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QUALITÀ DELLE REGOLE E SVILUPPO LOCALE Graziano Pini JEL Classification: L50, O17, R38, R58, Z13 Parole chiave: regole informali, governance locale, better regulation decentrata 1. Le condizioni di contesto della riforma della regolazione Nell’esame dei rapporti di causalità tra giustizia ed economia, tre paiono essere gli aspetti rilevanti: - la quantità delle norme e i tentativi di de-legificazione, - la qualità della regolazione e gli indirizzi di semplificazione e razionalizzazione, - il sistema giudiziario e di applicazione delle norme e gli sforzi per renderlo più efficiente. Semplificazione normativa e qualità della regolazione sono in effetti da qualche tempo nel mirino della politica e delle maggiori istituzioni internazionali, basti pensare alle Direttive UE e ai Rapporti dell’Ocse. E questo anche per i riflessi che queste materie hanno su altre variabili rilevanti della società, come il grado di libertà e di democrazia dei nostri paesi, princìpi ben presenti anche nella carta costituzionale recentemente predisposta a livello comunitario. Il processo di globalizzazione dell’economia, le spinte per una liberalizzazione degli scambi internazionali e conseguente abbattimento delle barriere tra gli stati, la tendenza alla liberalizzazione del mercato attraverso il progressivo ritiro dello Stato e dei suoi vincoli, costituiscono le condizioni di cornice entro le quali le iniziative di miglioramento della regolazione si sviluppano a livello internazionale. Il sistema di regole è, come noto, un fattore di contesto rilevante ai fini della performance e della competitività di un territorio. “Sviluppo economico e qualità delle istituzioni pubbliche (che regolano il mercato) sono interdipendenti. Istituzioni credibili e regole semplici e trasparenti del mercato creano un ambiente favorevole alla valorizzazione delle risorse e quindi dell’accumulazioni della ricchezza per la società” (Onida 2004, p.171). E così vale per il contesto normativo, che dipende anche “dalla Ricercatore (prof. aggregato) di Economia Politica nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Modena e Reggio Emilia 111

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QUALITÀ DELLE REGOLE E SVILUPPO LOCALE

Graziano Pini•

JEL Classification: L50, O17, R38, R58, Z13 Parole chiave: regole informali, governance locale, better regulation

decentrata

1. Le condizioni di contesto della riforma della regolazione

Nell’esame dei rapporti di causalità tra giustizia ed economia, tre paiono essere gli aspetti rilevanti:

- la quantità delle norme e i tentativi di de-legificazione, - la qualità della regolazione e gli indirizzi di semplificazione e

razionalizzazione, - il sistema giudiziario e di applicazione delle norme e gli sforzi per

renderlo più efficiente. Semplificazione normativa e qualità della regolazione sono in effetti da

qualche tempo nel mirino della politica e delle maggiori istituzioni internazionali, basti pensare alle Direttive UE e ai Rapporti dell’Ocse. E questo anche per i riflessi che queste materie hanno su altre variabili rilevanti della società, come il grado di libertà e di democrazia dei nostri paesi, princìpi ben presenti anche nella carta costituzionale recentemente predisposta a livello comunitario.

Il processo di globalizzazione dell’economia, le spinte per una liberalizzazione degli scambi internazionali e conseguente abbattimento delle barriere tra gli stati, la tendenza alla liberalizzazione del mercato attraverso il progressivo ritiro dello Stato e dei suoi vincoli, costituiscono le condizioni di cornice entro le quali le iniziative di miglioramento della regolazione si sviluppano a livello internazionale.

Il sistema di regole è, come noto, un fattore di contesto rilevante ai fini della performance e della competitività di un territorio. “Sviluppo economico e qualità delle istituzioni pubbliche (che regolano il mercato) sono interdipendenti. Istituzioni credibili e regole semplici e trasparenti del mercato creano un ambiente favorevole alla valorizzazione delle risorse e quindi dell’accumulazioni della ricchezza per la società” (Onida 2004, p.171). E così vale per il contesto normativo, che dipende anche “dalla

• Ricercatore (prof. aggregato) di Economia Politica nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Modena e Reggio Emilia

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coerenza delle regole di allocazione dei poteri decisionali e dei poteri di controllo” (ibidem, p.172; v.anche par. 7.1.). Sistema di regole (numero e qualità delle norme) e sistema giudiziario (tempi e modi della giustizia civile e penale) sono due facce della stessa medaglia, entrambi sono rilevanti per l’economia di un paese.

L’esigenza di semplificazione, coerenza, chiarezza, accessibilità, efficienza ed efficacia della normazione è sentita a livello planetario. Da una fase di grande attenzione alle diverse forme di fallimento del mercato si è passati ad una di analisi dei possibili fallimenti dello Stato, con i relativi “costi da regolazione” connessi con i costi e le inefficienze della burocrazia. Il processo, anche nel nostro Paese, si affianca al passaggio da una legislazione attenta all’equità nelle opportunità e nella distribuzione della ricchezza, in altre parole da uno Stato che governa e gestisce, programma, dirige e amministra ad una impostazione politico-legislativa (anni ’80 e soprattutto ’90) che privilegia la semplice regolazione dei mercati e l’utilizzo di atti consensuali o negoziali anziché di strumenti autoritativi e unilaterali. Si passa così da uno Stato che gestisce ad uno Stato che regola. La constatazione che anche la regolazione può fallire riapre il dibattito tra interventisti e liberisti, tra approccio dirigista e approccio, come si dice, market friendly e fa riacquistare seguito alle filosofie che in una qualche misura auspicano un tasso minimo di regole (lo “Stato minimo”) al di là del quale si hanno più effetti negativi che positivi. Lo Stato dovrebbe, sostengono i più radicali (Hayek 1976), semplicemente assegnare e rendere esigibili i diritti fondamentali, compresi i diritti di proprietà. In entrambi i casi, che lo Stato gestisca o si limiti a regolare, si pone un problema di efficienza normativa e di qualità delle regole. Il problema della qualità della regolazione, infatti, consiste nel “riuscire ad avere ordinamenti che garantiscano adeguatamente diritti, libertà, interessi legittimi dei cittadini, singoli o organizzati, e interessi generali della collettività (più o meno approfonditamente perseguiti, n.d.a.), nel contempo imponendo il minor livello possibile di costi da regolazione e di oneri burocratici, la maggior possibile trasparenza e facilità di accesso alla conoscenza della legislazione”(Bassanini 2005). Confronti internazionali sembrano dar ragione a chi ritiene che l’eccessiva regolamentazione dei mercati dei beni e dei servizi possa causare un rallentamento dell’economia scoraggiando gli investimenti e lo sviluppo (Alesina et A., 2004)1. È dunque in atto un tentativo di perseguire a tutti i livelli una migliore qualità della regolazione,

1 Indagini Ocse rilevano che tra i maggiori impedimenti all’attività imprenditoriale vi è la pesante regolazione (la burdensome regulation raggiunge il 15% delle indicazioni contro il 9% dell’inefficienza dei governi, l’11% della adeguatezza delle infrastrutture e il 19% dei problemi finanziari) (Oecd 2001c)(v. anche par.3). Anche il Fondo Monetario Internazionale rileva come i miglioramenti nella qualità della regolazione possano portare aumenti del Pil fino al 7% e incrementi nella produttività fino al 3% (IMF 2003).

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variamente denominata con terminologia anglosassone: better regulation, regulatory quality, perfect regulation system, good regulatory governance. Aumenta la coscienza della rilevanza fondamentale esercitata dalla cornice regolativa sulla competitività dei territori a causa dell’incidenza sui costi di transazione che sostengono gli operatori economici nel loro agire quotidiano e delle inefficienze che conseguentemente derivano nei meccanismi relazionali sia di tipo statico o allocativo, che riguarda cioè una cattiva allocazione delle risorse, sia di tipo dinamico o adattivo, che riguarda invece i comportamenti e gli adeguamenti degli agenti alle mutate caratteristiche del contesto. Il tutto porta ovviamente a ridurre il benessere collettivo e non trova ostacoli in automatismi indotti da interessi privati, magari di lobbies, che vadano in direzione opposta. Una buona regolazione, si dice, è un bene pubblico, non è escludibile né rivale, nessuno individualmente ha interesse a che si sviluppi, mentre la collettività nel suo complesso ne trae enormi benefici.

Occorre una attività di produzione di norme coerenti e chiare, che non facciano sorgere dubbi di interpretazione tra gli operatori e tra i destinatari, cittadini singoli e organizzati. E questo soprattutto in un quadro di policentrismo normativo e di esigenze di multilevel governance. Ne sono esempi: l’allargamento dell’Unione Europea a paesi con differenti sistemi e gradi di regolazione2, i rapporti ondeggianti tra competenze legislative statali e regionali, le regole locali e il pericolo di sovrapposizione di competenze a livello territoriale. Si tratta allora di riordinare, innovare, integrare ma anche solo di semplificare, che il più delle volte comporta deregolare, eliminare quando possibile, interventi amministrativi autorizzatorii e altre misure di condizionamento della libertà economica.

I nuovi pesi assegnati ai regolatori della filiera istituzionale e la devoluzione dei poteri a monte e a valle degli Stati determina uno scorrimento del ruolo regolatore e quindi una naturale tendenza di adattamento nelle motivazioni e nei comportamenti degli agenti economici che giocano sempre più su una scacchiera globale. Vale a dire che i soggetti destinatari delle regole, cambiando il posizionamento del regolatore (ad esempio dallo Stato alle Regioni o all’Unione Europea), tendono a modificare la propria collocazione per sfruttare i lati positivi (incentivi, “cattura”,…) ed evitare quelli negativi (vincoli e penalità).

2 Qui si pone anche il tema dell’analisi dei rapporti tra differenti ordinamenti giuridici nazionali, tanto più attuale quanto più si sviluppano reti (networks) transnazionali alle quali aderiscono le nostre imprese anche di minore dimensione. A questo proposito è necessario sviluppare considerazioni in ordine alla individuazione della norma applicabile ad una data operazione commerciale e del giudice competente a pronunciarsi in caso di eventi patologici ad essa relativo. Si sviluppano in questo caso regole e principi di applicazione uniforme ai contratti internazionali tesi a facilitare le transazioni che interessano, appunto, più Stati ed ordinamenti.

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“Qualità delle regole implica anche essenzialità e minore onerosità della normazione da un punto di vista economico sostanziale (una regola interviene solo quando è indispensabile e se i benefici da ottenere sono superiori ai costi), contrapponendosi perciò alla tendenza alla iperregolazione di alcuni settori (si pensi agli appalti pubblici, alla concorrenza, all’ambiente).” (Sandulli 2005, p.6)3.

L’input politico riordinativo può farsi risalire alla Raccomandazione OCSE del 1995 denominata “Improving the Quality of Government Regulation” e nel relativo Rapporto del 1997, dove si sottolinea l’importanza di riformare le regole ad impatto economico, finalizzandole alla tutela della concorrenza ed eliminando gli ostacoli agli scambi e agli investimenti. La pratica di mettere la lente di ingrandimento su ogni paese, valutando la sua qualità legislativa attraverso parametri comuni predefiniti (peer review), anche in confronto con le migliori esperienze, ha consentito di mettere ogni policy maker nazionale in condizioni di migliorare la propria condizione regolativa. Le nuove Raccomandazioni del 2005 (Policy Recommendations for Regulatory Quality and Performance) proseguono nel solco tracciato, sottolineando l’importanza delle politiche complessive dei paesi interessati.

Naturalmente anche l’Unione Europea segue lo stesso indirizzo, richiamato nel 2001 dal rapporto finale del Mandelkern Group, istituito dai Ministri europei per la funzione pubblica e dalla Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo del Marzo 2005 (COM 97/2005). Qui troviamo esplicito richiamo ai principi costituzionali europei della necessità, proporzionalità, sussidiarietà, trasparenza, responsabilità, accessibilità e semplicità.

In Italia il processo di better regulation si snoda dalle Bassanini in poi, alla fine degli anni ’90 e tende a rendere la “nuova regolazione” più aderente alle esigenze della collettività sviluppando iniziative di semplificazione e riduzione di norme esistenti, oltre a consolidare e sistematizzare, ad innovare se necessario. Ciò avviene con due strumenti: i nuovi codici di settore e le procedure di regulatory impact assessment.

Il tutto trova ampio sviluppo nella l.229 del 2003 (Interventi in materia di qualità della regolazione, riassetto normativo e codificazione. Legge di semplificazione 2001) e nel decreto delegato sul “riassetto delle disposizioni statali di natura legislativa vigenti in materia di produzione normativa, semplificazione e qualità della regolazione” dove si fa esplicito riferimento all’esigenza di adeguare, aggiornare e semplificare il linguaggio e di riassestare e ridurre le disposizioni vigenti, oltre a delegificare aspetti organizzativi e procedimentali. 3 Rafforziamo una citazione recente con una citazione antica: “Come le leggi inutili indeboliscono le leggi necessarie, così quelle che possono essere violate indeboliscono la legislazione”, dice Montesquieu nel suo “Lo spirito delle leggi” del 1748 (Utet, Torino, 2° ed (a cura di S.Cotta), 1965, vol 2°, Libro Ventinovesimo, Capo XVI, pag.306).

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Di particolare interesse è la “nuova codificazione”, ovvero i nuovi codici di settore, alcuni già realizzati, altri in fase di predisposizione, che vanno al di là dei testi unici, tesi esclusivamente a sistematizzare ciò che esiste. Facciamo riferimento al Codice della proprietà industriale (DLgs 30 del 10-2-2005), al Codice dell’ambiente (DLgs 152 del 3-4-2006), al Codice del consumo (DLgs 206 del 6-9-2005), al Codice unico degli appalti (DLgs 163 del 12-4-2006), mentre altri (v. anche Lipari, 2005) sono in gestazione e riguarderanno le assicurazioni, il codice di diritto tributario (ex l.80/2003), gli incentivi, l’internazionalizzazione, la metrologia, i prodotti alimentari, la sicurezza dei lavoratori, l’amministrazione digitale e così via.

Si tratta, come si vede, di una progressiva partizione normativa che appare come la forma più semplice e più adottata di razionalizzazione in una situazione di crescente complessità o addirittura di caos normativo, dovuto anche ad un progressivo affollamento nei livelli di normazione (UE, Stato, Regioni, Province, Regolamenti). D’altro lato, la sistemazione per parti di un insieme complesso di norme e di regole ha trovato ampia applicazione nel recente passato con l’istituzione di autorità amministrative indipendenti (authorities), di cui tra l’altro è stato recentemente ribadito il potere regolamentare (Consiglio di Stato 2004).

Dalla fine degli anni ’90 sono entrati nel sistema legislativo anche del nostro Paese gli strumenti di Regulatory Impact Assessment che da noi si chiamano Analisi di Impatto della Regolazione (AIR) oppure Valutazione (ex post) di Impatto della Regolazione (VIR); entrambi questi strumenti sono stati rilanciati dalla citata l.229/2003. Le procedure “tipo AIR” costituiscono, se pure in misura insufficiente, anche a causa delle ovvie resistenze incontrate, uno strumento essenziale nell’auspicata riforma della qualità della regolazione avviata dall’OCSE. Si tratta, come detto, di una analisi tipo peer review dove ogni paese è valutato utilizzando identici parametri e il benchmarking con le best practises. Nelle analisi preventive e consuntive di AIR sono utilizzate procedure del tipo costi-benefici, che valutano, attribuendo valori misurabili, effetti positivi e negativi di un provvedimento.

Il recente rapporto internazionale sulla libertà economica predisposto dal Fraser Institute (id, 2005, tab 1.3, p.16) segnala gravi ritardi dell’Italia: per quanto riguarda il peso complessivo dello Stato4 ci colloca al 98°posto Ocse (ma la Germania è al 109° e la Francia è al 125°), mentre gli indici sulla regolamentazione delle attività economiche (credito, lavoro e affari)5 ci segnalano alla 97° posizione, mentre la Germania si trova al 78°, la Spagna al 44°, la Francia al 39° e il Regno Unito al 7°. Cosicché la ricordata 4 I parametri sono: ammontare della spesa pubblica (in percentuale sul Pil), imposizione fiscale (aliquota), peso delle imprese pubbliche. Tutti i dati del Rapporto sono relativi al 2003. 5 I parametri utilizzati sono relativi a: peso delle banche pubbliche e delle banche estere, controllo dei tassi di interesse, vincoli ai rapporti di lavoro, prezzi amministrati e regimi amministrativi diversi.

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importanza della qualità della regolazione per la competitività dei territori ci fa immaginare per il nostro Paese condizioni peggiori in ordine ai costi di transazione incontrati dagli operatori economici nel loro agire e nelle inefficienze statiche e dinamiche che abbassano il benessere collettivo. Vi è, come detto, un interesse pubblico ad una buona qualità della regolazione, interesse che “va perseguito con strumenti e strategie dedicate. La qualità della regolazione e la semplificazione rappresentano inoltre interessi recessivi nel concreto sviluppo delle dinamiche istituzionali e amministrative, in quanto normalmente non supportati da gruppi di pressione e lobbying, da interessi dell’apparato burocratico, paragonabili a quelli che normalmente sostengono gli interessi alla complicazione e alla iper-regolamentazione.”(R. Perna su Il Sole 24 ore,12-1-2006). Il processo di semplificazione e delegificazione sembra attraversare una fase di rallentamento nel nostro Paese, anche se il decreto legge n.4 del 2006 contiene importanti leve di implementazione delle politiche di better regulation e di semplificazione che saranno anche in seguito richiamate e che riguardano l’introduzione di una cabina di regìa, una maggior tenuta istituzionale delle politiche di semplificazione, un comitato dei ministri che coordini le attività dei vari settori del governo, il coinvolgimento del Consiglio di Stato nell’attuazione della delega “taglia-leggi” e per ovviare alla frammentazione di competenze, la consultazione del sistema delle imprese che consenta di costruire regolamentazioni efficaci e giustificate sotto il profilo costi-benefici, la concertazione con le regioni e gli enti locali per evitare i rischi che un assetto istituzionale caratterizzato da ampia autonomia dei livelli periferici di governo finisca per favorire e tradursi in un fattore di complicazione (ibidem).

Le dichiarazioni di intenti ed i primi provvedimenti presi o in corso di predisposizione da parte del governo Prodi del 2006 sembrano riavviare il processo e dare ad esso una certa accelerazione. In particolare ci sembrano significativi:

- la modifica e l’integrazione della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 con una più adeguata ripartizione di competenze tra Stato e Regioni e con l’istituzione del Senato delle autonomie locali; così come è nel frattempo importante la semplificazione e il coordinamento istituzionale centro-periferia con varo dell’organo chiave costituito dalla conferenza unificata Stato-Autonomie locali (dalle tre esistenti),

- l’accelerazione del processo di autonomia finanziaria (federalismo fiscale) di Enti locali e Regioni con riaffermazione della territorialità delle imposte, revisione della compartecipazione, individuazione delle prestazioni essenziali e dei costi standard dei servizi,

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- la revisione del Testo Unico degli Enti locali con riordino delle funzioni amministrative che valorizzino le concentrazioni e le sinergie e l’individuazione del nuovo ruolo dei Prefetti6,

- la revisione dell’assetto regolativo di alcuni aspetti di gestione dei servizi pubblici locali, tendente ad aumentare il grado di liberalizzazione e di coinvolgimento dei consumatori.

2. Alcune definizioni

In questo lavoro utilizzeremo termini il cui significato è spesso non univoco e impreciso. A scopo di chiarimento segnaliamo quello che noi intendiamo debbano significare, almeno in questo contesto, coscienti della sicura insoddisfazione che deriverà dalle definizioni proposte.

Mentre in genere si usa il termine “regolazione” come alternativo a quello di “libera concorrenza”, a significare interventi normativi sul mercato in sostituzione della smithiana mano invisibile, se si ha riguardo al processo di derivazione delle regole si è soliti distinguere tra regole che derivano dal mercato (regolazione economica), regole che derivano dalla politica e quindi dallo Stato e dalle sue articolazioni (è la regolazione di cui parleremo in questo lavoro) e regole che derivano dalla società (comunità) e dai rapporti che qui si sviluppano (regolazione sociale, di cui pure tratteremo, se pur brevemente). I politologi distinguono poi la regolazione, in genere intesa come di derivazione politica, dalla regolamentazione, intesa come attività amministrativa. Per “regolazione” i giuristi7 intendono l’attività di disciplinare i rapporti interprivati, in ultima analisi il diritto privato. Mentre per “regolamentazione” intendono l’attività normativa che riguarda il perseguimento di fini pubblici, ovvero grossolanamente il diritto pubblico. In 6 Sviluppando temi in applicazione decentrata non possiamo sorvolare sul preannunciato passaggio da un ruolo secondario ad uno prioritario dei Prefetti. Non solo dovranno valorizzare e rendere maggiormente operative le Conferenze permanenti di cui fanno parte i rappresentanti delle strutture amministrative periferiche dello Stato e a cui partecipano i rappresentanti degli Enti locali, ma dovranno diventare garanti del rispetto dei diritti fondamentali (diritti civili e sociali) dei cittadini in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale, dovranno sorvegliare l’applicazione dei diritti di concorrenza (ad esempio per quanto riguarda i servizi locali), suggerire agli Enti locali pratiche migliorative dei primi e dei secondi; anche la realizzazione di sportelli unici per cittadini e organizzazioni pare affidata all’iniziativa delle Prefetture. 7 La regolazione, termine di cui si annota una “notevole indeterminatezza” e figura “estremamente eterogenea”, nella dottrina giuridica tradizionale e nella sua versione più ampia, è sinonimo di “disciplina” ed interessa gran parte del diritto dell’economia, del diritto dell’ambiente e della tutela dei consumatori, del lavoro e della previdenza sociale (D’Alberti 2000); si tratta di una serie di norme che mirano a garantire risultati che il mercato, spontaneamente, non assicurerebbe (Cassese 2000, Barbati 2005). In senso stretto, invece, la regolazione sarebbe nient’altro che l’esplicazione della funzione tradizionale della Pubblica Amministrazione, se non addirittura delle sole Amministrazioni indipendenti; non comprende quindi la disciplina della concorrenza, che invece di garantire risultati altrimenti impossibili ai mercati, mira alla correzione dei risultati indesiderati degli stessi (ibidem).

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questo lavoro utilizzeremo tuttavia questa parallela distinzione. Per “regolazione” intendiamo l’attività di conformazione di determinate attività rispetto a contenuti specifici, l’attività di istituire regole (norme primarie e secondarie, ovvero leggi, decreti, regolamenti) che disciplinano le azioni dei membri di una comunità; si tratta allora di una riduzione dei comportamenti ad ordini e schemi precisi.

Per “regolazione e controllo”, poi, intendiamo un insieme di interventi su di un processo che si svolge nel tempo, al fine di influenzarne l’andamento secondo determinati criteri.

Per “regolamentazione” intendiamo l’imposizione di una disciplina giuridica che condiziona i comportamenti privati e li orienta verso obiettivi di carattere generale (es. politica della concorrenza, della salvaguardia ambientale, regolamentazione che amplia le possibilità di scelta dei consumatori8, regolamentazione finanziaria,9…). La regolamentazione segna così confini generali per le libere scelte attuabili dagli operatori economici.

Per “regola formale” intendiamo una norma sostanziale e procedurale (codice di condotta) che condiziona, attraverso vincoli, le relazioni economiche, sociali e politiche di una comunità. A questa categoria, che riguarda la sfera più propriamente giuridica, contrassegnata cioè dall’esistenza di una autorità terza in grado di sanzionare la mancata osservanza delle prescrizioni, appartengono, ai nostri fini, anche le regole consuetudinarie, altrimenti definibili come informali.

Per “regola informale” intendiamo una relazione e un comportamento condiviso e ripetuto nel tempo e nello spazio, che comportano in una collettività reputazione e aspettative di continuità. I giuristi direbbero: una prassi. Si tratta di regole rientranti nella sfera dei rapporti sociali e non giuridici, non essendovi qui una autorità terza che ne possa sanzionare giuridicamente la mancata osservanza.

Per “istituzione” intendiamo un sistema di regole condivise, ovvero (Aoki 2001) un sistema di credenze condivise, autosostenentesi, a proposito di un aspetto saliente nel quale il gioco è giocato in maniera ripetuta.

Per “istituzione formale” intendiamo un sistema di regole formali condivise ed utilizzate da una comunità o da un gruppo di soggetti oppure una struttura organizzata titolare di qualche potere giuridico o amministrativo oppure ancora una formalizzazione vincolante (ad esempio un piano di settore locale).

Per “istituzione informale” intendiamo un sistema di regole informali, di prassi, quindi di relazioni e convenzioni tacite ma riconosciute e radicate in rapporti di fiducia, spesso invisibili per gli outsider.

8 Vedi M. Monti (2000), p.83. In questo senso sarebbe sinonimo di disciplina della concorrenza e diventerebbe una sottocategoria della regolazione (v.nota precedente). 9 Vedi G.Minervini, M.Onado (2000), p.103. Come nota precedente.

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Per “capitale sociale” intendiamo l’insieme di beni collettivi prodotto da una interazione relazionale di comunità; è detto anche “capitale di relazioni” ed è riferito naturalmente alle istituzioni e alle regole informali di una comunità.

Per “sentiment territoriale” intendiamo quell’insieme di relazioni, di percezioni, opinioni e credenze che caratterizzano un dato territorio; comprende quindi anche il capitale sociale, la cultura anche civica della comunità e la cultura politica.

Per “sistema economico locale” intendiamo genericamente un agglomerato di imprese inserito in una collettività di persone e di istituzioni, reciprocamente relazionati e interconnessi.

Ritornando alla presunta differenza tra regolazione e regolamentazione, distinzione assai difficile e controversa, possiamo immaginare la contemporanea presenza, in un sistema giuridico, di maggiore regolamentazione (paletti più alti e numerosi e obiettivi più stringenti e numerosi) e minore regolazione (minor quantità di leggi e regolamenti e/o minori fattispecie regolate). Insomma può esistere un problema di qualità della regolazione ma non quello di qualità della regolamentazione, trattandosi in questo secondo caso di indirizzi e regole che traggono da variabili politico-economiche la loro principale ragion d’essere; e quindi solo su questo piano possono essere messe in discussione.

In concreto, su documenti (e leggi) nazionali troviamo, con significato più analogo che contrapposto, entrambi i termini. L’accezione spesso utilizzata, indifferentemente e alternativamente, di regolazione e di regolamentazione, soprattutto in campo internazionale (si usa un unico termine: regulation), ricomprende in senso lato l’utilizzo di leggi e provvedimenti formali, norme delegate emesse dai diversi livelli di governo o da organismi non governativi o anche provvedimenti di autoregolazione da parte di questi ultimi, ai quali l’ordinamento giuridico ed amministrativo abbiano delegato il potere di farlo.

Ma perché nascono le regole? Per rispondere a tre tipi di opzione di una collettività: perché si rifiuta l’anarchia e si intende tutelare l’interesse generale limitando la libertà individuale (opzione politica), perché fallisce il mercato con la presenza di operatori dominanti, esternalità, asimmetrie informative, necessità di universalità nella fornitura di certi beni e servizi (opzione economica), perché lo richiede l’avanzare delle relazioni sociali e della coscienza dei membri di una collettività (opzione sociale).

E quali sono le regole? Regole (formali) sono le norme primarie come leggi e decreti, direttive comunitarie, oppure le norme secondarie come i regolamenti. Lo sono pure atti non normativi come gli atti amministrativi, i piani, gli standard tecnici o informativi pubblici, le regole da autoregolamentazione (marchi di qualità, standard tecnici e informativi privati, carte dei servizi per i produttori di servizi pubblici, parametri generali

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o specifici di qualità o di prestazione di singoli prodotti o prestazioni, tariffe libero professionali, e così via). Come già anticipato, ai fini del presente lavoro, anche le consuetudini rientrano delle regole formali, pur essendo di fatto caratterizzate da informalità. Si parla poi di regolazione sociale facendo riferimento alle norme sulla salute, l’ambiente e la sicurezza sul lavoro, di regolazione amministrativa con riguardo ad adempimenti amministrativi e di regolazione economica per intendere regolazione dell’accesso e dell’uscita dai mercati, delle attività economiche, come prezzi, orari, standard, universalità ecc…

Si parla di regimi amministrativi per intendere insiemi di regole giuridiche che disciplinano i rapporti individuo-autorità in modo da limitare le situazioni soggettive di vantaggio dei singoli e anche temperare l’esercizio di un pubblico potere.

Essi riguardano la concorrenza nel mercato e anche la concorrenza per il mercato, l’accesso ad esso. Tra questi secondi vanno ricordati gli istituti ai quali i regimi amministrativi corrispondono e che assumono varie denominazioni: concessioni, autorizzazioni, licenze, abilitazioni, ecc.

Vi sono regole che vincolano e normano la struttura di impresa (separazione contabile od operativa, per segmenti di mercato, ad esempio nei servizi pubblici), obblighi di servizio universale per rispondere ad esigenze ed opzioni, come detto, economico-sociali e di equità.

Naturalmente le regole sono esse stesse il risultato di scelte politiche (policy), attribuendo poteri, opportunità e voce ai soggetti coinvolti secondo determinati schemi di privilegio. Le regole danno sicurezza ad una collettività e favoriscono in essa le pratiche di assunzione di responsabilità. Le regole (momento giuridico) possono essere viste come strumento-cuscinetto, di aggiustamento nei casi di una mancata coestensione tra momento economico e momento politico. 3. Alcuni dati sul sistema giudiziario

Va subito precisata la limitata disponibilità di dati e indicatori di consistenza e di performance del sistema giudiziario nazionale ed internazionale. Nei pochi tentativi di riempire un vuoto così ampio e strategico per le politiche della giustizia, si segnalano (Istat-Mipa 2004), per quanto riguarda l’Italia, carenze soprattutto in ordine alle informazioni sulle risorse finanziarie, sul bilancio giudiziario, sulla performance, le attività amministrative, i fenomeni extra-giudiziari, oltre alla completa assenza di indicatori intersettoriali. Si possono definire sufficienti i dati sull’impiego delle risorse umane. In un disperato tentativo di fare qualche paragone, segnaliamo che in Italia risultano (Relazione Ministro Giustizia 2006) operanti 9200 magistrati e 8000 giudici onorari, oltre a 43000 addetti del settore, in Spagna 4000 magistrati, 1500 fiscales (pubblici ministeri) e 8000

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giudici di pace, oltre a oltre 40000 addetti, mentre in Francia tra magistrati, addetti ai servizi giudiziari e alla giustizia amministrativa risultano operanti più di 64000 persone. Altro tentativo con scarsa significatività esplicativa è quello di comparare la durata dei procedimenti, il tempo che intercorre dal misfatto accertato alla sentenza. In Italia (Relazione del Ministro di Giustizia 2006 con dati 2004) la durata media dei procedimenti civili risulta di 401 giorni per il primo grado, 860 per le corti d’appello, 918 per la Cassazione. Per i procedimenti penali si hanno 481 giorni per il primo grado, 636 per l’appello e 317 per la Cassazione. Ma la giacenza media dei procedimenti per i tre gradi di giudizio diventa 87 mesi per il civile, 82 mesi per il penale. In Francia (2000) dal misfatto alla sentenza passano 67,6 mesi per l’Assise e 9,8 mesi per i tribunali “correctionel”. In Germania (2000) i procedimenti civili durano mediamente 130 gg, 210 gg e 252 gg nei tre tipi di tribunale, in Spagna mediamente 180 gg (Istat-Mipa 2004).

La recente rassegna del Consiglio d’Europa (Cepej 2005) condotta sul sistema giudiziario di 40 paesi membri mette in evidenza un “indice di litigiosità” per nazione che vede l’Italia in sofferenza, con 7145 cause civili e penali per 100.000 abitanti contro dati di 3381 per la Germania, 3711 per la Francia, 4255 per la Spagna, 6230 per l’Inghilterra, 7994 per la Polonia. Anche un “indice di efficienza dei tribunali” non ci vede in buona posizione, segnalando infatti per l’Italia 1997 sentenze non-penali su 100.000 abitanti, contro valori di 2580 in Francia, 2414 in Danimarca, 2039 in Olanda e 1304 in Spagna. La durata media delle cause di divorzio segnalano l’Italia con 250 giorni, mentre Germania e Francia superano i 300. La durata di un giudizio in Appello diventa per le cause di divorzio 400 giorni in Italia, 450 in Germania, appena 100 in Francia, mentre per le cause di licenziamento l’Italia detiene il record (tra i paesi esaminati) con 600 giorni contro i 230 della Francia.

Un altro dato rilevante per la misura dell’efficienza della giustizia in un paese e in un territorio è quello relativo ai tempi per il recupero dei crediti, cioè ai giorni che trascorrono tra il momento in cui una pratica si avvia presso un tribunale e quello di effettivo recupero. Secondo dati Banca Mondiale riportati dal Rapporto di Confindustria10 in Italia passano mediamente 1390 giorni, mentre nel Regno Unito ne bastano 288, negli USA 250, in Germania 175, in Spagna 169, in Francia 75.

L’auspicato funzionamento della “ghigliottina legislativa”11 fatica a trovare nel nostro sistema una concreta attuazione e anche i dati dell’ultima

10 V. Il Sole24 Ore del 2-2-2006. 11 La “regola della ghigliottina” si riferisce all’automatica cancellazione di norme di cui non era comprovata l’utilità e l’adeguatezza avvenuta in un progetto di riforma del Governo svedese negli anni ’80 (Jacobs, Scott 1997). Oggi tale meccanismo dovrebbe riguardare tutte le leggi vigenti al momento di entrata in vigore del codice di settore o del testo unico che non le raccolga, in particolare, secondo quanto previsto dal Ddl di semplificazione 2005, dovrebbe

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legislatura non rendono giustizia dei proclami ripetutamente fatti a livello politico. Nel periodo 2001-2005 sono state appena 56 le leggi abrogate mentre sono state 665 quelle approvate ed entrate in vigore, 4578 gli articoli abrogati contro i 9421 introdotti.

Il Global Competitiveness Report 2005-2006 del World Economic Forum12 fa una graduatoria di 117 paesi in ordine ad un gran numero di indicatori, relativi a fattori di contesto che influenzano il business. Tra questi indicatori ne segnaliamo alcuni dove la posizione dell’Italia è, purtroppo, sofferente:

- Efficienza della struttura giuridica per l’impresa privata (nelle prime posizioni il sistema è efficiente e segue procedure chiare e imparziali): l’Italia è al 77° posto (mentre, ad esempio, la Germania è al 4°, l’Olanda al 6°, il Regno Unito all’11°, la Francia al 21°, la Spagna al 40°, la Grecia al 48°).

- Efficienza degli organi legislativi: 67° posto (UK 3°, Fr 12°, Ger 34°, Sp 37°).

- Gravosità del sistema regolativo pubblico (permessi, regolamenti, autorizzazioni…): 113° posto (Irl 15°, Sp 25°, UK 51°, Fr 68°, Ger 80°).

- Tutela della proprietà intellettuale: 34° posto (USA 1°, Ger 2°, UK 4°, Fr 10°).

- Diritti di proprietà chiaramente definiti e ben tutelati dalla legge: 41° posto (Ger 1°, USA 2°, UK 7°, Fr 16°).

- Tutela degli interessi degli azionisti di minoranza: 83° posto (UK 1°, Ger 3°, Fr 22°).

La rilevanza dell’efficienza del sistema giuridico sulla performance economica richiama elementi di teoria dei contratti (v. anche infra). Il problema della verificabilità degli adempimenti contrattuali, come noto, può dar luogo a rischi di opportunismo post contrattuale (hold up). E l’ampiezza interpretativa così come la probabilità di opportunismo sono regolate, se non dagli accordi tra le parti (le clausole contrattuali dell’ordinamento privato), dall’ordinamento giudiziario, cosicché la situazione è sicuramente peggiorata dalle imperfezioni e dai costi della giustizia13. Infatti tra le cause di

riguardare le leggi antecedenti il 1970, salvo estese deroghe (Astrid 2005). I dati sono dell’Osservatorio sull’attività normativa del Governo. 12 Palgrave Macmillan, Ginevra, 2005. 13 Possiamo immaginare, come faremo anche nel par.6.2, i diversi argomenti di una funzione che riguarda un inadempimento contrattuale, una falsa denuncia di redditi, un mancato adempimento da parte di un datore di lavoro, eccetera. E così i, la propensione all’inadempimento, dipenderebbe da v, l’entità del vantaggio che si presume di ricavare (il maggior reddito a disposizione, che nel caso del datore di lavoro dipenderebbe a sua volta dal salario), da p, l’entità della sanzione, da b, la probabilità di venire scoperto (b1) e di venire sanzionato (b2), da t, i tempi di conclusione del procedimento e da u, genericamente indicante variabili ambientali come abitudini e opinioni prevalenti nella società, capitale sociale,

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incompletezza contrattuale vi sono le difficoltà e i costi relativi all’enforcement esterno, come ad esempio i costi, oltre che i tempi e i modi, del ricorso al sistema giudiziario che potrebbero scoraggiare la predisposizione di un contratto completo e che sicuramente possono rendere tali contratti meno efficienti e, al limite, rinunciati. Così la realizzazione di scambi e transazioni, altrimenti possibili e opportuni, potrebbe non verificarsi, con effetti negativi sulla performance economica del contesto territoriale complessivo. Il sistema delle regole e il sistema della giustizia, ognuno per la sua parte, hanno effetti positivi e negativi sugli scambi anche per questa via.14

4. I passi fatti a livello nazionale 4.1. Le riforme costituzionali e il decentramento del sistema giudiziario

La riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 ha, in certa misura, ridefinito la ripartizione di competenze tra i vari livelli in cui si articola lo Stato ed in particolare l’attribuzione di competenze alle Regioni è accresciuta significativamente. In questi ultimi anni l’attività legislativa ha anche teso a ridurre il ruolo dello Stato, concentrando invece in esso le funzioni di controllo e di garanzia, ponendosi anche il problema di un più efficace e completo coordinamento tra i diversi livelli legislativi e gestionali. Il decentramento di un sistema giudiziario e quindi l’analisi dei suoi riflessi sulla società e sull’economia ha due profili. Il primo si riferisce al decentramento indotto dalla articolazione del sistema politico-amministrativo: uno stato più accentrato o più federalista comporta differenti attribuzioni di competenza sulla struttura del sistema giustizia e differente gestione delle risorse. Il secondo profilo si riferisce invece al decentramento operativo e logistico, indipendente dalla forma politico-amministrativa dello Stato, che risponde a logiche organizzative di articolazione territoriale degli uffici e dei servizi. In entrambi i casi si pone un problema di performance dei

relazioni più o meno orientate alla delazione o all’omertà, e così via. Ognuna delle variabili dipende poi da altre determinanti significative. La variabile b, ad esempio, dipenderà dalle attività di prevenzione e di controllo, ma anche dagli orientamenti di chi deve provvedere alla sanzione (giudice, arbitro, autorità preposta). A quest’ultimo proposito teniamo conto della grande autonomia discrezionale che viene riconosciuta al giudice del lavoro in molti campi (ad esempio per il reintegro obbligatorio del lavoratore ingiustamente licenziato). 14 A proposito di reati societari, ad esempio, le nuove regole introdotte nel 2002 e modificate con la legge 262 del 2005 (legge sul risparmio) hanno comportato elementi di significativo rallentamento quantitativo dell’attività giudiziaria in materia di reati societari e di bancarotta, hanno ridotto le pene detentive, introdotto una soglia di tolleranza (5% sull’utile lordo, 1% del patrimonio netto. Il Dlgs 5 del 2003 ha determinato un ridimensionamento dell’intervento giudiziario anche attraverso l’introduzione di termini di decadenza.

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singoli uffici decentrati e di verifica del ruolo di raccordo di questi terminali periferici con le altre istituzioni locali, private e pubbliche, oltre che di coordinamento e raccordo con gli altri livelli del sistema giudiziario. A causa della delicatezza del settore, proprio quello di dispensatore e applicatore di regole, anche nei sistemi a forte decentramento politico-amministrativo (Germania, Spagna) il decentramento della giustizia avviene con alcuni temperamenti, per mantenere al sistema una unità sostanziale e un grado di differenziazione territoriale inferiore ad una determinata soglia (Istat-Mipa, p.32). Va da sé che nei sistemi federali o ad elevato regionalismo cresce la complessità delle interrelazioni del sistema giudiziario, dovendosi tener conto della pluralità dei livelli istituzionali e dei relativi conflitti di competenza, del bilanciamento tra la forza delle norme, della tentazione naturale alla duplicazione delle stesse, dell’integrazione tra legislazioni concorrenti, dei rapporti con il potere politico ed economico ai diversi livelli. E la situazione italiana non è delle migliori. Anche qui “ il numero di casi che ricadono nella competenza di più regolatori è sempre più alto” (Cassese 2000, p.24). “Il sistema italiano costituisce un esempio in negativo di come, fino alle riforme della seconda metà degli anni novanta del secolo scorso, le spinte localiste abbiano favorito la permanenza di uffici giudiziari sul territorio, malgrado i processi d’integrazione dei sistemi sociali, urbani, delle comunicazioni e dei trasporti avessero da tempo posto all’attenzione l’esigenza di una loro razionalizzazione mediante accorpamenti e ristrutturazioni organizzative” (Istat-Mipa, p.32) e questo contribuisce a spiegare i dati di inefficienza sopra riportati.

Un esperimento di decentramento specializzativo, i cui frutti sono assai discussi, riguarda il tema, molto importante ai nostri fini, della tutela della proprietà intellettuale che sappiamo particolarmente rilevante per lo sviluppo e la diffusione dell’attività innovativa delle imprese. Il D.Lgs 168 del 27 giugno 2003 (in applicazione del Regolamento CE n.40 del 1994) ha istituito 12 sezioni (delle 218 in precedenza utilizzate) specializzate dei tribunali in materia (civilistica) di proprietà industriale e intellettuale, il cui scopo è di “assicurare una più rapida ed efficace definizione dei procedimenti giudiziari in materia di marchi nazionali e internazionali, brevetti (nazionali e comunitari) d’invenzione e per nuove varietà vegetali, modelli di utilità, disegni e modelli (ornamentali) e diritto d’autore, nonché di fattispecie di concorrenza sleale interferenti con la tutela della proprietà industriale e intellettuale”15. Purtroppo questo decentramento di specializzazione che ha tolto la materia alle centinaia di giudici ordinari16 per assegnarlo ad un 15 Citazione, leggermente adattata, da: L.C. Ubertazzi, Le sezioni specializzate in materia di proprietà intellettuale, Rivista di diritto industriale, parte I, 2003, pp.219-50. 16 In effetti alcune materie paiono rimanere di competenza del giudice ordinario in quanto relative a realtà e fattispecie locali e quindi a quel livello risolvibili; si tratta, ad esempio, di questioni di ditta, insegna, emblema, denominazione e ragione sociale, vendite sottocosto e

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numero molto più limitato di giudici specializzati, ha di fatto allungato (da settimane a mesi) l’iter procedurale medio dei procedimenti cautelari17, che sono quelli più urgenti e più rilevanti per bloccare comportamenti lesivi; naturalmente la qualità delle sentenze potrebbe averne tratto vantaggio. 4.2. Le riforme economiche e amministrative

Il nostro sistema giuridico, in gran parte assecondando un disegno politico europeo, che pure ha contribuito a definire, ha visto l’affermazione di regole per la concorrenza (legge n. 287/1990) nei mercati, lo sviluppo delle privatizzazioni di diversi settori anche strategici dell’industria e soprattutto dei servizi, estesi quanto tuttora incompleti processi di liberalizzazione in molti mercati anche decentrati. Le norme nazionali di riforma sul tema della concorrenza18 nei servizi pubblici locali (reti e servizio, fusioni e aggregazioni) sono un esempio di effetto a valle di riforme nazionali.

A livello amministrativo giova ancora ricordare il notevole impegno legislativo profuso per la semplificazione, volta a ridurre il numero di pratiche burocratiche19 e a ridurre i tempi di disbrigo delle pratiche stesse, la responsabilizzazione dei dirigenti, l’individuazione del responsabile di procedimento e la previsione di controlli. Strategie come quella della modernizzazione ed efficientizzazione del settore pubblico, così come quelle della semplificazione legislativa e amministrativa o della lotta all’economia

price-fixing, violazione di norme pubblicistiche, violazione di esclusive e inadempienze contrattuali non collegate a diritti industrialistici (v. M.Scuffi, La competenza per materia e per territorio delle sezioni specializzate: dal decreto istitutivo al Codice della proprietà industriale, Il diritto industriale, n.1,2006, pp. 70-79). 17 Una parzialissima analisi di sentenze fatta nel periodo 1/1/2001-31/7/2002 presso il tribunale di Milano rileva che i procedimenti cautelari conclusi con ordinanze hanno riguardato il 49,5% dei casi, con percentuali discordanti per ricorsi riguardanti marchi o segni distintivi tipici (56,4%), brevetti (53%) e atti di concorrenza sleale (36%)(Rivista di diritto industriale, parte II, 2003, pp.49-58). 18 L’art.117, co.2, lett. E) del novellato Titolo V della Costituzione prevede ora che la tutela della concorrenza sia tra le materie di esclusiva competenza statale e questa pare una “clausola capace di limitare le scelte dei governi subnazionali nelle materie economicamente rilevanti” (Barbati 2005, p.37). Il che potrebbe impedire la “possibilità di rintracciare sedi e soluzioni, ulteriori rispetto a quelle che possono ricondursi al centro statale, capaci di farsi garanti e tutori del principio di concorrenza , in termini compatibili con le ragioni di differenziazione funzionale alla valorizzazione dei territori e del loro potere di scelta” (ibidem). La questione è tutta aperta e la discussione tra i giuristi accesa. 19 Per verificare quanto sia importante la qualità della burocrazia come fattore di competitività di contesto per le imprese, si può consultare il sito di Confindustria www.confindustria.it/Aree/cscbench.nsf dove si riscontra (dati World Economic Forum 2003) che l’Italia ha una posizione poco invidiabile nei confronti internazionali, occupando il 60° posto (su 80 paesi indagati) nella graduatoria degli ostacoli posti dalla regolazione all’attività d’impresa, il 47° sulla miglior competenza del personale pubblico, il 43° (su 59 paesi indagati) sugli ostacoli frapposti dalla burocrazia.

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sommersa, hanno soprattutto bisogno di una forte volontà politica e di capacità e competenza da parte delle leadership politiche nazionali e locali. Fattori come la capacità di dare risposte alle richieste espresse dalla società (responsiveness) e la pratica diffusa di rendere conto di quanto si è fatto (accountability), sono molto rilevanti in questi processi che attraversano pesantemente tutta la società. Tali fattori, possiamo dire, stanno iniziando a manifestarsi in qualche misura. Così come sembra avviata la pratica di concentrarsi su alcuni settori o comparti più critici e arretrati, senza farsi prendere la mano da atteggiamenti indifferenziati e universali che rischiano di diventare generici. Predeterminare e scandire i tempi di intervento, così come le verifiche periodiche dei risultati con le relative e significative sanzioni, sono ritenute imperativi irrinunciabili e sono sicuramente entrate nel testo delle norme. D’altro canto, si sta affermando la generale convinzione che senza una evoluzione in senso manageriale di tutto il settore pubblico sarà assai arduo contare su di esso per un effettivo rilancio dell’economia, nazionale o locale che sia. Esempi in tal senso si stanno moltiplicando sia a livello internazionale, sia in alcune realtà regionali del nostro Paese ed interessano lo sviluppo della competizione e del benchmarking interno al settore pubblico, la diffusione di strumenti meritocratici tesi a creare una classe dirigente pubblica capace e motivata, il riordino e il miglior coordinamento dei diversi livelli della P.A. riducendo le aree di duplicazione e confusione, l’introduzione di tecniche di gestione più avanzate e snelle, la sperimentazione di cabine di regia, per ora nazionali (v.infra). La riforma amministrativa dello Stato verso un sistema poliarchico di poteri non è tuttavia esente da problemi, da inefficienze e conflitti vertenziali interistituzionali, soprattutto a causa del moltiplicarsi di enti strumentali, agenzie, comparti autonomi e del crescente ricorso all’outsourcing di funzioni e compiti prima svolti all’interno ed ora svolti in parallelo all’attività istituzionale. Occorre presidiare e orientare la dinamica dei rapporti fra i diversi organi della P.A. in modo da garantire una migliore integrazione e semplificazione delle responsabilità nei procedimenti.

4.3. La semplificazione normativa Notevole è stato l’impegno del legislatore nazionale nella semplificazione

normativa, nel tentativo di ridurre le norme (delegificazione e deregolazione). Si è cercato di perseguire la riduzione del numero di leggi e regolamenti, con l’obiettivo di regolare ciò che serve, evitare la duplicazione e la sovrapposizione di competenze, rendere le norme stesse intelligibili, unificare quelle relative allo stesso argomento, renderle flessibili, facilmente applicabili. Si è esteso il ricorso a leggi delega, evitando in questo modo lunghi tempi di approvazione delle specifiche fattispecie regolate. Notevole anche sotto il profilo dell’efficienza regolativa è stata l’introduzione delle

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autorità amministrative indipendenti (authorities) che in alcuni settori hanno consentito una separata gestione della regolamentazione e una più efficiente gestione del contenzioso.20 Nelle attività normative si è sempre più spesso fatto riferimento ad enti supervisori, allo scopo di rendere migliore l’enforcement delle norme stesse. Si è fatto ricorso a strumenti idonei per ridurre la frammentazione normativa, ricorrendo, come detto, ai codici di settore e ai testi unici, così come è importante lo sforzo costante verso un maggior coordinamento tra le norme della stessa istituzione e con quelle di altre istituzioni, per dare al sistema nel suo insieme quella coerenza di cui ha assoluta necessità. Nella produzione normativa sempre maggiore attenzione è stata posta a ridurre il moltiplicarsi di riferimenti incrociati con altre leggi e con fonti normative diverse, così come a scontare e prevedere le reazioni a catena tra riforme tecnicamente e/o socialmente collegate (es. liberalizzazione del mercato dei prodotti e flessibilizzazione del mercato del lavoro, riforma del diritto societario e legge sul risparmio,…) e sta prendendo corpo la tendenza a passare da principi di mero rispetto delle leggi a principi di razionalità economica nel processo di formazione delle decisioni. Un discorso a parte meritano gli sforzi per evitare un eccessivo ricorso alla legge ordinaria. Nell’ambito delle molteplici relazioni sociali, economiche e politiche di una collettività, tra i soggetti si realizzano forme di interazione nelle quali si verificano pretese comportamentali che qualcuno rivendica verso altri. Nel processo evolutivo di tali interazioni le pretese comportamentali portano fatalmente a conflitti litigiosi (litigations) e compito di un buon sistema di regole è quello di indirizzare la soluzione di tali conflitti. La rilevazione quantitativa e qualitativa della litigiosità serve sicuramente a definire l’efficienza e l’efficacia del sistema giustizia anche a livello decentrato. Saranno dati rilevanti: il carico di lavoro dei tribunali, i tempi e le modalità di conclusione dei procedimenti, la numerosità dei giudici, degli arbitri e degli addetti al settore decentrato della giustizia, la quantità di risorse economiche impiegate, i metri quadri di edifici utilizzati, e così via. I pochi dati che abbiamo prima richiamato servono anche a questo scopo. La sociologia del processo civile e penale si occupa di analizzare cause ed effetti di carenze organizzative e di distorsioni anche deontologiche delle varie categorie di operatori della giustizia (magistrati e avvocati soprattutto). Anche l’utilizzo di strumenti alternativi al tribunale sono oggetto di indagine e di valutazione, anche per l’impatto sull’efficienza che ci interessa in questa sede. Arbitrato, attività di mediazione e di conciliazione,

20 Si moltiplicano tuttavia, nell’ultimo periodo, segnali di preoccupazione circa il numero eccessivo di authorities operative (11, all’inizio del 2006) o previste da leggi entrate in vigore (13) e circa le materie di competenza, a volte eccessivamente concentrate, a volte eccessivamente disperse. Va infine richiamata la preoccupazione circa il progressivo allontanamento dall’idea di autonomia politica e delle modalità di nomina dal criterio di indipendenza e autorevolezza dei commissari.

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sono procedimenti alternativi di soluzione delle controversie che integrano le forme tradizionali della soluzione giudiziale dei conflitti. Così si passa da meccanismi della giustizia istituzionale formale a modelli extra-processuali decentrati, dove le sentenze che decidono chi ha ragione e chi ha torto, chi vince e chi perde, vengono sostituite da percorsi di confronto e di accordo tra le parti antagoniste. Sistemi che agevolano la transazione delle liti o addirittura la risolvono con metodi alternativi alla giurisdizione, quantomeno nel senso di settlement at the door of the court (risoluzione preliminare al processo), sono molto diffusi nei sistemi di common law; infatti in Inghilterra e Galles oltre il 90% delle liti trova soluzioni di questo tipo (Istat-Mipa, p.33). Questo secondo tipo di giustizia, detta appunto informale, fatta di arbitrati, mediazioni e conciliazioni, ha trovato negli anni sempre maggior attenzione per due motivi. Il primo, pressante, è dato dall’inefficienza ormai cronica del sistema di giustizia tradizionale, il secondo, più legato alle novità sociali ed economiche, richiama la necessità di adattamento della giustizia ai continui mutamenti delle caratteristiche e degli spazi sociali che vanno continuamente occupati e trattati in modo diverso, tenendo conto della modifica degli equilibri e delle esigenze di scomposizione e ricomposizione degli interessi. E meccanismi di giustizia informale sono sicuramente più adatti a rispondere ad esigenze mutevoli nel tempo e nello spazio. Il crescente utilizzo di questi, tra l’altro, consente di raggiungere obiettivi di carattere generale di delegificazione e delegalizzazione dei meccanismi di regolazione delle relazioni sociali, economiche e politiche di una collettività, attraverso forme, in un certo senso, di autoregolazione. Vi è da chiedersi se il maggior utilizzo dei modelli extra processuali decentrati avviene in territori dove la giustizia formale funziona meno bene, come risposta a questo problema, o piuttosto in quelli dove la performance economica, incentivata dall’accumulo di capitale sociale e di efficaci relazioni informali, è migliore e per questo motivo lo incentiva.

5. Le qualità delle buone leggi regionali e delle buone regole locali 5.1. Caratteristiche e valutazione delle regole

Sulla crescente importanza delle regole decentrate anche per il nostro Paese la Review Ocse è perentoria: “Il futuro dell’Italia sarà sempre più determinato dalle decisioni che saranno assunte a livello regionale e locale” (OECD 2001a, p.145).

La necessità di sviluppare meccanismi intrinseci ed estrinseci di valutazione di impatto delle norme regionali si inserisce nel filone di quanto sta avvenendo a livello nazionale ed internazionale.

Anche al livello regionale, più facilmente adeguabile alle esigenze e alle particolari caratteristiche del territorio e dei suoi operatori, occorre allora:

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- delegificare, sostituire norme con regolamenti che disciplinino una materia o un settore,

- ridurre il numero delle regole, sostituendole con procedure autoregolamentanti, definite secondo criteri generali, ma gestite dalle singole comunità destinatarie per regolare la propria attività21,

- deregolare le procedure, diffondendo meccanismi automatici come la denuncia di inizio di attività (d.i.a.) e le procedure di silenzio-assenso o silenzio-rifiuto,

- semplificare i procedimenti amministrativi, sopprimendo quelli inutili, accorpando quelli che lo possono essere, riordinando le competenze, eliminando o riorganizzando uffici ed enti,

- semplificare l’accesso alle regole per operatori e destinatari, attraverso la chiarificazione dei linguaggi, la raccolta delle norme di ogni fonte sul medesimo settore, la diffusione dell’informazione, l’assemblaggio e la selezione dell’informazione per facilitarne la fruizione.

Prendendo spunto da quanto sopra richiamato sugli sforzi e gli avvii di miglioramento della produzione normativa nazionale ed internazionale, possiamo tentare di riassumere le caratteristiche che dovrebbero avere le leggi regionali. Innanzitutto dovrebbero essere self-evaluating, cioè dovrebbero contenere già al loro interno meccanismi automatici di valutazione di efficacia, ad esempio le cosiddette “clausole valutative”. Una espressa clausola che vincoli il legislatore ad effettuare controlli ex post sugli effetti della legge che sta approvando, consente di rafforzare quell’attività di valutazione sulle decisioni e sulle attività della Pubblica Amministrazione che da più parti e da molto tempo viene invocata. Attività che, come abbiamo già in parte accennato, si caratterizza per il suo svolgimento prima, durante e dopo la produzione normativa. Si parla infatti di attività di valutazione ex ante, in itinere ed ex post, ad esempio attraverso strumenti selezionati di Air e Vir regionale, anche attraverso analisi costi-benefici, meccanismi multicriteriali o expert panels, procedure di “notice and comment”, consultazione pubblica obbligatoria, tecniche di benchmarking e di incentivazione di utilizzo di best practices, formazione dei dipendenti a tutte queste procedure e tecniche, valutazione del grado di attuazione delle norme

21 Il dibattito sulla auspicata estensione dell’area della autoregolazione (self regulation) per ridurre la necessità di norme dovrebbe interessare anche il livello decentrato. Quanto possono fare le diverse categorie, le associazioni, gli enti organizzati, attraverso regole che vincolino endogenamente comportamenti e impegni a rispondere a standard e codici predefiniti, renderebbe superflua la produzione di regole esterne e universali e contemporaneamente contribuirebbe a rafforzare istituzioni informali pro-sociali. Un esempio di codice, autovincolante, di comportamenti redatto in un mercato regolato è il Codice di autodisciplina delle società quotate in Borsa, la cui ultima edizione è del Marzo 2006 e per il quale è obbligatoria l’informativa pubblica.

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(compliance) e controllo della loro osservanza (enforcement) (art. 5 legge 246/2005).

L’Analisi di impatto della regolazione (Air) e la Valutazione (ex post) di impatto della regolazione (Vir) trovano giustificazione e anche qualche iniziale applicazione a livello locale (Mipa-Comune di Lucca 2005). Anche a livello decentrato, regionale e locale, tale valutazione tende ad interessare gli effetti delle regole introdotte su amministrazioni pubbliche, imprese e cittadini, oltre che sull’intero sistema istituzionale e normativo. Per quest’ultimo aspetto, fondamentale per valutare una buona integrazione delle nuove norme con le vecchie, si parla di “valutazione di impatto integrato” con le norme dello stesso livello o di livello diverso, nazionale ed internazionale. Il processo di analisi passa, tradizionalmente, attraverso diversi step:

- una descrizione degli obiettivi del provvedimento locale (o regionale) di regolazione,

- una attività di consultazione delle categorie interessate dal provvedimento e nel provvedimento,

- l’elencazione e la descrizione delle possibili opzioni alternative, compresa ovviamente l’opzione zero,

- la valutazione (ex ante) dei benefici e dei costi derivanti dal provvedimento regolatorio.

I provvedimenti oggetto di tale tipo di analisi possono essere di diversa natura. Possono infatti riguardare:

- l’impatto di regole di livello superiore (nel caso di provvedimenti locali: leggi regionali e nazionali o provvedimenti internazionali) sul territorio locale (si parla in questo caso di Air “indiretta”); qui è la Regione, lo Stato o l’ente sovranazionale che analizza localmente l’impatto di una propria norma e trae valutazioni e orientamenti per la propria attività di regolazione,

- provvedimenti propri, nel caso di autorità locali: regolamenti, ordinanze, atti amministrativi, piani,

- altri provvedimenti non normativi, come circolari, regole tecniche e così via.

Ovviamente, occorre preliminarmente decidere su quali provvedimenti avviare l’Air; in genere si tratterà di regole importanti e rilevanti per la collettività e per il sistema economico locale, non di regole di importanza marginale e di minore impatto. Le attività di valutazione, infatti, sono spesso assai costose e impegnano per lungo tempo rilevanti risorse, anche umane, delle strutture interessate. In molti casi, almeno nella fase iniziale, sarà necessario rivolgersi a società specializzate in questa attività, che abbiano effettuato analoghe esperienze sul campo. E sarà pure necessario effettuare intensa e ripetuta attività di formazione al personale interno delegato a

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seguire le varie fasi dell’analisi. Ciò anche in vista della possibilità di continuazione dell’Air in tempi successivi.

L’obiettivo della valutazione è noto: serve a rafforzare gli strumenti di valutazione dell’impatto delle normative regionali e dei provvedimenti non legislativi locali, oltre che delle procedure amministrative, sulla P.A., sulle imprese e sui cittadini, singoli e associati, e serve ad evitare una eccessiva quantità di norme, oltre che a favorire il consolidamento di un sistema di relazioni permanenti tra i membri e le istituzioni della società locale. Questa attività di valutazione della regolazione, così come quella riferita in generale alle decisioni pubbliche, necessita a livello locale di elevata condivisione tra le forze politiche, sociali ed economiche, oltre che degli apparati burocratici interessati all’analisi. Solo queste condivisioni e le sinergie di impegno e di aspettative che ne derivano, possono determinare quel clima di attenzione che rende facile, oltre che necessario, addivenire a risultati soddisfacenti, concreti e credibili.

Già abbiamo ricordato le tendenza nazionale a unificare le norme relative ad una certa materia o settore in testi unici e a costruire codici di settore che riassumano, rivedano e sostituiscano le norme esistenti. Simili iniziative possono essere avviate anche a livello regionale. Sono quindi da incoraggiare le prime iniziative avviate in questo senso con la produzione di testi unici regionali e va sperimentata l’idea di costruire codici di settore laddove risulta possibile e auspicabile un coordinamento tra le norme dei diversi livelli legislativi.

Un provvedimento regionale o locale, al pari di uno di qualsiasi altra natura, deve evitare il pericolo di frammentare la regolazione di un dato tema o settore, di creare duplicazione di altre norme o sovrapposizione con esse, di indurre confusione nella sua interpretazione ed applicazione. Deve contenere, se del caso, obiettivi facilmente misurabili22, essere quanto più possibile snello (essenziale), così come deve essere di facile comprensione23 per i destinatari e la collettività nel suo complesso, ed essere di facile applicazione per chi avrà il compito di farlo.

Discorso a parte va fatto sulla auspicata flessibilità della norma, ovvero sulla sua miglior adattabilità possibile, compatibile tuttavia con la sua efficacia iniziale, ad evenienze future e all’evoluzione del fenomeno regolato, rendendo così possibile e semplice il suo re-framing. Si ritiene infatti che le norme debbano essere verificate in tempi successivi ed eventualmente aggiornate e modificate nelle parti non più attuali. Predisporre, già nella fase della loro costruzione, una facile ricalibratura successiva è fonte di efficienza. La flessibilità di una norma, infatti, attenua il rischio di mancare l’obiettivo di regolare al meglio una situazione futura difficilmente prevedibile, almeno nei 22 Ad esempio: l’obiettivo, facilmente riscontrabile, di un calo del 20 % delle polveri sottili nell’aria di un certo Comune entro 5 anni. 23 Come noto è l’attività di drafting che si riferisce alla materiale redazione di una legge.

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dettagli in cui si manifesterà e che oggi non è precisamente valutabile come trattare in modo opportuno e condiviso. Oppure attenua il rischio di effetti distorsivi sulle transazioni regolate ex ante. In altre parole, le ragioni che potrebbero consigliare una maggiore flessibilità della norma e quindi un minor tasso regolativo della stessa fanno riferimento sia al caso della non prevedibilità della contingenza futura, sia al caso che essa sia prevedibile ma che si ritenga ugualmente non opportuno regolarla ex ante in modo preciso e dettagliato (autolimitazione regolativa), anche perché non è possibile prevedere le altre condizioni con le quali interagirà la contingenza prevista. La flessibilità permette, allora, di adattare in maniera efficiente la regola alle contingenze future e alle fattispecie previste, così come si manifesteranno nei vari periodi. Da segnalare, tuttavia, che rendere una norma flessibile comporta margini di discrezionalità interpretativa e quindi minore certezza del diritto. Così va messa nel conto della flessibilità la possibilità di effetti negativi sulle attività economiche, dovuti all’incertezza sulle regole. Al contrario, la rigidità della norma, che si manifesta come una rigidità contrattuale, renderebbe maggiore la certezza interpretativa e minore la discrezionalità, ma potrebbe comportare, nei casi di modifica delle condizioni regolate, una inefficiente allocazione delle risorse e una inefficace o distorsiva applicazione della norma stessa. D’altra parte “il dibattito fra automatismo e discrezionalità è un tema tradizionale della politica economica poiché l’automatismo non si presta ad essere efficace ed efficiente in tutte le situazioni di squilibrio, mentre vi è il timore che la discrezionalità possa sfociare nella discriminazione e/o nell’arbitrio se non sono definite in modo univoco e trasparente le condizioni dell’intervento” (Rey 2005, p.344).

Ancora, in ordine all’efficienza, è auspicabile, laddove possibile, che una norma contenga la specificazione del titolare dell’enforcement, cioè l’indicazione del detentore dell’autorità di decisione. Come, in un contesto di incompletezza contrattuale, l’assegnazione del “diritto residuale di controllo” risolve, attraverso una relazione di autorità, il problema dell’inefficienza (Tirole 1988, Hart e Moore 1990), dovuto in genere ad elementi contrattuali non verificabili o non osservabili, così in una norma è importante che il titolare di questo diritto residuale di controllo sia chiaramente identificato, al fine di rendere la norma stessa perfettamente applicabile.

Le regole regionali e locali vanno sistematizzate, attraverso il coordinamento verticale, con le norme degli altri livelli istituzionali e attraverso il coordinamento orizzontale, con le altre norme dello stesso ente regolatore. A tal fine sarà fondamentale, come diremo, l’istituzione di cabine di regìa applicativa che riducano anche quello che ricorderemo essere il free riding tra le istituzioni pubbliche, così come è di grande utilità l’individuazione e la pratica di criteri comuni tra Stato (esecutivo e parlamento, oltre alle authorities) e Regioni per definire la qualità di tutta la legislazione primaria e secondaria. A livello nazionale e a livello regionale è

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stata auspicata (Oecd 2001a) l’istituzione di registri che riassumano le procedure burocratiche e i provvedimenti che riguardano gli operatori economici e sociali. Sarà quindi di grande utilità la nascita di un registro ufficiale regionale delle procedure (certificazione dei provvedimenti vigenti) che informi sulla vigenza giuridica delle diverse normative a livello locale (regionale), collegato con quello analogo nazionale. Così come sarà necessario ottemperare ad un obbligo di consultazione pubblica che porti ad una massima condivisione e conoscenza della norma stessa. Le norme, ed in particolare le leggi regionali, dovranno poi essere “consistenti” ovvero dovranno evitare di essere vuote di contenuti e/o di risorse. Nella individuazione dei componenti gli organi direttivi delle authorities locali saranno poi determinanti i criteri di selezione, trasparenti e garanti della qualità e dell’autonomia. 5.2. L’effetto spiazzamento

Un errore da evitare è sicuramente quello di favorire o anche solo di consentire il fenomeno dello “spiazzamento” dei contributi pubblici verso gli investimenti privati, tanto più probabile quanto minori sono le risorse disponibili24. Gli incentivi alla ricerca e all’innovazione, ad esempio, possono incontrare problemi di free riding, a causa della nota asimmetria informativa tra ente erogatore dell’incentivo e beneficiari. Una parte, più o meno rilevante, di questi ultimi procederebbe comunque all’investimento anche senza l’incentivo e quindi si pone un problema di spiazzamento da parte del finanziamento pubblico, che va di fatto a sostituire una spesa privata che sarebbe stata comunque effettuata. Così le risorse sarebbero impiegate in modo inefficiente e non con funzioni di assoluta complementarietà tra incentivo pubblico e indotta spesa privata di ricerca o di introduzione dell’innovazione. Se poi la dimensione del contributo è molto limitata, si può ipotizzare, nella platea dei possibili beneficiari, in genere le imprese di minori dimensioni di quel dato territorio, una selezione avversa che avvicini al contributo pubblico, in prevalenza, imprese che considerano l’incentivo come ininfluente e irrilevante sulla decisone di investimento, ma esclusivamente come fattore di diminuzione temporanea dei costi. Questo vale per qualunque tipo di incentivo, sia che si tratti di contributi in conto capitale (percentuale delle spese ammesse del progetto di ricerca o di introduzione di innovazione), di contributi in conto interessi (percentuale del

24 Molte ricerche hanno segnalato che contributi limitati e diffusi non solo solo scarsamente efficaci ma a volte sono ad impatto negativo, favorendo imprese troppo piccole a rimanere tali e non distinguendo tra buoni e cattivi progetti, in tal modo non consentendo ai progetti e alle imprese di misurasi col mercato e togliersi da una certa diffusa fragilità (Cafferata, Genco 1997).

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tasso di interesse pagato per ottenere le risorse finanziarie a prestito)25 oppure di sgravi fiscali (deducibilità dal reddito delle spese o riconoscimento del credito d’imposta per l’ammontare consentito). Per ovviare al pericolo di irrilevanza o spiazzamento, che diviene pubblico spreco di risorse, sembra opportuno seguire alcune direttrici:

- la percentuale di finanziamento non deve essere troppo alta, tanto da ridurre eccessivamente la corresponsabilità dell’investitore nell’intraprendere il progetto, né troppo bassa, il che farebbe scattare il pericolo di selezione avversa prima richiamato e per non provocare distorsione concorrenziale a favore dei “bene informati”, privando di fatto il provvedimento di quegli elementi di significatività che vanno di pari passo con la selezione degli obiettivi e dei target di riferimento settoriali, dimensionali e territoriali;

- sono da privilegiare progetti e investimenti che coinvolgono più entità, più imprese, più soggetti, come centri di ricerca internazionali, nazionali e locali, università e altri istituti specializzati del sistema dell’istruzione e della formazione, enti pubblici e privati comunque qualificati; la moltiplicazione dei soggetti coinvolti riduce la possibilità di free riding individuale;

- sono da privilegiare incentivi ad investimenti a rendimento differito e con tempi lunghi di attuazione;

- un punteggio maggiore dovrebbe essere assegnato alla costosità relativa degli investimenti, rispetto al fatturato dell’impresa o delle imprese richiedenti;

- vanno comunque privilegiati investimenti e progetti che riguardano innovazioni che si diffonderanno poi nell’ambiente, nel settore, nel territorio;

- una quota dell’incentivo potrebbe esser rinviata ad una verifica ex post dei risultati ottenuti, della qualità riscontrata dell’investimento fatto e nel successo dell’innovazione introdotta;

- andrebbero inseriti criteri di commisurazione degli incentivi non più e non tanto all’occupazione indotta dagli investimenti in modo acritico e generale, bensì al miglioramento della situazione di adeguamento domanda-offerta di fattore lavoro per tipologia e localizzazione; occorre cioè introdurre, a monte dell’incentivo, uno studio approfondito che renda anche questo strumento di politica industriale calibrato sulle disponibilità;

25 Anche se si potrebbe ritenere questa forma di incentivo, sempre più diffusa, meno “pericolosa” della prima, la sua pratica applicazione (si vedano le recenti circolari-1°agosto 2006- applicative della legge 488 del 1992) si rileva altrettanto meritevole di attenzione andando a finanziare progetti che già hanno ricevuto il finanziamento da parte di uno o più istituti di credito e che quindi non garantiscono né l’innovatività né la copertura di mancanza di liquidità iniziale da parte dell’imprenditore.

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- occorre operare una pre-selezione delle imprese target su cui mirare gli incentivi, restringendo l’universo esistente in un più ristretto insieme di imprese, opportunamente selezionato secondo criteri relativi al settore di appartenenza e alla dimensione e natura del potenziale innovativo.

Esiste forse un ottimo livello di incentivo alle imprese sul tipo dell’ottima protezione intellettuale (durata ed ampiezza)?26

6. Il decentramento della regolazione 6.1. Le resistenze e le controindicazioni

Lo sviluppo dei poteri locali e il nuovo ruolo delle istituzioni decentrate è avvenuto in due distinte ma correlate direzioni: vi è stato uno sviluppo orizzontale, verso altre istituzioni locali, anche di altri paesi, e vi è stato uno sviluppo verticale verso altri livelli della filiera istituzionale, anche attraverso l’assegnazione di maggiori poteri con la riforma costituzionale (devolution). Regioni ed Enti locali hanno ora ruoli crescenti nel sistema delle regole e, come ricordato, si tratta di tenerne conto ogni qual volta si analizza il rapporto tra giustizia ed economia. Vi sono innanzitutto i riflessi locali delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni nazionali che hanno interessato pesantemente i servizi pubblici locali, le public utilities ex-municipalizzate di cui tratteremo tra breve. Così come sono fondamentali le modalità di applicazione delle regole nazionali e l’accuratezza con cui sono raccolte le informazioni locali che le condizionano27.

Gran parte dell’attività dell’Antitrust nazionale, ad esempio, riguarda fatti e soggetti di valenza regionale o locale e non si possono quindi dimenticare, in una ottica di osservazione decentrata, né il volume di pratiche di restrizione della concorrenza e gli indirizzi nazionali in materia, né il contributo che a questa attività può derivare da raccolte di dati “sul posto” e da sinergie con altre istituzioni decentrate.

26 Vedi successiva nota 47. 27 Si pensi al funzionamento delle Agenzie delle Entrate e alle nuove linee guida date dal Ministero agli ispettori locali, verificatori fiscali, che tendono ad accentuare l’intensità degli accertamenti in contradditorio con i soggetti d’imposta. Linee guida che oggi trovano pieno riscontro giurisprudenziale, avendo una recente sentenza della Corte di Cassazione (n.17229 del 2006) stabilito che senza contradditorio gli studi di settore non sono sufficienti per giustificare un accertamento tributario. Gli stessi “studi di settore” che la legge 146 del 1998 ha istituito come automatici misuratori di reddito delle categorie imprenditoriali e professionali di minore dimensione, hanno proprio nella variabile territoriale un loro punto di debolezza. Nella ricerca di valori convenzionali statisticamente definiti ma più aderenti a specificità locali, un uso più rilevante degli Osservatori provinciali è già all’orizzonte e potrebbe ridurre anche il gap tra momento dell’evasione e momento della sanzione, ora piuttosto consistente.

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Già ricordavamo gli inviti dell’Ocse e della Ue a ridurre l’eccesso di regolamentazione locale nei servizi (concessioni, licenze e altri regimi amministrativi) che sono di ostacolo per la concorrenza in diversi settori. Molte delle relative barriere, si segnala, promanano dagli organi di governo regionale e locale e si ritiene perciò opportuna una riduzione numerica di tali restrizioni ed una riduzione degli oneri amministrativi. Nelle pagine che seguono faremo qualche esempio di settori del genere.

La moltiplicazione dei livelli istituzionali comporta, come detto, la moltiplicazione delle regole e delle istituzioni e anche i processi decisionali divengono più problematici, confusi e spesso complicati dai difficili intrecci che si creano nelle competenze e nelle interpretazioni. Occorre spesso mettere attenzione all’influenza incrociata delle regole di origine legale dei diversi livelli legislativi sul comportamento degli individui ed in particolare degli agenti economici. Il moltiplicarsi di agenzie, enti, comitati, tavoli, consulte, rende ancora più difficile e per questo importante il coordinamento, anche e soprattutto a livello decentrato.

E nel processo di decentramento incombe costantemente il pericolo, diciamo la tendenza spontanea, al neo-centralismo di stampo regionale, ovvero ad un assetto, come si dice, regionocentrico. Anche a proposito della recente dinamica dei rapporti istituzionali tra Regioni ed Enti locali, alla luce dei nuovi statuti regionali e dei comportamenti concreti, non pare di trovare significative inversioni di tendenza rispetto ad affermati sintomi di tale neocentralismo regionale. Il rispettivo ruolo amministrativo, da tempo oggetto di discussione, definisce a livello sub-regionale lo stato del policentrismo regolativo e verifica l’attuazione concreta del principio di sussidiarietà (verticale). Appare “in larga misura carente una visione sistemica (tripolare) e integrata delle autonomie territoriali, basata effettivamente sull’applicazione della ratio “rivoluzionaria” della sussidiarietà, nonché dei principi di adeguatezza e differenziazione, sia nel riassetto delle funzioni amministrative, a partire da quelle fondamentali degli enti locali, sia in ordine alla distinzione di ruolo tra le amministrazioni locali e quella regionale” (De Martin, 2005, p.992). Il che diventa scarsa applicazione del dettato di integrazione e cooperazione28 fra autonomie territoriali prefigurato dal nuovo Titolo V della Costituzione29. 28 Qui vengono in mente gli organismi posti in essere dalle Regioni, come le Conferenze Regione-Autonomie locali e organi similari, dove tuttavia non sempre le decisioni vengono prese, bensì in molti casi subite. 29 Tutto ciò può essere analizzato alla luce della teoria del decentramento, non già pensando al rapporto stato-regioni, bensì a quello regioni-enti territoriali sub-regionali. Il teorema di Oates diventa allora: “ la soluzione decentralizzata sub-regionale è tanto più efficiente quanto maggiore è l’omogeneità delle preferenze all’interno delle singole giurisdizioni territoriali (es.: province) e quanto maggiore è la disomogeneità tra le diverse giurisdizioni (province). Sotto questa lente teorica allora sarebbe giustificabile un neo-centralismo regionale solo in caso di giurisdizioni sub-regionali (comunità, ad es. a livello provinciale) dove la disomogeneità

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Naturalmente un processo di riduzione della regolazione trova diverse resistenze. Innanzitutto le trova fra gli operatori che traggono da questa regolamentazione un reddito o una quota significativa di potere di governo. Gli utili netti delle aziende gestite direttamente o indirettamente dagli Enti locali sono una importante fonte di entrate per le casse comunali e provinciali; alcuni dirigenti e amministratori di aziende pubbliche ed anche amministratori di Enti locali che da situazioni di controllo diretto traevano vantaggi quantomeno di manovra di bilancio dei relativi assessorati, non saranno entusiasti della perdita di controllo30. Ma il problema delle resistenze è più generale. La resistenza al cambiamento deriva fondamentalmente da due fattori:

- i beneficiari della regolazione sono generalmente grandi imprese che subiscono gravi danni dal processo di liberalizzazione,

- i beneficiari della liberalizzazione, invece, sono in genere i consumatori dei prodotti e dei servizi oggetto di regolazione e il vantaggio pro capite è assai ridotto, tanto da rendere eccessivamente costosa l’opzione “voce”.

Ma, possiamo affermare, le maggiori resistenze al processo di de-regolazione anche a livello decentrato possono avvenire ad opera di iniziative di neo-centralismo comunitario e la minuziosità delle disposizioni centrali che rendono difficile una gestione locale delle materie.

L’efficacia e la velocità del processo di de-regolazione dipenderanno allora dal tipo di resistenze e dalla loro intensità che, a loro volta, come vedremo, dipenderanno dalle istituzioni informali e dal sentiment territoriale che viene a determinarsi. Le resistenze e le disomogeneità applicative fra territori in tale processo possono essere influenzati dal livello centrale, anche se i mezzi utilizzabili sono diversi a seconda della direzione e del tipo di provvedimenti regolativi. A livello decentrato, infatti, sono sostanzialmente due le direzioni de-regolative: la liberalizzazione della gestione dei servizi pubblici locali e la riduzione dei regimi amministrativi (licenze, concessioni, vincoli amministrativi…) alle attività economiche localizzate. Gli strumenti a disposizione di un Governo nazionale che volesse orientare i livelli decentrati a ridurre queste regole locali sono di tre tipi: fondamentali sono le norme nazionali (o, ancor più, internazionali) che costringono i livelli decentrati a liberalizzare, oppure, nel rispetto di competenze locali o regionali (commercio, trasporti locali, farmacie, taxi, …), vengono presi provvedimenti che “consentono” tassi crescenti di liberalizzazione agli enti

interna è superiore alla disomogeneità tra comunità. Vale a dire, dove è riscontrabile una relativa omogeneità di preferenze e di condizioni tra giurisdizioni sub-regionali è auspicabile un accentramento nelle decisioni e negli standard (es. sanità). 30 “I poteri locali possono anche ostacolare la riforma, per essere troppo attenti a soddisfare gli interessi locali e le esigenze connesse a tornate elettorali di breve periodo” (OECD 2001a, p.145).

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locali e così li sollecitano, ovvero, infine, si tratta di strumenti indiretti, come vincoli e incentivi su trasferimenti e finanziamenti o semplicemente di attività di moral suasion. In genere viene utilizzato più di un tipo contemporaneamente. Come si è visto nei recenti provvedimenti governativi (D.L. 223/2006) si è fatto uso con decisione degli strumenti legislativi, modificando direttamente le condizioni di competenza statale e lasciando maggiori margini di liberalizzazione per le decisioni autonome degli Enti territoriali.

Se è consolidato che il decentramento regolativo assume in sempre maggior misura un ruolo strategico dello sviluppo economico, non è certo che il processo non abbia controindicazioni. Di pari passo con la produzione normativa decentrata vi è il processo di riforma della regolazione, che, come detto, sta attraversando tutto il mondo industrializzato e tutto il nostro Paese. Anche nel processo decentrato di riforma della regolazione vi sono sicuramente degli aspetti positivi, identificabili nella accelerazione dei tempi di attuazione, nella adeguatezza ovvero nella maggior conoscenza della realtà su cui applicare le norme e la riforma della regolazione, nelle possibilità di innovazione attraverso la sperimentazione di nuove forme e modalità di previsione e di verifica dell’impatto. Ma vi sono sicuramente aspetti negativi, come quello ricordato della complicazione di compatibilità di un sistema di multilevel governance31 e quello del probabile particolarismo degli interessi locali e di possibili forme di condizionamento diretto (l’ipotesi della “cattura” trova maggior applicazione a livello locale?)32, quello di possibili diffusi atteggiamenti di inerzia, quello di una elevata concorrenza tra territori che porti disomogeneità e quindi iniquità nei trattamenti, secondo pratiche di rincorsa al miglior trattamento di certe categorie e transazioni. È stato anche di recente segnalato (Rey 2005) il paradossale pericolo che al decentramento 31 Con la moltiplicazione dei livelli decisionali autonomi i ricorsi al Tar del Lazio sono sempre più frequentemente promossi da Enti locali, regioni, Stato e altri enti pubblici in lite fra loro. Da ciò, tra l’altro, deriva che il Tar del Lazio finisce per assumere anche il ruolo di custode dell’unità del sistema di regole nazionale e di garante dell’unità di un sistema amministrativo sempre più articolato. 32 Laffont e Martimort (1998) propendono per questa ipotesi, argomentando che forme decentrate di governo non debbono valorizzare eccessivamente i canali di relazione tra poteri locali e gruppi locali di lobby e che agenzie centralizzate e generali, essendo più distanti dallo svolgersi quotidiano degli affari, sono probabilmente meno catturabili. E la stessa Autorità Antitrust segnala come “la vicinanza agli interessi coinvolti può influenzare negativamente il processo decisionale e favorire … l’ingiustificata protezione delle imprese” (Relazione annuale del Presidente G. Tesauro del 30 aprile 2004, p.26). Per contro Barbati (2005: 110) ricorda che “ la vicinanza del regolatore, specie se accompagnata da un sistema di responsabilità politiche pienamente attivate,…dovrebbe in realtà allargare lo sguardo del regolatore …, aiutare la composizione degli interessi, favorendone quella valutazione integrata, estesa ad altri interessi, non solo economici, ma che con questi interagiscono, sollecitandone le scelte di localizzazione”. “E’ quando ci si allontana dal rapporto con gli interessi che potrebbero essere favorite scelte settoriali, prodromiche ad effetti cosiddetti di cattura”.

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istituzionale si accompagnino fenomeni diffusi di “fallimento del decentramento” dove le amministrazioni locali, al pari di qualunque operatore, si comportino da free rider rincorrendo categorie di investitori con provvedimenti di facilitazione che rischiano di divenire vere e proprie iniquità e che comunque alimentano il conflitto istituzionale33. In questo caso, è stato sottolineato (ibidem, p.349), la “concorrenza attraverso le regole” che provoca conflitti e incentivi al free riding a causa di obiettivi non separabili verticalmente, può essere opportunamente ridotta attraverso un disegno istituzionale a livello superiore di governo, che renda coerenti e compatibili i diversi livelli di politica economica. Nel processo decentrato, poi, spesso si verificano effetti che travalicano i confini territoriali e non sempre si tratta di effetti positivi. Non va inoltre sottaciuto che se il controllo del rispetto delle regole emanate dal livello decentrato è assicurato da un interesse diretto dello stesso regolatore, non altrettanto potrebbe essere l’impegno a far rispettare regole emanate da livelli sovraordinati. Una ulteriore controindicazione riguarda i pericoli di compromissione di un sistema o di un progetto nazionale (di regole, di infrastrutture, di politiche) a causa di inefficienze o carenze “locali”. Occorre allora evitare che dal decentramento delle funzioni regolamentari derivino problemi di scarsa coerenza ed efficienza del sistema normativo nazionale nel suo complesso. Garantire conformità ai principi fondamentali, integrazione tra i poteri e i ruoli, adeguate forme di coordinamento istituzionale, diviene indispensabile.

Mentre a livello nazionale stanno prendendo piede i “codici di settore” che tendono a sistematizzare e razionalizzare tutte le norme riferite ad uno stesso settore, a livello decentrato, regionale e locale, il problema potrebbe essere risolto, oltre che dai citati testi unici regionali e da ipotesi di codici regionali di settore, da una cabina di regia istituzionale, di matrice regionale, 33 La mobilità spaziale (il cosiddetto “voto con i piedi”, seguendo Tiebout(1956) e Salmon(1987)) “costituisce nel settore dei beni pubblici locali quel che è il fare gli acquisti nel mercato dei beni privati” e così possiamo immaginare agenti economici scegliere una comunità locale ove i prezzi (gli incentivi, le imposte) dei servizi forniti sono più bassi. Tale mobilità, in realtà, è difficilmente praticabile dai cittadini/consumatori, dovendosi realizzare un insieme di condizioni assai restrittive: perfetta mobilità, razionalità e informazione, elevato numero di alternative spaziali praticabili, assenza di spillover tra sistemi concorrenti, costi costanti di produzione dei servizi. Questa possibilità è allora ristretta ad una esigua minoranza, ad esempio ai campioni dello sport e dello spettacolo, che usano frequentemente spostare la loro residenza (in verità da una nazione all’altra) a seconda delle convenienze fiscali. In questo caso, potremmo dire, il “voto con i piedi” dà luogo ad un gioco a somma quasi nulla, ciò che non incassa uno Stato (un territorio) lo incassa l’altro, se pur in misura ridotta. Come noto, tuttavia, le condizioni non sono così restrittive, ma sono molto più realistiche e plausibili se applicate alle imprese che debbano scegliere una localizzazione di un investimento e che non abbiano eccessivi vincoli localizzativi, cioè forti legami ad una precisa realtà territoriale. In questo caso la concorrenza tra enti territoriali o giurisdizioni dà luogo ad un gioco a somma positiva (l’investimento in qualche caso non sarebbe stato altrimenti realizzato), almeno in quanto l’elasticità dell’investimento stesso sia maggiore della differenza di condizioni (fiscali o economiche in senso lato) tra le giurisdizioni.

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che riassume, a vantaggio dei destinatari, tutti i provvedimenti di diversa natura inerenti una stessa materia, settore o gruppo di cittadini.

Un sistema integrato deve, infatti, tener conto di tutti i tipi di regole e di tutti i livelli di governo e anche i guardiani (watchdogs) locali della buona regolazione sono fondamentali. La riforma della regolazione a livello decentrato deve poi essere bilanciata, deve cioè tener conto dei settori eventualmente sacrificati che meritano di essere salvaguardati (occupazione, patrimonio di risorse e di esperienze, risorse tecniche ed umane delle aziende locali, patrimonio formativo del settore,…). Un altro tipo di controindicazione al decentramento riguarda l’applicazione delle norme, la cui rilevanza, a parità di qualità, è fuori discussione. Una applicazione in modo estensivo amplierebbe l’ambito regolato dalla norma e il relativo numero di fattispecie che ricadono entro il suo ambito di interesse, mentre una applicazione restrittiva libererebbe alcune fattispecie del fenomeno dalla sua influenza. Una configurazione flessibile della norma, già nella sua formazione, amplierebbe poi i margini di manovra di chi deve applicarla.34 Il decentramento regolativo, in quanto possa utilizzare ampi margini di flessibilità interpretativa e applicativa, può assumere caratteri di differenziazione tra ambiti territoriali e comportare diverse regole per uguali fattispecie e quindi prestare il fianco a iniquità. L’importanza complementare delle regole informali, come vedremo, interviene in questi casi riempiendo i vuoti lasciati dai margini di flessibilità e determinando differenze, a volte virtuose, tra territori. Infatti regole formali flessibili rimandano alla categoria dei contratti incompleti e sono quindi sfruttabili positivamente (facilità di adeguamento ai mutevoli stati della natura) se non lasciano spazio a comportamenti opportunistici e ad elevato contenzioso. I relativi costi di transazione ex post derivanti dall’applicazione del contratto (in questo caso, della norma) sono insiti nella sua incompletezza. L’applicazione locale di una regola nazionale o l’applicazione di una norma locale dipendono, quindi, da come le regole sono costruite, ma anche da come sono interpretate. Una interpretazione ed una applicazione troppo formale e restrittiva determinerebbe sicuramente situazioni di rigidità e di scarsa adesione alle esigenze del contesto regolato. Soprattutto in chiave locale, dove è frequente rilevare (così come avviene spesso nel contesto internazionale) scarsa co-estensione delle chiavi di lettura economica, politica e giuridica. Va da sé che, in tema di applicazione delle norme, rileva l’efficienza del sistema di enforcement e del sistema della giustizia decentrato e meccanismi inefficienti scoraggiano l’intrapresa e appesantiscono i ritmi di sviluppo economico, sia a livello di impresa, sia a livello di sistema, anche territoriale. Una indagine recente sull’impatto locale dei meccanismi di efficienza della giustizia ha

34 Pur non riguardando l’ambito di cui parliamo, si pensi al principio del per se rules contrapposto a quello del rule of reason in tema di tutela della concorrenza.

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mostrato come, nelle province dove questa è peggiore, a parità di altre condizioni, il processo di formazione di nuove imprese è meno intenso e le dimensioni delle imprese sono minori (Bianco, Giacomelli, 2004). Se poi si tratta di nuovi mercati e di innovazioni di tipo radicale (o drastiche), allora è stato osservato che l’incidenza del quadro normativo è ancora più significativa di quanto non accada in mercati esistenti (innovazioni graduali o incrementali) (UE, Fraunhofer Institute, 2004).

Se questo vale per le regole nazionali e generali, così come per quelle regionali, dovrebbe valere anche per quelle di carattere locale. Ed anche le caratteristiche del sistema giudiziario locale sono, in qualche misura, correlate alla performance economica (v. par. successivo).

Vi sono, infine, le controindicazioni che derivano, diciamo, dallo stesso processo di decentramento. Innanzitutto la disomogeneità nelle linee di riforma, come delle stesse condizioni regolative, potrebbe essere causa di inefficienza allocativa e fonte di esternalità negative nei settori caratterizzati da un mercato che travalica il territorio in questione. Se le imprese di un certo settore (supponiamo l’in-coming turistico) competono e si confrontano su di un mercato rilevante più ampio del territorio su cui insistono le regole, una relativa differenziazione di queste e delle loro modifiche potrebbe pregiudicare l’efficacia delle politiche di mercato e quindi le performance possibili di queste.

Lo stesso conflitto tra diversi interessi localizzati può comportare, nell’ambito delle graduatoria di quelli da soddisfare, lo slittamento verso il basso di quelli a maggior valenza generale e “superiore”. Così alcuni interessi che universalmente sono riconosciuti prioritari, se lasciati alle decisioni locali possono risultare trascurati35.

6.2. I margini di applicazione decentrata delle norme: una esercitazione Non rientra tra gli obiettivi di questo lavoro, ma non possiamo trascurare

il fatto che i comportamenti dei soggetti economici, come detto, riflettono anche le aspettative di “sanzionamento”. Se un operatore si trova a decidere se commettere o meno un reato o una irregolarità, terrà conto dei vantaggi che ciò gli provoca e anche della pena che gli può essere inflitta. Così le modalità e gli spazi di autonomia nell’applicazione delle norme centrali (nazionali o internazionali) rilevano ai nostri fini, come più volte ricordato. Ci si consenta quindi un breve cenno alla materia partendo dallo specifico

35 Non per nulla, ci ricorda Endrici (2005, p.150), il grande impulso alla politica di tutela ambientale è giunto da un livello istituzionale, quello comunitario, assai lontano dall’arena degli interessi in conflitto. Così dicasi per la famosa sindrome Nimby (non nel mio giardino) o la sindrome Nimto (non di mia competenza) che di fatto possono bloccare o quantomeno ritardare molti progetti di miglioramento ambientale, con argomentazioni intrise di miopia, inerzia e di conflitti di competenza.

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relativo al diritto penale e dai rapporti tra economia e reati o tra norme penali e comportamenti delittuosi.

Anche se riferirci alle “regole” vuol dire considerare tutte le norme, civili e penali, nel concreto faremo prevalente riferimento alle norme del codice civile. Ma è evidente che anche sotto il profilo penale i rapporti tra regole e sviluppo sono considerevoli. Basti pensare al potere di deterrenza delle pene verso comportamenti anti-sociali che configurano reati penali, così come al ruolo delle aspettative degli agenti economici circa la probabilità di essere scoperti e condannati. Se le prime, il tipo e la grandezza delle pene, insieme con gli altri aspetti relativi all’ordinamento e al codice di procedura penale, sono decise e manovrate prevalentemente a livello centrale (Stato e organismi sovranazionali), le seconde (le aspettative di condanna) hanno invece grandi legami con il livello territoriale decentrato, ovvero con le caratteristiche della comunità in cui il diritto penale viene applicato. Non ci riferiamo solamente ai margini o spazi di autonomia e di flessibilità “interni” ai codici e al sistema giudiziario nel suo complesso, ma anche e soprattutto ai margini di flessibilità “esterni”, dovuti al contesto sociale, politico e infrastrutturale nel quale le norme vengono applicate. Vi è tutta una branca dell’analisi economica del diritto36 che si occupa di spiegare e ribadire i postulati e i fondamenti delle principali categorie e istituti del diritto penale attraverso modelli e ragionamenti di tipo economico. Si studiano in particolare i meccanismi idonei a predire gli effetti delle norme penali, il potenziale di efficacia delle stesse, la loro miglior formulazione in funzione di massimizzare l’efficienza in senso economico. Tale analisi consente così la valutazione di causalità fa strategie e iniziative di prevenzione e di perseguimento dei reati e comportamenti convenienti da parte dei possibili delinquenti in ordine al confronto tra vantaggi (benefici a commettere il reato) e svantaggi (costi, cioè pena). Partendo dal lavoro basilare di Gary Backer del 196837 e dai successivi arricchimenti38, che sottolineano come i reati producano costi sociali oltre che costi privati (danni alle vittime), si arriva a sottolineare come la deterrenza al reato sia funzione della pena (f), della probabilità di essere scoperto (p1), dalla probabilità di essere condannato (p2)39 e da altri fattori di contesto della comunità (u). La

36 Per tutti: Ogus, A.I., Veljanovski, C.G. (a cura di), Readings in the Economics of Law and Regulation, Oxford Univ. Press, Oxford, 1984; Friedman, D. D., L’ordine del diritto. Perchè l’analisi economica può servire al diritto, Il Mulino, Bologna, 2004; Shavell, S., Criminal Law and the Optimal Use of Nonmonetary Sanctions as a Deterrent, in Coleman, J.L., Lange, J., (a cura di), Law and Economics, vol.1, Aldershot, Sudney, 1992. 37 Becker, G.S., Crime and Punishment: an Economic Approach, in Journal of Political Economy, n.76, 1968. 38 Si veda la bella rassegna di Paliero, C.E., L’economia della pena, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, fasc.n.4, 2005, pp.1336-1401, con l’ampia bibliografia ivi contenuta. 39 In realtà la formula riproposta nel saggio di Paliero contiene una sola p, la probabilità di essere condannato e non distingue quindi tra p1e p2.

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deterrenza marginale, poi, dipende dall’incremento della gravità della pena e dall’incremento della probabilità di subire la condanna, con l’avvertenza che, nell’ipotesi i delinquenti siano caratterizzati da elevata propensione al rischio, essi temono di più la probabilità di subire una condanna piuttosto che la pena prevista per il reato, secondo l’approccio dell’utilità attesa40. Lo stato di incertezza rafforza poi tale comportamento. Da tutto ciò derivano considerazioni interessanti per il lavoro che stiamo sviluppando in queste pagine. È evidente infatti che, mentre la variabile “grandezza della pena”(f) e alcuni fattori incidenti sulla probabilità di condanna e su fattori di contesto non sono di pertinenza locale, lo sono invece le rimanenti componenti della funzione di deterrenza, totale e marginale. Il numero di reati commessi dipenderà, infatti, anche dalle risorse e dall’impegno (anche sociale e politico) destinati localmente all’attività di prevenzione, di controllo del territorio, dalle indagini avviate e dal monitoraggio tenuto sulle possibili fonti di reato (p1), dalle dotazioni e dall’efficienza dei tribunali penali41 e dal clima sociale più o meno “forcaiolo” della comunità (p2), oltre che dal capitale sociale accumulato nella comunità, dalle tradizioni e dalla “storia” precedente (u). Per sottolineare l’importanza dei fattori “non punishment” basta forse citare Montesquieu (1748): “Non bisogna guidare gli uomini con sistemi esagerati; si devono usare con prudenza i mezzi che la natura ci offre per questo scopo. Si esamini la causa di ogni rilassamento: si vedrà che esso deriva dall’impunità dei delitti e non certo dalla moderazione delle pene”42. E l’impunità dei delitti è precisamente un fattore, come si dice, localizzato.

Qui si intrecciano, quindi, regole formali, centrali e locali, e regole informali, che anche nel campo del diritto penale possono condizionare lo svolgimento delle transazioni e quindi lo sviluppo economico dei territori. A dimostrazione dell’interrelazione tra regole informali e regole formali (qui intese come norme), di cui parleremo ampiamente nel par 7, già nel XVIII secolo si segnalava come: “Negli Stati moderati (ovvero non dispotici, n.d.a.) l’amor di patria, la vergogna e il timore del biasimo costituiscono dei freni sufficienti ad arrestare molti delitti. Il maggior castigo di una cattiva azione sarà l’esserne convinto (cioè l’essere riconosciuto colpevole, n.d.a.). Pertanto le leggi civili vi potranno correggere più agevolmente e non avranno bisogno di ricorrere troppo alla forza”43.

40 V. Paliero (nota precedente), pag 1367. 41 “ Quanto è minore la distanza del tempo che passa tra la pena ed il misfatto, tanto è più forte e più durevole nell’animo umano l’associazione di queste due idee, delitto e pena, talché sensibilmente si considerano uno come cagione e l’altra come effetto necessario immancabile”, dice Cesare Beccaria, nel suo “Dei delitti e delle pene” del 1764, citato in Paliero, p.1347. 42 Montesquieu (barone di), Charles de Secondat, Lo spirito delle leggi (a cura di S.Cotta), Utet, Torino, 2° ed., 1965, Volume 1°, Libro Sesto, Capo XII, pag 172. 43 V. nota precedente, Capo IX, pag. 168.

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La maggior parte dei riferimenti normativi contenuti in questo lavoro, dicevamo, riguarda il diritto civile, le norme che regolano i settori sensibili allo sviluppo economico di tipo non penalistico. La mancata osservanza delle norme che regolano la tutela della concorrenza, la tutela della proprietà intellettuale, e la gestione contabile delle imprese, può essere vista in chiave di analisi economica del diritto44, come abbiano accennato sopra a proposito dei reati penali. Ogni volta che si commette un reato si registra un danno sociale che si somma al danno subito dalla vittima e la propensione a commettere reati può essere vista come una funzione matematica che dipende da alcune variabili. In generale, comportamenti illegali possono essere di natura assai diversa, dal contrabbando alla costruzione abusiva di un capannone, dal falso in bilancio alla falsa comunicazione ai soci di una SpA, dall’insider trading alla vera e propria truffa. In generale possiamo ritenere che la propensione a commettere reati, civili o penali che siano, dipende sicuramente dai benefici attesi dal reato, dalla loro entità e durata nel tempo (b), dall’entità della pena (f) e dalle citate probabilità di essere scoperto (p1) e probabilità di essere condannato (p2) oltre che da fattori di contesto (u), vale a dire attività di prevenzione, controllo sociale e istituzionale, capitale sociale sedimentato nel territorio e così via. A sua volta le variabili a maggior valenza decentrata dipendono da alcuni fattori caratteristici. p1 dipende dalla spese destinate nella comunità per vigilanza, controlli, monitoraggio, obblighi informativi per gli agenti, mentre p2 dipende dal numero di magistrati attivi sul territorio e dalle risorse messe a loro disposizione, dai tempi di conclusione dei processi, dalla severità delle sentenze, e così via. Le differenze tra reati civili e reati penali si può individuare, ad esempio, negli standard di prova, più elevati nei secondi a causa del fatto che qui non vi è un trasferimento di ricchezza tra il danneggiante e il danneggiato ma si tratta di un costo “secco”, un pagamento che non ridistribuisce benessere tra membri della società, ma che va fatto alla comunità in senso neutro e astratto.

6.3. La politica industriale decentrata Per meglio comprendere l’influenza di buone regole sullo sviluppo locale,

dobbiamo ora accennare alle caratteristiche attuali della politica industriale che traggono giustificazioni dai punti critici della situazione dell’industria del nostro tempo.

L’efficacia degli strumenti decentrati di sviluppo economico spinge ormai da tempo verso un progressivo decentramento della politica industriale ed anche la riscoperta dell’importanza delle basi cognitive e innovative di un intero territorio porta a cercare di sfruttare le sinergie istituzionali seguendo 44 Oltre alle citazioni di nota 1, ricordiamo i fondamentali: Posner, R. A., Economic Analysis of Law, 6° ed., 2003, New York; Adams M., Ökonomische Theorie des Rechts, Frankfurt a.M., 2002.

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un approccio di apprendimento sperimentale e progressivo che fa della flessibilità delle regole, oltre che delle imprese e delle altre istituzioni, un punto di forza. Una declinazione decentrata degli obiettivi di politica industriale non può prescindere da (Pini 2005):

- un crescente rapporto con il mercato transnazionale e con le istituzioni e le opportunità europee, anche alla luce dell’introduzione dell’Euro e dell’allargamento (conseguente reinterpretazione degli indirizzi UE per le esigenze dei territori);

- sviluppo e diffusione della ricerca e dell’innovazione tecnologica, commerciale, organizzativa (relazioni aziendali e industriali, partecipazione, trasmissione d’impresa), finanziaria; non solo trasferimento di tecnologia ma anche formazione alta di tipo specialistico;

- promozione delle iniziative comuni di più imprese, capaci cioè di creare relazioni di rete e sinergie privato-pubblico, per tutte le funzioni aziendali per cui ciò è possibile e opportuno;

- promozione, rilancio e miglior definizione del processo di privatizzazione e di liberalizzazione nei settori ove ciò è relativamente conveniente e a condizione che il processo sia accompagnato dall’aumento del grado di controllo da parte della P.A. per i settori di interesse pubblico;

- sviluppo e selezione dei sistemi di qualità e dei connessi strumenti di certificazione, con linee guida settoriali e dimensionali, in modo da verificare la opportunità di stabilire regole meno rigide e generaliste facilitando così la certificazione delle minori imprese;

- calibratura degli incentivi e delle politiche di sostegno sul tipo di impresa e sul suo progetto di vita45, oltre che sulla disponibilità dei fattori della produzione, compreso il fattore lavoro, evitando di continuare a considerarlo come variabile dipendente e residuale rispetto a tutte le altre scelte.

Anche la politica industriale regionale dovrà cercare di liberare risorse da impieghi improduttivi, razionalizzare e qualificare la spesa pubblica, distinguendo chiaramente tra bisogni reali ed assistenzialismo, stimolare ed orientare investimenti, recuperando efficienza e produttività anche nel sistema pubblico decentrato. Ciò anche attraverso una accurata revisione degli strumenti legislativi ed amministrativi:

- che tenga conto della necessità di un potenziamento ma anche di una selezione degli incentivi;

45 I problemi di trasmissione dell’impresa possono trovare, anche a livello locale, strumenti di facilitazione anche attraverso la formazione di capitale imprenditoriale e la sperimentazione di mercati imprenditoriali locali, sfruttando anche le recenti introduzioni di misure legislative nazionali (il cosiddetto “patto di famiglia”).

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- che sperimenti su ampia scala i contratti di sviluppo tra potere pubblico ed impresa;

- che promuova un ventaglio più moderno ed appropriato di strumenti e strategie di supporto mirando maggiormente al fare sistema.

Non è specifico oggetto di questo lavoro, ma non si può dimenticare il ruolo decentrato delle regole sulla tutela della proprietà industriale intellettuale. Oltre alla predisposizione del nuovo codice della proprietà industriale, sono state create, come ricordato nel par 4.1 con discutibile efficacia, sezioni speciali nei tribunali dedicate alla tutela dei brevetti e dei marchi e a questo livello si gioca una parte non irrilevante della protezione dell’innovazione, soprattutto di quelle non drastiche e di minore impatto tecnologico. La tutela del diritto industriale, cioè, non ha solo un livello internazionale, europeo e nazionale, ma anche un livello regionale/locale che ha interessato nell’ultimo anno migliaia di cause avviate, anche se sono solo poche centinaia quelle giunte a sentenza46. Diverse regioni (la Toscana, ad esempio) hanno già iniziato a sostenere economicamente le imprese nella loro attività di brevettazione e di protezione dell’innovazione47, considerando anche quanto è difficile la gestione dei brevetti industriali in assenza di reti tra istituzioni, tra imprese e fra territori. L’obiettivo di incentivare l’innovazione trova l’ostacolo della frequente impossibilità di misurare ex ante l’ammontare del premio da assegnare, a causa dell’incertezza sul successo e sul valore delle innovazioni prodotte. Il sistema dei diritti di proprietà intellettuale risolve, anche a livello decentrato, questo problema ex post, assegnando un brevetto e rendendolo ampio e duraturo nella giusta misura. I contributi regionali possono così ridurre i costi di transazione associati al sistema di tutela del brevetto.

Anche a livello decentrato gli operatori economici, così come qualsiasi cittadino, un tempo in difficoltà a reperire informazioni utili allo svolgimento delle proprie attività, sono ora subissati da informazioni di ogni tipo e di ogni provenienza, che difficilmente riescono ad assemblare e a selezionare per renderle facilmente utilizzabili. Non è più un problema di quantità, ma di qualità e di assemblaggio e soprattutto di selezione nel mare di informazione disponibile. Già Stigler48 ricordava l’inefficienza della raccolta di tutte le informazioni disponibili allo scopo di decidere su di una azione da compiere. Molte ricerche segnalano, come noto, che la maggioranza delle imprese, soprattutto di minore dimensione, non si avvale dei finanziamenti e delle facilitazioni pubbliche a causa della non conoscenza degli strumenti

46 Tuttavia quasi metà delle cause avviate ha avuto l’effetto del sequestro dei prodotti contestati attraverso provvedimenti d’urgenza; vedi anche nota 17. 47 Recenti contributi (De Nicolò 2006) segnalano la scarsa diffusione di sinergie tra mondo delle imprese e mondo della ricerca anche universitaria, e individuano parametri significativi per individuare l’ottimo tasso di protezione dell’innovazione, quanto ad ampiezza e durata. 48 Cfr. G.Stigler, The economics of information, in Journal of Political Economy, June 1961.

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normativi. Una buona politica pubblica non può esimersi dall’affrontare anche questo problema e dal provvedere a rendere fruibili le informazioni esistenti ai membri della comunità, famiglie, imprese, organizzazioni. Meccanismi e istituzioni di selezione delle informazioni possono essere gli stessi che operano per la politica industriale nel suo complesso. Senza dimenticare che anche a livello locale dovranno essere operanti ed efficaci norme che impongono la rivelazione di informazioni specifiche a consumatori ed imprese: sulla qualità dei prodotti, sulla sicurezza e la salute, su standard qualitativi e licenze, sui limiti alla concorrenza e sulla provenienza49.

Anche da ciò che precede emergono tre strategie rilevanti di iniziativa pubblica che pure a livello decentrato possono essere così riassunte: a) l’aggregazione, magari l’unificazione, degli strumenti e delle istituzioni, b) la selezione e la certificazione delle informazioni e c) la costruzione di capitale sociale nei territori. Tali strategie sono giustificate dalla consapevolezza di una certa sovrapposizione e moltiplicazione di entità organizzative, soprattutto di origine pubblica, di cui non è sempre dimostrabile una effettiva utilità e che comunque complica la razionalità e l’efficacia della strumentazione dedicata alla soluzione di un certo problema. Della necessità di selezionare e aggregare l’informazione abbiamo detto, mentre è diffusa la sensazione che anche le attività di certificazione delle informazioni (ad esempio sulla qualità dei prodotti) vadano raffinate e rese meno opinabili e confuse. Sulla opportunità e sulla positività del ruolo del capitale sociale, variamente definito, parleremo diffusamente in seguito (v. par 7.2).

Facciamo ora alcuni esempi concreti. Nell’ampio panorama di misure di politica industriale regionale mirate al rafforzamento dei distretti, va segnalato il tentativo di alcune Regioni (ad esempio la Liguria) di un sensibile ri-orientamento delle politiche e quindi degli incentivi, prescindendo da ambiti territoriali predefiniti, ma riferiti invece alle filiere produttive. Si abbandonano così i riferimenti alle aree geografiche di appartenenza, cioè i rigidi confini tradizionali dei distretti, e si traguardano obiettivi legati ai comparti merceologici. Sensibile è poi il rapporto tra politiche di welfare regionale e locale e politiche industriali. Una considerevole dotazione di servizi sociali, sanitari, di istruzione, facilita sicuramente condizioni favorevoli nel capitale umano a disposizione delle imprese e accresce il livello di governance territoriale, vero fattore competitivo dei sistemi locali (Cicciotti, Rizzi, 2005). Così merita di essere segnalata l’introduzione del “reddito di cittadinanza” della Regione Friuli V.G. per favorire la mobilità del fattore lavoro da aziende delocalizzate a imprese che mantengono la propria presenza sul territorio e che sviluppano

49 Si pensi, ad esempio, alle norme regionali sugli organismi geneticamente modificati (Ogm) e sulla tracciabilità dei prodotti, soprattutto nel settore agro-alimentare.

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innovazione; tale misura rende più sostenibili gli opportuni percorsi di riqualificazione. Riduzione selettiva dell’Irap e delle addizionali regionali sono poi in grado di premiare le imprese che potranno vantare indicatori positivi sulle performance mirate all’innovazione o all’aumento dell’occupazione, nel caso questo sia un obiettivo della politica industriale locale. Attività regionali dovranno concorrere ad accrescere il capitale imprenditoriale, vero fattore di sviluppo economico del nostro tempo50. La politica industriale decentrata, cioè quella predisposta dalle Regioni, dovrà in ogni caso coordinarsi con quella nazionale e, a livello di distretti, prevedere misure di raccordo complessivo e specifico su singoli aspetti; com’è il caso del regolamento attuativo di quanto previsto dalla legge Finanziaria 2006 sui rating per l’applicazione degli accordi di Basilea 2 e sul concordato fiscale.

A questo proposito ricordiamo la recente introduzione nel sistema legislativo (commi 366-372, legge 266/2005) di organismi distrettuali che consentono la sperimentazione di una sorta di sportello unico a rovescio. Sono le imprese di un distretto che possono decidere di aggregarsi unificano il loro approccio, di natura prevalentemente fiscale, con la P.A., centrale e locale.

Da rilevare, infine, l’influenza della governance territoriale sui modelli di governance delle imprese. Il sistema decentrato delle regole e le politiche espresse dai territori influenzano la gestione e l’assetto delle imprese e possono accelerare o rallentare gli adeguamenti di queste ai mercati e alle regole nazionali51 ed internazionali. 6.4. La necessità di coordinamento, la cabina di regia, l’agenzia autonoma

Ogni volta che in una organizzazione o in una comunità, che a sua volta è costituita da individui e organizzazioni, ci si pone dal punto di vista del cambiamento, si incrocia fatalmente una riflessione sulla natura dei processi che si devono mettere in moto. Come la comunità locale e lo sviluppo locale sono fenomeni complessi, altrettanto complesso è il cambiamento organizzativo-istituzionale che muove verso una razionalizzazione delle procedure, delle interrelazioni, dei meccanismi di decisione e di applicazione.

50 Audretsch e Keilbach (2004) individuano i fattori incentivanti la dotazione territoriale di capitale imprenditoriale e l’importanza di quest’ultimo nella performance economica. 51 Si pensi ai recenti provvedimenti nazionali di responsabilità oggettiva delle imprese e sull’indipendenza dei dirigenti. Facciamo riferimento all’applicazione del Dlgs 231 del 2001, integrato con la legge 62 del 2005 (legge comunitaria 2004) e con la legge 262 del 2005 (legge sul risparmio) che regola la responsabilità delle società in ordine a fatti illeciti (corruzione e truffa ai danni dello Stato, terrorismo, falsificazione monete, tratta di persone, reati societari, market abuse, omessa comunicazione di conflitto di interessi, ed in futuro reati contro l’ambiente, corruzione privata, immigrazione illegale, droga, pirateria informatica) commessi dai propri dirigenti nel caso non siano stati istituiti opportuni strumenti e modelli organizzativi interni.

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Anche la ricerca di forme di coordinamento efficaci delle istituzioni esistenti, private e pubbliche, passa attraverso la scomposizione e la riconfigurazione analitica del sistema delle interdipendenze, sia di quelle generali (o generiche) tra ogni soggetto e tutti gli altri, sia di quelle “sequenziali” (Thompson 1967) tra una relazione e quelle che da questa sono influenzate, sia di quelle che si riferiscono ad attività e relazioni variamente condizionanti e complessivamente collegate, dove il mutuo adattamento diventa la modalità più frequente. Tenuto conto delle differenti opzioni che potrebbero essere scelte (variabilità delle strutture di coordinamento), del tempo necessario per l’applicazione e delle risorse necessarie per l’adozione, va fatta una valutazione delle congruenze organizzative “interne” alla struttura delle decisioni istituzionali, prima ancora che nei rapporti tra le diverse istituzioni coinvolte, pubbliche o private che siano. Congruenze organizzative intra-istituzionali e inter-istituzionali vanno ovviamente analizzate in relazione all’obiettivo individuato e agli altri obiettivi connessi, di ordine superiore, della comunità.

In diverse parti di questo scritto sosteniamo la necessità di concentrare risorse e soprattutto strumenti di regolazione e di coordinamento di politiche, con l’obiettivo di unificare gli sforzi e le competenze che da più parti tendono ad occupare un medesimo spazio e a lasciarne altri vuoti. La definizione delle forme di coordinamento del sistema policentrico costituisce, tra l’altro, uno dei ruoli fondamentali cui sono chiamate le Regioni e il contributo dei territori e dei livelli istituzionali sotto-ordinati non deve limitarsi, come abbiamo già ricordato, ad una pura adesione a decisioni già prese dal livello superiore (in genere la Giunta, ora anche l’Assemblea legislativa, in base alle nuove funzioni statutarie). E ciò è ancor più importante nel momento in cui anche nuovi soggetti si affacciano sulla scena istituzionale, con piena legittimità di intervento e partecipazione all’applicazione, se non anche alla produzione, di regole in qualche modo vincolanti52. Anche le attività di riforma della regolazione, di sviluppo delle analisi di impatto, di verifica e di valutazione delle politiche, possono trovare una sintesi, quantomeno operativa, in un unico organismo a livello di ogni singola regione, beninteso in stretta integrazione col livello nazionale.53 In ogni Regione italiana una Unità di questo tipo, formata, oltre che dalle diverse istituzioni pubbliche interessate, dalle associazioni di imprese e dei lavoratori, dei consumatori e del terzo settore, potrebbe razionalizzare l’attività di raccolta di informazioni, di analisi dei settori e di proposta di interventi migliorativi. Ma è possibile immaginare un organismo ancora più complesso e consistente, che si occupi 52 Si pensi alle associazioni ambientaliste, alle associazioni dei consumatori, sempre più legittimate ad essere interlocutore istituzionale generale, ma anche ai comitati di cittadini costituiti su temi e problemi specifici e a volte contingenti. 53 Un esempio, pur parziale, di un tale organismo ci viene dal Regno Unito, dove una Regulatory Impact Unit (RIU) si occupa di tutto questo a livello nazionale.

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specificatamente di verificare e sollecitare miglioramenti nell’efficienza in tutta la pubblica amministrazione decentrata e che sostituisca, riassumendole, diverse altre esperienze settoriali e di scopo. Pensiamo ad un’Agenzia per l’efficienza54, organismo indipendente, sulla falsariga delle authorities nazionali, ma ben distinta da questa tipologia a causa dell’assenza di potere di intervento diretto di regolazione. Non un organismo che intervenga direttamente in settori, quindi, dando ad essi regole e vigilando affinchè esse siano rispettate, né che si interessi di tutelare la concorrenza, ma un’agenzia indipendente che garantisca la separazione netta tra organo di controllo e strutture controllate e assicuri assoluta autonomia rispetto agli organi di governo (esecutivo), alle rispettive strutture burocratiche e alle lobbies socio-politiche ed economiche territoriali. Si tratterebbe di un organismo stabile e di grande caratura istituzionale, in grado di acquisire una crescente esperienza, utilizzabile in più direzioni, possibile punto di riferimento anche per i livelli istituzionali nazionale ed internazionale, oltre che per tutti gli enti pubblici della filiera istituzionale regionale. L’agenzia dovrebbe altresì “svolgere un compito strumentale all’attività di indirizzo e di controllo e operare come organo tecnocratico, competente in materia giuridica ed economica, dotato della necessaria indipendenza e autonomia, con finalità consultive e propositive”.55 In quanto strumento sganciato dalle strutture controllate, l’agenzia può osservare dall’esterno, avvalersi di consulenze specifiche di volta in volta richieste, sviluppare un proprio reporting, ordinario e straordinario, autonomo o su impulso di natura tecnica o politica56, allacciare rapporti con altre regioni e con altri enti interessati, a monte e a valle dei processi che si intendono valutare e verificare. L’agenzia per l’efficienza e la regolazione svolgerebbe un ruolo chiave nelle attività di valutazione delle politiche pubbliche, dove sono comparati costi e benefici delle decisioni pubbliche, con analisi a tutto campo e spesso assai complesse. Tra gli oggetti di indagine troverebbero posto i fattori di efficienza e di efficacia dei servizi forniti dalla Regione, dagli Enti locali e dagli altri enti pubblici, l’analisi di impatto delle regolazione e in generale gli effetti a valle dei provvedimenti presi o da prendere. Mancano spesso informazioni, ad esempio, sugli investimenti fatti e sui servizi effettivamente erogati dagli enti e dai soggetti, privati e pubblici, cui è stata delegata la realizzazione di iniziative su criteri predefiniti.57 L’Agenzia dovrebbe avere un ruolo 54 Vedi G. Pini (2003), p. 33 55 Cfr. Delbono F., Ecchia G., Servizi pubblici ed autonomie locali: il ruolo di un’agenzia consiliare”, in: Economia Pubblica, 1998, vol.28, pag.70. 56 Di forze politiche di maggioranza o di opposizione. 57 Sarebbe in questo modo possibile per un ente, come la Regione, che non eroga direttamente una significativa quantità di servizi, conoscere come le sue scelte sono state applicate dagli enti delegati, quanti e quali servizi sono stati forniti dalle imprese private che hanno vinto le gare di assegnazione degli stessi, e ciò è possibile utilizzando anche informazioni ed istanze provenienti dagli utenti effettivi e potenziali e dagli operatori dei settori interessati.

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consultivo, un ruolo propositivo ed uno di coordinamento, tesi a far conoscere ai policy maker le preferenze e le condizioni operative della comunità amministrata. Lo strumento si presta così ad essere una finestra sulle migliori esperienze a livello nazionale ed internazionale nei diversi settori. Esperienze parziali di questo tipo di valutazione di politiche pubbliche ne esistono in diverse parti del mondo58. Nella maggior parte dei casi, come nell’idea dell’Agenzia regionale, possono essere le singole Assemblee elettive a svolgere un ruolo di ”sorveglianza” nei confronti del potere esecutivo, oltre che farsi portatrici di istanze provenienti dall’esterno (cittadini, imprese, ecc..), rispondendo così a due fondamentali necessità59: da un lato quella di eliminare i problemi di asimmetria informativa esistente a vantaggio degli enti di governo, che devono necessariamente e periodicamente rendere conto del proprio operato mediante la predisposizione di informazioni attendibili; dall’altro, quella di verificare se l’intervento predisposto dagli organi di governo ha avuto successo, cioè se è riuscito ad eliminare il problema o a modificare la situazione per cui era stato attivato. Quindi, è indispensabile poter contare su una struttura composta da professionisti in grado di valutare ciò che è avvenuto ed analizzare a fondo gli effetti prodotti, mediante la predisposizione di studi, indagini e ricerche e di comunicare tempestivamente le conclusioni emerse60. Per ciò che riguarda i soggetti che dovrebbero comporre queste strutture si dovrebbe trattare generalmente di persone di alto profilo scientifico e morale, la cui selezione deve esser pubblica e trasparente, con spiccate competenze di tipo tecnico, di elevata professionalità, magari selezionati in specifiche e qualificate categorie e con incompatibilità contemporanee e anche successive di attività, come avviene spesso per i membri delle authorities nazionali. Si pensi, ad esempio, al controllo finanziario e contabile degli enti che potrebbe essere riservato a persone provenienti sia dal mondo accademico che da qualificate società di ricerca e di consulenza economico-finanziaria (anche estere), in grado di valutare e confrontare le performance realizzate e i programmi intrapresi con le migliori esperienze nazionali ed internazionali e per verificare se gli obiettivi e i cambiamenti desiderati sono stati ottenuti e, di conseguenza, poter esprimere un giudizio coerente, e possibilmente super partes, sull’attività di governo di un territorio.

Visto che una agenzia regionale rischia di essere troppo lontana dai contesti locali, aventi caratteristiche e tipi di problemi certamente peculiari,

58 Il caso più volte riportato è quello statunitense della Legislative Program Evaluation (LPE), dove programmi di valutazione delle politiche pubbliche sono affidate ad unità operative appositamente create dagli organi legislativi dei singoli Stati. 59 Si veda Martini A., Rosa F., Sisti M. (2001). 60 Ciò permetterebbe anche, come abbiamo detto, alle assemblee elettive dei diversi enti coinvolti e agli esecutivi di intervenire per re-indirizzare le politiche pubbliche.

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essa potrebbe articolarsi provincialmente con una forte autonomia operativa sui territori.

Una entità del genere, che racchiuda in sé compiti di coordinamento tanto rilevanti, come l’analisi di impatto della regolazione e il suo miglioramento, la valutazione degli effetti delle politiche pubbliche, le istanze e le occasioni di miglioramento dell’efficienza delle istituzioni regionali e locali, richiama l’idea, più volte citata in questo scritto, di una efficace cabina di regìa istituzionale. La cura maggiore sarà destinata ad individuare in modo chiaro e preciso l’oggetto della decisione e quindi dell’azione dell’ente.

Da più parti si sollecita a ridurre anziché ad accrescere il numero di istituzioni ed organismi decisori. Il numero esistente, lo abbiamo più volte ricordato, è già sovrabbondante e le competenze rischiano di essere sempre più sovrapposte e quindi l’operatività ne risulta compromessa. Ma nessuno nega invece l’esigenza di creare istituzioni-cardine o istituzioni-pivot che funzionino da “snodo di relazioni tra cittadini e amministrazione, tra sfera pubblica e sfera privata, fra poteri di vertice e territorio, fra sedi decisionali e rappresentanze di interessi”61. Qui si riducono gli spazi di autoreferenzialità e crescono gli aspetti di relazione e di utilità funzionale. 6.5. Governance e regole locali

In varie parti di quanto precede abbiamo sottolineato come compito della riforma della regolazione non sia solo né tanto quello di ridurre la quantità delle norme esistenti o venture, sostituendole con contratti efficienti tra le parti, quanto piuttosto quello di creare regole coordinate e combinate, in modo da rendere conveniente un certo comportamento economico idoneo a perseguire gli obiettivi del policy maker. Il livello locale a questo proposito è fondamentale. Il coordinamento delle regole di emanazione locale, tra loro e con quelle di livello superiore, così come la complementarietà tra le diverse tipologie e tra le singole norme in modo da garantire un sistema coerente ed efficiente, sono obiettivi irrinunciabili di una comunità. Efficaci sulla produzione di buone norme locali e sull’incentivo ad una analisi decentrata dell’impatto regolativo sono le condizioni di contorno a livello locale, a cominciare dalla stabilità della leadership politica, da una diffusa condivisione tra le forze sociali e da una coerenza con il quadro nazionale e internazionale.

61 Così scrivono De Rita e Diotallevi su Il sole 24 ore del 24-2-2006. Qui si ricorda il discreto funzionamento delle cosiddette autonomie funzionali (Camere di Commercio e Università, ma anche Fondazioni bancarie e, secondo una interpretazione allargata, le Aziende sanitarie, le Autorità portuali e di bacino, i Consorzi di bonifica). Le cosiddette istituzioni-pivot sono dotate di legittimazione e sono capaci di autofinanziarsi, non si costruiscono bensì si riconoscono, producono esternalità positive e a volte beni pubblici (Borse, Università, Centri di ricerca e di formazione, sistemi di partiti, istituzioni sportive,…).

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Il sistema di governance locale altro non è che un insieme di regole, formali ed informali, che disciplinano le molteplici e multilivello relazioni che si verificano in un territorio. L’agire ripetuto di tali relazioni porta ad una sintesi di istituzioni formali ed informali, dove le seconde rafforzano ed integrano le prime nella definizione di un equilibrio, appunto multilivello, del gioco e tutte sovrintendono alla vita di una comunità. Nel caso di istituzioni economiche, esse regolano o determinano il funzionamento di un sistema economico. Con l’approccio della governance si cerca, perciò, di tener conto del fatto che sempre più su di un territorio si moltiplicano i livelli decisionali pubblici e che da meccanismi di governo top-down, dove era lo Stato a definire tutte le regole, siamo passati a strumenti più partecipati, sia a livello interistituzionale (Stato, Regioni, Enti locali…), sia tra tipo di soggetti (pubblici e privati, per fare l’esempio più eclatante). Una tipologia e una quantità davvero rilevanti di legami, relazioni e scambi coinvolgono in ogni momento i diversi soggetti, individuali ed organizzati, in processi decisionali che definiscono i tipici nessi di complementarietà istituzionalizzati di un territorio e che ovviamente lo caratterizzano anche nei confronti con altri. Teniamo conto che (OECD 2001b, p.9) governi decentrati sono meglio posizionati per disegnare e applicare politiche che aiutino a costruire ed utilizzare le capacità endogene di un territorio per competere efficacemente in una economia globalizzata. E a livello locale la governance pare più efficace a causa di:

- minori costi di transazione (minore opportunismo, minori possibilità di evasione e di elusione di oneri tributari e non tributari, …),

- minori costi di enforcement (vicinanza ai soggetti destinatari delle politiche, relazioni più credibili con minacce e promesse),

- maggiore responsabilità politica (di fronte ad una platea più vicina ed attenta di elettori),

- minore frizione politica (tra le forze politiche e le categorie organizzate o corporazioni, ipotesi della “cattura” meno frequente?62),

- maggiore frequenza ed attitudine agli accordi cooperativi, concertazione, sussidiarietà.

Nelle pagine che seguiranno faremo qualche esempio di tutto questo. Mentre per ciò che riguarda le regole regionali, il discorso appare più

chiaro ed indagato, per quello che si riferisce alle regole locali occorre fare una precisazione. Quando si parla di “regole locali” non si fa tanto riferimento alle regole prodotte dallo Stato nazionale che disciplinino fenomeni di portata locale, quanto piuttosto alle regole “prodotte” da enti locali, intendendo queste in senso estensivo. Facciamo cioè riferimento sia all’attività normativa in senso proprio, quella che attiene al “disporre” in

62 Laffont e Martimort, come abbiamo visto (v.nota 24), la pensano diversamente.

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termini tendenzialmente generali e astratti, sia all’attività amministrativa, quella che attiene al “provvedere” per singoli casi concreti. Mentre le Regioni hanno funzione legislativa e regolamentare, Comuni, Province e Città Metropolitane hanno solo competenza regolamentare “in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite” (Art.117 Cost., c.6; vedi anche nota 46). Molto più ampie sono, poi, le competenze amministrative degli enti locali e in particolare dei Comuni, individuati come enti titolari di tutte le funzioni amministrative non attribuite ad enti di livello superiore, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza (Art.118 Cost., c.1; Dlgs 267/2000, Testo Unico degli Enti locali).

L’attuale distribuzione delle funzioni amministrative, infatti, anche dopo la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, prevede il prioritario ruolo dei comuni (tutte le funzioni non espressamente assegnate ad altre istituzioni), nel rispetto dei principi di sussidiarietà (verticale: il livello istituzionale superiore interviene solo se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione pubblica non possono efficacemente essere realizzati da quello inferiore), adeguatezza (idoneità organizzativa a garantire, magari in forma associata, il miglior esercizio delle funzioni) e differenziazione (evitando che l’applicazione delle stesse regole a realtà diverse possa aumentare le ineguaglianze sociali). Non dimentichiamo inoltre che l’assegnazione di funzioni (quelle definite fondamentali) ai comuni e agli altri Enti locali travalica, per espressa previsione costituzionale, la stessa competenza legislativa regionale, che è in questo modo trasversalmente vincolata63. La riforma del 2001, infatti, ha modificato anche l’operazione di riparto tra conferimento statale e conferimento regionale di funzioni agli Enti locali, ed ora “l’ossatura delle funzioni fondamentali, omogenee su tutto il territorio nazionale, è stabilita dalla legge statale, mentre alle leggi regionali spetta disciplinare, valorizzare, potenziare queste funzioni applicando i principi (ora costituzionali) di sussidiarietà, adeguatezza, differenziazione.” (Vandelli, 2004, p.135).

Le materie su cui si esercitano le funzioni degli Enti Locali sono tradizionalmente le seguenti (ibidem, p.127 e segg):

- sviluppo economico e attività produttive (agricoltura, artigianato, industria, energia, fiere, mercati e commercio, turismo..),

63 “Lo Stato può dettare standard uniformi sull’intero territorio nazionale anche incidenti sulle competenze legislative regionali ex art. 117 della Costituzione”, recita la sentenza della Corte costituzionale n.108 del 2005, come ci ricorda Endrici (2005, p.160), a proposito del carattere trasversale della materia ambientale, che fanno emergere il difficile equilibrio tra ragioni della differenziazione e ragioni dell’uniformità. Così come “la Regione non può intervenire sull’organizzazione degli enti territoriali, atteso che in materia c’è riserva di legge statale” (Enciclopedia del diritto, VI aggiornamento, p.949).

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- territorio, ambiente e infrastrutture (urbanistica, ambiente, viabilità, lavori pubblici, trasporti…),

- servizi alla persona e alla comunità (salute, servizi sociali, istruzione, polizia locale, beni e attività culturale, sport…).

Rilevanti sono, quindi, il ruolo e gli effetti dei regolamenti64 degli enti territoriali sui comportamenti e sulla performance dei territori.

Tanto per fare un esempio, si pensi alla potestà regolamentare dei Comuni (ex DLgs 446/1997) con riguardo all’accertamento e la riscossione dei tributi, Imposta Comunale sugli Immobili (ICI) e Tassa sui rifiuti solidi urbani (Tarsu) soprattutto, ma anche tributi sull’uso del suolo pubblico, pubblicità e affissioni. Dati recenti (Anci-Cnc 2005) segnalano che solo il 70% dei Comuni ha adottato appositi regolamenti e di questi la stragrande maggioranza riguarda l’applicazione dell’ICI (5515 su 9042). Scarsissima è l’attività regolamentare che riguarda autotutela, accertamento con adesione, servizi del contribuente, sanzioni amministrative, diritto d’interpello, definizione agevolata dei tributi locali, contabilità. Le attività regolative comunali sono diversamente presenti nelle diverse zone del paese, con buona performance nelle regioni del Nord-est (92%) e minori iniziative al Sud (56%). La stessa partecipazione degli Enti locali al recupero di tributi evasi, prevista dalla legge 248 del 2005, consente di accrescere la capillarità dell’accertamento e quindi di ridurre l’evasione e di aumentare il gettito fiscale complessivo e le entrate degli enti locali stessi. La percentuale di partecipazione, infatti, pari al 30%, non è trascurabile, anche se si applica alle maggiori somme effettivamente riscosse e non solo accertate di tributi statali, a titolo definitivo e a seguito dell’intervento degli Enti stessi.65

Non sono solo le regole formali a determinare la performance e la distribuzione delle risorse anche a livello locale, ma soprattutto a questo livello rileva il sentiment della comunità e del territorio che viene modellato

64 In seguito alla “costituzionalizzazione”, già citata, delle fonti di autonomia degli enti locali territoriali, sancita dal nuovo art. 117, co.6, comuni, province e città metropolitane hanno potestà regolamentare con efficacia solo interna ovvero esterna, su soggetti non facenti parte delle strutture medesime. Il che avviene dopo che è stata definita la gerarchia delle fonti, quindi il rispetto dei (soli) principi fissati dalle leggi (nazionali e regionali) e dal proprio statuto e dopo che sono state definite le materie di propria competenza: l’organizzazione e il funzionamento sia delle istituzioni e degli organi di partecipazione, sia degli organi e degli uffici di propria competenza, sia l’esercizio delle proprie funzioni. Su Enciclopedia del diritto, VI aggiornamento (pp.931-952) è possibile trovare i principali regolamenti “organizzativi” e “di funzione”. 65 Le relative regole amministrative per la partecipazione dei Comuni all’attività di accertamento e di accesso alle banche dati, avrebbero dovuto essere emanate a fine 2005 a cura dell’Agenzia delle Entrate, d’intesa con la Conferenza unificata. I motivi di attrito tra Stato ed enti locali sono note e non riguardano solo la percentuale di partecipazione. Non mancano coloro che ritengono rilevante il pericolo di intersezione tra attività di accertamento e interessi locali e comunque controproducente il fatto che i controllati (soggetti d’imposta locali) di fatto eleggano e siano prossimi al controllore (amministratori locali).

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anche dalle modalità di applicazione delle regole stesse. Già abbiamo ricordato quanto, a parità di qualità delle norme, sia importante la loro applicazione, estensiva che amplia l’area di influenza o restrittiva che la riduce. E abbiamo anche già sottolineato come una configurazione flessibile della norma, già nella sua formazione, possa consentire di ampliare i margini di manovra di chi deve applicarla e come l’importanza complementare delle regole informali derivi anche dal fatto che queste possono scoraggiare eventuali comportamenti opportunistici e ad elevato contenzioso. Oltre all’ampiezza dell’ambito regolato rilevano, quindi, le modalità applicative, l’omogeneità, la condivisione con i soggetti attuatori ed eventualmente con i destinatari, il coordinamento con altre norme e con le regole informali. A parità di corretta applicazione di una norma vi sono tante modalità e tanti gradi di attenzione. Ad ognuno di questi corrisponde un diverso effetto sulla società regolata e sul sentiment territoriale e comunitario (v.infra) che da questo può trarre ulteriori elementi di forza e coesione oppure di debolezza e di frammentazione. Effetti imitativi (alla Duesemberry) possono quindi aiutare nella diffusione di modalità pro-sociali e virtuose di applicazione delle regole, formali ed informali. 6.6. Cooperazione e concertazione

Le valutazioni sul decentramento della regolazione presuppongono l’analisi dello stato delle attitudini locali alla cooperazione e alla concertazione piuttosto che al conflitto o alla competizione istituzionale e sociale. Tra le istituzioni presenti in una comunità vi può essere conflitto, cooperazione o concertazione. A seconda dei rapporti che si instaurano tra di esse, all’interno di quelle pubbliche, all’interno di quelle private e tra le une e le altre, vi saranno condizioni più o meno favorevoli alla costruzione di capitale sociale (v.infra) e quindi allo sviluppo economico. Già abbiamo ricordato il pericolo di conflitto tra istituzioni, soprattutto pubbliche, che insistono sulla medesima funzione. In genere il conflitto di competenza o la competizione “sulle regole”, abbiamo detto, può esser ovviato con regole di livello superiore, ad esempio ad opera di istituzioni sovraordinate. Quando questo non accade, abbiamo sottolineato, è opportuno un qualche organismo o meccanismo di coordinamento che superi le difficoltà. Anche perché in situazioni di conflitto chi fa l’ultima mossa risulta vincente, ma scatena una rincorsa tra istituzioni che non sempre raggiunge posizioni più avanzate o più eque. Quando tra diverse istituzioni che concorrono al raggiungimento di un medesimo fine non è possibile la definizione di un contratto vincolante, i meccanismi della cooperazione e della concertazione possono raggiungere il medesimo risultato. Anche limitando, per il momento, il discorso ai rapporti tra istituzioni pubbliche, “si ha cooperazione quando vi è una condivisione della funzione di preferenza da parte dei diversi decisori pubblici ma è

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necessario mediare sul valore da assegnare ai trade-off fra gli obiettivi e gli strumenti” (Rey 2005, p.356). Attraverso il coordinamento nel tempo e nella dimensione degli strumenti dei diversi decisori, è possibile ottenere modelli di comportamento che rispettino una gerarchia di poteri reciprocamente riconosciuta, una precisa ripartizione di ruoli, di compiti e di responsabilità, condivise azioni di controllo sui risultati. Nei casi ove è difficile raggiungere comportamenti cooperativi si può tentare di ottenere comportamenti concertativi. La concertazione è una modalità di comportamento secondo la quale “ogni istituzione definisce le sue priorità e i valori da assegnare ai suoi obiettivi condivisi, mentre gli strumenti sono predefiniti nell’ammontare, nel tempo e nello spazio ... (ma) non vengono messi in comune e ogni operatore mantiene l’indipendenza nel loro uso” (ibidem). Forze endogene e meccanismi di trasmissione influenzano la cooperazione tra soggetti che insistono su una medesima piattaforma, territoriale, tecnologica o sociale. Quando queste non sono sufficienti, è opportuno intervenire con strumenti di incentivazione. Normalmente il semplice operare in un gruppo sociale o di imprese od altre organizzazioni comporta meccanismi spontanei di condizionamento che spingono alla cooperazione. Un esempio è costituito dalla “pressione tra pari”. Come noto, nella teoria della performance in team e degli incentivi di gruppo che si prescrivono in situazioni di molteplicità di agenti, si tratta il tema della peer-pressure come fattore disincentivante di comportamenti opportunistici da parte dei membri del gruppo (Kandel, Lazear, 1992). Tanto più in assenza di un agente supervisore (o di una funzione di principal) che abbia il compito di verificare il comportamento dei membri. Sono gli stessi componenti del gruppo che possono osservare in una qualche misura il comportamento degli altri ed esercitare una pressione che porti questi ad atteggiamenti più cooperativi e meno opportunisti, con la minaccia di ritorsioni nei periodi futuri o di significativi messaggi negativi all’ambiente rilevante per la loro operatività (sanzioni sociali). Allo scopo sono funzionali istituzioni di watchdog con compiti di monitoraggio che rendono credibile l’ipotesi di ritorsione e di perdita di convalida (reputazione) comunitaria. Ma la cooperazione tra soggetti può dipendere da oggettive convenienze, originate ad esempio dalla stessa natura dell’insieme. L’appartenenza ad un sistema industriale distrettuale, ad esempio, consente di migliorare la capacità di recepire e di assorbire le buone opportunità esterne. Se funziona la rete di nessi produttivi e sociali di un distretto, i punti di contatto con l’esterno e con le novità, di mercato e tecnologiche, sono moltiplicati, ma soprattutto le relazioni virtuose e credibili tra gli appartenenti rendono i contatti e le relative conoscenze velocemente veicolate e valutate, fino a divenire sfruttamento (collettivo) delle opportunità, più di quanto avvenga in una serie di contatti (di egual numero) asettici e indipendenti. In ciò confermando la migliore efficienza (performance di gruppo) delle reti di comunicazione decentrate, nel senso di Bavelas, quando le relazioni sono

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complesse e le informazioni non strutturate (Grandori 1995, p.197). Il valore della cooperazione tra le imprese prende origine anche da questi meccanismi. Ed anche nel recente rapporto dell’Unione Europea sull’innovazione (UE 2006) una delle cause del ritardo italiano è individuata proprio nella scarsa intensità di cooperazione tra piccole e medie imprese che ha influenza sui rapporti tra imprenditorialità e innovazione (secondo tale rapporto siamo appena al 23% della media europea).

Non sono solamente le imprese nel loro complesso ad avvantaggiarsi dell’appartenenza ad un insieme o ad una rete, ma ciò avviene anche per i soggetti che vi operano. La stessa dirigenza delle imprese appartenenti ad un sistema locale può ricevere valutazioni diffuse che vanno oltre i normali canali aziendali, interaziendali o di settore. Le notizie sull’impegno profuso e sui risultati raggiunti o anche semplicemente sulle caratteristiche dei singoli dirigenti, circolano liberamente e velocemente tra le imprese e la collettività. Si viene così a definire una reputazione ed una valutazione condivisa che aumenta le possibilità di carriera dei dirigenti stessi, così come avverrebbe all’interno di una grande impresa integrata. Ciò vale per tutte le figure dirigenziali, ma ha un rilevo maggiore per i profili di management più a contatto con la base sociale e la cui professionalità ha maggiori riflessi diretti sugli interessi degli stakeolders. Come non pensare, a questo proposito, alla recente valorizzazione delle nuove figure del direttore finanziario e degli amministratori indipendenti a tutela degli azionisti?66. In una nota ricerca condotta da Banca d’Italia (Signorini, 2000) il fatto trova conferma dalla constatazione della prevalente carriera dei lavoratori tra le imprese anziché all’interno delle singole imprese e della frequente “promozione” nell’ambito del sistema locale di imprese da lavoratore a dirigente e da dirigente ad imprenditore.

Più in generale possiamo sottolineare come molte tipiche relazioni tra soggetti si siano modificati nel tempo. Quella che era la base del successo dei distretti industriali, un forte e articolato sistema di relazioni tecniche ed economiche, privilegiate ed integrate con rapporti stabili, solidi e ricorrenti di natura sociale, ora è in parte superato e non è più sufficiente. Non basta più una buona etica del lavoro, una buona reputazione nei rapporti economici, una rete credibile e fervida di relazioni tra apparato pubblico e attori privati. In presenza di crescente inefficienza e di scarsa efficacia delle istituzioni 66 La nuova figura del direttore finanziario (chief financial officer), cui la nuova legge sul risparmio affida responsabilità anche penali, diventa centrale nella corporate governance, specie in prospettiva di maggiore innovazione nei rapporti delle imprese con i mercati finanziari anche locali (finanziamenti, fusioni e acquisizioni, accordi equity). Così dicasi per il ruolo di amministratori indipendenti a tutela degli azionisti/investitori che, sull’esempio del board Usa diffusi a seguito degli scandali Enron e Worldcom, vanno a formare audit committee che affiancano i Consigli di amministrazione in un riequilibrio di responsabilità tra questo e il top management, dove questi ultimi sono appunto più responsabilizzati e controllati.

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tradizionali, pubbliche e private (associazioni di categoria, sindacati, centri commerciali di vicinato, associazionismo sportivo e culturale,…), occorre trovare nuove forme organizzative che consolidino le relazioni virtuose. I “luoghi di associazione” tradizionali sono sempre meno rappresentativi. I circuiti che contano e che sono riferimento della vitalità sociale sono lontani, esogeni rispetto ai soliti “tavoli di concertazione”. Lo stesso turnover della popolazione residente, l’arrivo massiccio di persone con storie così lontane da quelle conosciute e consolidate anche in regole, non aiuta a valorizzare le relazioni tradizionali. Occorre allora investire su nuove relazioni che abbiano il fulcro nelle unità organizzative elementari, componendole e ricomponendole secondo i nuovi schemi.

Anche la concertazione, come la cooperazione, è un tema di grande valenza decentrata. Di fatto, il modello concertativo si pone come modalità di gestione delle politiche pubbliche e avviene attraverso un trasferimento, a volte solo fittizio e di facciata, di sovranità dalla P.A. (Stato, Regioni, Enti locali) ad organizzazioni private (parti sociali, organizzazioni di categoria, corporazioni), oppure tra livelli diversi della P.A. (dallo Stato alle Regioni, da queste agli Enti locali e così via) e può coinvolgere altri soggetti ed enti come Camere di Commercio, Università e Centri di ricerca, istituzioni finanziarie, consorzi di imprese e società cooperative. Ma la concertazione è anche una conseguenza necessaria della de-regolazione. Effettivamente, il ritirarsi dello Stato (in questo caso la sua articolazione a livello locale) dall’intervento diretto nell’economia, il limitarsi a decidere solo le cornici entro cui le attività private possono essere svolte, comporta necessariamente l’attivazione di misure di concertazione nell’esercizio delle pubbliche funzioni ed anche nella definizione delle cornici stesse, affinché il ritiro non sia irresponsabile invito all’anarchia o creazione di vuoti che molti attori cercheranno di riempire in modo disordinato e inefficiente. Esempi concreti si moltiplicano in ogni territorio e in molti settori. Procedure collaborative tra settore pubblico e settore privato sono spesso finalizzate a facilitare l’accesso al credito, l’interfaccia domanda-offerta di lavoro, il miglioramento infrastrutturale del territorio, la formazione professionale e le altre iniziative per rendere meno oneroso il ricorso ai fattori produttivi e ai mercati di sbocco dei prodotti. I patti territoriali (e, in certo senso, anche i programmi speciali d’area) sono esempi di tutto ciò. Si tratta, come noto, di unità di cooperazione istituzionali ed economiche coinvolgenti Enti locali, privati, organizzazioni sindacali, di categoria, del terzo settore, della ricerca e della formazione. Patti e accordi sono spesso utilizzati per promuovere ed organizzare eventi ed iniziative, per riorganizzare servizi pubblici locali, per migliorare i servizi di formazione professionale, per decidere e gestire incentivi alle imprese, per sostenere famiglie disagiate, per incrementare la formazione di capitale sociale.

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7. Regole formali ed informali e teoria dei contratti 7.1. Richiami di teoria

Nell’ambito del filone della letteratura economica conosciuta come “teoria dei contratti” si sostiene che i comportamenti degli agenti economici e le transazioni che avvengono tra essi siano regolati da contratti la cui completezza è difficilmente riscontrabile nella realtà. I costi di transazione, ex-ante ed ex post, contribuiscono a determinare il grado di incompletezza e vengono influenzati anche dalle caratteristiche delle stesse transazioni: frequenza, specificità delle risorse utilizzate, incertezza e disponibilità di informazioni (Williamson, 1979, 1986). D’altra parte la transaction cost economics interpreta anche i rapporti tra le istituzioni e la stessa governance come organizzazione delle transazioni tendente a ridurre i relativi costi e vi è perciò una chiara relazione tra forme specifiche di transazione e strutture specifiche di governance; questo vale per tutte le attività sociali che presentano costi di transazione.

Le regole formali, in questa letteratura, costituiscono la cornice entro la quale i contratti espliciti (o formali) trovano modo per essere rispettati, sono la fonte di enforcement di ultima istanza, l’individuazione dell’autorità che risolve i problemi di interpretazione e di applicazione delle clausole contrattuali che una delle parti, o tutte, ritengono non siano state interamente rispettate. Alle norme esistenti, settoriali o generali, si fa spesso riferimento nella redazione delle clausole contrattuali di un contratto completo. Ma anche in presenza di incompletezza contrattuale le norme sono fonte di riferimento e sono complementari alle clausole espressamente previste dal contratto. Ed una qualche incompletezza contrattuale, sappiamo, è frequente nella realtà, vuoi per le difficoltà di osservazione di alcuni fatti e comportamenti che rendono inutile la prescrizione, vuoi per la impossibilità di verifica di dati e azioni che rendono inopportuna l’indicazione nel contratto, vuoi infine per le difficoltà o l’eccessiva costosità di prevedere futuri “stati della natura”, ossia qualche contingenza futura. Il ricorso ad una autorità esterna ai contraenti, sia esso un arbitro oppure un giudice, consente di chiedere il rispetto dei contratti, nell’ipotesi che tale autorità sappia verificare la rispondenza di fatti e comportamenti e sappia imporre alle parti l’esecuzione di quanto prescritto ovvero una sanzione risarcitoria. La completezza del sistema delle regole, così come la chiarezza delle stesse, sono elementi determinanti per l’enforcement (che si dice “esterno”) dei contratti e delle obbligazioni ivi contenute da parte dei soggetti economici. E così sono determinanti per lo sviluppo del sistema economico ai diversi livelli territoriali. Così come lo sono il sistema delle autorità e la loro efficienza nell’applicazione delle regole stesse.

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Va innanzitutto ricordato il ruolo delle cosiddette “regole di default”, ovvero di quelle regole legali che, soprattutto nei sistemi di common law dove sono le Corti a costituire l’intelaiatura giuridica di riferimento delle attività, entrano in gioco quando nei contratti sono assenti clausole espresse di contenuto contrario.

In generale il sistema delle regole e la loro qualità sono maggiormente rilevanti nei casi di contratti incompleti e di contratti impliciti (o informali). Sappiamo che le transazioni locali possono essere regolate da contratti espliciti (formali), completi o incompleti, oppure da contratti impliciti (informali). Se si tratta di contratti incompleti, la rilevanza della qualità delle norme (regole formali) e della loro applicazione è ancora maggiore perché determina, in modo complementare rispetto alle clausole esplicite contrattuali, la complessiva efficienza degli scambi. Nei casi di contratti impliciti o informali, caratterizzati da impegni reciproci non formalizzati e self-enforcement (o con enforcement, come si dice, “endogeno”), assume una importanza rilevante il sistema di regole informali della società dove tali contratti vengono applicati e verificati. In effetti molta parte degli scambi economici che si realizzano in un sistema economico locale avviene in assenza di contratti completi ed espliciti (o formali) e qui le regole e le istituzioni informali sono molto rilevanti. I meccanismi di enforcement, si dice, sono di tipo multilaterale o collettivo, basati cioè sulla minaccia di interruzione di rapporti e di attività che altrimenti assicurerebbero flussi di reddito nel tempo. Qui, come dicevamo, sono i meccanismi della reputazione e della fiducia a costituire il collante di gruppo che assicura i vantaggi economici. E nel continuo confronto che un operatore fa tra il comportamento opportunista, che assicura vantaggi immediati, e il comportamento cooperativo e rispettoso delle regole informali (e dei contratti impliciti), che assicura vantaggi ripetuti nel tempo, deciderà quale atteggiamento tenere, certo stimando i periodi rimanenti del gioco (scambio) e i vantaggi attesi dello stesso, ma anche seguendo percorsi di scelte originati da valutazioni di tipo emozionale o affettivo (affective games)67.

Sappiamo bene68 che nell’ambito dei giochi statici le convenzioni sono un meccanismo di coordinamento delle azioni e un criterio di selezione tra gli equilibri molteplici di Nash, mentre nell’ambito dei giochi dinamici esse diventano delle regolarità di comportamento che nascono in un processo di selezione delle regole (del gioco).

67 Oltre alla letteratura sugli affective games andrebbe qui segnalata quella nuova branca dell’economia comportamentale che si lega alle neuroscienze (neuroeconomia) che studia, attraverso la teoria dei giochi e gli studi di neurologia, i comportamenti umani in campo economico partendo dalle basi neuroemotive dei soggetti e dalla predisposizioni di alcune parti del cervello umano a determinate emozioni e sensazioni. 68 R. Boyer, Y. Saillard, Théorie de la regulation. L’état des savoirs, La Decouverte, Paris, 1995, p.480.

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Attraverso una azzardata estensione dei ragionamenti di Williamson (1986), possiamo immaginare la convenienza delle imprese o in generale degli attori di un sistema economico locale a stabilire un numero crescente di contratti self-enforcing, dove l’identità dei contraenti e la loro reciproca fiducia sono elementi essenziali. Si moltiplica cioè quella “cospecificità endogena grazie alla quale le parti possono minimizzare nel corso del tempo i costi di transazione” (Nicita e Scoppa, 2005, p.232) ed, oltre a questi, i costi di coordinamento dell’insieme dei soggetti economici del sistema. “La complementarietà tecnologica, la localizzazione degli impianti, l’esclusiva contrattuale, possono essere tutti esempi di decisioni strategiche volte a garantire la ripetizione delle relazioni contrattuali per un periodo di tempo significativo… così gli effetti reputazionali si estendono dal singolo contratto al mercato nel complesso”(ibidem).

Nelle agglomerazioni d’imprese e nei sistemi economici locali il funzionamento delle istituzioni informali sarà normalmente influenzato dal “comune sentire”, un prevalente set di credenze e di opinioni che diventano comportamenti, dove oltre una certa soglia critica di omologazione si verifica una sorta di “premio di maggioranza” che aumenta l’adesione secondo una crescita esponenziale. Ma il fenomeno funziona anche a rovescio, passando da una prevalenza di opinioni pro-sociali ad una di opinioni e quindi di comportamenti anti-sociali.

In tema di rapporto di agenzia e in presenza di una molteplicità di agenti, la performance di gruppo è condizionata dall’impegno dei singoli, che a sua volta è condizionata dalla osservabilità e dalla verificabilità dei comportamenti. In questo caso, la performance di gruppo è determinata dall’impegno dell’insieme delle imprese di un certo territorio nella diffusione delle innovazioni prodotte o delle informazioni possedute. Il contratto incentivante efficiente può prevedere l’assegnazione ad un soggetto terzo del potere di allocazione di un premio. Questo premio può esser qui interpretato come la buona reputazione e il maggior rispetto nella comunità socio-economica e il soggetto terzo può essere lo strumento che la comunità delle imprese e delle altre istituzioni del territorio si danno per regolare le relazioni economiche, come una “cabina di regìa” o un nucleo di coordinamento interistituzionale (privato-pubblico); oppure semplicemente può essere rappresentato impersonalmente dalla collettività, dal senso comune (sentiment territoriale). La teoria dei contratti assegna al soggetto maggiormente informato i diritti residuali di controllo per rendere più efficiente lo scambio. Nel caso di una pluralità di istituzioni di un sistema locale di piccole e medie imprese, la cabina di regìa potrebbe svolgere anche questo ruolo.

Naturalmente le cose si complicano quando consideriamo i diversi tipi di transazione, quelle rientranti nella sfera privata e quelle rientranti nella sfera pubblica. In questo secondo caso, seguendo Williamson (1999), dovremo

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considerare, oltre alle citate caratteristiche della transazione, vale a dire la specificità delle risorse impiegate, l’incertezza e la frequenza, anche la “probità” (probity), ovvero la lealtà e la rettitudine con cui la transazione (nella sfera pubblica) deve essere realizzata (Ruiter 2005). Sarà utile in questo caso distinguere tra contratti-transazione secca (discrete contracts) e contratti-relazione (relational contracts), perché sono questi secondi, caratterizzati da scambi che durano nel tempo, ad avere la maggior frequenza nel caso in specie di transazioni del settore pubblico o che comunque lo coinvolgono. Questa speciale caratteristica (la probità, la buona fede) è legata ad una relazione di lungo periodo e ad una elevata incompletezza ed accresce l’importanza dei ragionamenti che abbiamo fatto in precedenza riferendoci a transazioni che operano in un contesto privatistico. Le caratteristiche delle transazioni determinano, tra l’altro, la convenienza nella scelta della modalità della governance pubblica (privatizzare, regolare, gestire) e quindi, in ultima analisi, la complessiva governance territoriale.

Nei paragrafi che seguono tratteremo brevemente delle motivazioni e degli obiettivi dei soggetti economici che si allontanano notevolmente dal paradigma del self interest e del binomio ricchezza materiale-felicità. Una ricca letteratura69 degli ultimi decenni ha dimostrato che gli individui non tengono conto, nelle loro scelte, dei soli risultati attesi delle proprie azioni, ma anche:

- distinguono tra risultati materiali e immateriali, - tengono conto anche dei risultati attesi degli altri soggetti relazionati, - danno valore al “come” si giunge a tali risultati. Come a dire che nelle funzioni obiettivo dei soggetti, gli argomenti

riguardano anche la stessa natura delle azioni intraprese e non solo i risultati delle stesse.

7.2. Le regole informali e il capitale sociale Le nozioni di capitale sociale, di cultura civica o di cultura politica di un

territorio rappresentano, per le scienze da cui derivano (sociologia, antropologia culturale, politologia, economia), una “eccedenza” rispetto alla dimensione formale-legale delle istituzioni (Almagisti e Messina, 2005, p.2). Se accettiamo la definizione di cultura politica, non tanto come insieme degli orientamenti politici dei membri di una società e neppure come combinazione di attitudini alla partecipazione alla vita pubblica e alle sue forme rappresentative e di adesione e ossequio alle istituzioni politiche pubbliche e alle autorità costituite, ma invece come sistema di significati, prassi sociali, comportamenti e stili amministrativi e subculture politiche territoriali

69 Ad esempio B.S. Frey, A.Stutzer (2002) e per una sintesi L.Bruni, P.L. Porta (2005), L. Bosco (2005).

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(ibidem, p.19), allora essa è parte della più vasta categoria del sistema culturale, ma ricomprende la nozione di capitale sociale, pur variamente inteso.

Il capitale sociale nella scienza politica, secondo l’approccio forse più funzionale ai ragionamenti che stiamo proponendo in questo lavoro, può caratterizzarsi in diverse ipotesi interpretative. Esiste una versione minimalista o “negativa”, tutt’altro che da trascurare, secondo la quale il capitale sociale è di fatto la reazione della società che non apprezza e non ha deferenza verso la classe politica locale e si auto-organizza in spazi dove il comune sentire diviene pregiudizio antipolitico. Qui l’intervento pubblico è visto come potenziale distruttore o almeno elemento di freno a quei meccanismi spontanei e virtuosi che altrimenti si svilupperebbero nella società e che accumulerebbero, attraverso la semplice interazione sociale, capitale sociale, diciamo “spontaneo” (Fukuyama, 1995 citato in Almagisti e Messina, 2005). Esiste poi, tra le altre, una versione alla Putnam (1993), dove il capitale sociale è inteso come cultura civica e politica, path dependent, che sedimenta nel tempo la consuetudine (alta o bassa) alla fiducia e alla cooperazione tra gli agenti di una comunità e di un territorio. Così si spiega che lo stesso modello istituzionale realizza diverse performance se applicato in contesti diversi sotto questo profilo. Putnam sostiene, infatti, che la differenza nella performance delle regioni italiane dipende dalla diversa dotazione di capitale sociale. Messina (2005) aggiunge, paragonando Veneto ed Emilia Romagna, che sono anche la cultura e l’azione politica, con i suoi stili amministrativi e i modi di regolazione, a rendere diversi i contesti e quindi ad operare per rendimenti diversi dello stesso modello istituzionale. L’azione dei governi locali e quella della politica locale non sono cioè per nulla neutrali. La predisposizione alla trasparenza politica e soprattutto amministrativa, la valorizzazione della partecipazione non formale alle scelte pubbliche, la diffusione del criterio dell’universalità nell’erogazione di servizi e nella condivisione degli eventi negativi, la pratica frequente della cultura della solidarietà, possono essere (e di fatto sono) terreni di applicazione quotidiana di una cultura politica che si salda così con il senso civico e crea capitale sociale.

Dal punto di vista dell’economista, come spesso ricordato e come vedremo anche nei paragrafi successivi, la costituzione di capitale sociale, fatta di relazioni intersoggettive, di norme sociali e di fiducia, lo fa divenire fattore di produzione e variabile rilevante per la produttività multifattoriale, oltre che fonte di esternalità, in quanto facilitatore della circolazione di conoscenze tra i soggetti, i mercati e gli avvenimenti. Cosicché il capitale

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sociale, ribadiamo, migliora la performance degli individui70, delle organizzazioni (imprese71 ed altre) e di paesi e territori72.

Se si vuole definirlo in base ai meccanismi relazionali che lo sottendono, possiamo distinguere (Pizzorno, 2001) tra capitale sociale di solidarietà, riferito alle relazioni sociali di gruppo, di forte intensità e durata, e capitale sociale di reciprocità, relativo alle relazioni intersoggettive con aspettativa di mutuo aiuto. Un terzo tipo, come vedremo nel paragrafo successivo, si riferisce al capitale sociale da gratuità relazionale, dovuto alla diffusione di comportamenti di “dono gratuito”, dove la tensione morale dei soggetti non considera né le attese di reciprocità (gift exchange73), né l’efficacia di miglioramento della giusta causa (warm glow74), né infine l’anonimità dei destinatari (filantropia pura) (Zamagni, 2006).

Da questo tipo di relazioni e di sentimenti diffusi nascono esternalità che, nel tentativo di ottimizzazione del benessere collettivo, vanno internalizzate nei meccanismi decisionali. I controlli e le sanzioni (premi e punizioni), come sappiamo, contribuiscono ad internalizzare le esternalità relazionali, sia nelle funzioni obiettivo sia nelle funzioni di produzione.

Vi è ormai una vasta letteratura75 sul valore da dare e sugli strumenti di misura da utilizzare per l’influenza della fiducia sullo sviluppo economico di paesi e regioni. Il concetto di partenza è sempre il medesimo e rileva l’aspettativa che un operatore ha circa l’affidabilità di un partner (che avrebbe la possibilità di comportamenti opportunistici) sul mantenimento delle proprie obbligazioni, la prevedibilità delle azioni e la lealtà nelle stesse e nella contrattazione; l’approccio, come detto, è quello evoluzionistico di teoria dei giochi, con ipotesi di agenti che non giocano in ipotesi di one-shot 70 “Le persone con disposizioni virtuose, agendo in contesti istituzionali in cui le regole del gioco sono forgiate a partire dall’assunto di comportamento autointeressato (e razionale), tendono ad ottenere risultati superiori rispetto a quelli ottenuti da soggetti mossi da disposizioni egocentriche” (Zamagni 2006, p.19). 71 Le imprese che producono, oltre che utilizzare, capitale sociale e quelle che sviluppano comportamenti prosociali sono più frequentemente destinate al successo (Woolcock, Narayan, 2000, Bagnasco et al., 2001, Sacconi, 2005). 72 World Bank ed OCSE dimostrano da molti anni come il capitale sociale contribuisca ad accrescere le potenzialità di sviluppo dei paesi e territori (Ocse 2001, Porter 2003). 73 L’economia del dono, o gift exchange, si riferisce a comportamenti di reciprocità, di scambio di doni, dove il dare presuppone un ricevere, e nasce negli studi antropologici su paesi e in tempi lontani (Mauss 1923, Titmuss 1970, Smart 1993, Bruni 2006). Come rileva Gregory (1987), “il fatto che gli economisti si siano preoccupati dello scambio di merci mentre gli antropologi si siano interessati prevalentemente dello scambio di doni, riflette semplicemente il fatto che la moderna economia europea è organizzata su linee molto diverse dalle economie indigene dell’Africa o del Pacifico” (The New Palgrave, v. 2, The Macmillan Press, London). 74 La gioia di donare, warm glow, consiste in comportamenti interessati a contribuire al miglioramento del benessere collettivo (giusta causa comune) e alla sua dimensione; i soggetti traggono soddisfazione dalla partecipazione alla realizzazione di un bene pubblico e dal suo ammontare complessivo (Andreoni 1990, Nunes, Schokkaert, 2003). 75 Ad esempio Ostrom, Walker (2003), Nooteboom (2002), Rousseau e altri (1998).

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games e con utilizzo del concetto base di reciprocità. In essa si discute, utilizzando anche test e verifiche empiriche76, se la fiducia (nella sua versione micro o in quella macro), riconosciuta come il più importante indicatore del capitale sociale, sia da indagare e valutare in sé o sia piuttosto una proxy del buon funzionamento delle istituzioni; quindi se ciò che viene utilizzato oggi per misurare la fiducia serve effettivamente allo scopo o invece registra semplicemente il buon andamento delle istituzioni, magari attraverso un appropriato ed efficace sistema giuridico. Altrettanto interessanti sono le analisi sulla direzione di causalità tra le due variabili.

Ma la cultura politica e il capitale sociale, indipendentemente dal fatto che sia la prima a contenere la seconda o viceversa, si integrano a vicenda e probabilmente, almeno in parte, si sovrappongono. Certamente si rafforzano vicendevolmente. Laddove la cultura politica e i suoi attributi (fiducia-partecipazione, rispetto delle opposizioni, omogeneità delle preferenze di partito, struttura democratica) operano per un ruolo attivo e positivo delle pubbliche istituzioni e autorità e sono quindi percepiti con favore e rispetto dai membri della società, essa opera in sinergia e a supporto della sedimentazione di capitale sociale, sia inteso in senso individuale (o “micro”), come insieme di risorse e potenzialità connesse con il far parte di una rete di relazioni durevoli, sia in senso collettivo o ecologico (o “macro”, alla Putnam), come cultura civica e politica path dependent che sedimenta nel tempo e nell’intera collettività la consuetudine alla fiducia e alla cooperazione77.

Non si tratta solo di considerare le relazioni interpersonali che prendono spunto dalle preferenze e dalle credenze degli agenti e determinano le scelte e i contratti, non è cioè solo la dimensione cognitiva a rilevare. Sono anche le interazioni sociali che prescindono dall’identità dei soggetti e che fanno affermare nuove categorie di variabili come le già ricordate fiducia, reputazione, reciprocità, senso del dovere civico. Ma non basta. Anche la dimensione affettiva e morale ha rilevanza nei processi decisionali, così come lo hanno gli stati emotivi che si esprimono in segnali riconoscibili che fanno saltare l’ipotesi di neutralità o di omogeneità motivazionale degli agenti (Gui, Sugden, 2005).

E così il sentimento dell’invidia o della malevolenza possono indurre i soggetti a sostenere costi specifici pur di arrecare danno ad altri (senza peraltro ricevere alcun vantaggio materiale). Per contro sentimenti pro-sociali possono trovare scarsa spiegazione secondo i classici parametri della scelta razionale di agenti autointeressati. Come non ricordare gli atteggiamenti di solidarietà o di altruismo che portano a consumi etici o eco-solidali, alle banche etiche e “del tempo”, ai codici etici, alla partecipazione disinteressata 76 Zak, Knack (2001), Beugelsdijk (2005). 77 Esiste poi una versione “meso”, riferita al processo attraverso il quale il capitale sociale cresce e si distribuisce strutturalmente lungo le reti.

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ai programmi di sviluppo, alle pratiche di responsabilità sociale degli imprenditori, e così via?

Ma, ricordiamo, le preferenze sociali possono essere integrate in meccanismi di mercato. Pensiamo ai certificati di carattere sociale ed ambientale che riguardano alcuni prodotti e servizi e ai diversi canali di distribuzione di questi prodotti. La certificazione di equità e di socialità oppure la certificazione di rispetto dell’ambiente non riguardano tanto (o per nulla) la qualità intrinseca dei prodotti o dei servizi, quanto piuttosto attestano il fatto che tali prodotti sono stati ottenuti utilizzando input di un certo tipo (ad esempio ogm-free, con materie prime di piccoli produttori locali, utilizzando positivamente lavoratori di certe categorie sociali), canali di vendita di particolare semplicità e direttamente valorizzanti le produzioni locali (fair trade store), senza sfruttamento del lavoro minorile e garantendo il pieno rispetto dei diritti umani e sociali delle popolazioni coinvolte nella filiera. Questo dimostra, da un lato, che motivazioni sociali dei consumatori sono integrabili con meccanismi di mercato, dall’altro che i soggetti economici appaiono sempre più interessati non solo alle caratteristiche dei risultati delle azioni (loro e dei soggetti interrelati), ma, come detto nel paragrafo precedente, anche alle modalità e al percorso che sono stati utilizzati per il loro raggiungimento.

Come si vede il processo di accumulo di capitale sociale di tipo relazionale è di fatto bidirezionale: dalle istituzioni ai membri della comunità e viceversa. I flussi di sentimenti di prosocialità vanno dai membri, singoli e organizzati, verso le istituzioni rappresentative e la comunità nel suo complesso attraverso il senso di appartenenza, o meglio di identità, e la fiducia e dalle istituzioni verso i membri della comunità con procedure di coinvolgimento e pratiche di affidabilità. Il sentiment comunitario78 si arricchisce di caratteristiche positive ogni volta che i membri della collettività o le istituzioni che la governano assumono comportamenti percepiti come corretti, veritieri, leali e collaborativi. La riduzione di pratiche di omertà, di opportunismo, di opacità nelle informazioni (ad esempio sulle fonti di reddito ai fini impositivi o sulle reali condizioni fisiche ai fini assistenziali e previdenziali) sarà la causa e, insieme, la conseguenza di tali positive relazioni. Così come lo sarà l’aumento di pratiche di leale collaborazione, di scambio di informazioni, di solidarietà, di responsabilità e di attenzione all’ambiente e al futuro. Anche l’affidabilità e la personalità carismatica dei

78 “Modena: città di parola”, è lo slogan che campeggiava su grandi manifesti in questa città, in occasione della campagna promozionale del bilancio partecipativo 2006. Pratiche di bilancio partecipativo sono funzionali alla diffusione di cultura politica pro-sociale e quindi di capitale sociale; specie se sono depurate da sterili rituali e da puri intenti propagandistici.

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leader delle istituzioni rileva, tanto più in sistemi politici dove è forte il controllo sociale da parte di queste ultime.79

7.3. Relazioni, motivazioni e gratuità Da quanto precede si aprono questioni teoriche più delicate e ancor più

multidisciplinari riguardanti, come stiamo vedendo, le motivazioni degli agenti e la validità dei paradigmi tradizionali della scienza economica. L’efficacia delle regole di una comunità, oltre che dalla loro qualità, dipende dal contesto in cui vengono applicate. E dipendono anche dalla “costituzione morale delle persone, cioè dalla loro struttura motivazionale interna, prima ancora che da sistemi di enforcement esogeno, come possono essere gli schemi di incentivo o le norme di legge”(Zamagni 2006). Lo stesso Zamagni (ivi, p.10) ci ricorda il percorso: preso atto della eterogeneità motivazionale degli agenti, diventa importante analizzare i meccanismi di scelta del sistema motivazionale da parte dei soggetti e quindi gli esiti dell’interazione tra soggetti nelle diverse ipotesi motivazionali (quale meccanismo prevale nelle interazioni?); da ciò dipenderà anche la scelta del disegno istituzionale idoneo a favorire il prevalere di un tipo piuttosto che un altro. Nel territorio in questione quali linee direttrici dovranno essere seguite perché l’assetto istituzionale e la qualità delle regole considerino e valorizzino selettivamente i diversi meccanismi motivazionali, orientandoli al miglioramento complessivo della società? La coesistenza di soggetti dotati di preferenze pro-sociali accanto a soggetti che seguono il modello egoistico, infatti, impone l’adozione di paradigmi e strumenti anche politici nuovi e più articolati, in grado di far emergere e coordinare le diverse preferenze. Sono qui evidenti le difficoltà di individuare una funzione obiettivo degli agenti economici, vista la indeterminatezza di alcune delle variabili rilevanti (motivazioni, valori, relazioni interpersonali) e sono difficili da prevedere i risultati dei meccanismi di incentivo eventualmente posti in essere.

Dovranno essere analizzati contratti relazionali e questi andranno verificati sulla natura delle interazioni di mercato. Dovranno prendere piede modelli di equilibrio reputazionale sequenziale e di reciprocità sequenziale che abbiano al loro interno i nuovi paradigmi motivazionali citati.

Come si intuisce sarà molto complicato prevedere i risultati di una regola, centrale o locale, che intenda orientare la performance di un territorio o di un settore economico.

79 Nei paesi ad economia pianificata, ad esempio, tra i fattori previsti ed utilizzati per definire i programmi di sviluppo locale, vi sono esplicitamente le personalità carismatiche del luogo. Si veda ad esempio il volume monografico della rivista Economìa y Desarrollo della Facoltà di economia di La Habana, Vol.136, 2004, in particolare il contributo di C.M.Leon Segura e R. Sorhegui Ortega, p.26.

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Già Adam Smith (Theory of Moral Sentiments, 1759) sottolineò l’importanza dei sentimenti morali che facevano distinguere self-interes (interesse personale) da selfishness (egoismo) e che motivavano l’individuo a comportamenti che tenevano conto dell’approvazione dei suoi simili e quindi dei giudizi di un ipotetico osservatore imparziale che conosceva bene il contesto e quindi le condizioni entro le quali le azioni venivano effettuate (morale della simpatia). Ma, come sosteneva Stigler (1981), si è spesso ritenuto che, nella contrapposizione tra il self-interest e il perseguimento di valori etici, nella maggior parte dei casi era la teoria dell’interesse personale a prevalere80. Nel continuo confronto tra meccanismi incentivanti e motivazioni non economiche, Jensen (1998) ribadisce che l’interesse personale è coerente con l’altruismo e che è inconcepibile, in una logica di scelte, considerare le azioni consapevoli degli agenti come pura reazione ad incentivi. Si moltiplicano così tentativi di catturare comportamenti non razionali o a razionalità limitata (Simon 1982) quali elementi aggiuntivi e autonomi dei costi di agenzia che si aggiungono a quelli normalmente considerati come conseguenti il conflitto di interessi tra i partecipanti ad una transazione. Così come tra i costi e i benefici analizzati dagli agenti economici in occasione delle proprie decisioni, trovano sempre maggiore considerazione fattori di contesto, fattori storici e culturali e paradigmi motivazionali che si qualificano come preferenze sociali, happiness function, reputational effects, gift exchange behavior, e così via. Nei sistemi locali di imprese e nelle comunità locali tutti questi effetti si moltiplicano. Non è più solo l’interesse personale a dirigere gli scambi, né basta distinguere il suo eccesso (egoismo), ma sono anche la predisposizione alle relazioni interpersonali e il senso di identità ad essere rilevanti. Una regola o una sua modificazione trovano anche su questo terreno un diverso grado di impatto. Basti pensare alla diffusione in corso di procedure di autocertificazione e quindi di pratiche che tendono a responsabilizzare i destinatari delle regole; qui i meccanismi motivazionali e il paradigma relazionale diventano fondamentali. Ma c’è di più, se consideriamo le situazioni di diffuso utilizzo di relazioni informatizzate, dove si sviluppano forme di scambio alternative (anche se spesso complementari) al mercato. Qui forme di reciprocità e azioni che rientrano nella citata gift exchange economy (economia del dono) sono sempre più diffuse. Si pensi alle più o meno recenti esperienze di 80 Come non ricordare a questo proposito le considerazioni di Yankelovich (2006) circa i recenti scandali del mondo degli affari mondiali ? Egli fa risalire i comportamenti manageriali perversi a tre concomitanti cause: un effetto non voluto di una eccessiva deregulation che ha tolto “paletti” ai comportamenti, una eccessiva assimilazione del compensi dei manager al valore (di breve periodo) delle azioni (stock option) e, appunto, una caduta dell’etica dell’interesse illuminato che consentiva strategie di compensazione tra interesse personale e particolare e sistema di valori ideali che pervadevano la società (americana). Si è passati così dal “doing well by doing good”, ad uno stretto legalismo (“I didn’t break the law, therefore I didn’t do anithing wrong”), fino al più diretto self interest “a qualunque costo”.

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software libero (Lerner, Tirole, 2002, Renda 2004) o programmi a codice di sorgente aperto (open source)81, al “formato aperto” di dati, modalità di rappresentazione elettronica dei dati resa pubblica e documentata esaustivamente, oppure alla possibilità di trasferire un programma da una piattaforma ad un’altra (“portabilità”). L’informazione non obbedisce ai modelli economici tradizionali82 ed esperienze di libera circolazione del software, dovute alla rinuncia di produttori ad esercitare l’esclusiva conseguente la tutela della proprietà intellettuale (diritti d’autore, brevetti), ne sono una prova. In contesti di intensa interazione sociale e di sviluppo di piattaforme informatiche che caratterizzano la digitalizzazione dell’informazione, con i suoi effetti di rete e di sistema, si supera il concetto di mercato e si sviluppano forme di scambio alternative.

Discernere e misurare preferenze sociali ed effetti reputazionali è, quindi, importante sia dal punto di vista interpretativo sia dal punto di vista normativo, poiché la contrattazione ottimale e le proposte di intervento pubblico nelle questioni principal-agent, nel tentativo di predisporre un disegno appropriato di meccanismi di scelta collettiva, dipende criticamente da una giusta ed efficace misura di questi effetti. I problemi di agenzia, infatti, non possono essere risolti “instillando” maggiore altruismo nella comunità (Jensen, 1998) perché l’altruismo, cioè l’interesse a far star bene gli altri, non trasforma una persona in un perfetto agente che esegue gli ordini degli altri. Dobbiamo fare i conti con una continua produzione di informazioni e di segnali, con l’interazione sempre più complessa tra gli agenti e i sistemi, che fanno crescere la rilevanza della storia del gioco e anche della storia del contesto.

Nei sistemi locali, di cui spesso parliamo, paiono svilupparsi forme, se vogliamo più blande e diluite nel tempo e nello spazio, di applicazione della teoria di gift exchange. Si tratta di comportamenti di produzione e distribuzione gratuita di beni e servizi o di informazioni sfruttabili. Nella versione ottimistica può trattarsi dello sviluppo della comunità in senso intellettuale che contagia i membri nel perseguire il senso di identità attraverso sentimenti positivi “a favore” (per il bene di tutti, per far crescere la considerazione della comunità nei confronti esterni) o “contro” (contro i “furbetti”, contro gli outsider), oppure può trattarsi di “segnali” che valorizzano i singoli produttori in un mercato a latere con un investimento specifico in capitale reputazionale (reputazione dei produttori di doni), infine può trattarsi di una specie di bundling strategico dove imprese nient’affatto

81 Anche per le definizioni seguenti facciamo riferimento a: Direttiva Ministero per l’innovazione e la tecnologia 19 dic 2003, in G.U. 7 feb 2004, n.31, punto 2. 82 Le stesse “esternalità di rete osservate in alcuni settori del capitale digitale… non sono affatto un fallimento del mercato, quanto la negazione del concetto stesso di mercato”; la concorrenza avviene “tra piattaforme, tra sistemi alternativi, tra mercati diversi” (Renda 2004, p.9)

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interessate a valori diversi dal self interest e alla massimizzazione del profitto, fanno omaggi e poi vendono servizi per utilizzarli e mantenerli (contratti di durata, vincoli all’utilizzo di materiale di consumo e pezzi di ricambio, ecc…). Così, nell’ipotesi pessimistica, ai meccanismi di gift exchange e di reciprocità si affianca (diventando il vero obiettivo) un vero e tipico meccanismo di mercato che contraddistingue agenti resourceful, evaluative maximizers.

Vi è un altro aspetto da segnalare e riguarda la presenza e la qualità di una “terza parte” che possa verificare i risultati dell’azione degli agenti, di cui abbiamo già parlato. La presenza del terzo verificatore cambia i pay off del gioco e aumenta l’effetto delle variabili che sintetizzano gli effetti reputazionali e, per questa via, la performance di mercato (Camerer 2003, List 2006). Nelle analisi relative all’individuazione di adeguati disegni istituzionali si dovrà tener conto anche di questo. Evidenze empiriche ed esperimenti “di laboratorio” inerenti l’economia comportamentale, confermando l’impossibilità di considerare context free la relazione tra preferenze sociali e performance economica, utilizzano le variabili di cui parliamo, reciprocità, fiducia, altruismo, lealtà, avversione all’iniquità e ne riaffermano l’importanza nello studio dei comportamenti e dell’interazione tra soggetti. List (2006), ad esempio, dimostra che non solo gli effetti reputazionali concorrono a influenzare (positivamente) la qualità dei beni ed in generale comportamenti leali da parte dei produttori, ma che i venditori locali, più interessati o forse più vincolati da comportamenti che tengono conto di effetti reputazionali e di gift exchange, “mentono” di meno dei venditori non locali, ma solo quando la qualità è facilmente verificabile. Il che richiama l’importanza di un “terzo” che consente l’enforcement contrattuale. “L’inserimento di certificatori professionali di qualità migliora la performance di mercato e supporta l’ipotesi che il mercato privato può risolvere il problema dei “bidoni” attraverso la verificabilità da parte di terzi….. cosicché la reputazione non può operare senza informazione, reputazione e monitoraggio della qualità sono complementari” (ibidem, p.33). E qui le implicazioni di politica istituzionale sono evidenti, richiamando l’opportunità, già richiamata (vedi par.6.2), della diffusione di pratiche garantite di certificazioni di qualità dei prodotti e dei servizi.

Rientra in questi discorsi, anche se la sua portata ha ben altri orizzonti, quel filone crescente di studi che si interessa di nuova economia sociale. In un recente lavoro, ad esempio, Zamagni (2006) sottolinea come “occorre fare in modo che l’assetto economico-istituzionale della società incoraggi e non penalizzi…la diffusione più larga possibile tra i cittadini delle pratiche di reciprocità” (ivi, p.21)83, cosicché le istituzioni pubbliche dovrebbero 83 Vale la pena di ricordare, come sottolinea Zamagni, che “la condizione che va soddisfatta è che possa affermarsi entro il mercato, e non già al di fuori o contro di esso, uno spazio economico formato da soggetti il cui agire sia ispirato al principio di reciprocità. L’aspetto

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instillare dosi crescenti di cultura della gratuità, innescando quel contagio progressivo tra soggetti individuali e collettivi che faccia crescere il capitale sociale nei territori, come abbiamo sottolineato anche nel paragrafo precedente. Esempi di “lavori in corso” su questi temi non mancano e non riguardano solo il cosiddetto “terzo settore”; la diffusione di piattaforme informatiche liberamente fruibili o di attività di formazione universale e gratuita, vanno certamente in questa direzione.

Come si vede la quantità e la qualità delle regole informali hanno rilevanza per lo sviluppo economico e sociale dei territori anche in questo senso. La diversa efficacia delle regole a seconda della qualità e del tipo di schemi e meccanismi motivazionali dei soggetti è già stata segnalata. Il varo di una nuova regola che costituisca opportunità per gli operatori economici e sociali e che preveda particolari modalità di adesione troverebbe, in contesti favorevoli, condivisione delle informazioni e delle pratiche di accesso, con scambio di esperienze che riducono sprechi e discriminazioni competitive. In alcuni casi, tuttavia, i patti di reciprocità possono portare ad una perversa organizzazione della partecipazione (alle gare di appalto) che diviene lesiva della concorrenza, ma qui sono le regole formali e i controlli a dover intervenire. Altri esempi di effetti differenziati di regole in base al contesto relazionale e reputazionale sono facilmente proponibili. L’aumento dell’ICI o l’istituzione di una imposta sull’inquinamento, oppure la maggior autonomia di contrattazione degli uffici decentrati dei Fisco, hanno effetti ben diversi in contesti caratterizzati da diffuse motivazioni prosociali o antisociali, con maggiore o minore avversione all’iniquità e all’opportunismo. Così incentivi alla messa in comune di informazioni e di innovazioni tecnologiche potrebbero essere vanificati da diffusi atteggiamenti individualistici od opportunistici. E ancora: incentivi che vanno a incrociare motivazioni altruistiche e solidaristiche potrebbero ottenere l’effetto esattamente contrario. “La promessa di un pagamento per la donazione di sangue diminuiva il numero delle donazioni e riduceva la qualità del sangue donato” ricorda Zamagni citando Titmuss (1970) e “l’impiego di incentivi economici non solamente riduce l’autodeterminazione e l’insieme delle possibilità di espressione…ma mina alla base il sentimento di autostima (la self-esteem di cui parlava Adam Smith): ricevere un pagamento per una azione che il soggetto avrebbe comunque compiuto diminuisce la considerazione sociale, cioè il social reward” (Zamagni 2006, p.6).

essenziale della relazione di reciprocità è che i trasferimenti che essa genera sono indissociabili dai rapporti umani: gli oggetti delle transazioni non sono separabili da coloro che le pongono in essere, quanto a dire che nella reciprocità lo scambio cessa di essere anonimo e impersonale come invece accade con lo scambio di equivalenti” (ivi, p.17).

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7.4. Le regole informali dei distretti industriali L’attenzione di economisti e sociologi verso le regole informali che si

consolidano nei sistemi locali di piccole e medie imprese è notevolmente cresciuta negli ultimi anni (Aoki 2001, Ostrom 2000, Eggertsson 1998) In un saggio poco noto, ad esempio, Sebastiano Brusco (1999) concentra l’attenzione proprio sulle regole informali che caratterizzano spesso i distretti industriali italiani (in particolare quelli del nord del paese) e ne risolvono l’antinomia tra cooperazione e concorrenza, così come tra conflitto e partecipazione all’interno delle imprese. Nei distretti, si sottolinea, il livello di concorrenza è molto elevato anche in relazione all’attività di innovazione, spesso incrementale, di prodotto e di processo, che caratterizza la continua ricerca di eccellenza e di efficienza dinamica. Ma anche la cooperazione si radica e si diffonde con modalità che seguono precise regole che man mano si affermano circa le “cautele”, le “interazioni” e le “sanzioni”. Così una regola informale viene ad essere condivisa e rispettata e può essere così sintetizzata (Brusco, p.5):

“è una cosa buona concedere fiducia a chi la merita, ma i comportamenti prudenti sono ammessi e legittimi. Essi non testimoniano scarsa stima e fiducia nella controparte, ma discendono soltanto da stimabile avvedutezza e sono quindi appropriati ad ogni buon imprenditore”.

Oppure ancora la seguente: “tra due agenti legati da rapporti continuativi non si farà mai pieno uso del

potere di mercato di cui si dispone in virtù della congiuntura, della dimensione reciproca o di altri fenomeni. Ciascuno terrà conto delle esigenze di sopravvivenza e di successo dell’altro, che sono legate ai margini di profitto, alle possibilità di tenere alto il proprio livello tecnologico, alle capacità di tenere presso di sé la forza lavoro maggiormente qualificata”.

Ma queste regole informali vanno oltre l’ambito di compatibilità dinamica tra cooperazione e competizione, che spiega cioè la cooperazione competitiva, ed anche oltre il tentativo di soluzione dell’altra antinomia, quella tra sapere locale e sapere codificato. Queste “regole” arrivano ad interessare i rapporti delle imprese con fornitori e clienti, con lavoratori e consulenti. E così potrebbe affermarsi, e di fatto si afferma di frequente, la seguente regola (ibidem, p.7):

“è scorretto e riprovevole che il cliente, il consulente, il subfornitore o il dipendente usino le informazioni, il sapere o la rete di relazioni di cui sono stati resi partecipi per avvantaggiarsene ai danni dell’impresa che li ha coinvolti in una iniziativa di qualsiasi tipo”.

Sappiamo bene che ogni volta che una azione si ripete o una relazione perdura nel tempo, essa può beneficiare della mobilitazione di attenzione e di interessi, della valutazione di opportunità e di possibilità da parte di tutti i soggetti coinvolti e tutto ciò costituisce un indice della convenienza a “rimanere nel rapporto” piuttosto che a “uscirne”. Inoltre determina le

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possibilità di successo nel futuro dei meccanismi che si sviluppano, secondo lo schema analitico di ogni processo organizzativo. E i ragionamenti che stiamo svolgendo non sono confinati affatto ai soli casi di distretti industriali, potendosi invece estendere a tutti i casi di comunità complesse e localizzate.

A rendere più facili e più convenienti comportamenti e decisioni di cooperazione non è solo la constatazione della ripetizione del gioco e della transazione o della relazione, che basa sulla fiducia l’individuazione di pay off più favorevoli, ma è anche e soprattutto la “struttura dei pay off stessi che viene alterata in maniera profonda, sino a cambiare il rapporto tra gli attori, nella sua struttura essenziale” (ibidem, p. 16). Per effetto delle regole (informali) che si affermano, diminuiscono i rischi di una fiducia mal posta e aumentano sia le sanzioni per la rottura degli accordi sia i premi per il loro rispetto. Se il sistema delle relazioni è reso più complesso dal loro numero (soggetti coinvolti) e dalla loro direzione (orizzontale e verticale) allora situazioni di multigioco (Russo 1996, Pini 1996), dove un attore gioca partite diverse su più tavoli contemporaneamente, si diffondono e i valori relativi delle convenienze nei comportamenti aumentano anche per effetto della vicinanza fisica degli attori e del possibile e frequente cambio di ruolo degli stessi (da fornitore a cliente, da subordinato a sovraordinato, da organizzatore a partecipante, …).

Così come il senso comune e i codici di comportamento non scritti che si riferiscono ai doveri condivisi di rispettare l’ambiente e di assumersi la responsabilità sociale nelle attività economiche potrebbe essere riassunto in una “regola”. Basta aggiungere, ad esempio, il criterio della eco-compatibilità ad ogni altro che sovrintenda gli obiettivi di sviluppo economico e di miglioramento delle condizioni di reddito, affermando la regola:

- “la consapevolezza da parte di tutti gli operatori economici dell’importanza della salvaguardia dell’ambiente e delle risorse naturali di un territorio condiziona le scelte individuali e collettive in modo che ognuno, accanto ai propri interessi, rispetti la preferenza collettiva ad un ambiente più sano, anche sopportando costi più elevati nella propria attività e tempi più lunghi nelle decisioni”.

Da qui alle considerazioni, che già abbiamo anticipato, sulle motivazioni relazionali, altruistiche e fiduciarie degli agenti economici di una comunità il passo è breve. E, a proposito dei comportamenti da gitfs exchange theory, la regola informale potrebbe essere:

- “chi riceve il software potrà modificarlo in base alle proprie esigenze o preferenze, ma dovrà rimettere nel pubblico dominio qualsiasi modifica apportata, in modo da consentire la piena fruizione da parte degli altri programmatori” (Renda, 2004, p.10).

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7.5. Regole formali ed informali e mobilità sociale Abbiamo visto, nei paragrafi precedenti, che i processi economici

evolvono con grande velocità e spontaneità, senza attendere la “copertura” del momento politico, né tantomeno di quello giuridico. Fenomeni importanti e diffusi come la mobilità sociale, la globalizzazione e l’innovazione tecnologica si consolidano senza che necessariamente vi sia co-estensione tra i momenti politico, economico e giuridico. Anzi, il momento giuridico è spesso l’ultimo ad adattarsi ad avvenute modifiche negli altri due e a determinarne l’equilibrio. Così, anche a livello locale, la crescente mobilità nei sistemi economici determina una riduzione di rilevanza e di efficacia delle istituzioni informali e di converso un aumento di importanza delle regole e delle istituzioni formali. Una loro eventuale arretratezza e inadeguatezza può determinare squilibrio e fattore di ostacolo allo sviluppo della comunità. E’ quindi necessario procedere rapidamente a creare un efficiente assetto di regole locali e di istituzioni formali idoneo e compatibile con le mutate caratteristiche del sistema economico e di quello politico, soprattutto, come vedremo, attraverso un miglior coordinamento, al limite di unificazione, di quelle esistenti.

Si può osservare, infatti, che in una collettività molto variegata e differenziata, dove gruppi sociali nuovi si aggiungono ai precedenti e dove anche la mobilità tra gruppi è significativa, mentre perdono di importanza e credibilità istituzioni informali basate sulle tradizioni e sull’idem sentire, sono richieste sempre maggiori e più dettagliate regole formali e acquistano rilevanza le istituzioni formali che le incarnano. Anche il turnover delle classi sociali prevalenti e dirigenti è fattore di crescita della domanda di istituzioni formali, per il loro carattere maggiormente vincolante e “garante” in situazione di incertezza e volatilità di principi e tradizioni. In sistemi locali quasi-stazionari o ad elevata stabilità politica e sociale questo non avviene. Altra caratteristica rilevante in questo ragionamento è la dimensione di tali sistemi. In una agglomerazione localizzata l’ingresso di nuove imprese avviene a costi marginali sociali crescenti, in quanto i nuovi arrivati sono probabilmente i meno informati e i meno esperti di variabili economiche, tecniche e sociali del luogo, anche se potrebbero non esserlo relativamente al settore. Possiamo immaginare che gli ultimi arrivati siano anche caratterizzati da una minore propensione a combattere l’opportunismo e quindi i comportamenti devianti; in questo modo farebbero diminuire progressivamente la rilevanza delle regole informali e delle relative istituzioni. Il costo marginale dell’ingresso di nuove imprese sotto l’aspetto delle istituzioni e delle regole formali è invece piuttosto basso e decrescente. Una norma o una organizzazione pubblica, ad esempio, estenderebbero la loro valenza ai nuovi arrivati senza difficoltà e senza ulteriori costi significativi. E così si ribadisce che la dimensione dell’agglomerazione e del territorio interessato sono rilevanti per il peso delle istituzioni informali,

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quando la prima è limitata cresce il peso delle seconde essendo qui più facile e diretta la circolazione delle informazione e la condivisione di valori e di abitudini. Quindi possiamo riassumere che l’importanza e il peso relativo delle istituzioni informali, a livello locale, sono tanto maggiori quanto più limitato è l’ambito geografico, tecnologico ed economico del distretto e quanto minore è la mobilità sociale. La rilevanza delle istituzioni informali cresce al crescere della stazionarietà della struttura economica e sociale di un sistema locale. E la scarsa mobilità, al limite l’immobilità, di una società dipende da variabili di natura economica e sociale. La mobilità si riferisce al fattore lavoro così come alle imprese e ad altri soggetti ancora. Essa infatti deriva, ad esempio, da scarsa mobilità professionale e del lavoro, oltre che da un diffuso impulso protezionistico e campanilistico. Il tasso di mobilità del lavoro, ad esempio, ha visto in Italia un tasso di crescita molto elevato nell’ultimo periodo.84 Si tratta di lavoratori che si spostano da una azienda all’altra, da forme precarie a forme stabili e strutturate o si tratta semplicemente del cambio di forma societaria (fusioni, cambio di ragione sociale, ecc…). Sono cause di natura prettamente sociale quelle relative alla tendenza dei giovani a permanere in famiglia fino ad età relativamente avanzate e la permanenza di classi dirigenti, politiche e manageriali oltre che imprenditoriali, in larga misura appartenenti alla cosiddetta “terza età” (i cosiddetti “dinosauri del potere”) alla guida delle diverse organizzazioni. Sono anche rilevanti: la scarsa predisposizione agli spostamenti fuori dal territorio di nascita, le scarse iniziative di scambi internazionali di giovani e di enti, la frammentazione degli atenei e dei centri di attrazione culturale e sociale, disseminati sotto ogni campanile, la scarsa attitudine al rischio d’impresa, una forte presenza di “ereditarismo” nel mondo della produzione, delle professioni e della dirigenza pubblica.

Un aspetto negativo delle relazioni che danno vita ad istituzioni informali patologiche può essere rappresentato dalla cristallizzazione e dal deficit democratico nella selezione della tecnostruttura locale. Sia nella maggior parte delle forze politiche, sia nelle associazioni di categoria, così come in diverse strutture imprenditoriali, si sta diffondendo la pratica della cooptazione, ovvero della cristallizzazione coordinata della massima dirigenza. In occasione di grandi scandali nei rapporti tra finanza e capitalismo negli Usa si parlò spesso di “crony capitalism” (Krugman, 2002), ossia di “capitalismo degli amici”, per far riferimento a lobbies stabili e nascoste che condizionano il mercato, non rispettandone tuttavia le regole. In altri tempi e luoghi (paesi in via di sviluppo) si prospettò l’ipotesi che da pratiche di crony capitalism derivasse una sorta di moral hazard ex-ante che indurrebbe istituzioni finanziarie a concedere credito ad elevato rischio, con

84 E’ stato calcolato (Inail, Cgia Mestre, Il sole 29-1-06) un aumento del 235% in 5 anni, dal 2001 al 2005, con un +66% nel solo 2005.

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l’aspettativa di operazioni di salvataggio pubblico in caso di insolvenza. Ma si tratta, oggi, di un fenomeno di portata generale e tipica del nostro tempo. La dirigenza delle organizzazioni viene scelta dalla leadership esistente, senza reale coinvolgimento della base che invece sarebbe legittimata alle scelte. E così le lobbies degli amici crescono e si rafforzano, insieme con il crescere degli intrecci delle alleanze o dei pacchetti azionari e con lo sviluppo dei patti di sindacato nelle società. La classe dirigente (crony technocracy?), spesso in modo trasversale e interorganizzativo, sceglie se stessa e perpetua la propria influenza senza render conto, se non in modo formale e distratto, alla propria base. Si registrano e si moltiplicano, così, fenomeni che rischiano di attenuare la democrazia interna alle associazioni attraverso questa crescente frattura tra vertici e base associativa, che rende sempre più indipendenti e incontrollati i primi. Si può, tuttavia, supporre che tale pratica patologica agisca in minore misura a livello locale, dove il controllo anche fisico (di prossimità) da parte degli associati può manifestarsi con maggiore immediatezza e continuità e dove la reputazione ha maggior valore. 8. Criteri di regolazione e servizi pubblici locali

Abbiamo più volte trattato, in questo lavoro, il tema della regolazione e dell’esigenza di migliorarla anche per quanto riguarda i contesti locali. Non rimane che fare qualche esempio di settori e di materie dove tale pratica trova di fatto applicazione.

I criteri che devono sovrintendere alla regolazione locale sono gli stessi che emergono anche dalla disciplina comunitaria e sono così riassumibili:

- il carattere residuale della regolazione, giustificata solo nei casi di fallimento del mercato,

- il criterio della proporzionalità, secondo il quale ogni regola deve essere proporzionata alla fattispecie che va ad interessare,

- la partecipazione degli interessati al processo di regolazione, - la revisione periodica della regolazione, che prende vita anche dalle

procedure di analisi e verifica, - il carattere provvisorio della regolazione, che non deve

necessariamente considerarsi permanente. In un processo coordinato tra i diversi livelli istituzionali fonte di

regolazione, la riforma che deve portare al suo miglioramento, anche attraverso l’analisi di impatto, interessa pesantemente il livello locale. Tutto il sistema di welfare locale, per la sua rilevanza di contesto e per le sue valenze specifiche, contiene momenti regolativi fondamentali per lo sviluppo economico di un territorio. Così pure rilevanti sono le regole e le politiche decentrate che influenzano l’allocazione locale delle risorse finanziarie alle imprese e tutti gli strumenti che a livello locale possono essere manovrati. Di grande interesse per la letteratura sul dibattito tra regole e sviluppo è il tema

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della regolamentazione dell’ambiente, che in questo lavoro non trattiamo. Ci soffermiamo invece sul settore dei servizi pubblici locali, che riveste un ruolo cruciale nell’attuale quadro regolativo decentrato. Le regole e le esperienze delle privatizzazioni locali (public utilities)

Potrà apparire paradossale ma fino al 1990 in Italia il sistema legislativo nazionale e la giurisprudenza nel settore ostacolavano seriamente la costituzione di partenariato istituzionale tra settore pubblico e settore privato nella gestione di pubblici servizi. Società miste commerciali tra Pubblica Amministrazione e privati erano improponibili fino alla legge sugli Enti Locali (legge 8 Giugno 1990 n.142). La partecipazione del capitale privato nelle società miste aveva la prevalente motivazione, suffragata dalla giurisprudenza della Corte dei Conti, della possibilità dell’affidamento diretto del servizio pubblico senza dover passare attraverso le gare di assegnazione. Una giurisprudenza restrittiva della Corte di Giustizia europea portava invece, soprattutto a partire dagli anni 2001-2003, ad impedire l’affidamento diretto e ad obbligare il ricorso alla gara, quantomeno per la gestione del servizio (non delle reti infrastrutturali). Per questo motivo in molti casi imprese locali di erogazione di servizi pubblici sono rimaste o tornate ad essere porzioni organizzate dello stesso ente committente (house provider).

Le public utilities locali, società a controllo pubblico locale, che forniscono servizi a rete per la soddisfazione di bisogni essenziali di una comunità (gas, calore, energia elettrica, acqua, trasporti, farmacie, smaltimento dei rifiuti, servizi aeroportuali e fieristici…), sono (dovrebbero essere) alla continua ricerca di migliorare la propria capacità di raggiungimento degli obiettivi prefissati dalla proprietà (efficacia), di migliorare il rapporto fra risorse impiegate e risultati raggiunti (efficienza) e di aumentare il livello di gradimento degli utenti (qualità). E i margini di manovra della legislazione regionale su questi settori sono tutt’altro che marginali. Anche recentemente, infatti, la Corte Costituzionale (sentenza n.29 del 2006) ha ribadito la legittimità di una legislazione regionale difforme da quella centrale, ad esempio in quanto più garantista in ordine alla trasparenza e alla tutela della concorrenza dei servizi pubblici locali85. Occorre tuttavia ricordare, come abbiamo già rilevato, che la materia della tutela della concorrenza e quella del livello dei servizi è sempre più nell’orbita dello Stato centrale e condiziona sempre più l’autonomia degli enti territoriali. Lo riafferma la riforma costituzionale del 2001 e lo dimostrano i recenti provvedimenti governativi, di cui riparleremo, che assegnano l’individuazione degli standard di servizio ad una legge delega statale, il cui 85 Legittimo è stato dichiarato il divieto di partecipazione alle gare per le società a capitale pubblico proprietarie delle reti e pure legittimo stabilire una soglia minima nella partecipazione dei privati al capitale sociale delle società miste.

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rispetto viene ora affidato alle Authorities, Antitrust compresa. Vengono così a riaffermarsi i nuovi punti di riferimento (“centri” condizionanti) delle autonomie territoriali, costituiti non più solo dallo Stato, ma anche dall’Unione Europea e dalle Autorità amministrative indipendenti (Barbati 2005, p. 118).

Secondo una recente indagine Mediobanca-Civicum (2005), le società a controllo pubblico locale hanno differenti performance sul territorio nazionale ed in generale segnalano ritardi di produttività e di efficienza. Costrette da due vincoli contrapposti, di essere fattori rilevanti di competitività dei territori, da una parte, di dover assicurare un servizio universale, dall’altra, sono interessate da processi di privatizzazione e soprattutto da interventi di liberalizzazione troppo lenti, differenziati tra settori e tra territori e che presentano strozzature di notevoli entità. Accanto alla grandi public utilities quotate in Borsa, big players sul mercato internazionale e orientate alla innovazione, esistono imprese di medie dimensioni, frutto di fusioni di prossimità di un certa consistenza anche se legate al territorio e ai suoi interessi. Ma continuano a permanere aziende locali di limitatissime dimensioni, interessate a funzioni di servizio locale e spesso legate strettamente e funzionalmente ad enti locali di territori limitati e con reti di relazioni e di integrazione produttiva e commerciale parziali e di complessa gestione. Le fusioni più coraggiose e le dimensioni più ragguardevoli si realizzano nelle regioni del nord, Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia Romagna, oltre alla città di Roma. Anche se l’integrazione tra queste aziende e le migliori esperienze nazionali ed internazionali della filiera di riferimento sono ancora irrilevanti. In Veneto, Friuli, Marche ed Abruzzo sembrano prevalere tipologie polverizzate e localistiche, dove la forma proprietaria e le strategie scontano relazioni a corto raggio e influenze politiche decentrate rilevanti. A questo propositivo vale la pena di segnalare come la frammentazione e l’instabilità della leadership politica giochino un ruolo importante nell’ostacolare le fusioni e quindi il raggiungimento di dimensioni competitive. Lo stesso livello di qualità, così come le attività di controllo su di esso, sono carenti in molte esperienze e anche le tecnologie più moderne e ormai consolidate86 trovano applicazioni limitate e ritardate rispetto a diverse esperienze estere. I costi unitari che ne derivano sono quindi spesso relativamente alti e crescenti87. Anche nei casi di centralizzazione nazionale del livello tariffario (governato dalle rispettive Authorities, come nel caso dell’energia), non sono omogenee le altre condizioni economiche contrattuali territoriali, che segnalano invece gradi di performance (sui costi e quindi sui profitti) assai diversi da caso a caso. La varianza dei prezzi si segnala notevole con forbici fino al 70% nelle

86 Il rapporto cita l’uso della termoventilazione nello smaltimento dei rifiuti. 87 Il rapporto segnala incrementi dall’1,5 all’8,7% in un solo anno, dal 2003 al 2004.

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tariffe dell’acqua88. Anche da ciò emerge con chiarezza il margine di manovra utilizzabile a livello decentrato per migliorare, anche attraverso un appropriato set di regole, le condizioni per gli utilizzatori e i consumatori di tali servizi, con evidenti riflessi sui costi di produzione delle imprese che utilizzano i prodotti e i servizi delle utilities come input.

I recenti provvedimenti governativi (D.L. n. 223 del 4 luglio 2006) prevedono una legge delega di riforma dei servizi pubblici locali, a partire dalla riaffermazione della gara pubblica come principio generale per l’affidamento e da forti limiti alle aziende municipalizzate che operano con affidamento diretto e a quelle partecipate che usufruiscono di contributi e sussidi; limiti riguardanti la gestione di servizi diversi o in ambiti territoriali diversi da quelli di appartenenza. Le partecipazioni locali

Società, consorzi, fondazioni, frutto di partecipazione da parte di Enti Locali e Regioni sono numerosissime e variegate. Tali partecipazioni locali spesso si muovono in direzione esattamente opposta rispetto a quella intrapresa dalla politica di privatizzazione nazionale. Gli enti territoriali tendono, infatti, a perseguire e confermare il controllo su aziende e settori dove sarebbe invece preferibile lasciare al settore privato, opportunamente contendibilizzato, di svolgere una qualificata attività produttiva e distributiva. Abbiamo già ricordato l’aumento significativo nei costi in molti settori fortemente interessati da tali presenze pubbliche locali, così come la scarsa trasparenza nei bilanci e nella governance. Non sono soltanto le classiche o le nuove Agenzie per lo sviluppo, ma società che gestiscono beni e servizi come autostrade, attività economiche le più disparate, scali aerei, centri termali, sale gioco, colture ittiche89. La gestione dell’acqua

Abbiamo ricordato l’estrema varianza tra le tariffe del ciclo integrato dell’acqua (acquedotti, fognature, depurazione) a livello territoriale (dati Federutility 2005). Anche i livelli di efficienza differiscono notevolmente a livello territoriale, con margini di spreco dovuto a inefficienza delle reti (perdite) che raggiungono un valore medio del 28,5%. Da segnalare il continuo calo degli operatori, in seguito all’attuazione della legge Galli (legge 36 del 1994), ora aggregati per ambiti territoriali ottimali (Ato), a volte corrispondenti a interi territori regionali (Puglia, Basilicata, Sardegna). Le relative società possono essere di proprietà dei Comuni o miste, a 88 In Euro per mc, le tariffe per il ciclo integrato vanno da 0,58 di Lecco e 0,59 di Udine fino a 1,36 di Pisa e 1,48 di Livorno. 89 V. Il Sole24 Ore del 25-1-2006.

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partecipazione privata, oppure si può trattare di gestori in concessione. Dove non è ancora operante il servizio idrico integrato, rimangono in vigore le pratiche di prezzi amministrati di tipo price cup. Con l’entrata in vigore del codice dell’ambiente (Dlgs del 10-2-2006) nascono in ogni ambito territoriale delimitato dalle Regioni, autorità (Autorità d’ambito territoriale ottimale) che esercitano le competenze degli Enti locali sulla gestione delle risorse idriche attraverso l’elaborazione di appositi piani e la predisposizione di convenzioni con i gestori. Nasce a livello nazionale una autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti che si avvale di un Osservatorio. Da tutto ciò deriva che da un lato è rilevante il sistema delle regole (formali ed informali) locali per migliorare la performance del settore, dall’altro che è opportuno che le istituzioni locali perseguano obiettivi di separazione sempre più netta tra governo e gestione, anche nel settore delle risorse idriche. In particolare le agenzie d’ambito per i servizi pubblici possono immediatamente procedere, attraverso concertazione con gestori, associazioni di utenti ed enti locali interessati, all’armonizzazione delle tariffe praticate su tutto il territorio (provinciale). Da un elevato numero di diverse tariffe applicate da ogni gestore si passa così ad un numero molto ridotto che rende pressoché indifferenziato il costo di approvvigionamento di famiglie e di imprese situate nei diversi comuni dell’ambito. Non solo. Anche i costi accessori (es. spese di allacciamento), le modalità di gestione del servizio e i rapporti con gli utenti possono e devono essere armonizzati, attraverso la diffusione delle carte dei servizi e i collegati standard qualitativi. Le strutture e le manifestazioni fieristiche

Archiviata, per ottemperanza, la procedura di infrazione comunitaria che ha ripristinato la libertà di stabilimento e di prestazione di servizi fieristici per tutti gli operatori e in tutti i paesi europei, confermata la competenza regionale secondo la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, rimane da consolidare un sistema nazionale articolato e la sua internazionalizzazione, secondo gli schemi prodotti dall’accordo di settore del 2004. A livello regionale diverse Regioni si stanno muovendo consolidando sistemi regionali policentrici che assegnano ruoli e competenze sfruttando sinergie, evitando un assetto eccessivamente campanilistico, che è causa di scarsa efficienza nell’utilizzo delle risorse e controproducente per lo sviluppo complessivo dei settori e dei territori. Il giusto equilibrio fra centralizzazione dell’organizzazione delle attività e decentramento della gestione, coinvolgente settore pubblico e privato, va perseguito sollevando gli organizzatori da eccessivi vincoli burocratici e da troppi obblighi contabili, seguendo l’esempio di molte norme regionali che prevedono una semplice procedura di comunicazione preventiva delle manifestazioni espositive (silenzio-assenso).

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I trasporti

Collegamenti sempre più rapidi e sicuri, efficienti e confortevoli, sono sempre più richiesti per reggere ritmi crescenti dello sviluppo e dell’innovazione e per assicurare, tuttavia, compatibilità con la difesa dell’ambiente e la qualità della vita dentro e fuori i centri urbani.

L’arretratezza della logistica è spesso ricordata come fonte di inefficienza per il sistema economico del territorio; questa riflette, a sua volta, i difetti di efficienza e i ritardi di liberalizzazione nei trasporti locali. La ripartizione tra proprietà delle reti e gestione del servizio ritarda ad avere effetti significativi, anche a causa del permanere di molte aziende nell’orbita diretta o indiretta degli Enti Locali e quindi dalla disparità di condizioni nell’accesso alle gare di assegnazione del servizio.

I servizi di trasporto di persone e merci che non rientrano tra quelli di interesse nazionale e che si svolgono in un territorio regionale o infraregionale (D.Lgs 422/1997) soddisfano esigenze decentrate di mobilità terrestre, marittima, lagunare, fluviale, lacuale, aerea e soggiacciono a regole anche locali. Anche in questo caso il loro livello di efficienza dipende dalla velocità con la quale si sviluppa il processo di liberalizzazione e di adeguamento tecnologico. Le imprese che vi operano sono assi diversificate per tipologia di attività e per mix gestionale. Trasporto urbano ed extra-urbano, su gomma o su rotaia, sull’acqua o nell’aria, viene esercitato con mezzi a capienza più o meno elevata e a diversa velocità commerciale. Sempre maggiore spazio nella progettazione di sistemi efficienti, anche a livello decentrato, va riservato al cosiddetto “quinto sistema” cioè alla intermodalità che si aggiunge ai sistemi tradizionali di veicolazione di merci e persone (strada, ferrovia, nave, aereo). Il trasporto intermodale evita infatti rotture di carico, trasbordi e manipolazione e si sviluppa attraverso gli interporti, complessi organici di strutture e servizi integrati. Il ruolo delle Regioni qui è cruciale e interessa lo sviluppo delle reti infrastrutturali di intermodalità, gli incentivi per migliorare l’organizzazione degli aspetti tecnologici del traffico, la costruzione di banche dati per conoscere ed analizzare le dinamiche del trasporto. Molta parte del settore del trasporto è sempre stata caratterizzata da elevati deficit di gestione, non riuscendo le tariffe a coprire se non in misura limitata i costi di gestione che scontano esigenze di diffusione del servizio (vincoli di quantità). I percorsi di privatizzazione e liberalizzazione qui procedono a fatica e con lentezza per questo motivo. Un segnale di ripresa del processo liberalizzativo viene dai recenti provvedimenti governativi (D.L.223/2006) che, in materia di trasporto locale, prevedono la possibilità di affidamento di nuove linee a privati, il divieto di istituire o sfruttare bottleneck ostativi per servizi di altri enti locali, maggiori poteri di limitazione del traffico agli amministratori locali e

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incentivi all’utilizzo di tecnologie foto e tele-matiche nella rilevazioni sulla sicurezza del traffico.

Anche nel settore del trasporto locale passeggeri va garantita la concorrenza nel mercato, verificando le modalità di concessione mediante gare di appalto e soprattutto le clausole che potrebbero ostacolarla, come la durata e i vincoli occupazionali. Così pure va tutelata la concorrenza nel citato trasporto multi-modale e in generale nel trasporto di merci. Sul piano del trasporto ferroviario, ad esempio, interessato da un difficile processo di privatizzazione e soprattutto di liberalizzazione, il decentramento regionale non ha dato sino ad ora evidenti vantaggi. Le gare sulle tratte locali non danno risultati significativi, con l’aggiudicazione costante a Trenitalia o a società di cui Trenitalia è partner strategico. I contratti di servizio che consentono sanzioni in caso di disservizi non hanno concreta efficacia a causa di mancanza di alternative. Ma, risolto il “collo di bottiglia” della rete con nuovi investimenti in infrastrutture, potrebbe riaprirsi il discorso di un abbassamento significativo delle barriere all’entrata di concorrenti e di una maggiore liberalizzazione, che avrebbe certamente notevole impulso sul coinvolgimento di forze imprenditoriali locali. 9. Politiche locali e buone regole

Alcuni indirizzi di politica locale mirata al miglioramento delle regole per lo sviluppo, trovano applicazione in specifici settori. Già di alcuni abbiamo accennato nel paragrafo precedente, di altri trattiamo brevemente di seguito, a solo scopo esemplificativo. Si tratta di alcuni settori che vengono spesso definiti come fattori di contesto per lo sviluppo di un territorio, sui quali anche la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 ha legittimato le autonomie locali (enti territoriali) ad intervenire in modo decisivo. Si tratta, come noto, di fattori che forniscono alla comunità sia “beni di club” (o di categoria), come i servizi per imprese del territorio di carattere formativo, tecnologico, finanziario, promozionale, sia di “beni pubblici” veri e propri, come le infrastrutture materiali ed immateriali, energetiche, dei trasporti, dell’ambiente, della sicurezza. (v.anche il par. 6.4) Le piattaforme informatiche

Grande attenzione va riservata, nell’ambito delle politiche regionali e locali, alle moderne tecnologie informatiche e alle cosiddette autostrade digitali. Intangibile assets, competencies e capabilities sono, come più volte ricordato, il nuovo capitale infrastrutturale dei territori e politiche di arricchimento e razionalizzazione in questi settori sono fondamentali per lo sviluppo. Sono noti gli effetti positivi che la diffusione del “capitale digitale” ha sulla produttività totale dei fattori produttivi e di conseguenza sulla

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performance di sviluppo di un territorio, non solo e non tanto a causa della nascita e la crescita di attività ed investimenti specifici nel settore delle tecnologie informatiche e comunicazionali (le cosiddette ICT), quanto piuttosto per la diffusione di queste tecnologie in tutte le imprese e i settori che le utilizzano90. La digitalizzazione per reti delle nostre comunità deve essere tenuta in grande considerazione dai “policy makers come leva di accelerazione dell’innovazione tecnologica e organizzativa” e “i vantaggi connessi al loro impiego aumentano velocemente con l’estensione del numero degli utenti in rete, facendo guadagnare in termini di costi (economie di scala) e di ampiezza del mix di servizi offribili (economie di scopo)” (Varaldo, 2005:26). Piattaforme informatiche e telematiche decentrate possono facilitare i processi di razionalizzazione istituzionale e funzionale che più volte abbiamo richiamato. L’uso delle tecnologie informatiche e comunicazionali favorisce sia la governance di un territorio che il suo government. Abbiamo infatti progetti ICT government-to-government, government-to-business e government-to-citizen a seconda che siano mirati a rendere più efficienti i rapporti tra diversi livelli di governo (istituzioni pubbliche), tra istituzioni pubbliche (burocrazia) e le imprese, oppure tra istituzioni pubbliche e cittadini. In tutti casi, la realizzazioni di reti e piattaforme informatiche ad accesso libero o mirato allarga la comunità degli utenti (web for everyone), migliora l’organizzazione dei processi burocratici e l’accessibilità dei servizi pubblici, aumenta la condivisione di conoscenze nella comunità e la cultura sociale.91 Anche in relazione ai recenti provvedimenti governativi che hanno istituito il Sistema pubblico di connettività (Spc) e la Rete internazionale della P.A. (DLgs 28-2-2005 n.42), regioni ed enti locali possono ora collegarsi nell’ambito di un sistema di infrastrutture tecnologiche e di regole tecniche che facilita lo sviluppo, la condivisione, l’integrazione e la diffusione del patrimonio informativo e dei dati della P.A., centrale e locale. Sarà in tal modo consentita l’interconnessione tra (tutti) gli uffici pubblici per lo svolgimento in via informatica dei procedimenti amministrativi che avrà validità giuridica. È stata realizzata altresì una rete internazionale che collega in via telematica tutti gli uffici pubblici italiani nel mondo (si parla di 500 sedi in 120 paesi), ai fini di favorire un rapido accesso per imprese e cittadini italiani, in patria o 90 Non possiamo tuttavia disconoscere i riscontri negativi che qualche ricerca ha documentato nella domanda di adesione a reti digitali da parte di imprese distrettuali. Trento e Warglien (2003), ad esempio, riscontrano una certa freddezza nella domanda di reti digitali da parte di imprese soggette ad economie (esterne) localizzative, dovuta alla diffusione di relazioni e istituzioni informali che ne attenuano l’esigenza (v. anche par. 7.2). 91 Anche l’attività legislativa nazionale si è adeguata alle esigenze di diffusione delle reti digitali, con il Codice dell’amministrazione digitale, in vigore dal 1° gennaio 2006, con la previsione di Centri regionali di competenza e di Centri servizi territoriali che dovranno coinvolgere anche i Comuni. Fino all’accesso ai disabili, di cui alla legge 4 del 9 gennaio 2004.

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all’estero, ai servizi erogati in questo settore della P.A.92. La diffusione del processo telematico ha iniziato ad interessare, ad esempio, il mondo della giustizia, proponendo il “processo on-line” in alcune sedi decentrate pilota. Grande sviluppo ha avuto l’attività nel settore fiscale, sia dal lato della P.A. (Ministero delle Finanze e Agenzia delle Entrate), sia dal lato degli studi professionali93. Da questi sviluppi sorge la necessità di sperimentare, anche a livello regionale e sub-regionale, reti di connettività senza fili che insieme con quelle a banda larga costituiscano piattaforme telematiche intese a superare il digital divide, sia a livello locale che a livello nazionale ed internazionale. Iniziando da quanto già esiste nel mondo della ricerca, dell’Università94 e in generale della P.A., le piattaforme devono essere accessibili a imprese e cittadini, singoli ed associati. Significative sono le iniziative già avviate per semplificare e rendere accessibili i servizi tra organizzazioni diverse, autenticando ed autorizzando gli utenti nella ricerca della risorsa desiderata e uniformando i meccanismi di accesso (Authentication & Authorization Infrastructure) in modo da rendere facile e veloce ottenere il servizio e l’informazione desiderata dalle diverse fonti. Le regole per la nuova politica urbanistica

Tra i fattori che influenzano, dal lato delle politiche pubbliche, lo sviluppo locale vi sono, oltre a quelli di natura fiscale, la quantità e qualità dei servizi pubblici, che sono direttamente manovrabili dal governo locale. Un altro set di fattori e di strumenti fa riferimento più propriamente alla regolazione. Si tratta ad esempio delle regole d’uso del territorio (norme urbanistiche e altre prescrizioni, generalmente rientranti nella categoria della land use regulation) oppure delle regole che riguardano la privatizzazione e liberalizzazione delle public utilities (v.sopra), le regole che riguardano salari

92 La diffusione dei servizi on-line della P.A. vede tuttora la prevalenza del sistema delle Camere di Commercio (40,4% del totale) e dei Comuni (29,5%), meno rappresentati sono i servizi centrali (4,4%), delle Regioni (5,3%) e delle Province (12,2%). Le regioni dove tali tecnologie telematiche sono più diffuse sono la Lombardia (14,6%) e l’Emilia Romagna (12,1%), seguite da Toscana (11%), Piemonte (9%) e Veneto (7,5%). I contenuti ottenibili da parte delle imprese sono prevalentemente relativi ad informazioni (64,7%) e modulistica (35%), irrilevante la disponibilità di servizi on-line (0,3%). Su 28 paesi indagati l’Italia si trova all’8° posto (UE, E-Government Benchmarking Report 2005). 93 Gli studi professionali risultano sempre più attrezzati al rapporto telematico per le incombenze fiscali: avvisi bonari via e-mail, modello F24 on-line, contenzioso tributario, istanze di programmazione fiscale e di convenzionamento, consultazione di atti processuali in tempo reale. Il 99% dei notai risulta collegato con i colleghi e con la P.A. 94 Un buon esempio è costituito dal Garr (Gruppo per l’armonizzazione delle reti della ricerca) consorzio costituito da università ed enti nazionali di ricerca, nato nel 2002 e idoneo a trainare sinergie con altri promotori, organizzatori e fruitori nei settori della ricerca, dell’istruzione, della sanità e della cultura.

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integrativi e politiche locali attive del lavoro (formazione e interfaccia domanda-offerta).

La geografia economica studia i fenomeni di localizzazione e i relativi fattori, e segnala la crescente rilevanza dei fenomeni di spostamento dalle zone centrali maggiormente urbanizzate alle periferie, con le implicazioni sullo sviluppo economico delle intere comunità. In generale si ritiene siano rilevanti per la scelta localizzativa delle famiglie (e in parte anche delle attività economiche):

- la fiscalità locale (ad esempio l’aliquota ICI e le modalità di riscossione e contenzioso),

- la dotazione di beni pubblici locali (servizi pubblici e welfare, istituzioni formali e informali e relativo capitale sociale della comunità,…),

- la quantità, qualità e varietà di specifici servizi come quelli scolastici, dei trasporti e del commercio,

- i prezzi relativi delle abitazioni e dei fabbricati non residenziali, - la vicinanza del posto di lavoro.

Una prima considerazione riguarda i fenomeni frequentemente definiti di “flight from blight”, o “fuga dalle rovine”, che fanno riferimento allo spostamento di persone ed attività dalle zone centrali intasate e problematiche degli agglomerati urbani verso aree suburbane e periferiche, a causa dello scarso livello dei servizi scolastici, dei fenomeni di delinquenza e in generale della probabilità di conseguire minori redditi. In questo quadro, è stato rilevato (Bayoh, Irwin, Haab 2006), incentivi di promozione alla residenza nei centri, così come investimenti pubblici nei centri stessi, trovano una loro giustificazione sul piano dell’efficienza in quanto vanno a compensare esternalità negative generate dall’incremento di concentrazione di povertà, crimine e bassa qualità scolastica. Ma a proposito delle politiche regolative locali, importanza assai maggiore hanno le scelte impositive degli enti locali, in primis le decisioni dei Comuni sull’aliquota ICI. Gli effetti delle imposte di impatto urbanistico, cioè dei tributi che hanno rilevanza sulle attività edilizie e sull’assetto urbano, sono indagati sotto diversi profili, anche in relazione allo sviluppo residenziale e alla tipologia delle costruzioni ad uso produttivo (Ihlanfeldt, Burge, 2006). Una imposta di questo tipo tende ovviamente a ridurre l’offerta di edifici, in quanto riduce gli incentivi alla realizzazione di abitazione singole ed ampie, mentre incentiva ad esempio l’utilizzo di abitazioni multifamiliari e le ridotte dimensioni. Regole e politiche sono studiate dalle istituzioni pubbliche regionali e locali, in tutto il mondo, per favorire uno sviluppo urbanistico equilibrato dei territori. Regole e politiche mirano a contenere sviluppi urbani eccessivi e al contrario a favorire le dotazioni urbane di zone scelte per gli insediamenti residenziali e/o produttivi. Non sempre tuttavia le politiche di contenimento urbano e i programmi di sviluppo di tipo regionale hanno raggiunto gli effetti desiderati

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sulla quantità di aree urbanizzate e ricerche recenti hanno posto il problema dell’efficacia della regolazione in questo settore (Wassmer 2006). Risulta in diverse esperienze che politiche in questo settore, come quelle che fanno riferimento a contingentamento delle aree urbanizzabili, ad imposte sul “costruito” o a vincoli ambientali e quali-quantitativi, confrontate con opzioni di non intervento (evoluzione “naturale” del fenomeno, “fligh from blight”), non giustificano costi di regolazione che risultassero significativamente pesanti per il sistema locale. Occorre infatti tener conto degli effetti di tali politiche su tutte le variabili rilevanti per la collettività, per esempio sui costi futuri delle attività interessate dal provvedimenti (costo degli edifici, salari e occupazione, costi ambientali,…) e così effetti preterintenzionali della regolazione possono ridurre la loro opportunità ed efficacia.

Anche per rispondere a problemi di emergenza sociale, sia del bene casa che delle periferie urbane degradate, si moltiplicano in tutto il mondo industrializzato iniziative di revisione della politica urbanistica. L’obiettivo è quello di contrastare l’impoverimento di capitale umano dei centri, causato dal caro-affitti, dal caos nel traffico e dalla diffusione di criminalità. Lo strumento è la previsione di aree urbanizzate con edilizia a “canone moderato”, intermedio tra prezzo di mercato e canone sociale di edilizia popolare tradizionale. Sono i Comuni a mettere a disposizione le aree a prezzi limitati o simbolici e a coordinare regole e intese con imprese di costruzione e associazioni di categoria, affinchè si realizzino abitazioni ad affitto calmierato per quote significative dei nuovi interventi edificatorii.95 In tutta Europa la nuova politica delle aree tende a risolvere i problemi della difficile governabilità e della complessa sostenibilità dei grandi aggregati urbani, decentrando le politiche urbanistiche e incentivando la gestione associata delle aree.

Rilevante per le regole locali e le politiche che le incarnano è altresì la gestione decentrata del catasto; la legge 311 del 2004 consente, infatti, ai Comuni di verificare, attraverso le Agenzie per le Entrate, i valori catastali in determinate microzone, con possibilità della relativa revisione delle rendite. E, come abbiamo ricordato, la variabile fiscale nella sua gestione locale ha rilevante influenza sulla mobilità e sullo sviluppo della collettività.

La combinazione di regole per lo sviluppo urbanistico e di quelle per la tutela ambientale ha portato in tempi relativamente recenti a sviluppare politiche di edilizia eco-compatibile. Progetti che uniscono sviluppo di aree industriali e salvaguardia ambientale si stanno moltiplicando in varie forme ed in diverse aree territoriali. Si tratta, ad esempio, di progettare o di 95 Ne sono esempi: il 40% delle aree cedute dal Comune di Milano con delibera del Maggio 2005, il 25% del nuovo piano strutturale di Bologna nel 2005, il 20% in base agli schemi di “coerenza territoriale” della legge urbanistica in Francia per le municipalità con oltre 50 mila abitanti, il 40% del patrimonio insediativi urbano della Catalogna in base alla legge del 2005. (Il Sole 24 ore, Commenti e inchieste 21-1-2006 p.11)

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riconvertire aree (dette eco-eco, cioè economicamente ed ecologicamente compatibili) dove si tien conto delle esigenze delle imprese di avere a disposizione aree industriali (solitamente aree PIP) a basso costo e delle esigenze collettive di tutelare l’ambiente. In applicazione della normativa nazionale (D.Lgs 19 agosto 2005, n.192 in applicazione della Direttiva Ue 2002/91/CE) e di apposite leggi regionali (ad esempio la L.R. 23 dicembre 2004, n.26 dell’Emilia Romagna e la più recente L.R. 18 agosto 2005, n.23 del Friuli Venezia Giulia) e sulla base di protocolli che coinvolgono Regione, Enti locali, associazioni economiche e sindacali, si coglie l’occasione per sperimentare, nell’ambito della progettazione dei nuovi insediamenti e della ristrutturazione dei vecchi, la semplificazione delle pratiche burocratiche, la gestione integrata dei servizi delle aree, iniziative di risparmio energetico, di miglioramento della logistica, di diffusione di esperienze di domotica, telematica e bioedilizia, di miglioramento nello smaltimento dei rifiuti e nella gestione del ciclo delle acque. In genere a coordinare la gestione di questi progetti è l’Amministrazione Provinciale, attraverso i Consorzi per le aree produttive, e per ogni singola area vengono individuati obiettivi, strumenti e parametri di controllo attraverso forme di monitoraggio dei risultati. L’intero campo della progettazione edilizia, sempre più interessato all’utilizzo di parametri di risparmio energetico e di integrazione paesaggistica, ne viene in questo modo interessato, secondo le linee definite già dall’inizio degli anni ’90 a livello internazionale (facciamo qui riferimento alla “Carta delle città europee per un modello urbano sostenibile”, o Carta di Aalborg, del 1994, recepita nazionalmente dal Codice concordato di raccomandazioni del 1998), oltre che dalle singole Regioni. Le regole per il mercato locale del lavoro

Vi sono molti aspetti del mercato del lavoro96 che sono rilevanti per la performance territoriale e che sono, d’altra parte, influenzabili dal sistema di regole decentrate. Tanto per fare qualche esempio: lo stato delle relazioni industriali, la gestione della flessibilità del lavoro, le politiche attive regionali e locali, la diffusione delle cadute di impegno e di fenomeni di mobbing, stalking, ecc…, la pluralità di cariche dirigenziali e di controllo nelle aziende 96 I vincoli e le rigidità intrinseche di ogni fattore di produzione contribuiscono ad orientare, spesso a limitare, lo sviluppo delle imprese e dei territori. In particolare le regole che operano a tutela del lavoratore hanno effetti rilevanti sul tasso di occupazione oltre che sulla produttività e generalmente sono viste come freno all’aumento delle possibilità occupazionali, almeno nel breve periodo e in assenza di considerazioni sui rapporti tra economia e valori sociali (v. par. 7.2 e le considerazioni che faremo nel prossimo). Ma quando si parla di regole e di vincoli si fa in genere riferimento alla dimensione nazionale, ai riflessi che le leggi nazionali e i contratti collettivi hanno sul mercato del lavoro e sui parametri di scelta delle imprese. Qui ci occupiamo di altro, delle variabili indipendenti locali della funzione obiettivo degli attori (vedi nota 13), tenuto anche conto della loro relativa rilevanza.

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private e pubbliche, la diffusione del telelavoro dove sono ridotte le distanze e più efficace il feedback e la possibilità di entrata a distanza nel mondo del lavoro di categorie poco mobili, come donne e disabili. Gli stessi canali di inserimento nel mercato del lavoro hanno rilevanza per le rispettive politiche97. Un discorso a parte va riservato alle regole che riguardano i salari integrativi e alle politiche locali attive del lavoro (formazione e di interfaccia domanda-offerta). In tutti paesi industrializzati, infatti, ormai ci si rende conto del fatto che col solo livello nazionale di contrattazione non si riesce a risolvere tutti i problemi legati in generale alla prestazione di lavoro. A livello decentrato si aprono spazi di contrattazione e quindi di integrazione del salario per obiettivi, rimettendo in gioco anche il ruolo, che ritorna rilevante, del sindacato. Mentre il salario contrattato nazionalmente ha il compito principale di tutelare il potere d’acquisto, il livello decentrato distribuisce la produttività per azienda, per settore e per territorio, colmando anche l’eventuale differenza tra inflazione programmata (o prevista, come preferiscono i sindacati) e inflazione reale. Mentre in Francia e in Italia si riscontra ancora una determinante rilevanza del livello centrale di contrattazione (pur temperata, nel nostro Paese, in seguito al protocollo governo-parti sociali del 23 luglio 1993), in molti altri paesi avviene il contrario: in Germania aumenta il livello di contrattazione aziendale anche semplicemente come deroga ai contratti nazionali, nel Regno Unito prevale la contrattazione aziendale, mentre in Spagna la maggior parte dei lavoratori beneficia di contratti provinciali di settore.98 Un incentivo in questa direzione è offerto dalla previsione di una decontribuzione99 per le erogazioni previste dai contratti collettivi aziendali o di secondo livello, delle quali sia incerta l’erogazione o l’ammontare e la cui struttura sia contrattualmente correlata a parametri di produttività, qualità o ad altri elementi assunti quali indicatori della competitività dell’azienda100. Si tratta cioè dei premi di produzione e delle altre forme di retribuzione ad incentivo, previste dai contratti aziendali. (art. 12, comma 4, lett. e, legge n. 153/69). Un problema non secondario è costituito dalle imprese di piccolissime dimensioni, nelle quali non sono presenti rappresentanze sindacali e che non hanno modo di accedere alla contrattazione aziendale.

A proposito di decentramento della negoziazione del salario va segnalata la rilevanza dell’accordo di San Valentino (14 febbraio 2006), che ha di fatto applicato un precedente accordo interconfederale del marzo 2004, relativo al settore dell’artigianato. Il nuovo sistema, sperimentale, prevede due livelli di

97 Non si può dimenticare che, secondo il recente rapporto Isfol (2005), in Italia il 34,7% degli attuali occupati si è inserito nel mondo del lavoro (occupazione più recente) attraverso il canale tipicamente locale delle conoscenze dirette “amici, perenti, conoscenti”. 98 v. Il Sole24ore del 21-1-06 99 Ossia: esenzione dai contributi e previsione del solo contributo di solidarietà del 10%. 100 Nei limiti del 3% della retribuzione annua di cui alla legge n. 135/1997.

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negoziazione: uno nazionale ed uno regionale, entrambi con dignità di efficacia. Il livello decentrato interviene, in particolare, sulle condizioni specifiche del settore a livello territoriale e quindi sull’indennità di produttività e, più significativamente, sul recupero del gap tra inflazione programmata e inflazione effettiva. A parte la rilevanza del settore dell’artigianato, che pure riguarda quasi il 15% dell’occupazione complessiva, è evidente la valenza politica di tale accordo, che costituisce un punto di riferimento per l’intero mondo del lavoro. Le politiche regionali e locali attive del lavoro

Così come ogni altra fonte di iniquità sociale, anche l’insicurezza e la scarsa tutela del lavoratore influenzano (negativamente) la performance economica dei territori minando alla base i suoi meccanismi di riproduzione. Istituti giuridici e comportamenti che incentivano la precarizzazione del lavoro, ad esempio, insieme con la scarsa presenza di ammortizzatori sociali “peggiorano il benessere sociale e la produttività media del sistema…disincentivano il lavoratore a investire nel proprio capitale umano (istruzione, addestramento) e non incoraggiano l’impresa stessa a operare nella medesima direzione, investendo risorse nella formazione professionale dei propri dipendenti” (Onida 2004, p.186).

Salute e sicurezza sul posto di lavoro, regolarità, emersione, stabilità e qualità del lavoro, sono tutti obiettivi di una efficace politica attiva del lavoro, co-varata ed co-applicata a livello regionale, con un ruolo determinante delle amministrazioni provinciali. L’autonomia regionale in questo campo, confermata dalle recenti riforme costituzionali, trova sostanza nelle leggi regionali approvate nell’ultimo periodo che regolano la disciplina del collocamento, della formazione professionale, interna ed esterna alle imprese, della partecipazione dei lavoratori nella governance delle imprese, dell’inclusione e del sostegno alle componenti più fragili dell’offerta, ad esempio le persone espulse in età avanzata, le donne, le persone con disabilità. Una delle maggiori espressioni dell’autonomia regionale e locale è rappresentata dalla disciplina dei tre nuovi tipi di apprendistato (l. 30 del 2003 e relativo decreto attuativo, DLgs 276/2003): quello professionalizzante, quello di alta formazione e quello del diritto-dovere di istruzione che completa un normale percorso di formazione. Ciò avviene anche attraverso la predisposizione di sistemi regionali di qualifiche e di programmi formativi individuali che arricchiscono i portfolio di accompagnamento dei lavoratori nel loro accumulo di esperienze. Sono previsti incentivi e riconoscimenti alle imprese che adottano modelli di comportamento e organizzativi “idonei alla prevenzione dei rischi sul lavoro, alla piena emersione dei rapporti, alla condivisione delle decisioni strategiche con i lavoratori, alla riduzione del rischio di illeciti civili e penali, alla

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salvaguardia dell’ambiente e dei diritti fondamentali delle persone”(ivi). Idonei atteggiamenti di autolimitazione legislativa (self restraint, solo norme promozionali) riservano allo Stato le sue proprie competenze (ad esempio per ciò che riguarda la sicurezza sul lavoro).

Gli obiettivi e gli strumenti di partecipazione dei lavoratori possono essere perseguiti anche con patti territoriali realizzati con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative e debbono riguardare sia strumenti deboli (attività informativa, di consultazione, di esame congiunto) sia strumenti forti (presenza di rappresentanze negli organismi di gestione, monitoraggio e controllo). Così come gli obiettivi di maggiore inserimento di persone con disabilità possono essere rafforzati da opportune convenzioni tra amministrazioni provinciali e datori di lavoro.

Anche in questo campo, seguendo le indicazioni comunitarie, trovano applicazione e sintesi le diverse analisi che abbiamo svolto nelle pagine precedenti di questo lavoro, a proposito del tipo di regolazione, coordinata e combinata con i diversi livelli istituzionali di competenza, e delle procedure di concertazione.

I Centri per l’impiego sono oggi sia pubblici che privati (in questo caso si chiamano agenzie) e l’attività di intermediazione nella ricerca di lavoro può essere svolta anche dai Comuni, singoli e associati, dalle Comunità Montane, dalle Camere di Commercio, dagli Istituti scolastici superiori e dalle Università, attraverso autorizzazioni rilasciate dalle Regioni secondo determinati criteri di accreditamento. L’utilizzo di sistemi informatici e dello scambio di documenti per via telematica costituiscono notevoli passi in avanti nella direzione della nuova centralizzazione ed efficientizzazione dei servizi. Anche se ad inizio 2006 ancora nessun Comune aveva attivato iniziative di intermediazione, nemmeno in forma associata, in quasi tutte le regioni sono state variamente distribuite deleghe su collocamento, intermediazione e politiche attive per il lavoro, cosicché risultavano operanti in Italia 1486, tra centri e altre strutture pubbliche periferiche, e 449 agenzie private, queste ultime concentrate nelle grandi città del centro e del nord del paese. L’e-recruiting comincia a integrarsi sempre più con le forme tradizionali di selezione del personale. Quello che ancora non ha trovato grande applicazione è il circuito virtuoso di integrazione reticolare almeno tra i diversi livelli della Pubblica Amministrazione per lo sviluppo del mercato occupazionale e l’integrazione tra i servizi di interfaccia domanda-offerta di lavoro con quelli di orientamento, formazione e inclusione delle fasce deboli.

Lo sviluppo di pratiche di telelavoro, reso possibile da investimenti privati e soprattutto pubblici in infrastrutture informatiche e reti telematiche territoriali, come abbiamo già rilevato, aumenta le possibilità di partecipazione al mercato del lavoro di categorie poco mobili di persone (casalinghe, disabili, anziani, residenti in zone decentrate).

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Degli incentivi e dei riconoscimenti alle imprese che adottano modelli comportamentali virtuosi, in ordine alla tutela dell’ambiente e alla responsabilità sociale, diremo in seguito. Le regole per una gestione associata dei servizi, delle politiche e delle imprese

Vi è un forte interesse politico ed economico ad orientare la regolazione locale verso la gestione associata di progetti ed attività. Si va dalla gestione associata dei servizi delle amministrazioni comunali (Associazioni od Unioni di Comuni), sperimentata in alcune regioni con risultati significativi in termini di costi unitari, alle reti e ai consorzi, anche temporanei, di impresa, fino ai programmi speciali d’area, associazioni temporanee di organizzazioni private e pubbliche, costituite al fine di realizzare rilevanti investimenti multisettoriali in un determinato territorio, relativi a infrastrutture, servizi per le imprese, centri per l’innovazione, centri commerciali, arredo urbano, ecc… Un altro esempio di aggregazione di strutture secondarie di servizio alla produzione si riferisce alle iniziative auspicabili e quindi alle regole da inserire e ricalibrare per razionalizzare e coordinare i consorzi all’export, eventualmente promossi da enti pubblici e da associazioni di categoria. Di fronte al dilatarsi e al complicarsi dei mercati di sbocco e al crescente tasso di competizione tra territori ed esperienze imprenditoriali, occorre mettere in comune energie e strutture anche in questo settore. Una struttura di coordinamento tra i consorzi è in grado di armonizzare le iniziative e di mettere in sinergia le attività dei singoli consorzi e di rappresentarli in maniera unitaria nelle iniziative di internazionalizzazione e di promozione dell’export. Ciò può servire anche per rendere più efficiente il collegamento con analoghe strutture ed iniziative promosse da soggetti pubblici (ICE, Regioni, Camere di Commercio), magari costituendo anche in questo settore una cabina di regìa per coordinare, monitorare e valutare le iniziative intraprese, eventualmente assegnando la responsabilità politica centrale all’ente maggiormente elevato sul piano istituzionale (la Regione, nel caso italiano). E ciò può avvenire anche sfruttando le nuove forme giuridiche che timidamente si affacciano sulla scena italiana ed europea, come la “holding federale”, dove imprenditori conferiscono l’azienda, anche di piccole o piccolissime dimensioni, ad una holding, mantenendo però il pieno controllo della propria impresa (ripetiamo: conferire l’azienda, guidare l’impresa). Ogni azienda diventa quota della holding mantenendo la propria identità e sfruttando le sinergie di una forma societaria che consente una dimensione operativa assai superiore e probabilmente, in quanto qualche funzione sia a rendimenti crescenti, idonea a garantire una migliore guida strategica, una migliore gestione della finanza, delle politiche amministrative, delle risorse umane, dei sistemi informativi, della ricerca e dell’innovazione. Forme di

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aggregazione come le holding federali possono nascere e svilupparsi attorno ad imprese leader o essere guidate da associazioni di categoria o da gruppi di imprenditori aperti e lungimiranti e la vicinanza geografica è sicuramente una delle variabili che influenzano questo tipo di accordi. La cessione delle aziende alla holding può comportare l’allontanamento volontario di alcuni imprenditori stanchi e interessati alla dismissione e allo stesso tempo il rilancio di imprenditori più orientati alla competizione, all’innovazione e alla conquista di mercati, anche esteri. I proprietari delle aziende cedute, infatti, ricevono in gestione quote di business che sono in grado di gestire, funzioni aziendali, aree di produzione, zone geografiche di sbocco, oppure possono continuare a gestire, come detto, in questa nuova ottica e secondo queste diverse modalità organizzative, il loro business originario. Economie di scala e di varietà, internazionalizzazione dell’impresa, innovazione tecnologica, elevati investimenti in capitale umano, saranno resi possibili e facilitati con la maggior dimensione raggiunta e con le relative sinergie, anche tra imprenditori. La holding così costituita potrebbe espandersi ulteriormente con altre acquisizioni e con sviluppo di nuove attività. Una clausola inserita nei patti parasociali, poi, potrebbe risolvere il problema del legame affettivo alla propria azienda, che spesso rende indisponibili all’apertura verso l’esterno i fondatori dell’impresa: la possibilità di riacquisto dell’azienda ceduta ad un prezzo predefinito, entro un certo lasso di tempo. Le regole per la misura del capitale sociale locale (la responsabilità sociale)

Tra i fattori di coesione sociale che andrebbero considerati anche ai fini della definizione e della misurazione del capitale sociale territoriale vi è la diffusione della responsabilità sociale delle imprese e in genere delle organizzazioni pubbliche e, soprattutto, private. Già una recente ricerca (Micucci, Nuzzo 2005) tenta di quantificare la componente “macro” del capitale sociale di una comunità, quella che riguarda la generazione di beni collettivi attraverso il moltiplicarsi di rapporti di fiducia, attraverso l’utilizzo di indici di facile applicazione. Si va dalla partecipazione ad organizzazioni senza scopo di lucro (numero di istituzioni e di addetti e volontari)101 alle occasioni di socialità non formalizzate (reti informali e amicali, atteggiamenti pro-sociali….), dalla propensione a cooperare (partecipazione al voto, attivismo politico e sindacale) a quella a relazionarsi socialmente in modo

101 Occorre comunque ricordare (Zamagni 2006, p.3) che alcuni indici utilizzati come proxy del capitale sociale, quale il numero di iscritti alle associazioni di carattere sociale, sono spesso scarsamente indicativi, in quanto non identificano un effettivo tasso di partecipazione alla vita delle associazioni stesse e alla vita sociale in generale. Anzi, un aumento della base associativa potrebbe essere funzionale a quella che abbiamo identificato come crony technocracy (vedi par.7.5), fenomeno patologico che tende a ridurre anziché ampliare il tasso di democrazia interna delle organizzazioni.

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positivo (occasioni di incontri pubblici, efficienza della giustizia e percezione della sicurezza). Una variabile aggiuntiva, rilevante localmente, di cui si può tener conto è la propensione alla responsabilità sociale (corporate social responsability), cioè alla volontaria assunzione di responsabilità circa l’integrazione tra obiettivi sociali e ambientali e mission tradizionali, produttive e distributive, delle imprese, anche nei confronti dei soggetti con esse relazionati, consumatori e clienti, lavoratori, fornitori, finanziatori, altri stakeolders. Si tratta sicuramente di una caratteristica significativa del capitale sociale di un territorio e la sua diffusione per imitazione ha richiamato l’utilizzo del termine “isomorfismo istituzionale”. Richiamando il fatto (Di Maggio, Powell, 1983) che i cambiamenti organizzativi appaiono sempre più come il risultato di un processo che rende le organizzazioni tra loro più simili senza renderle necessariamente più efficienti, si fa rilevare (Rubinstein, 2006) come la diffusione della responsabilità sociale delle imprese sia il frutto di una specie di effetto di imitazione, un isomorfismo istituzionale, che in un determinato campo organizzativo già fertilizzato porta a diffondere una pratica con piena ignoranza di questioni di efficienza. Senza voler entrare nella discussione di tale asserto, rileviamo comunque che tale fenomeno è di facile rilevazione. Un indice utilizzabile è costituito dal numero di aziende e di organizzazioni certificate e titolari di appositi marchi102, oppure dall’ammontare di contributi assegnati da Regioni e Province a questo scopo (rispetto ai complessivi bilanci). Diversi altri dati possono attestare la propensione alla responsabilità sociale delle imprese, non da ultimo la percentuale di disabili assunti sul totale degli addetti, non essendo le prescrizioni sempre pienamente rispettate. Apposite leggi regionali devono favorire intese e sperimentazioni in questo senso, di concerto tra organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro, associazioni di categoria e singole imprese, senza dimenticare le associazioni di tutela ambientale, dei consumatori, delle libere professioni, del cosiddetto “terzo settore”. Saranno incentivate attività di informazione sulle varie forme e finalità della responsabilità sociale e sulle esperienze già realizzate, da utilizzare come benchmark nei casi di eccellenza, favorendo l’introduzione di codici di condotta, di bilanci sociali ed ambientali, l’acquisizione di marchi e certificazioni di qualità sociale ed ambientale, magari validati e certificati a livello europeo e internazionale, oltre alla promozione delle relative attività di formazione professionale. Esperienze da estendere sono quelle di bilanci sociali di distretto, settoriali o multisettoriali, volontariamente promossi dalle aziende, di concerto con associazioni di categoria e ambientaliste, sistema educativo e della ricerca, pubbliche autorità. Anche in questi casi i vantaggi 102 Del tipo SA 8000, certificazione etica, del tipo OHSAS 18001, sistemi di gestione della salute e della sicurezza, ovvero del tipo ISO 9001, per il quale possiamo vantare già 84000 casi in Italia, al secondo posto in Europa, insieme con quelli ambientali tipo ISO 14001 ed EMAS (Civicum 2006).

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sono sicuramente a livello collettivo, ma anche la gestione interna delle aziende ne trae vantaggio, per lo stimolo che ne deriva alla continua verifica qualitativa riguardante l’intero processo produttivo. Rientrano nelle fattispecie relative alla responsabilità sociale iniziative di sensibilizzazione dei consumatori e delle loro associazioni, la citata attività di promozione dell’integrazione lavorativa delle persone con disabilità e per certi versi l’attenzione all’adempimento dell’obbligo formativo che contribuisce a disincentivare lo sfruttamento del lavoro minorile, le politiche attive del lavoro specificamente orientate alla tutela della salute e della sicurezza sul posto di lavoro, così come le procedure di affidamento e di esecuzione degli appalti pubblici. Ma queste ultime possono essere specificate come segue. La questione appalti pubblici

Il Testo Unico che rivede la normativa nazionale su affidamento dei lavori, servizi e forniture, recependo le direttive europee (Dir 2004/17/CE, Dir 2004/18/CE), entrato in vigore nei primi mesi del 2006, prevede l’appalto integrato con affidamento congiunto di progetti e lavori e l’allentamento di alcune procedure e norme precedenti (legge 109 del 1994, Merloni). In presenza di pericoli di opportunismo da trattativa privata, con spartizioni viziose degli appalti, lievitazione dei costi (aggiornamento prezzi) e varianti in corso d’opera, arbitrati costosi e distorsivi, vi è la necessità di un coordinamento tra norme comunitarie, norme regionali e regole locali, con queste ultime a funzionare come sentinella vigile sul rispetto di tutta la filiera normativa e di feed back sui livelli superiori. Le direttive UE, come detto, orientano la regolazione verso forme più snelle e leggere, con l’introduzione di nuovi istituti di semplificazione: l’accordo quadro, le aste on-line, il dialogo competitivo. Da qui occorre partire per rendere tutto il sistema regolativo più efficiente, senza dimenticare la tutela di trasparenza, di concorrenza e di apertura dei mercati e l’equità nelle condizioni di aggiudicazione. Un eccesso di semplificazione può essere infatti dannoso se limita eccessivamente l’informazione e la competizione, se rende cioè efficace un trade-off tra semplificazione e trasparenza.

A livello regionale è possibile applicare il Documento unico di regolarità contributiva di tipo telematico, obbligatorio dal 2006 per partecipare a gare d’appalto o subappalto per lavori soggetti a Dichiarazione di inizio di attività (D.i.a.) o a concessione. Molte Regioni hanno messo in atto questo strumento, che riduce i tempi per le imprese e concentra per via telematica in un solo atto tutto ciò che in precedenza doveva essere svolto presso diversi uffici. Questo è un terreno significativo dove misurare, per l’efficienza complessiva dei provvedimenti, la coerenza tra leggi nazionali e leggi regionali. Va ricordato che è proprio in nome del principio costituzionale di leale collaborazione che un recente parere del Consiglio di Stato (n.355 del

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2006) richiama il legislatore nazionale al coordinamento con le Regioni, per le quali individua un ruolo primario nella normazione in ordine al programma dei lavori pubblici, all’approvazione dei progetti a fini urbanistici ed espropriativi, alla progettazione e direzione di lavori, servizi e forniture, alla sicurezza nei luoghi di lavoro e all’individuazione di compiti e requisiti del responsabile di procedimento.

Un ulteriore elemento di novità nelle politiche locali per lo sviluppo riguarda la diffusione del project financing, nella doppia accezione di concessione di costruzione e gestione di opere pubbliche e di costituzione di società a capitale misto, pubblico e privato. Tale forma di Partenariato Pubblico Privato (PPP), anche sotto la pressione delle crescenti difficoltà di bilancio degli Enti locali, trova grande sviluppo in tutte le zone del paese e soprattutto nei comuni di limitate dimensioni. In un solo anno, dal 2002 al 2003, si sono più che raddoppiate le iniziative ed è cresciuto di una volta e mezza l’importo delle opere interessate103. Il trend continua ad essere fortemente positivo, se è vero che gli avvisi di ricerca del promotore privato, assumibili come parametro di domanda potenziale, continuano a crescere di numero e di valore, anche ad opera delle amministrazioni territoriali che in questo comparto del PPP (art 37 bis della legge Merloni) ne rappresentano l’87%, interessando progetti di realizzazione e gestione di parcheggi, impianti sportivi, reti di energia, acqua, gas, telecomunicazioni, cimiteri, interventi di riqualificazione urbana, commercio e artigianato, edilizia scolastica, igiene urbana e così via. L’importo complessivo delle opere oggetto di PPP nel paese vede ormai una presenza dei Comuni pari ad oltre un terzo del totale (6.063 milioni su 16.876 nel 2005). Questo appare come un settore e una modalità di investimento pubblico e di gestione di servizi destinato a crescere in misura esponenziale. La regolamentazione della rete distributiva al dettaglio e il turismo

L’ultimo esempio di politiche decentrate che mettiamo sotto la lente di ingrandimento del sistema regolativo è il settore distributivo. Esso è al centro delle critiche alla regolamentazione locale. Non vi è documento, anche a livello internazionale, che non rilevi l’incongruenza delle restrizioni alla concorrenza nel settore del commercio attraverso norme che nascono dal livello decentrato della filiera istituzionale. Il processo di liberalizzazione inizia con il Decreto Bersani (DLgs 114/1998), che stabilisce la libertà di offerta merceologica, liberalizza le licenze per piccole superfici e semplifica l’iter per le grandi104, e continua con la riforma costituzionale del 2001 che

103 Tutti i dati sono tratti dall’Osservatorio nazionale sul Project Financing, Rapporto 2005. 104 Il decreto riduce a due le tabelle merceologiche (alimentari e non), liberalizza di fatto le licenze fino a 250 mq nei comuni con oltre 10.000 abitanti, in questi subordina l’apertura di

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assegna il ruolo di regolatore principale in materia a Regioni ed Enti locali. Piani provinciali che riassumono opzioni espresse dai diversi Comuni sono, poi, approvati dalle Regioni nell’ambito di propri piani di recepimento. Nelle diverse esperienze italiane proprio il parere vincolante delle Regioni ha determinato differenze rilevanti nelle politiche del commercio, soprattutto in ordine alla diffusione delle grandi superfici e alla liberalizzazione degli orari, in alcuni casi più restrittive, in altri meno. Il processo di liberalizzazione sembra trovare nuovo impulso dai primi atti del Governo Prodi del 2006, anche se i provvedimenti riguardanti il settore distributivo sono prevalentemente di completamento e simbolici (impeditivi di restrizioni regionali). Ciò che può migliorare è l’integrazione tra programmazione urbanistica e programmazione commerciale, come pure lo sviluppo delle reti. Ma le critiche principali riguardano la scarsa presenza della Grande Distribuzione Organizzata (Gdo) nel nostro Paese, ostacolata, si dice, da molte Regioni italiane105, restie ad autorizzare l’apertura o l’ampliamento dei grandi centri commerciali. Questo danneggerebbe i consumatori con prezzi più elevati e penalizzerebbe l’ammodernamento di tutta la filiera distributiva. In effetti la Gdo (ipermercati) rappresenta in Italia appena il 23% del fatturato complessivo, mentre la media europea arriva al 36,1% e in Francia ed Inghilterra, ad esempio, tale percentuale supera il 50%106. Ma la questione è assai più complessa e le considerazioni analitiche devono andare al di là di un semplice confronto di prezzi dei beni tra diverse tipologie di canali di vendita. Una appropriata e completa analisi costi-benefici dovrebbe, infatti, tener conto di altre variabili rilevanti come il costo complessivo di approvvigionamento, gli effetti a monte sull’industria della produzione e i costi sociali connessi con le grandi superfici di vendita107.

Anche il settore turistico riceve una rilevante influenza da regole regionali e locali. Asset logistici, integrazione tra promozione (tipicamente pubblica) e commercializzazione (tipicamente privata) dei prodotti turistici, gestione complessiva delle valenze turistiche e cultuali del territorio108, sono altrettanti superfici fino a 2500 mq ad una semplice autorizzazione. Per le superfici superiori è previsto il parere vincolante delle Regioni. Anche sugli orari di apertura la deregolazione è significativa. 105 Il Sole 24 ore del 20 febbraio 2006, utilizzando dati Federdistribuzione, assegna la palma di regioni più liberiste a Lazio, Abruzzo, Campania, Sicilia, Piemonte e Lombardia. 106 I dati AcNielsen 2005 segnalano un 56% per la Gran Bretagna, 53% per la Francia e 42% per l’Olanda. In Italia si registra tuttavia una maggior rilevanza, e quindi una minore diversità da altri paesi industrializzati, di piccoli e grandi supermercati. La rilevante dispersione della rete è dimostrata dalla quota di mercato del commercio tradizionale: 30% in Italia, 13% in Gran Bretagna e Germania, 8% dell’Olanda, 4% della Francia. 107 Per un tentativo di tener presente diverse altre variabili rilevanti nel confronto tra tipologie distributive, si veda G. Pini (1998). 108 Lo sviluppo dell’e-commerce, la personalizzazione dell’offerta turistica, l’integrazione tra i prodotti rispondono, tra l’altro, alla naturale evoluzione della domanda, sempre più orientata alla composizione individuale del prodotto turistico che sfrutta la migliore varietà riscontrabile sul mercato.

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fattori di politica decentrata nel settore, che creano sinergie con le altre politiche locali, dei trasporti, della cultura, delle infrastrutture, della politica industriale in senso stretto. Anche in questo caso, come in gran parte degli altri che abbiamo visto, si tratta forse di concentrare ed integrare orizzontalmente e verticalmente le istituzioni, selezionare e coordinare maggiormente le iniziative e impiegare maggiori risorse per un settore che già oggi rappresenta in molte zone del paese una risorsa strategica. 10. Conclusioni

Abbiamo iniziato questo lavoro ricordando il processo, in atto a livello internazionale, di miglioramento della regolazione e del sistema della giustizia. Abbiamo inquadrato questo argomento nell’ambito dei rapporti di causalità tra giustizia ed economia e degli importanti riflessi che de-legificazione, semplificazione e miglioramento di applicazione delle regole hanno sulla performance economica di un paese o di un territorio locale.

Il processo di globalizzazione propone nuove sfide in campo politico e in campo economico. Ma anche il terreno giuridico è pesantemente interessato. Possiamo anzi ritenere che il sistema delle regole giuridiche eserciti un ruolo cuscinetto per rendere compatibili il piano economico e quello politico. E così iniziative di regolamentazione nazionale ed internazionale tendono ad affermare sempre più la liberalizzazione degli scambi attraverso il progressivo abbattimento delle barriere esistenti, sia di natura economica sia di natura giuridica. Anche la liberalizzazione del mercato, intesa come ritiro dello Stato da una sua presenza, diretta o indiretta, a condizionare lo spontaneo agire, è un processo in corso da parecchi anni e in gran parte dei paesi industrializzati. Tutto questo pone problemi di coestensione tra i momenti giuridico, economico e politico. E pone altresì problemi di compatibilità tra l’efficienza dei tre momenti, affinché i difetti di uno non portino conseguenze negative per gli altri. Da un confronto continuo e crescente tra i sistemi giuridici, ad opera di organismi internazionali, emergono le differenze e le inefficienze relative e quindi nascono le spinte ai miglioramenti competitivi. I primi passi fatti dal nostro Paese sono importanti anche se non decisivi. Procedure di valutazione di impatto, codici di settore e incentivi alla semplificazione, hanno prodotto sino ad ora risultati insufficienti, anche in relazione al riscontro di dati, pur parziali, che dimostrano la nostra arretratezza relativa.

Le stesse attenzioni vanno riservate alla dimensione regionale-locale. Ci siamo soffermati a sottolineare le caratteristiche di una buona regola

locale e alcuni fenomeni negativi che possono rendere più lento e difficile lo sviluppo dei distretti industriali e, più in generale, dei sistemi locali di piccole imprese. L’efficienza delle regole locali evita, ad esempio, il fenomeno dello spiazzamento (di contributi pubblici verso spese private) e della selezione

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avversa, quindi degli sprechi di risorse pubbliche. Ci siamo persino chiesti se esiste un ottimo livello di incentivo alle imprese che ne renda massima l’efficacia (durata ed ampiezza).

L’inefficienza nel coordinamento tra le regole e tra le istituzioni può ridurne l’efficacia e abbiamo allora segnalato la necessità di organizzare e rendere autorevoli e credibili istituzioni-cardine e cabine di regia che riducano questi problemi.

Fenomeni globali e tecnologici che attraversano sempre più i sistemi produttivi rendono opportune regole flessibili, con tutti i rischi che ciò può comportare in termini di certezza del diritto. Così come è evidente che esigenze della collettività nazionale, promosse e condivise a livello internazionale, spingono verso una migliore qualità e una minore quantità delle regole formali, anche a livello locale. L’importanza di una buona regola è fondamentale sempre, ma ancor più nel caso, frequente, di contratti incompleti. Sappiamo infatti che la diffusione di incompletezza contrattuale presuppone un appropriato sistema di regole formali, anche locali o decentrate, che sia complementare nel perseguire l’efficienza degli scambi.

Tanto più un sistema locale è statico, ovvero con scarsa mobilità di persone e di imprese, tanto maggiore è la rilevanza delle regole informali. È pure noto che la numerosità dei membri di una comunità è direttamente proporzionale alla rilevanza delle regole formali, a causa del costo marginale decrescente dei nuovi ingressi. Mobilità e dimensione delle comunità influenzano allora l’interazione tra regole formali e regole informali. Dopo aver esaminato la tipologia delle regole informali locali, abbiamo considerato che queste influenzano l’efficienza delle regole formali e il loro rispetto, secondo un circuito di interazione che può divenire vizioso oppure virtuoso. Ricordando l’importanza delle regole informali a livello locale, abbiamo variamente ricordato come queste si affermano e si sviluppano nei sistemi locali di imprese. Ma il tema dell’efficienza del sistema delle regole, anche a livello locale, è sempre più sentito. In tema di efficienza e di valutazioni delle regole abbiamo riproposto l’idea, da più parti avanzata, di una apposita “agenzia regionale”, incaricata di verificare anche l’efficienza e l’efficacia della P.A. (es. Regioni ed Enti locali), eventualmente articolata per realtà provinciali. Una migliore organizzazione della regolazione comporta anche migliore organizzazione della governance territoriale e quindi una nuova politica industriale decentrata, dove l’unificazione o quantomeno la concertazione diventino un filo conduttore a tutti i livelli, dove la certificazione trovi grande applicazione e qualità, così come trovino realizzazione l’assemblaggio e la selezione delle informazioni. Ci siamo, infine, soffermati su alcuni esempi di settori dove dovrebbero trovare applicazione le nuove regole e il miglioramento di quelle esistenti. Abbiamo visto, ad esempio, come l’uso dell’ICI e la gestione delle aree industriali (eventualmente associata fra più comuni), la governance (eventualmente

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aggregata) delle utilities ed altri settori ancora siano fattori rilevanti di impatto sulla performance economica. Abbiamo saggiato alcune politiche locali e le regole per taluni settori critici dello sviluppo (lavoro, informazione, infrastrutture materiali ed immateriali…). Nelle politiche pubbliche di sviluppo appaiono come strategici significativi miglioramenti nella produttività dei servizi (abbiamo parlato di commercio, di trasporti, di urbanistica ed edilizia, turismo…), miglioramenti indotti da una dose di maggiore concorrenza e modernità e da una riduzione dei vincoli burocratici e dei costi della P.A. Ed è soprattutto sul piano locale, più che su quello nazionale ed europeo, che i margini di manovra e le possibilità concrete sono notevoli, a causa dei fattori che possono innescare un aumento di produttività nel settore dei servizi: efficienza e riduzione del costo del lavoro senza riduzione nel potere d’acquisto dei lavoratori. In un quadro che si sta aprendo di territorializzazione dei contratti di lavoro è possibile cominciare a ragionare in questo senso. Settore per settore, nei territori-comunità, occorre in ultima analisi: a) verificare l’efficacia della rete istituzionale pubblica, b) valutare lo stato dell’arte dei problemi emergenti di inefficienza nelle relazioni e nelle sinergie, c) individuare le idonee cabine di regia per affrontare in modo efficiente i problemi e trovare soluzioni il più possibile condivise.

Dalle considerazioni svolte sono quindi emersi alcuni auspici che si possono così riassumere:

- che il processo di de-regolazione sia di tipo razionale e non provochi l’assenza di punti di riferimento (paletti) per i comportamenti umani; buone ed efficaci regole formali possono favorire il consolidamento di regole informali pro-sociali;

- che non vi sia inutile e per certi versi dannosa dispersione di risorse in incentivi e sussidi (selezione avversa e nascita di imprese troppo fragili);

- che si diffondano procedure di analisi di impatto della regolazione anche a livello locale;

- che si creino strumenti facilitatori nella comprensione e fruibilità delle regole locali (codici di settore regionali, punti di coordinamento operativo e informativo);

- che la concertazione risulti effettiva sia tra Regioni ed Enti Locali, sia tra i diversi enti ed operatori pubblici e privati nelle comunità locali.

Capacità e coraggio, ma anche competenza, delle leadership politiche centrali e soprattutto periferiche sono forse la risorsa più strategica e certo più rara nelle odierne condizioni. Basti pensare allo scarso appeal che hanno argomentazioni come quella sulla capacità delle istituzioni pubbliche di garantire responsiveness, ovvero grado di risposta alle esigenze poste dalla società, e accountability, verticale e orizzontale, ovvero la rendicontazione di

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quanto fatto tra livelli gerarchici (elettori-governanti) o tra soggetti formalmente del medesimo livello (diverse istituzioni e organizzazioni private e pubbliche).

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