Tommaso moro. Il primato della coscienza - estratto - Paoline

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PALOMA CASTILLO MARTÍNEZ TOMMASO MORO Il primato della coscienza www.paoline.it

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Una rivisitazione, in forma autobiografica, di Tommaso Moro, che permette un contatto vivo con la vita e il pensiero di questa personalità di grande spessore umano e religioso e ancor oggi molto attuale.

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PALOMA CASTILLO MARTÍNEZ

TOMMASOMORO

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« È un credente ardentemente ansioso di verace religiosità,quantunque sia agli antipodi di ogni superstizione.

Si riserva determinate ore per pregare Dio e onorarlo,non con formule bell’e fatte ma con quelle che gli detta il cuore.

Quando discute con gli amici della vita futura,si sente che rivela il fondo dell’anima e che vibra di speranza ».

ERASMO DA ROTTERDAM

« È spontaneo andare con la mentealla figura luminosa di san Tommaso Moro,

esempio straordinario di libertàe di aderenza alla legge della coscienza

di fronte a richieste moralmente insostenibili,anche se autorevoli ».

GIOVANNI PAOLO II

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PALOMA CASTILLO MARTÍNEZ ha saputo ar-monizzare una brillante carriera medica con la sua predilezione per lo studio dell’umanesimo rinascimentale, e soprattutto per la figura di Tommaso Moro. È membro dell’Associazione Internazionale Amici di Tommaso Moro, con sede a Angers (Francia).

In copertina:

Sir Thomas More nel 1527 circa.Hans Holbein, the Younger. The Royal Collection © 2010, Her Majesty Queen Elisabeth II.

Tommaso Moro (1477[1478]-1535) continua a essere considerato oggi l’« uo-mo di tutte le ore », come lo fu anche per gli uomini del suo tempo. Politico e uma-nista, amico di Erasmo da Rotterdam e di Juan Luis Vives, uomo di lettere e avvoca-to, scrittore prolifico e studioso dei classi-ci, fu lord Cancelliere dello Stato durante il regno di Enrico VIII. Uomo di fede pro-fonda e vasta cultura illuminata, coltivò i valori della pace, della libertà, dell’amic-zia, dell’umorismo, del servizio agli altri e dell’onestà di coscienza. Per la sua fede e la sua coscienza si oppose al divorzio di Enrico VIII e agli eventi che segnarono gli inizi della Chiesa anglicana, per cui fu accusato di tradimento, incarcerato nella Torre di Londra e decapitato.

Poche ore prima di morire, il Cancel-liere ricorda il suo passato. Queste pagine « autobiografiche » sono una rivisitazione della sua vita e del suo pensiero nell’Inghil-terra del secolo XVI, e ci mostrano l’attua-lità permanente di una personalità com-plessa e interessante al tempo stesso, da cui scaturisce « un messaggio che attraversa i secoli e parla agli uomini di tutti i tempi della dignità inalienabile della coscienza, “il nucleo più segreto e il sacrario dell’uo-mo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nella sua intimità” (GS 16) » (Giovanni Paolo II).

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DONNE E UOMINI NELLA STORIA

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Paloma Castillo Martínez

TOMMASO MOROIl primato della coscienza

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PAOLINE Editoriale Libri

© FIGLIE DI SAN PAOLO, 2010 Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano www.paoline.it [email protected] Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Corso Regina Margherita, 2 - 10153 Torino

Titolo originale dell’opera: Tomás Moro. Retorno a Utopía© San Pablo, 2006 – Madrid© Paloma Castillo Martínez, 2006

Traduzione dallo spagnolo di Isabella Mastroleo

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PROLOGO

All’alba di martedì 6 luglio dell’anno del Signore 1535, vigilia della festa di San Tommaso da Canterbury e ottava di San Pietro, e secondo i desideri da lui espressi nella let tera del giorno precedente, fu comunicato a Tommaso Moro che sarebbe stato giustiziato prima delle 9 di mat-tina di quello stesso giorno. Il latore della notizia fu sir Thomas Pope, uno dei suoi amici, che lo avvertì del desi-derio del Re che non parlasse troppo al momento del-l’esecuzione, nonché del permesso reale concesso alla fa-miglia di assistere alla sepoltura.

Detto ciò, Pope si congedò da Moro senza riuscire a evitare le lacrime, per cui Tommaso lo confortò in que-sto modo: « Tranquillizzatevi, buon signor Pope, e non siate triste, perché io confido che, una volta in cielo, ci rivedremo nella massima gioia, e dobbiamo essere certi che là vivremo insieme amandoci in eterna felicità ».

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PRIMAVERA

Le ore dello studio e delle decisioni

« In generale, quasi tutti i bambini vengono educatinella professione dei loro genitori » (Utopia).

Le ore dei versi e dell’amore

« Adorano Luciano, lasciandosi sedurredalla sua grazia e dal suo ingegno » (Utopia).

« E quando si tratta di scegliere una donna,scelta da cui dipenderanno le delizie

o il fastidio per tutta la vita, voi agite con negligenza » (Utopia).

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Io, Tommaso Moro, nato a Londra da famiglia rino-mata, pur se non nobile, sposato due volte, padre di cin-que figli, appassionato di questioni letterarie, avvocato difensore nei tribunali; dopo essere stato prima giudice e poi vicegovernatore di questa mia città natale, chiamato a corte dal re che ottenne il titolo di « Difensore della fe-de » con la spada e con la penna, Enrico VIII; nominato successivamente membro del Consiglio reale, vicecancel-liere, cancelliere della Contea di Lancaster, cancelliere d’Inghilterra e, infine, reo di tradimento e condannato a morte, io, Tommaso Moro, ho appena saputo, all’alba di questo 6 luglio 1535, vigilia di San Tommaso e ottava di San Pietro, che fra un’ora verrò giustiziato.

È una splendida mattina per dare inizio alla nuova vi-ta che ho tanto desiderato e nella quale spero di entrare rapidamente grazie alla magnanimità di Enrico, nuovo papa di questa nuova Chiesa inglese. Egli ha avuto la bontà di commutare nella dolcezza dell’ascia il tormen-to a cui fui condannato. Morirò, dunque, una sola volta e di una sola morte, non di diverse. Non sarò trascina-to fino a Tyburn, né impiccato per lunghi momenti, né

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vedrò il boia aprire il mio corpo e mostrarmi le mie vi-scere palpitanti, né sentirò in un ultimo istante di orro-re sezionare le mie membra per gettarle nel rogo. Non dovrò urlare come farebbe un animale, né perderò la mia dignità di persona, quando invece la perdono anche coloro che contemplano simile carneficina che si fa di un uomo, creatura di Dio e tempio dello Spirito Santo.

È da molti mesi che immagino questa terribile morte, tra dolore e paura, tormentandomi al pensiero dell’an-goscia dei miei cari. Ho scritto pagine e pagine per con-vincere me stesso che non devo avere timore, perché la passione di Cristo è eternamente presente nel mondo per aiutare la mia passione, ogni passione di uomo. Ho sofferto nel corpo e nell’anima, ho pianto, ho pregato, ho supplicato Dio di ricevere un segno di aiuto, e così, respinta la disperazione, quando ormai la consolazione aveva vinto la tribolazione e io accettato il calice, giunge la buona notizia: questa mattina salirò fino a Tower Hill e là morirò solo, degnamente, ringraziando Dio, il re e il suo boia per l’aiuto ricevuto.

Nei miei cinquantasette anni di vita, ho conosciuto il momento della genesi, quando l’uomo immacolato, inno-cente, si apre a un mondo di luci di cui può essere padro-ne. Ho goduto il silenzio del Sinai e contemplato la gloria del Tabor. Oggi termina il Getsemani e non mi resta altro che salire sul Golgota perché tutto sia consumato, perché tutto finisca bene.

Ho corso fino alla meta, senza cedimenti, sognando di realizzare la mia giovanile Nusquama, la mia Utopia, in questo mondo duro. Se non sono riuscito a cambiar-lo, tuttavia ho cambiato me stesso e ormai non posso fa-re altro. Quello che non ho potuto trasformare in bene, l’ho comunque compiuto il meno peggio possibile. E co-

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sì, in questi mesi di prigione, ho cercato di riacquistareil tempo che posso aver perso nel corso della mia vita.

Il campo di battaglia è stato conquistato. Ho sonno e mi resta ancora tempo; ora devo riposare.

Come passa veloce la vita! Negli ultimi mesi ho so-gnato il bambino che sono stato. Mi vedo camminare per mano del giudice John More, mio padre, verso i tri-bunali di Giustizia dove egli esercitava.

Mio padre era un uomo cortese e affabile, giusto e in-corruttibile, ma sempre misericordioso con tutti. Fedele alla memoria del re Edoardo IV, continuava, quaranta anni dopo la morte di quest’ultimo, a pregare per la sua anima. Amava le donne e le difendeva con grazia dicen-do che esiste solamente una donna di cattiva indole al mondo, che è quella che ogni uomo immagina di avere al proprio fianco, perché di fatto è la sua. Mio padre aveva bisogno delle donne, come anch’io ne ho avuto bi-sogno, ma mentre lui le cercava e si arrendeva a loro, io ho sempre lottato per scacciare da me il desiderio della carne, per liberare il monaco nascosto che abita in me.

Quando morì Agnese, mia madre e prima moglie di mio padre, lo vidi piangere come l’ho visto piangere an-che per le mie altre matrigne. La quarta, Alice – la sua Alice, non la mia –, gli è sopravvissuta come ora soprav-vivrà a me, suo figliastro, e chiedo a Dio che conservi e prolunghi la sua vita, perché è stata buona con tutti noi.

Il bambino che cammina condotto per mano da suo padre si trova in quella Londra che in seguito è stata, in un certo senso, uno dei modelli architettonici per la mia sognata Utopia, la città murata con sette porte, vicino a un fiume dalle gradevoli sponde, piena di chiese, giardi-ni e orti, perché allora tutti amavano avere un pezzetto di

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terra da coltivare o adornare. Londra è la perla di tutte le città, superiore a Parigi, a Venezia e a Firenze.

Una cattedrale dedicata a san Paolo e un Palazzo-Tor-re, un grande ponte sul fiume ricco di vita e fermento, la mia scuola dell’Ospedale di Sant’Antonio – la migliore delle città secondo mio padre –, le feste delle corporazio-ni di maestri e funzionari, le funzioni religiose, l’arrivo di principi stranieri costituiscono lo scenario della mia adolescenza. Ero un bambino felice e come tale vedevo soltanto la bellezza; i poveri, i vagabondi, le baracche, la miseria e l’ingiustizia non esistevano per me perché la dolce infanzia crede che il mondo sia innocente.

Quanto ti ho amato, Londinium! Ero solito attraver-sare il ponte e contemplare la mia città da Southwark, vicino alla grande chiesa. All’estremo sud si esponevano le teste tagliate dei giustiziati, a Tower Hill e a Tyburn, e io mi giravo disgustato dall’altra parte. Avrei mai im-maginato che un giorno anche la mia avrebbe occupato quel posto? Deve essere ancora lì quella di Fisher1, ta-gliata qualche giorno fa. Come ha potuto Enrico uccide-re il santo vescovo di Rochester? La mia stessa ingenuità mi fa sorridere: il principe può tutto e l’ira del principe è la morte. Al nostro principe si dice continuamente quel-lo che può, non quello che deve fare. Chi ferma il suo capriccio?

Dalla sponda sud vedevo la Torre, la cui struttura, iso-la su un’isola, cominciava anche a dare forma all’Isola dei miei sogni futuri. Le guglie sottili di più di cento chiese che si elevavano al cielo, apparendo e scomparendo nella

1 John Fisher (1469-1535) è stato un cardinale e umanista britannico. Fatto de-capitare con l’accusa di lesa maestà da Enrico VIII per la sua opposizione all’annul-lamento del matrimonio con Caterina d’Aragona, è venerato come santo e martire dalle Chiese cattolica e anglicana (ndt).

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bruma del fiume, piccole case intorno alla grande catte-drale con la sua torre centrale schiacciata, palazzi sulle rive, navi dirette al mare o che risalivano il fiume: quello era il mio paesaggio.

Quando emergevo dal mio sogno, prima di tornare a casa, mi fermavo a metà di quel rumoroso ponte e, sfug-gendo al cigolio delle ruote dei carri, alle grida dei mer-canti e dei gabbiani, nella penombra della cappellina di Becket, recitavo una preghiera perché il mio viaggio ver-so Cheapside, il mio quartiere, e verso la vita, procedesse senza intoppi.

Ricordo appena mia madre, morta quando ero ra-gazzo, che mi faceva alzare all’alba per andare a scuola. Suppongo di averla amata, come anche i miei fratelli. Mio padre l’ho rispettato e gli ho voluto bene, e mi sono inginocchiato ai suoi piedi per riceverne la benedizio-ne fino all’ultimo momento della sua vita. Nonostante i miei molti peccati, non credo di aver mai mancato al quarto comandamento.

Quando giunse il momento di intraprendere una formazione intellettuale e umana più ampia, mio padre decise di portarmi a casa dell’allora arcivescovo di Can-terbury, Morton2, a Lambeth. Lì ero felice, poiché men-tre servivo Messa nel palazzo potevo conoscere nobili e cavalieri e interpretare piccole opere di teatro. Quanto mi piaceva il teatro!

In casa di Morton, nei giorni di Natale, interrom-pevo molte volte le rappresentazioni degli attori im-provvisando un personaggio nuovo, cosa che divertiva

2 Figlio dell’aristocrazia regia, ancora giovane, Tommaso Moro fu posto al ser-vizio dell’arcivescovo di Canterbury Giovanni Morton, che fu nominato cancellie-re del regno nel 1487 e cardinale nel 1493. In casa dell’arcivescovo fu educato da precettori privati (ndr).

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l’arcivescovo e i suoi amici, per qualcuno dei quali lo spettacolo, come dicevano, cominciava allora. Morton era un uomo profondamente legato alla Chiesa, ma an-che alle scienze e alle arti, e mi fece sempre oggetto di amabili lodi.

Il futuro cardinale era un uomo serio che ispirava gran rispetto, dotato di ingegno acuto di cui si avvale-va con noi studenti, spronandoci a dare il meglio di noi stessi. Aveva una memoria e una cultura sorprendenti, e seppe sempre temprare il suo spirito con le sofferenze che la bionda dea della fortuna gli riservò. Fu lui che nel 1492, anno in cui un nuovo mondo si offrì agli uomini, mi inviò al Canterbury Hall di Oxford. Là studiai Gram-matica, Retorica, Logica e condussi una vita di così basso livello economico che ho sempre ricordato « la tariffa di Oxford » come la più povera che abbia mai vissuto. Ma là conobbi anche Grocyn, Linacre, Latimer, Tunstall e Coler: valse la pena vivere in quella povertà.

Canterbury Hall, collegio superiore di Canterbury, nome pregno di speciale significato: un altro Enrico re, un altro Tommaso cancelliere, un altro scontro per l’onore di Dio, un’altra morte3... Oh, lascia da parte tut-to questo, Moro, lascialo per dopo e torna a vivere la gioventù...

Il pensiero è come un fiume che contempla paesaggi diversi senza fermare le sue acque e procede, va avanti fino al mare. Ma un fiume ha anche punti di ristagno e piccole arterie e canali in cui l’acqua fluisce, si trattiene

3 Il riferimento è al re Enrico IV (1367-1413) che nel 1399, con l’aiuto di Thomas Arundel, arcivescovo di Canterbury ed ex cancelliere del legittimo re Riccardo II, cugino di Enrico, si appropria del trono d’Inghilterra. Riccardo viene imprigionato e muore in carcere in circostanze misteriose (ndt).

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in una pozza, e da lì si slancia in un altro alveo, gira, si interrompe, riannoda il corso e torna – Tamesis intan-gibile – alla sponda da cui si era perduta per continuare così il suo fluire.

Sapere che oggi è l’ultima alba della mia vita ha mo-dificato in parte i miei progetti di incontro con te, o Morte, anche se non troppo, perché per grazia di nostro Signore da tempo sono giunto ad averti presente dinan-zi ai miei occhi, sempre a portata di mano. Non ti vedo, dunque, come qualcosa di estraneo, ma come un’amica che attende che io giunga fra le sue braccia per mettere fine alle tante fatiche, angosce, amarezze che da anni dominano la mia vita e quella dei miei cari.

Il mondo ormai non significa nulla per me; non ho più nemmeno bisogno della compagnia della mia fami-glia e degli amici, poiché ho raggiunto il piacere di una solitudine luminosa in cui la mia anima dialoga con Dio, nella cui mano protettrice umilmente si rannicchiano il bambino che fui e l’uomo esausto che sono. Ma la vita pulsa ancora nelle mie vene e non posso fermare il pensiero né controllare le emozioni dimenticate che esso risveglia.

Moro, l’adolescente Moro di Oxford, che scriveva epigrammi e versi come prologhi a grammatiche latine per studenti, dai nomi divertenti come quella intitolata Latte per bambini del mio amico Holt4. Moro, il giovane desideroso di aprire le porte al sapere dei classici che lui tanto amava, ma che così poco piacevano a mio padre.

4 Gli epigrammi di cui si parla compaiono all’inizio e alla fine di Lac puero-rum. Anglice Mylke for chyldren, una grammatica latina scritta in inglese da John Holt intorno al 1500. John Holt fu maestro di grammatica dei giovani del cardinal Morton a Lambeth Palace e precettore del principe Enrico dal 1502 fino al luglio del 1504, quando morì. Fu intimo amico di Tommaso Moro (ndt).

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Questi giunse a minacciare di diseredarmi se fossi anda-to avanti a studiarli. A causa del suo timore che quel tipo di studi mi distogliesse dalla carriera di avvocato a cui mi aveva destinato, mi ordinò, quando ebbi compiuto i sedici anni, di tornare a casa.

Fui un figlio obbediente al desiderio paterno, ma l’ul-tima sera in cui contemplai la dolce vista dei collegi e delle torri dorate di Oxford, e mentre mi congedavo dall’ado-lescenza, promisi a me stesso che, pur se fossi diventato avvocato, avrei tuttavia conservato sempre anche il con-tatto con i classici e che questi sarebbero stati miei amici, consiglieri e guide.

Grazie a quella promessa che ho mantenuto nel cor-so della mia vita ho potuto parlare in lingue universali e ascoltare altri che le parlavano, e così Babele ha visto ergersi una torre dalla quale centinaia di luci e speranze umane hanno illuminato l’oscurità di questi tempi.

A sedici anni, al mio ritorno da Oxford, mi innamorai di una ragazza, non giovane come l’amore di Alighieri, ma pur sempre una ragazza. Elizabeth, che dopo cin-que lunghi lustri continuavo a ricordare fino al punto di scrivere versi a lei dedicati; amore dello spirito più che della materia, dovette limitarsi a essere un influsso inno-cente su un cuore travolto dall’imperativo della realtà: l’incomprensione umana e lo studio delle Leggi.

L’incomprensione umana o il mio modo di amare? Ho mai provato altra passione se non quella per il sapere? Il mio corpo, la mia anima, si sono mai donati a una donna nell’abbraccio magico che muove il sole e le altre stelle? Elizabeth, sospiro di un istante di luce, almeno germinò in poesie; le altre non hanno prodotto nulla, e non per colpa loro, salvo Margaret... Ma Meg non è l’amore tra un uomo e una donna.

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Se avessi incontrato una donna come la mia Margaret, buona, sorridente, intelligente, colta, bella e coraggiosa – oh sì, così valorosa come ha dimostrato di essere! –, se avessi incontrato un’altra Margaret che non fosse stata mia figlia, Moro avrebbe conosciuto gli abbracci, le not-ti risplendenti di mille soli, il mistero della musica che genera il ritmo del cuore innamorato, i sonni placidi e profondi cullati nella rete di sguardi, labbra e braccia di una donna che ama. Quel Moro innamorato non avreb-be dubitato tanto né tanto si sarebbe contraddetto.

Sapevo che quel tipo di amore esisteva, ma sapevo an-che che cercarlo e sacrificarsi a esso supponeva dolore, e io ho sempre avuto paura del dolore. Meglio aspettare il più serenamente possibile; se non si desidera nulla, non si soffre. Meglio vivere nel dubbio, meglio dare tempo al tempo.

Quanti Moro ci sono in me? L’uomo che cerca il cie-lo, l’uomo del pensiero classico, il Moro del chiostro, il Moro dei sogni idealistici, il Moro dell’attivismo politi-co, l’appassionato amico e l’intransigente persecutore di eretici, il compassionevole giudice dei tribunali, l’uomo di profonde malinconie che un giorno vede solamente la disperazione e l’altro danza pieno di gioia e di progetti, il Moro che castiga il suo corpo per dominare i suoi de-sideri di Eva, che tanto teme...

Tanti uomini in uno, tante contraddizioni tra Utopia e la Torre le può spianare soltanto il lavoro costante, medico dell’anima. E come le tessere dei mosaici di Ve-nezia nelle mani dell’artista, così i molteplici Moro si sono a poco a poco incasellati nel disegno per formare l’immagine del Moro finale, che ora, disteso nell’oscu-rità di questa umida e fredda Bell Tower, attende la lu-ce del mattino per entrare nella luce dell’eternità, vero

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amante che tutto sopporta, perfino la morte, pur di re-stare nel suo amore.

Il Moro di questa mattina è la conseguenza dell’ago-nia di tutta una vita tra ciò che si desidera e ciò che si deve fare. La mia fine è logica e coerente: tutto finisce bene, come doveva essere. La provvidenza si è manife-stata, che cosa resta, se non l’amore di Dio?

Ma al principio le cose non furono così e in me infu-riarono molte battaglie e molte guerre mentre cercavo il modo di soddisfare impulsi e desideri verso Dio e verso gli uomini. Dentro di me dovevano coesistere il chiostro e la corte, e la battaglia per trovare un modo di convivere con questi due mondi riempì di angoscia la mia gioven-tù finché non riuscii a trovare un equilibrio sufficiente-mente stabile per iniziare a muovermi verso una qualche direzione.

Entrai, dunque, per far piacere al mio buon padre, nella New Inn, la scuola di Legge, da cui passai a quella di Lincoln, finché non fui considerato all’altezza di pren-dere parte ai processi. Furono anni di lezioni, di studi, di prove processuali, di incontri con il triste mondo dei crimini, delle pene e dei diritti, nei quali gruppi di avvo-cati si formavano pronunziando conferenze pubbliche, discutendo fra loro e sotto la direzione di maestri che sa-rebbero stati quelli che avrebbero poi deciso se potevamo praticare il Diritto sia nelle nostre case sia nei tribunali.

Nel 1501, l’anno in cui la figlia del re di Spagna, Ca-terina, veniva a sposarsi con il nostro principe Arturo, fui nominato professore a Funivall e lì rimasi tre anni. Poi, ancora una volta Lincoln, dove una biblioteca ricca di manoscritti importanti costituì il mio prezioso rifugio per ore di felice lettura. E lì avvenne qualcosa di mol-to importante che segnò la mia vita e la mia condotta

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« È un credente ardentemente ansioso di verace religiosità,quantunque sia agli antipodi di ogni superstizione.

Si riserva determinate ore per pregare Dio e onorarlo,non con formule bell’e fatte ma con quelle che gli detta il cuore.

Quando discute con gli amici della vita futura,si sente che rivela il fondo dell’anima e che vibra di speranza ».

ERASMO DA ROTTERDAM

« È spontaneo andare con la mentealla figura luminosa di san Tommaso Moro,

esempio straordinario di libertàe di aderenza alla legge della coscienza

di fronte a richieste moralmente insostenibili,anche se autorevoli ».

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In copertina:

Sir Thomas More nel 1527 circa.Hans Holbein, the Younger. The Royal Collection © 2010, Her Majesty Queen Elisabeth II.

Tommaso Moro (1477[1478]-1535) continua a essere considerato oggi l’« uo-mo di tutte le ore », come lo fu anche per gli uomini del suo tempo. Politico e uma-nista, amico di Erasmo da Rotterdam e di Juan Luis Vives, uomo di lettere e avvoca-to, scrittore prolifico e studioso dei classi-ci, fu lord Cancelliere dello Stato durante il regno di Enrico VIII. Uomo di fede pro-fonda e vasta cultura illuminata, coltivò i valori della pace, della libertà, dell’amic-zia, dell’umorismo, del servizio agli altri e dell’onestà di coscienza. Per la sua fede e la sua coscienza si oppose al divorzio di Enrico VIII e agli eventi che segnarono gli inizi della Chiesa anglicana, per cui fu accusato di tradimento, incarcerato nella Torre di Londra e decapitato.

Poche ore prima di morire, il Cancel-liere ricorda il suo passato. Queste pagine « autobiografiche » sono una rivisitazione della sua vita e del suo pensiero nell’Inghil-terra del secolo XVI, e ci mostrano l’attua-lità permanente di una personalità com-plessa e interessante al tempo stesso, da cui scaturisce « un messaggio che attraversa i secoli e parla agli uomini di tutti i tempi della dignità inalienabile della coscienza, “il nucleo più segreto e il sacrario dell’uo-mo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nella sua intimità” (GS 16) » (Giovanni Paolo II).

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