbe teorizzare lo Stato etico, a cui gli individui devono obbedienza e che storicamente è stato supporto ideologico a dittature”, ma aggiunge: “I pericoli accennati non devono tuttavia scoraggiare troppo. La presenza di interferenze nelle preferenze individuali è un fenomeno fatalmente diffuso nella vita sociale…Si pensi, ad. esempio, al ruolo che ha la pubblicità nel “forzare” le preferenze individuali”75. Il citato commento di Bosi ci riporta, inoltre, alle precedenti considerazioni riguardanti gli assetti allocativi “ottimali” rappresentati dalle posizioni dell’equilibrio generale, che si assumono determinate dalle preferenze individuali dei consumatori, assunte esogene al modello. Non solo l’esempio della pubblicità, ma, a monte, le decisioni imprenditoriali relative alle direzioni di investimento delle risorse ed alle applicazioni delle tecnologie, che per lo più trovano completamento nei programmi informativi “di massa”, determinano l’evoluzione dei “modelli di vita” delle odierne società (ed ora della società globale) e in tale ambito determinano le “preferenze sovrane” dei consumatori (cfr. la precedente nota 19).

Vi sono stati tentativi di riportare la categoria dei “desideri meritori” (e, più in generale, degli interventi pubblici redistributivi) nell’alveo dell’utilitarismo individuale. Ho ricordato che Musgrave aveva avvertito che

72 Stiglitz (1989), p. 126 e p. 82 e (2003), pp. 69-70; e cfr. Musgrave (1959), p. 14. 73 Ricordo che Musgrave (1959) più volte avverte che il contesto istituzionale in cui si colloca il suo studio è una “società democratica” in cui la distribuzione del reddito è determinata largamente dalla proprietà dei fattori della produzione e dai loro guadagni nel mercato, e in cui la soddisfazione dei desideri privati e anche di gran parte dei desideri sociali (i “public wants”) è collocata “nel regno della sovranità del consumatore”: pp. 3, 13, 116-118, 133-135. 74 Cfr. Myrdal (1958). 75 Bosi (2003), p. 43; e cfr. già Musgrave (1954), p.14.

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“Quelli che appaiono essere merit wants sono in molti casi social wants e quindi cadono al di fuori dell’orbita di questa discussione”76. Lo studioso solleva, quindi, l’ipotesi di interdipendenza delle utilità individuali che potrebbe spiegare “molti casi” di “merit wants” in termini di “social wants”, e perciò ricondurre tali casi di “merit wants” nell’ambito della costruzione utilitaristica. Se si assume tale ipotesi, certamente si aprono anche all’analisi utilitaristica nuove prospettive di spiegazione (e giustificazione) degli interventi pubblici, in particolare di quelli aventi finalità redistributive77. A sostegno dell’ipotesi dell’ interdipendenza delle utilità individuali possono essere, certamente, addotte molteplici argomentazioni78.

Si è sostenuto che “formalmente, questo non è altro che un problema di esternalità”79. Poiché il consumo degli uni influenza il benessere di altri “in modo diretto e non attraverso il mercato”, il problema potrebbe essere trattato alla stregua degli altri “fallimenti del mercato” e sarebbe in teoria sanabile utilizzando criteri e strumenti dell’economia del benessere. Proseguendo in questo filone di ragionamento, si giunge facilmente alla conclusione di Thurow80, che la distribuzione del reddito dovrebbe essere considerata un bene pubblico, perché il grado di disuguaglianza all’interno di una società influisce sull’utilità di ciascun cittadino. La questione dell’interdipendenza delle utilità potrebbe essere, in tal modo, trattata - nell’ambito della teoria neo-classica della finanza pubblica - nel caso generale dei “beni pubblici”, che è un caso di fallimento del mercato ampiamente studiato; ma la cui soluzione, abbiamo sopra ricordato, incontra in tale teoria le difficoltà logiche (prima che applicative) del collegamento delle scelte di bilancio pubblico alle schede delle preferenze individuali, e della determinazione delle scelte distributive tra posizioni ottimali alternative.

Invero, è stato opportunamente osservato che tali casi di interdipendenza delle utilità possono “formalmente” essere definiti come problemi di esternalità81: il loro esame, ritengo, rivela una differente “sostanza” del problema. La sostanza del problema traspare – per mantenere il riferimento

76 Musgrave (1959), pp. 13, 89 e cfr. la precedente nota 27. 77 Scrive, ad es., Rosen (2003), pp. 98-99: “Nell’analisi della funzione del benessere sociale additiva e del criterio del maximin abbiamo ipotizzato che la redistribuzione del reddito migliori le condizioni di alcuni individui e peggiori quella di altri. Detto altrimenti, la redistribuzione del reddito non può mai portare ad un miglioramento paretiano. Questo dipende dall’ipotesi che l’utilità di ciascun individuo dipenda unicamente dal suo livello di reddito. Supponiamo, invece, che le persone ricche siano altruiste e che quindi la loro utilità dipenda non solo dal reddito di cui dispongono, ma anche dal reddito dei più poveri. In questo caso una redistribuzione del reddito può comportare un miglioramento paretiano”. 78 E’ stato fatto riferimento al valore etico-religioso dell’ “altruismo”; e cfr. Musgrave (1959), p. 89 e p. 13, riguardo all’utilità di ciascuno di vivere in una società più sana ed educata. 79 Rosen (2003), pp. 98-99. 80 Thurow (1971). 81 Rosen (2003), p. 99.

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all’impostazione neo-classica – dalla sopracitata assimilazione di molti “desideri meritori” ai “desideri sociali” che Musgrave spiega con l’inserimento della vita dell’individuo in quella della comunità, il cui benessere (nei suoi esempi della “comunità più educata e più sana”) influenzerebbe il benessere individuale.

In effetti, l’ipotesi dell’interdipendenza delle utilità individuali è, nella sostanza, il riconoscimento che le preferenze e benessere dell’individuo sono plasmati dalla comunità in cui egli vive, sono funzione dell’organizzazione sociale dei rapporti tra gli individui, sono espressione della vita dell’individuo vissuta in tali rapporti con gli altri82.

E’ il riconoscimento che i sistemi economici sono governati non solo dall’utilitarismo individuale, ma anche dalle valutazioni e motivazioni di natura collettiva, ovvero che esistono sistemi di preferenza multipli83, quello delle scelte individuali ordinarie e quello delle scelte sulle questioni politiche ed etiche che determinano l’organizzazione della vita collettiva. Altrimenti, vestire formalmente l’interdipendenza tra le funzioni individuali di utilità con la veste della “esternalità” diviene una razionalizzazione ex-post che non spiega le ragioni, e i procedimenti, degli interventi redistributivi (in moneta e in natura). Su tali questioni tornerò nei paragrafi successivi.

8. Le motivazioni non utilitaristiche della redistribuzione Le motivazioni redistributive sopra considerate introducono nell’analisi

obiettivi delle politiche del bilancio pubblico definiti in termini di beni e servizi specifici, il cui consumo si vuole rendere disponibile alla più ampia platea possibile di cittadini, piuttosto che in termini di utilità individuali (che sono il presupposto dell’impostazione neo-classica).84. D’altra parte, volendo utilizzare il secondo teorema fondamentale dell’economia del benessere, occorre chiedersi in base a quali criteri lo Stato ha giudicato insoddisfacente lo stato iniziale della distribuzione. Le sopra riportate motivazioni dell’intervento pubblico redistributivo esposte da Stiglitz fanno riferimento a “punti di vista non individualistici”85, che non rientrano nella prospettiva 82 E’ significativo il riconoscimento espresso dallo stesso Musgrave nel passo seguente della sua “Teoria”: “gli individui, nello stesso tempo, sono esseri sociali, dipendenti nelle loro preferenze e azioni dagli ambienti sociali e dalle loro relazioni con gli altri”. Musgrave (1959), p.11. 83 Cfr. Bosi (2003), p. 44; e le precedenti considerazioni a pp. 20 e 21. 84 Come è stato osservato, “un intervento che produca un miglioramento paretiano condurrà ad un risultato preferito rispetto a quello iniziale solo se le caratteristiche degli stati diversi dalle utilità individuali sono irrilevanti o hanno minor peso nella valutazione”: Arachi (1993), p. 597. 85 Vedi il paragrafo 7; Stiglitz (2003), pp. 34-35, scrive con chiarezza: “Il criterio paretiano di efficienza possiede un’importante proprietà…è individualistico, in due sensi. In primo luogo esso considera solo il benessere di ciascun individuo e non il benessere relativo di diversi

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dell’utilitarismo individuale ovvero “contengono elementi non benesseristi”86.

Ho precedentemente riportato a Musgrave la questione della sovrapposizione delle preferenze collettive (determinate attraverso processi politici) a quelle individuali (espresse nel mercato), perché la sua formulazione della categoria dei “desideri meritori” rivela l’insufficienza di una teoria generale della finanza pubblica collocata nel sistema degli equilibri concorrenziali ottimali, conseguiti dalle scelte degli operatori massimizzanti le loro funzioni di utilità individuali.

In una prospettiva storica, si può ricordare che i beni tipicamente pubblici (la difesa esterna e la sicurezza interna, la giustizia, il funzionamento delle Amministrazioni pubbliche) da sempre sono stati riconosciuti dalla teoria come produzioni essenziali dell’attività dello Stato. Ma l’estensione dell’attività dello Stato ad altre produzioni, realizzabili dal mercato, era considerata causa di distorsioni ed ostacoli al libero funzionamento del sistema concorrenziale e quindi al conseguimento di equilibri ottimali per la collettività87. Scrivendo alla fine degli anni ’50, Musgrave doveva confrontarsi con le esperienze concrete, particolarmente significative soprattutto in alcuni Paesi europei, ma presenti, in alcuni settori di intervento, anche nella realtà americana, della costruzione di sistemi estesi di protezione sociale a gestione pubblica (in forme dirette o indirette) o a garanzia finanziaria pubblica. Si può dire che la formulazione teorica dei “merit wants” scaturisse direttamente da tali esperienze concrete delle politiche pubbliche88. Le ideologie e le rivendicazioni politiche di servizi pubblici di protezione sociale, e le loro attuazioni nelle realtà delle scelte collettive, non apparivano direttamente collocabili nella logica neo-classica fondata sull’utilitarismo individuale.

Però, la contestazione del principio che l’individuo sia sempre il miglior giudice dei propri interessi si ritrova già agli inizi della teoria economica

individui; non considera, cioè esplicitamente l’ineguaglianza…In secondo luogo quello che conta è la percezione che ciascun individuo ha del proprio benessere. Ciò è coerente con il principio generale della sovranità del consumatore, secondo il quale ogni singolo individuo è il miglior giudice dei propri bisogni e necessità, di ciò che è nel suo interesse”; e cfr. Rosen (2003), p. 99. 86 Arachi (1993), p.597; l’autore osserva: “ per poter essere normativamente cogente un miglioramento paretiano deve essere considerato un guadagno da ogni valutazione nello spazio dei risultati che si ritenga rilevante: esso deve coincidere in altre parole con un aumento dell’efficienza. Si è visto tuttavia che ciò è vero solo quando l’insieme degli ordinamenti sociali rilevanti è ristretto in modo da eliminare ogni valutazione non benesserista”. 87 Cfr. per tutti Steve (1976), pp. 192 ss. 88 Musgrave è stato, come altri economisti, portatore in Nord-America di un ricco bagaglio culturale europeo. E cfr. Stiglitz (2003), pp. 6-7, che ricorda come l’esperienza della grande crisi degli anni ’30 spinse gli Stati occidentali ad assumere nuovi ruoli attivi nell’economia, sia con le politiche di stabilizzazione, sia con programmi volti ad affrontare problemi sociali.

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moderna. Nella sua lucida sintesi della questione, Steve89 ricorda Sidgwick che già nel 1883 aveva negato validità generale “all’ipotesi che il consumatore sia miglior giudice, che non il governo, dei beni da lui richiesti e della fonte dalla quale possono essere ottenuti a migliori condizioni”90. Tale critica, che dunque già si trova in Sidgwick, alla pretesa superiorità del modello fondato sull’utilitarismo individuale, costituisce il filo conduttore di molte correnti di pensiero che, dall’800 ad oggi, hanno trovato espressione in studi teorici e – ancor di più – nelle ideologie ed istanze di importanti movimenti sociali e politici che hanno proposto obiettivi di allocazione delle risorse e di distribuzione dei redditi aventi motivazioni sociali e riferiti a scelte collettive, svincolati dalle preferenze espresse nei mercati dai consumatori91. Ne sono testimonianza concreta i programmi di intervento pubblico per servizi sociali a beneficio di tutta la (o larga parte della) popolazione, portati avanti in Paesi del nord-europa già tra le due guerre mondiali; e soprattutto la grande e rapida crescita della spesa pubblica sociale, dagli anni ’50, anche negli altri Paesi europei dell’area OCSE.

Certamente, è parso assai più agevole agli economisti formalizzare i comportamenti (razionali) di operatori e di mercati privati, ponendo a riferimento ipotetiche situazioni di equilibrio (statico), piuttosto che ricercare spiegazioni delle scelte pubbliche di allocare parte delle risorse per realizzare non solo l’offerta di beni pubblici ma anche una distribuzione diversa da quella risultante dai mercati; e inoltre per realizzare la soddisfazione dei “desideri meritori”, ovvero le allocazioni ritenute politicamente prioritarie (meritori secondo le preferenze collettive) rispetto ad altre che sarebbero state realizzate in assenza dell’intervento pubblico.

Con riferimento alla teoria esposta da Musgrave, i tentativi di fondare le scelte del bilancio pubblico sulle preferenze individuali, hanno incontrato difficoltà logiche e applicative insormontabili. Fuori di tale ipotesi, vi sono le ampie possibilità di ricerca delle spiegazioni dei fattori non solo economici, ma anche ideologici e sociologici, che – nell’evoluzione storica e nelle “dialettiche” per il potere – concorrono a determinare le decisioni politiche relative agli interventi pubblici. Gli studiosi di economia che hanno 89 Steve (1976), pp. 199 e ss. 90 Sidgwick (1891), pp. 416 – 7. 91 Cfr., tra un’ampia letteratura, Schumpeter (1947), Myrdal (1965), Titmuss (1967), Tawney (1931), Hirsch (1981), Lerner (1944), Caffè (1966), Scitowsky (1964), Abel – Smith (1964). La contestazione del principio della “sovranità” delle preferenze individuali, basilare per la costruzione neo-classica, si fa estrema nella teoria marxiana e nelle impostazioni da essa derivate, perché in queste si contesta non solo “l’ottimalità” ma anche la legittimità sociale di un sistema che affida ai proprietari del capitale le decisioni sull’accumulazione e le sue direzioni di impiego. L’accumulazione influenza anche l’evoluzione delle tecnologie, da cui dipendono sia lo sviluppo complessivo sia la sua qualità e struttura, e di qui permeano tutta l’organizzazione sociale, e i modelli di vita da cui scaturiscono le stesse “preferenze sovrane” dei consumatori.

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affrontato tali temi, quindi anche mutuando categorie logiche e strumenti di analisi da altre discipline sociali, storiche e filosofiche, hanno individuato alcuni schemi esplicativi degli interventi pubblici redistributivi.

Un importante schema esplicativo è riferito al “patto sociale” che sta alla base di ogni organizzazione statale. I primi grandi Stati nazionali europei fondavano, come da tradizione, tale patto sociale sulla necessità della difesa del territorio nazionale da invasori esterni, sicché i governanti (monarchi e nobili) in quanto provvedevano ad organizzare tale difesa potevano ottenere l’obbedienza popolare anche in presenza di situazioni di grande e diffusa povertà e di carenza di servizi pubblici. Già con la Rivoluzione francese, ma soprattutto nel corso dell’800, il rapporto tra la difesa esterna (in parte anche la sicurezza interna) e l’accettazione di situazioni economiche di povertà diffusa (sfruttamento del lavoro) e di enormi disuguaglianze, si è sempre più svuotato, e con esso si è svuotato il tradizionale “patto sociale”. Le lotte sociali, che inevitabilmente hanno coinvolto i processi decisionali del governo dello Stato (come le istanze per le elezioni universali e la democrazia parlamentare), hanno portato, infine, i cittadini dei Paesi più avanzati – attraverso percorsi storici diversi e in tempi diversi – a rifondare i “patti sociali” (formalizzati nelle Costituzioni). I contemporanei “patti sociali” hanno dato risalto al riconoscimento di diritti fondamentali di tutti i cittadini; tra essi il “diritto alla vita”, la cui realizzazione (così come per il diritto di voto) non può essere lasciata agli esiti dell’operare del mercato.

L’economista Tobin, in un saggio del 1970 che ha avuto ed ancora ha risonanza nella letteratura92, muovendo in tale solco culturale ha avanzato la proposta chiamata dell’ “egualitarismo specifico” (o dei beni): lo Stato dovrebbe offrire a tutti i cittadini, indipendentemente dal loro reddito, la possibilità di consumare i beni e servizi necessari a realizzare il diritto alla vita. La proposta di Tobin ha avuto larga risonanza, ma non è risultato pacifico “quali” beni e servizi dovrebbero essere resi disponibili, con l’intervento pubblico (quindi con il finanziamento da parte della generalità dei contribuenti), a tutti i cittadini. Stiglitz 93, ad es., scrivendo alla fine degli anni ’80, osserva che le democrazie occidentali si muovono verso la garanzia del “diritto a un dato livello di assistenza sanitaria”, e cita il programma Medicaid adottato negli Stati Uniti. 92 Tobin (1970).Cfr. inoltre Bosi (2003), pp. 35-37, che richiama in merito le tesi del filosofo Rawls (cfr. la precedente nota 13). 93 Stiglitz (1989), pp. 320-1, nell’interpretare il principio del diritto alla vita esemplifica con “l’accesso a un’adeguata assistenza medica”. Ma aggiunge: “Non tutti gli economisti concordano sul fatto che i servizi sanitari debbano essere trattati in modo differente dagli altri beni di consumo…I sostenitori di questo punto di vista sottolineano come la relazione tra cure mediche e durata della vita sia molto debole; altri fattori, come il fumo, il consumo di alcolici, l’alimentazione e in particolare il livello di istruzione, sembrano giocare un ruolo altrettanto, se non più importante, nel determinare la durata di vita e gli altri indicatori di salute di un individuo”.

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Nelle discussioni sulla interpretazione dell’ugualitarismo specifico, Rosen ricorda che risulta controversa la questione se l’istruzione elementare debba essere di uguale qualità per tutti i bambini (indipendentemente dal desiderio di alcune famiglie di acquistarne di più) e se l’assistenza sanitaria debba essere uguale per tutti. Pertanto l’autore conclude che “è evidente che è difficile limitare la gamma dei beni “particolari” e come questa possa cambiare nel tempo e a seconda delle culture”94. In effetti, mi sembra che oggi pochi politologi e sociologi (soprattutto in Europa) siano disposti ad interpretare il “diritto alla vita” in termini naturalistici, bensì ne pretendono una interpretazione sociologica (come diritto ad un minimo di vita attiva partecipando nella collettività, escludendo una vita assolutamente emarginata)95. In presenza di situazioni di povertà e di emarginazione, mi sembra che il mantenimento del “patto sociale” sia il test di ultima istanza della valutazione, data dalla collettività, del grado di realizzazione del principio del diritto alla vita di tutti, nell’interpretazione sociologica del tempo96.

Il principio posto da Tobin continua ad essere ricordato in letteratura, ed è frequentemente associato alla categoria dei “beni meritori” formulata da Musgrave. Certamente esso può essere utile a spiegare forme di intervento pubblico reditributivo non riconducibile alla logica dell’utilitarismo individuale. Tuttavia, rimangono aperte le questioni, si è sopra detto, delle scelte dei particolari beni e servizi che, in concreto, si ritiene abbiano caratteristiche tali da essere assunti per “meritori”, o da soddisfare ai criteri dell’ “ugualitarismo specifico”. Il riferimento alle finalità redistributive non è

94 Rosen (2003), p. 100. Artoni (1999), pp. 310-311, riprendendo da Hirsch (1981) il concetto di “beni posizionali”, la cui utilità a livello individuale dipende anche dal consumo che, dello stesso bene, fanno altri individui, osserva che quando i servizi sociali sono estesi a larga fascia della popolazione (come ad esempio per i servizi educativi) “il vantaggio connesso al conseguimento di un elevato livello educativo è sostanzialmente circoscritto dal fatto che altri individui hanno ottenuto la stessa qualificazione”. Pertanto, “l’estensione all’accesso dei servizi sociali…ha in sostanza riproposto conflitti distributivi”, ad es. spingendo le esigenze individuali sulla qualità del servizio “verso strutture produttive articolate ed eterogenee tendenzialmente in concorrenza fra di loro”. 95 Bosi (2003), p. 45, ricorda, partendo dalla nozione di diritti fondamentali di cittadinanza, che A. Sen, tra altri, aveva riferito il concetto di benessere ad elementi costitutivi quali “il partecipare attivamente alla vita pubblica, sentirsi integrati in un dato ambiente sociale”. 96 E’ significativo che l’Unione Europea, nel varare (2000) la strategia di rilancio dell’economia dell’area (nota come “strategia di Lisbona”, poi rinnovata e tuttora in essere) abbia posto esplicitamente tra i grandi obiettivi prioritari quello della “coesione sociale”. Anche Rosen (2003) osserva che “alcuni ritengono che i programmi di redistribuzione del reddito contribuiscono ad assicurare la stabilità sociale. Un uomo d’affari norvegese riferendosi all’ampia politica di redistribuzione del reddito del suo paese, disse: “Sarà costosa, ma mantiene la pace sociale”, p. 99.

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sufficiente97, perché esso non spiega sia i criteri della scelta tra redistribuzione in moneta o in natura, sia i criteri della scelta dei beni “meritori” e di quelli che realizzano l’ugualitarismo specifico.

Un particolare spunto interpretativo potrebbe essere offerto da quegli studiosi che hanno spostato l’accento dall’ “equità” della distribuzione del reddito risultante – in un dato Paese e momento storico – dalle dotazioni iniziali dei singoli e dai meccanismi di formazione dei prezzi relativi nei mercati, all’ “equità” delle regole e processi, anzitutto istituzionali e sociali, che conducono a tale distribuzione del reddito98. In questa ottica, assume rilievo il criterio delle “pari opportunità”99 che implica mobilità sociale, e questa presuppone certamente l’offerta pubblica di “beni meritori”, e di altri beni e servizi che realizzano il principio dell’ “egualitarismo dei beni” di Tobin; perché non si vede come possano esservi “pari opportunità” per tutti i cittadini se la parte povera di essi non può usufruire, acquistando dal mercato, almeno dei servizi basilari anche per la promozione sociale, quali la sanità e l’educazione (perché costretti a lasciare presto gli studi), e non vi è un intervento pubblico sostitutivo del mercato100.

97 Stiglitz (1989) nel “giustificare” la grande espansione avvenuta, in particolare nella seconda parte del ‘900, della spesa pubblica sociale fa ripetutamente riferimento alle finalità redistributive (cap. 11,12,13,14 dedicati agli interventi pubblici nella sanità, nella sicurezza e protezione sociale, nell’istruzione). 98 E’ spesso citato il filosofo Nozick (1974), che ha spostato l’attenzione dalla ricerca di una soddisfacente “funzione del benessere sociale” a un insieme soddisfacente di regole per gestire l’organizzazione sociale, che determina le posizioni relative degli individui in essa: cfr. Rosen (2003), p. 100, che osserva che “per esempio, negli Stati Uniti è diffusa l’opinione che, se il principio delle “pari opportunità” (comunque definito) è applicato a tutti, il risultato è equo, a prescindere dalla particolare distribuzione del reddito che ne deriva”. Bosi (2003), pp. 44-45, distingue tra equità consequenziale ed equità procedurale: la seconda implica che “è giusta la società in cui tutti i membri hanno pari opportunità di realizzare un progetto di vita soddisfacente”. 99 Si può osservare che la convinzione di avere le opportunità per un miglioramento sociale rende accettabili a molti le disuguaglianze economiche presenti. Musgrave (1959), pp. 19-20, dopo aver affermato che “l’uguaglianza applicata ai fatti economici può essere interpretata in modi diversi e la scelta tra le differenti interpretazioni è una questione di giudizio di valore”, annota che per alcuni “l’uguaglianza può implicare…il concetto di uguaglianza di opportunità” e aggiunge: “Se il criterio di uguaglianza di opportunità è accettato, ci troviamo ancora di fronte a un numero di interpretazioni differenti. Si può intendere che uguaglianza di opportunità significhi uguali opportunità di educazione, assegnazione di posti di lavoro sulla base dei risultati competitivi piuttosto che sulle conoscenze, e così via”. 100 Nel prossimo paragrafo si riportano le argomentazioni a favore della tesi che i trasferimenti in natura sono più appropriati di quelli monetari a realizzare il principio delle “pari opportunità”.

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9. I trasferimenti in natura per realizzare criteri sociali redistributivi e allocativi Le impostazioni non utilitaristiche delle analisi delle scelte pubbliche

affermano, dunque, che nella realtà tali scelte, allocative e distributive, conseguono ad un procedimento di formazione della volontà politica che è sostanzialmente diverso, e risponde a criteri diversi rispetto a quelli che spiegherebbero le scelte individuali espresse nei mercati101. Nell’ambito delle impostazioni non utilitaristiche il confronto tra i trasferimenti pubblici redistributivi in natura e quelli in moneta si ripropone, però sulla base di criteri differenti da quelli impiegati nei modelli fondati sull’utilitarismo.

Traendo dalle citate riflessioni di Sidgwick, e anche dalle formulazioni dei “merit wants” e dell’ “egualitarismo specifico”, ho rilevato (paragrafi 7 e 8) che è riportabile anche al “patto sociale”, oltre che a motivazioni etiche, l’interesse collettivo a che tutti i cittadini possano usufruire di beni e servizi che permettano loro di partecipare attivamente alla vita della società. Il principio delle “pari opportunità”, indicato anche da studiosi neo-classici come accettabile specificazione dell’ “equità distributiva”102, sembra richiedere, in un contesto di situazioni di povertà e forti disuguaglianze dei redditi monetari, l’utilizzo di trasferimenti in natura, perché essi possono garantire a chi vive in povertà ed emarginazione il consumo dei servizi necessari (salute, istruzione, abitazione, mobilità nel territorio) all’applicazione almeno iniziale di tale principio.

Tuttavia, tali argomentazioni in favore dei trasferimenti in natura sono state sottoposte, da alcuni studiosi, a critiche e qualificazioni.

Una prima linea di critica è stata avanzata “contro la diffusione dei servizi sociali come pericolosa riduzione dell’area dei bisogni che dovrebbe essere lasciata al senso di responsabilità degli individui”103.

Invero, anche chi, per le suesposte ragioni, non accetta il principio paretiano come metro per giudicare dell’ “efficienza” e dell’ “ottimalità”, e quindi come criterio di scelta nelle politiche economiche, tuttavia deve preoccuparsi dei possibili effetti negativi degli interventi redistributivi sull’impegno a lavorare e a risparmiare dei beneficiari. L’argomento deve 101 Nella letteratura italiana una decisa affermazione della superiorità, logica e applicativa, delle impostazioni non utilitaristiche della questione redistributiva si trova in Caffè (1966, spec. pp. 237 ss.) e in Steve (1976, cap. VII). Arachi (1993), p. 591, annota che “le politiche redistributive potrebbero forse risultare più efficaci qualora il comportamento del governo e degli agenti economici non si conformasse strettamente ai dettami della teoria neo-classica del comportamento razionale”. 102 Cfr. le precedenti considerazioni a pagina 30 e note 98 e 99. 103 Steve (1976), p. 198, che così riassume efficacemente la sostanza di questo punto di vista strettamente “individualista”, che si preoccupa degli effetti delle politiche redistributive sugli incentivi dei beneficiari a lavorare, a risparmiare, a migliorare la propria posizione economica: tale punto di vista è motivato con particolare vigore e ricchezza di argomentazioni in Friedman (1962).

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essere tenuto in considerazione ma, ritengo, con una qualificazione. Esso solleva, sostanzialmente, il tema (certamente importante, ma che esula da questo scritto) dei criteri operativi con i quali, nei programmi concreti, i trasferimenti sono assegnati ai poveri: i requisiti personali e familiari richiesti (necessari anche per evitare abusi) e l’accertamento delle cause di povertà (disoccupazione involontaria, possibilità di occupazione solo precaria e marginale, inabilità, situazioni familiari e ambientali difficili, ecc.); le condizioni e la durata del trasferimento pubblico; il coordinamento tra i diversi programmi sociali (anche con i trasferimenti pensionistici, sussidi, ecc.) e in particolare con quelli per la formazione professionale e l’inserimento stabile nel mondo del lavoro regolare. Nella realtà, se i criteri redistributivi adottati sono coerenti, ed efficacemente applicati, e se vi è coordinamento tra i differenti programmi sociali, si possono ridurre significativamente i temuti effetti disincentivi degli interventi redistributivi.

Ma anche a chi mantiene le preoccupazioni per tali effetti disincentivi, i trasferimenti in natura dovrebbero apparire, in linea generale, preferibili a quelli in moneta. Per chi vive in ambiente povero, e a più forte ragione se emarginato e degradato, la messa a disposizione dei servizi pubblici di base (abitazione, sanità, istruzione, trasporti, servizi per il tempo libero), costituisce, normalmente, uno stimolo ad impegnarsi nella attività lavorativa e a migliorare la propria posizione sociale. Invece, il trasferimento in moneta assai spesso non tocca le condizioni ambientali di vita del beneficiario, e invece lo induce, anche per compensazione psicologica, ad utilizzare le maggiori disponibilità monetarie nell’acquisto dei beni (o loro surrogati) che i “mass media” indicano a simboli degli stili di vita più “moderni” e di “successo”, e che sono pertanto apprezzati anche negli ambienti poveri e socialmente emarginati. In tali situazioni, nel confronto con i trasferimenti in natura, quelli monetari possono realmente affievolire gli incentivi all’inserimento stabile nel mondo del lavoro regolare e al miglioramento della posizione personale nella società.

Una seconda linea di critica ai trasferimenti redistributivi, e in particolare a quelli in natura, scaturisce dall’osservazione che la grande espansione delle spese pubbliche per servizi sociali, nella maggior parte dei Paesi industrializzati, durante il ‘900, è stata finanziata in larga parte con l’aumento della tassazione e del prelievo parafiscale sul reddito del lavoro dipendente, che era il destinatario principale della redistribuzione (ed anche dall’aumento della tassazione indiretta, che tende ad essere regressiva). Secondo tale critica “finché le classi lavoratrici pagano qualcosa a titolo di imposta, non si dovrebbe mai difendere alcun servizio pubblico con l’argomento che esso è uno strumento di redistribuzione”104.

104 Lewis (1949), pp. 31-32, e il commento di Steve (1976), pp. 198 e ss.

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Mi sembra che il nocciolo della questione sia nello stabilire se vi è un criterio sociale – avendo qui abbandonato quelli utilitaristici – che permetta di giudicare che anche l’ipotesi della sostituzione di consumi pubblici a quelli privati può essere migliorativa per la classe lavoratrice (a reddito basso). E’ una questione di evidente importanza per le politiche economiche (può influire sull’andamento delle retribuzioni, della produttività e quindi della competitività)105.

Sintetizzando le principali conclusioni degli studi sulla questione, Steve106 raggruppa sotto tre motivazioni gli argomenti in favore della tesi che la sostituzione di consumi pubblici a quelli privati (servizi sociali finanziati dal prelievo sui beneficiari) può avvantaggiare le classi lavoratrici e povere: i difetti dell’informazione in base alla quale i singoli prendono le decisioni sugli impieghi del loro reddito; le incertezze delle previsioni che concorrono alla decisioni individuali; le difficoltà o impossibilità di organizzare, da parte dei privati, l’offerta di alcuni servizi sociali.

La terza motivazione (difficoltà organizzativa di taluni servizi da parte dei privati) sembra di immediata comprensione, ricavabile anche dall’esperienza personale107. Peraltro, essa è riconducibile anche all’impostazione “benesserista”, nella quale è stata analizzata come uno dei casi di “fallimento del mercato”, rappresentato dall’assenza o incompletezza,

105 Inoltre, fa riflettere il fatto che alcune dirigenze politiche in diversi Paesi, in periodi pre – elettorali, abbiano “offerto” agli elettori, con esplicita attenzione alle classi popolari, la riduzione delle imposte sul reddito da esse pagate, piuttosto che nuovi finanziamenti per i servizi sociali. L’economista che crede nell’utilitarismo individuale affermerà di trovare un riscontro concreto alla validità della sua impostazione (il citato Lewis, 1949, proponeva di “ridurre pari passo l’imposizione sulla classe lavoratrice e i servizi ad essa forniti”, p. 31). Una possibile risposta è che la concreta realizzazione e gestione dei servizi sociali “di massa” ha, in molti Paesi o Regioni (ma non in tutti, e non per tutti i servizi), mostrato inefficienze e arbitrarietà che hanno deluso molti cittadini: non sarebbe, perciò, sbagliato lo strumento di intervento, ma sarebbero da correggere e meglio regolare le strutture organizzative e le gestioni dei servizi, e trovare più efficaci metodi di controllo e stimolo alla produttività degli addetti. Vi è ormai abbondante letteratura sulle cause delle inefficienze del settore pubblico, sui possibili rimedi e sui criteri di confronto dell’efficienza del settore pubblico rispetto a quella del settore privato (cfr. ad es., per una visione d’insieme, Stiglitz (2003)). Secondo alcuni autori, sarebbero in ogni caso da ricercare soluzioni concorrenziali, che coinvolgano più enti e strutture, pubbliche e anche private, nell’offerta del servizio sociale, perché si ritiene che la competizione sia il migliore stimolo alla efficienza: ma anche tale tesi non pare essere verificata, o applicabile, in tutte le situazioni e per tutti i servizi. Inoltre, non è dimostrato quanto gli elettori delle classi medio-basse abbiano apprezzato l’offerta di riduzioni fiscali a loro vantaggio in luogo di investimenti nei servizi sociali (e a maggior ragione se lo sgravio fiscale dovesse essere finanziato da riduzione delle spese per i servizi sociali). 106 Steve (1976), pp. 202 e ss. 107 Alcuni autori rilevano che la complessità organizzativa, già nella fase decisionale, di taluni servizi trascende le possibilità delle associazioni volontarie tra cittadini. Più recentemente, d’altra parte, lo sviluppo e l’importanza assunti dal “volontariato” (terzo settore) in molti interventi sociali hanno aperto nuove prospettive di riflessione e di azione.

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per qualche specifico motivo, del mercato di un determinato bene o servizio. Se, invece, i mercati sono completi, gli agenti possono sempre acquistare privatamente il servizio desiderato (perché vi è un’offerta privata di istruzione, sanità, servizi abitativi, trasporto, ecc.). In altri casi, invece, l’offerta del mercato potrebbe non essere completa (ad es. potrebbe non coprire alcune zone territoriali per motivi di costo; un caso particolare molto studiato è quello dell’incompleta o assente assicurazione verso alcuni rischi). L’incompletezza dei mercati giustificherebbe l’intervento pubblico, per produrre o finanziare o regolamentare l’offerta di tali beni e servizi, sostanzialmente in favore delle classi inferiori della distribuzione del reddito.

Più complesse e, credo, meritevoli di ulteriori riflessioni sono le motivazioni riferite ai difetti di informazione e all’incertezza che caratterizzerebbero le scelte dei consumatori privati (struttura dei consumi e risparmi e ripartizione del reddito tra consumi e risparmi).

I difetti dell’informazione (in particolare le asimmetrie informative) e l’incertezza (in particolare l’incompletezza dei mercati delle assicurazioni private), sono considerati specificamente nelle analisi “benesseriste” quali cause di “fallimenti del mercato”, sanabili con interventi pubblici studiati in relazione alle condizioni dell’ottimalità paretiana (subottimalità, ordinando le soluzioni di “second best” e successive). Ma, nelle citate impostazioni non utilitaristiche i riferimenti ai difetti d’informazione e all’incertezza assumono significati differenti, rispetto a quelli assunti nelle analisi “benesseriste” (che anche oggi si ritrovano nei testi internazionalmente più diffusi di finanza pubblica).

Riguardo ai difetti dell’informazione, Sigdwick scriveva nel 1883108 in merito all’ “ipotesi che il consumatore sia miglior giudice, che non il governo dei beni da lui richiesti”: “Ma mi sembra molto dubbio che questo si possa assumere, poiché, sotto molti aspetti importanti, le tendenze dello sviluppo sociale sembrano portare piuttosto in direzione opposta…l’interesse dei produttori li condurrà in molti casi a offrire beni che sembrano utili piuttosto che non lo siano”.

Riguardo agli effetti dell’incertezza sulle scelte dei consumatori – scelte che nel modello neo-classico generano l’allocazione “efficiente” delle risorse – è ancora di Steve l’incisiva citazione di Iohnson109, che mette a confronto l’informazione “che un operatore professionale richiederebbe, prima di investire in un impianto l’equivalente del costo di un’educazione” e la scarsezza dell’informazione” che il genitore tipico acquisisce – e quella che

108 Sidgwick (ed. 1887), pp. 416-7 e la sua citazione e commento in Steve (1976), pp. 202-3. 109 M.G. Iohnson (1962), p. 184, citato da Steve (1976), p.203.

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potrebbe trovare se la cercasse – prima di decidere quanto investire nell’educazione dei suoi figli e in quale tipo di educazione”110.

Le impostazioni del ragionamento, che si traggono dalle riportate citazioni di Sidgwick e Iohnson, conducono ad accogliere una critica profonda ai presupposti dell’analisi neo-classica e benesserista, fondati sull’utilitarismo individuale. Si contesta la tesi che la “sovranità del consumatore” governa l’allocazione “efficiente” delle risorse, perché si contesta la validità di un modello che assume esogene (“date”) le preferenze dei consumatori, le tecnologie, le dotazioni degli agenti (in particolare dei beni capitali)111. Invero, si ritorna inevitabilmente alla contrapposizione, centrale nella teoria economica, tra la scuola di pensiero che ritiene che le “scelte” dei consumatori, massimizzanti le loro funzioni di utilità, governano la struttura e l’andamento della economia112 e la scuola di pensiero che ritiene, invece, che chi decide il tasso e la struttura dell’accumulazione del capitale governa l’allocazione delle risorse e l’evoluzione dell’economia (cfr. anche la nota 19 a p.8).

La seconda scuola di pensiero attribuisce, dunque, alle imprese le decisioni che governano non solo il tasso di crescita dell’economia in aggregato, ma anche l’evoluzione della sua struttura, decidendo il tasso e la struttura degli investimenti e le innovazioni tecnologiche dei processi produttivi e dei prodotti. Le scelte dei consumatori sono di fatto costrette entro il campo dei prodotti offerti, e sono orientate e stimolate dalle innovazioni ad essi presentate. Più in generale, la scelta “sovrana” del consumatore non avviene, nella più parte dei casi, per soddisfare un suo desiderio al livello strettamente individuale, bensì per soddisfarlo al livello della sua vita inserita nei rapporti della organizzazione sociale113. Ma gli strumenti del “consumo” per gestire tali rapporti – non solo abitazione, sanità 110 Commenta, assai efficacemente, Steve (1976), p. 204: “In queste condizioni, che vedono l’unità familiare prendere quasi alla cieca le decisioni di maggiore importanza, sembra molto arrischiato supporre che si gioverebbe dell’aumento della propria “sovranità” derivante da una riduzione dell’elemento di servizio pubblico nell’educazione, e più in generale da un aumento del suo reddito monetario, accompagnato da una riduzione delle spese sociali”. 111 Ricordo che Musgrave (1959), esplicitamente fonda la sua “Teoria della finanza pubblica” sul principio della sovranità del consumatore: pp. 13; 7-8; 11; 116; 118; 133; 135; e cfr. Stiglitz (2003), p. 35. Nella versione moderna, la teoria delle scelte di portafoglio razionalizza le scelte dell’individuo che alloca il suo bilancio tra consumo e risparmio e decide la composizione dei consumi e dei risparmi; restano esogene al modello le “preferenze” dell’individuo, la distribuzione delle dotazioni tra gli individui, e le tecnologie. La distribuzione dei prodotto è determinata dalle produttività marginali dei fattori, ovvero dalla loro relativa scarsità e dalle tecnologie. 112 Mi pare significativo questo riconoscimento di Stiglitz (2003), p. 31: “La questione normativa più importante per l’economia del benessere è costituita dalla scelta organizzativa di un sistema economico – cosa si dovrebbe produrre, come dovrebbe realizzarsi la produzione, per chi, e chi dovrebbe prendere tali decisioni”. 113 Come riconosciuto dallo stesso Musgrave (1959), p. 14, riportato alla precedente nota 82.

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e educazione ma anche comunicazioni, trasporti, abbigliamento e cura della persona, impiego del tempo libero – sono offerti e frequentemente “innovati” (nella forma, quando non nella sostanza) dalle imprese, che con le loro decisioni di investimento predeterminano largamente gli “stili di vita” dei consumatori. Anche le decisioni, tipicamente imprenditoriali, dell’organizzazione dei processi produttivi condizionano fortemente le scelte dei consumatori, in quanto ne condizionano i modi di vita e la gestione del loro tempo114.

Se si accoglie l’insegnamento della scuola di pensiero che fa capo agli economisti “classici”, che sostiene che le decisioni sull’accumulazione del capitale (tasso, struttura, innovazione tecnologica), piuttosto che quelle sul consumo, governano andamento e struttura dell’economia, anche la questione dei trasferimenti pubblici, in natura oppure in moneta, si pone in termini sostanzialmente differenti rispetto a quelli presentati nei modelli neo-classici.

Nelle società fondate sull’economia di mercato e sulla proprietà privata (del capitale, delle materie prime, delle conoscenze strumentali), le decisioni che governano l’allocazione delle risorse appartengono dunque - secondo tale filone di pensiero - a chi governa le imprese. Ma, i “patti sociali” che legittimano e mantengono in vita tali società prevedono che anche la restante parte (numericamente maggioritaria) della popolazione contribuisca alle decisioni che plasmano e determinano l’evoluzione dell’organizzazione sociale. Poiché le imprese seguono, legittimamente, i propri criteri di decisione – motivati dalla volontà di ottenere il rendimento desiderato sul capitale investito (nell’orizzonte temporale prescelto) ma anche dalle aspirazioni al loro ruolo nella società - , è necessario che in tale sistema sociale l’autorità politica, espressione del consenso della maggioranza dei cittadini, si faccia portatrice degli (eventuali) altri criteri di decisione sull’impiego delle risorse, che emergono nella società (“criteri sociali”).

I trasferimenti pubblici in natura sono tipicamente uno strumento per realizzare tali criteri sociali, allocativi e insieme distributivi, diversi da quelli seguiti dalle imprese private: lo Stato offre determinati beni e servizi a determinate categorie di beneficiari (al limite a tutti i cittadini) seguendo criteri propri (politici), per delega della collettività115. In questa impostazione il confronto tra i trasferimenti in natura e quelli in moneta non si può porre

114 Persino nel settore dei consumi alimentari, è sufficiente confrontare le abitudini alimentari ai tempi in cui prevaleva la tradizionale elaborata cucina familiare, con quelle attuali, che paiono dettate assai più dai tempi imposti oggi dall’organizzazione produttiva e da quella delle relazioni sociali, nonché dalla sempre minore disponibilità di prodotti non confezionati industrialmente, che non da intrinseche modifiche dei “gusti” dei consumatori. 115 La categoria dei “merit wants” proposta da Musgrave assume perciò, in tale impostazione, un’importanza che trascende ampiamente la collocazione marginale che, come ho ricordato, l’autore intendeva ad essa riservare nella sua teoria neo-classica, basata sul principio della sovranità del consumatore.

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nei termini (ad es. paretiani) della “superiorità” di un tipo rispetto all’altro, perché si tratta di due interventi intrinsecamente diversi: i trasferimenti in natura, diversamente da quelli monetari, realizzano, insieme alla redistribuzione, anche criteri di allocazione delle risorse che appartengono all’operatore pubblico, che ne risponde (politicamente) alla collettività.

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