Tiziano Villa Andrea Piccioli - congressosiot.it · Il Giornale Italiano di Ortopedia e...

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Edizione digitale - settembre 2014 Pacini Editore S.p.A. Via A. Gherardesca 1 • 56121 Pisa Tel. +39 050 313011 • Fax +39 050 3130300 info @ pacinieditore.it • www. pacinimedicina.it Registrato presso il Tribunale di Roma – n. 14690 del 1972 Direttore Scientifico: Francesco Pipino Vice Direttori: Federico Grassi, Umberto Tarantino Direttore Responsabile: Patrizia Alma Pacini Comitato dei Referee: Fabio Bestetti, Giorgio Maria Calori, Giuseppe De Giorgi, Alberto Corrado Di Martino, Fabio Donelli, Antonio Gigante, Ernesto Macrì, Milena Mastrogiacomo, Giuseppe Mineo, Filippo Randelli, Giuseppe Solarino, Tiziano Villa Consiglio Direttivo S.I.O.T. biennio 2012-2014 Presidente: Paolo Cherubino Vice-Presidenti: Rodolfo Capanna, Giuseppe Sessa Consiglieri: Fabio Catani, Michele D’Arienzo, Angelo Dettoni, Gianfranco Longo, Attilio Rota, Federico Santolini, Umberto Tarantino, Giovanni Zatti Past-President: Marco d’Imporzano Garante: Pietro Bartolozzi Segretario: Andrea Piccioli Segretario Generale: Elena Cristofari Revisori dei Conti: Pasquale Bianchi, Dante Dallari, Francesco Franchin Presidente Nuova Ascoti: Michele Saccomanno Comitato Scientifico: Paolo Adravanti, Ernesto Amelio, Stefano Astolfi, Marco Berlusconi, Dario Capitani, Giuliano Cerulli, Gian Carlo Coari, Ferdinando Da Rin, Angelo Dettoni, Marco d’Imporzano, Onofrio Donzelli, Luigi Fantasia, Piero Garosi, Franco Gherlinzoni, Giuseppe Giannicola, Sandro Giannini, Cosimo Gigante, Marco Guelfi, Vincenzo Guzzanti, Giulio Maccauro, Romano Marsano, Daniele Fabris Monterumici, Redento Mora, Francesco Munari, Roberto Padua, Giorgio Eugenio Pajardi, Ferdinando Priano, Luigi Promenzio, Michele Rampoldi, Emilio Romanini, Carlo Luca Romanò, Mario Igor Rossello, Roberto Rotini, Nicola Santori, Filippo Maria Senes, Paolo Tranquilli Leali, Donato Vittore, Gustavo Zanoli, Giovanni Zatti Referenti Rubriche Editoriali: Francesco Pipino Linee guida: Andrea Piccioli Notiziario: Elena Cristofari Pagina sindacale: Michele Saccomanno Novità legali e giuridiche: Ernesto Macrì VOL. XL • Suppl. 3 • 2014

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Edizione digitale - settembre 2014Pacini Editore S.p.A. Via A. Gherardesca 1 • 56121 Pisa Tel. +39 050 313011 • Fax +39 050 3130300 [email protected] • www. pacinimedicina.it

Registrato presso il Tribunale di Roma – n. 14690 del 1972

Direttore Scientifico: Francesco Pipino✝

Vice Direttori: Federico Grassi, Umberto Tarantino

Direttore Responsabile: Patrizia Alma Pacini

Comitato dei Referee: Fabio Bestetti, Giorgio Maria Calori, Giuseppe De Giorgi, Alberto Corrado Di Martino, Fabio Donelli, Antonio Gigante, Ernesto Macrì, Milena Mastrogiacomo, Giuseppe Mineo, Filippo Randelli, Giuseppe Solarino, Tiziano Villa

Consiglio Direttivo S.I.O.T. biennio 2012-2014Presidente: Paolo Cherubino Vice-Presidenti: Rodolfo Capanna, Giuseppe SessaConsiglieri: Fabio Catani, Michele D’Arienzo, Angelo Dettoni, Gianfranco Longo, Attilio Rota, Federico Santolini, Umberto Tarantino, Giovanni ZattiPast-President: Marco d’Imporzano Garante: Pietro BartolozziSegretario: Andrea PiccioliSegretario Generale: Elena Cristofari Revisori dei Conti: Pasquale Bianchi, Dante Dallari, Francesco FranchinPresidente Nuova Ascoti: Michele Saccomanno

Comitato Scientifico: Paolo Adravanti, Ernesto Amelio, Stefano Astolfi, Marco Berlusconi, Dario Capitani, Giuliano Cerulli, Gian Carlo Coari, Ferdinando Da Rin, Angelo Dettoni, Marco d’Imporzano, Onofrio Donzelli, Luigi Fantasia, Piero Garosi, Franco Gherlinzoni, Giuseppe Giannicola, Sandro Giannini, Cosimo Gigante, Marco Guelfi, Vincenzo Guzzanti, Giulio Maccauro, Romano Marsano, Daniele Fabris Monterumici, Redento Mora, Francesco Munari, Roberto Padua, Giorgio Eugenio Pajardi, Ferdinando Priano, Luigi Promenzio, Michele Rampoldi, Emilio Romanini, Carlo Luca Romanò, Mario Igor Rossello, Roberto Rotini, Nicola Santori, Filippo Maria Senes, Paolo Tranquilli Leali, Donato Vittore, Gustavo Zanoli, Giovanni Zatti

Referenti RubricheEditoriali: Francesco Pipino✝ Linee guida: Andrea PiccioliNotiziario: Elena CristofariPagina sindacale: Michele SaccomannoNovità legali e giuridiche: Ernesto Macrì

VOL. XL • Suppl. 3 • 2014

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Il Giornale Italiano di Ortopedia e Traumatologia è un periodico bimestrale, organo ufficiale della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia. La rivista pubblica contributi redatti in forma di Editoriali, Notiziari (S.I.O.T. e Società specialistiche), Re-port Congressuali, Aggiornamenti professionali (anche di Medicina legale), Pagine sindacali, Rassegne stampa, Recensioni, Articoli originali e Casi clinici. La Redazione accoglie solo i testi conformi alle norme editoriali generali e specifiche per le singole rubri-che. La loro accettazione è subordinata alla revisione critica di esperti, all’esecuzione di eventuali mo-difiche richieste e al parere conclusivo del Direttore. Il Direttore del Giornale si riserva inoltre il diritto di richiedere agli Autori la documentazione dei casi e dei protocolli di ricerca, qualora lo ritenga opportuno. Nel caso di provenienza da un singolo ricercatore o da una equipe indipendente sarà sufficiente la firma del ricercatore che si assume la responsabilità di quanto pubblicato. Nel caso di provenienza invece da un Dipartimento Universitario od Ospedaliero, il testo dovrà essere anche controfirmato dal Responsabile di Dipartimento. In deroga può essere attribuita la responsabilità al Dirigente di I livello (anziché II) se specificato ed esplicitato. Dichiarazione: gli articoli scientifici originali e i casi clinici dovranno essere accompagnati da una dichiarazione firmata dal primo Autore, nella quale si attesti che i contributi sono inediti, non sottoposti contemporaneamente ad altra rivista, e il loro contenuto conforme alla legislazione vigente in materia di etica della ricerca. Gli Autori sono gli unici responsabili delle affermazioni contenute nell’articolo e sono tenuti a dichiarare di aver ottenuto il consenso informato per la sperimentazione e per la riproduzione delle immagini. Conflitto di interessi: nella lettera di accompagnamento dell’articolo, gli Autori devono dichiarare se hanno ricevuto finanziamenti o se hanno in atto contratti o altre forme di finanziamento, personali o istituzionali, con Enti Pubblici o Privati, anche se i loro prodotti non sono citati nel testo. Questa dichia-razione verrà trattata dal Direttore come una informazione riservata e non verrà inoltrata ai revisori. I lavori accettati verranno pubblicati con l’accompagnamento di una dichiarazione ad hoc, allo scopo di rendere nota la fonte e la natura del finanziamento.

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del ginocchio. Minerva Ortopedica 1985;36:431-438.• Libri: Tajana GF. Il condrone. Milano: Edizioni Mediamix 1991.• Capitoli di libri o atti di Congressi: Krmpotic-Nemanic J, Kostovis I, Rudan P. Aging changes of

the form and infrastructure of the external nose and its importance in rhinoplasty. In: Conly J,

Dickinson JT, editors. Plastic and Reconstructive Surgery of the Face and Neck. New York: Grune and Stratton 1972, p. 84.

- Le note al testo, indicate da asterischi o simboli simili, dovrebbero apparire nella parte inferiore della pagina dedicata. Termini e formule, abbreviazioni e unità di misura matematici devono essere conformi alle norme di cui al Science 1954, 120:1078. Definire acronimi in prima menzione nel testo. I farmaci vanno indicati con il loro nome chimico, il nome commerciale dovrebbe essere utilizzato solo quando assolutamente indispensabile (capitalizzando la prima lettera del nome del prodotto e indicando il nome della ditta farmaceutica produttrice del farmaco, città e paese). Nel testo e nelle didascalie delle tabelle, gli autori devono utilizzare, nell’ordine esatto, i seguenti simboli: *, †, ‡, §, ¶, **, ††, ‡‡.- Ringraziamenti, indicazioni di grants o borse di studio, vanno citati al termine della bibliografia.

Norme specifiche per le singole rubricheEditoriali: sono intesi come considerazioni generali e pratiche su temi d’attualità, in lingua italiana, sollecitati dal Direttore o dai componenti il Comitato di redazione. Gli Editoriali sono limitati a 8000 caratteri spazi inclusi con almeno 10 referenze bibliografiche e possono includere 3 tabelle e 5-6 figure. Gli Autori potranno essere fino a 5. È omesso il riassunto.Articoli d’aggiornamento: possono anche essere commissionati dal Direttore. Di regola non devono superare i 40.000 caratteri spazi inclusi, comprese tabelle, figure e voci bibliografiche. Legenda di tabelle e figure sono a parte.Articoli originali: comprendono lavori che offrono un contributo nuovo o frutto di una consistente esperienza, anche se non del tutto originale, in un determinato settore. Devono essere suddivisi nelle seguenti parti: introduzione, materiale e metodo, risultati, discussione e conclusioni. Il testo non deve superare i 30.000 caratteri, spazi inclusi, comprese iconografia, bibliografia e riassunto strutturato. Legenda di tabelle e figure a parte. Il riassunto strutturato in inglese (min. 400 - max. 500 caratteri, spazi inclusi) va suddiviso di regola nelle seguenti sezioni: Obiettivi, Metodi, Risultati, Conclusioni. Nella sezione Obiettivi va sintetizzato con chiarezza l’obiettivo (o gli obiettivi) del lavoro, vale a dire l’ipotesi che si è inteso verificare; nei Metodi va riportato il contesto in cui si è svolto lo studio, il numero e il tipo di soggetti analizzati, il disegno dello studio (randomizzato, in doppio cieco?), il tipo di trattamento e il tipo di analisi statistica impiegata. Nella sezione Risultati vanno riportati i risultati dello studio e dell’analisi statistica. Nella sezione Conclusioni va riportato il significato dei risultati, soprattutto in funzione delle implicazioni cliniche.Articoli originali brevi: comprendono brevi lavori (max. 6.000 caratteri, spazi inclusi) con contenuto analogo a quello degli Articoli originali e come questi suddivisi. Il riassunto strutturato deve essere lungo min. 200 – max. 300 caratteri, spazi inclusi. Sono ammesse 2 tabelle e 2 figure e una decina di voci bibliografiche.Casi clinici: vengono accettati dal Comitato di Redazione solo lavori di interesse didattico e segnalazioni rare. La presentazione comprende l’esposizione del caso e una discussione diagnostico-differenziale. Il testo deve essere conciso (max. 10.000 caratteri, spazi inclusi) e corredato, se necessario, di massimo 5, tra figure o tabelle, e di massimo 10-15 riferimenti bibliografici essenziali. Il riassunto strutturato, in inglese, deve essere di min. 200 – max. 300 caratteri, spazi inclusi.Lettere alla Direzione: possono far riferimento a problemi di interesse ortopedico d’attualità oppure ad articoli già pubblicati. Nel secondo caso la lettera verrà preventivamente inviata agli Autori dell’articolo e l’eventuale risposta degli stessi pubblicata in contemporanea. Dovrebbero essere brevi, non superare gli 8000 caratteri, spazi inclusi, con non più di 10 referenze bibliografiche, e solo 1 figura e/o tabella. È richiesta la sola lingua italiana.Dai Libri: la rivista si riserva di fare e/o pubblicare le recensioni di libri che le venissero proposti. Il testo, di massimo 4.000 caratteri, spazi inclusi, dovrà essere in italiano.

Le bozze dei lavori saranno inviate per la correzione al primo degli Autori, salvo diverse istruzioni. Gli Autori si impegnano a restituire le bozze corrette entro e non oltre 7 giorni dal ricevimento; in difetto i lavori saranno pubblicati dopo revisione fatta dalla Redazione che però declina ogni responsabilità per eventuali inesattezze sia del dattiloscritto che delle indicazioni relative a figure e tabelle.

Gli scritti di cui si fa richiesta di pubblicazione vanno indirizzati a: Pacini Editore SpA - Segreteria Scientifica Giornale Italiano di Ortopedia e Traumatologia - E-mail: [email protected]

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23 NOVEMBRE 2014 Main Session “LE DEFORMITÀ DEGLI ARTI INFERIORI”

II Sessione “Deformità del Piede”Le deformità del piedeS. Giannini, M. Mosca, D. Luciani, A. Mazzotti ....................................... S1

III Sessione “Il Piede Piatto”EndortesiF. Ceccarelli, A. Carolla, C. Violi ........................................................... S8

L’artrorisi endosenotarsica mediante “calcaneo-stop”B. Magnan, E. Samail, A. Gallo, I. Bonetti .............................................. S14

V Sessione “Deformità Ginocchio / Osteotomie di Direzione”Le osteotomie del ginocchio. Perché una osteotomia di addizione?G. Puddu, M. Cipolla, V. Franco, E. Gianni’, G. Cerullo ........................... S20

VI Sessione “Tecniche di Allungamento”Allungamento degli arti con metodica di IlizarovPremesse teoriche (da Angelo Villa 1985)Aggiornamento all’anno 2014M.A. Catagni, L. Lovisetti, F. Guerreschi .................................................. S24

Deformità degli arti inferiori: il fissatore assialeE. Castaman, C. Scialabba, A. Stasi ...................................................... S31

VII Sessione “Sessione Latina: Fratture di Gamba”External fixation in leg fracturesL. Della Rosa ....................................................................................... S35

Main Session “LA TRAUMATOLOGIA DELLO SPORT”I SessioneLesioni muscolari: diagnosi e principi di trattamentoF. Benazzo, G. Zanon, A. Combi, L. Perticarini, M. Marullo ...................... S36

II Sessione “Il punto su…”Epitrocleite ed epicondiliteL.A. Pederzini, F. Di Palma, F. Nicoletta, E. Delli Sante ............................. S42

La pubalgiaP. Volpi, A. Quaglia, L. Brambilla ........................................................... S47

Sindromi compartimentali nello sportivo: una diagnosi difficileG. Carimati, F. Randelli, P. Ferrua, L. Serrao, P. Bottiglia Amici-Grossi ........ S50

Instabilità carpo metacarpaleM. Rampoldi ....................................................................................... S55

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Tallodinia: un labirinto diagnosticoD. Vittore, M. Berardi, M. Dilonardo, B. Moretti, G. Caizzi ...................... S62

Distorsione di caviglia - dalla prevenzione al trattamentoC. Villani, L.L. Marcovici, B. Zucchi, E. Sacco, P. Persiani ......................... S77

24 NOVEMBRE 2014Main Session “LE DEFORMITÀ DEGLI ARTI INFERIORI”I Sessione “Dismetria con Deviazioni Angolari”Le deformità degli arti inferioriDismetria con deviazioni angolari: correzione sequenziale con fissatore esterno circolareR. Mora, B. Bertani, G. Tuvo, S. Lucanto, F. De Rosa, L. Pedrotti ................ S82

Crescita guidataS. Boero, S. Mannino, F. Ratto, S. Riganti ............................................... S88

II Sessione “Protesi di Anca e di Ginocchio: forse Si, forse No”Deformità degli arti inferiori. Protesi di anca e di ginocchio e sport: forse sì, forse noM. Innocenti, C. Carulli, A. Macera, F. Matassi, R. Civinini ....................... S93

III Sessione “L’Alluce Valgo: quali Osteotomie Distali”Alluce valgo sindrome → approccio chirurgico con tecnica mininvasivaV. Deanesi........................................................................................... S96

L’alluce valgo: quali osteotomie distaliL’osteotomia di AustinA. Volpe, A. Postorino, D. Varotto, A. Valcarenghi ................................... S102

IV Sessione “Gestione delle Deformità nelle Malattie Rare dell’Osso”La neurofibromatosiC. Racano, C.N. Abati, O. Donzelli ....................................................... S109

Management delle fratture e deformità a carico delle ossa lunghe degli arti inferiori in un gruppo di pazienti affetti da osteogenesi imperfetta tipo I, III E IVC. Villani, L. Martini, M. Di Domenica, F.M. Ranaldi, A. Zambrano, M. Celli, P. Persiani .............................................................................. S115

Trattamento delle deformità degli arti inferiori nei pazienti affetti da artrogriposiS. Stilli, M. Lampasi, C.N. Abati ............................................................ S125

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25 NOVEMBRE 2014Main Session “LA TRAUMATOLOGIA DELLO SPORT”I Sessione “Come cambiano le indicazioni nello sportivo amatoriale ‘diversamente giovane’”La lombalgia nello sportivo “diversamente giovane”C. Ruosi, S. Liccardo, G. Colella ............................................................ S131

Instabilità gleno-omerale e lesioni della cuffia dei rotatori nello sportivo amatorialeG. Merolla, P. Paladini, G. Porcellini ...................................................... S135

II SessioneLesioni osteocondrali: riparazione e rigenerazioneM. Ronga, G. La Barbera, M. Valoroso, P. Cherubino .............................. S139

III Sessione “Il punto su…”Le fratture da stressF. Biggi, C. D’Antimo, S. Di Fabio, F. Martinelli, S. Trevisani ..................... S145

IV Sessione “Come cambiano le indicazioni nello sportivo amatoriale ‘diversamente giovane’”Come cambiano le indicazioni nello sportivo amatoriale “diversamente giovane”: chirurgia protesica dell’ancaG. Grappiolo, M. Loppini, F. Astore ....................................................... S149

La sindrme dolorosa rotulea nel giovane adultoP. Adravanti, A. Ampollini ..................................................................... S152

Indice degli Autori ........................................................................... S155

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2014;40(suppl.3):S1-S7 S1

S. GIANNINI, M. MOSCA, D. LUCIANI, A. MAZZOTTI1 Clinica Ortopedico-Traumatologica, Istituto Ortopedico Rizzoli, Bologna

Indirizzo per la corrispondenza:Sandro Giannini1 Clinica Ortopedico-TraumatologicaIstituto Ortopedico Rizzolivia G.C. Pupilli 1, 40136 BolognaE-mail: [email protected]

deformities may be due to defects in formation, segmentation, duplication or alteration of growth. They are often part of more complex syndromes with the involvement of other musculoskel-etal district and internal organs. For this reason physical exami-nation must be operated carefully.The most frequent acquired deformity are flat foot, cavus foot and hallux valgus. The choice of treatment depends on the age of patient, the severity of the deformity and pathogenesis. Flex-ible flat foot in the child can b ecorrect by subtalar joint arthro-ereisis. In patients which skeletal maturity is reached, surgery consists in osteotomies and arthrodesis. Cavus foot which has not benefit from conservative treatment need surgery. Hallux val-gus is a common finding and can be associated with other de-formities of the toes and can be treated with a minimally invasive surgical osteotomy of the first metatarsal.Key words: deformities, foot, clubfoot, flat foot, cavus foot

Lo 0,12% dei nati vivi è affetto da anomalie degli arti in-feriori 1. Si distinguono malformazioni congenite e malfor-mazioni acquisite. Con il termine malformazione congeni-ta si definisce un’alterazione della forma e della struttura del corpo umano, originatasi durante la vita intrauterina e presente alla nascita, al contrario delle deformazioni acquisite.

DEFORMITÀ CONGENITE DEL PIEDELe malformazioni congenite del piede sono patologie rare, la cui causa è da ricercare in tre momenti dello sviluppo 2: fase dell’informazione genetica, fase embrionaria (4°-8° settimana di gestazione) e fase fetale (dopo l’ottava setti-mana). Le patologie congenite del piede comprendono il piede torto e le malformazioni congenite minori.

PIEDE TORTO CONGENITOIl piede torto congenito (PTC) è una deformità presen-te alla nascita e caratterizzata da una alterazione per-manente della morfologia del piede e dei suoi rapporti con la gamba che coinvolge 1-3:1000 nati vivi. Dopo la displasia congenita dell’anca, con la quale spesso è associato, è la più frequente malformazione dell’arto infe-riore. I maschi sono coinvolti con un rapporto 2:1 rispetto alle femmine, nel 50-60% dei casi risulta bilaterale e nel 15% casi familiare. È fondamentale inoltre ricercare al-tre malformazioni poiché in percentuali non trascurabili il PTC può essere segno di una patologia “complessa” con coinvolgimento di più apparati come nel caso di mielome-ningocele o artrogriposi 3.L’esame ecografico dopo la 12° settimana di gestazione può valutare in epoca prenatale la presenza di questa deformità.Il PTC può avere eziologia idiopatica nella maggior parte dei casi oppure può esser acquisito in seguito a cause meccaniche quali malformazioni uterine, oligoidramnios

LE DEFORMITÀ DEL PIEDEDEFORMITIES OF THE FOOT

RiassuntoLe anomalie degli arti inferiori sono frequenti nella popolazione generale, alcune volte si manifestano in maniera asintomatica, ma spesso richiedono interventi terapeutici a diversi livelli. Si di-stinguono malformazioni congenite e malformazioni acquisite. La deformità congenita più comune è rappresentata dal piede torto che può presentarsi in quattro varianti, la più comune è il piede equino varo supinato. Il trattamento è conservativo se la deformità è riducibile oppure può richiedere intervento chirurgi-ci sia sui tessuti molli che sull’osso. Deformità congenite minori possono essere dovute a difetti di formazione, di segmentazio-ne, di duplicazione o alterazione dell’accrescimento. Spesso fanno parte di sindromi più complesse con l’interessamento non solo del piede ma anche di altre regioni muscolo-scheletriche e organi interni; per questo è importante una valutazione ge-nerale del paziente e un esame obiettivo che vada a ricercare deformità anche a livello sovra segmentario. Le deformità acquisite più frequenti sono il piede piatto, il piede cavo e l’alluce valgo. La scelta del trattamento è da considerarsi in base all’età del paziente, alla gravità della deformità e la patogenesi. Il piede piatto flessibile del bambino trova beneficio nell’artrorisi sottoastragalica, in pazienti con maturità schele-trica raggiunta, invece, gli interventi chirurgici possono essere osteotomie e artrodesi. Il piede cavo che non trova beneficio dal trattamento conservativo può andare incontro a interventi chirurgici che interesano sia i tessuti molli che ossei. L’alluce val-go è una patologia di comune riscontro che si può associare ad altre deformità delle dita o del piede e può essere trattato con una chirurgica poco invasiva di osteotomia del primo metatarso.Parole chiave: deformità, piede, piede torto, piede piatto, piede cavo

SummaryAbnormalities of the lower limbs are frequent occurrences. Sometimes they are asymptomatic, whereas often require some kind of intervention. Deformities are differentiate in congenital malformations and acquired ones. The most common congeni-tal deformity is represented by clubfoot. It appears in four vari-ants, the most common is clubfoot equino varus. The treatment is conservative if the deformity can be reduced or it may require surgical intervention on soft tissue and bone. Minor congenital

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S. GIANNINI ET AL.

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e gravidanze gemellari oppure patologie neuro-muscolari (spina bifida, poliomelite, paralisi cerebrali infantili). Alla base dell’eziologia idiopatica ritroviamo la teoria gene-tica, la teoria dell’arresto dello sviluppo intrauterino e la teoria neuro-muscolare. Poiché vi è una correlazione tra l’eziologia e la prognosi è importante studiare il paziente nella totalità degli aspetti clinici 4.A seconda della deformità individuiamo 4 quadri clinici: equino varo supinato (80%), talo valgo pronato (10%), metatarso varo (5%) ed astragalo verticale (5%). Il trat-tamento varia a seconda della fase della patologia e si pone l’obiettivo di ripristinare un piede plantigrado con una buona articolarità senza dolore, al fine di evitare quadri di artrosi secondaria. Correzioni incomplete sono la causa più comune delle recidive, presenti in percentuali non trascurabili. Il piede torto equino varo supinato è il quadro più co-mune ed è caratterizzato dalla deformità su più piani: si associa il varismo del retropiede, l’adduzione dell’avam-piede, l’inversione e l’equinismo per retrazione dell’Achil-le. Le strutture muscolo-legamentose mediali e posteriori risultano retratte e si associa una torsione della tibia ver-so l’interno. Se la deformità è riducibile, il trattamento consigliato è conservativo con manipolazioni graduali e posizionamento di apparecchi gessati in correzione da rinnovare periodicamente. Gli interventi chirurgici preve-dono l’allungamento delle strutture retratte attraverso l’in-tervento di Codivilla e, in caso di deformità inveterate, interventi di artrodesi astragalo scafoidea, accorciamento della colonna esterna o triplice artrodesi a seconda della deformità e del grado di artrosi presente nelle varie arti-colazioni 5.

MALFORMAZIONI CONGENITE MINORIIl criterio utilizzato per inquadrare le malformazioni con-genite minori del piede è di tipo patogenetico 6 7. Spesso queste deformità fanno parte di sindromi più complesse con l’interessamento non solo del piede ma anche di altre regioni muscolo-scheletriche e organi interni; per questo è importante una valutazione generale del paziente e un esame obiettivo che vada a ricercare deformità anche a livello sovra segmentario.Saranno descritte di seguito, le deformità congenite mi-nori di maggiore riscontro nella pratica chirurgica. Il trat-tamento chirurgico ha lo scopo di migliorare le capacità funzionali, permettere l’utilizzo di calzature normali e mi-gliorare l’estetica.Le ectrodattilie sono dovute a difetti di formazione e comprendono gruppi eterogenei di malformazioni ca-ratterizzati dall’assenza di una falange, di un dito cen-trale oppure di tutto il raggio o l’assenza completa del 4°-5° raggio. Esistono due forme di questa deformità: la prima forma è bilaterale e coinvolge anche le mani

con trasmissione autosomica dominante (AD) ed un’inci-denza di 1:90.000 nati; l’altra forma, più rara, è mo-nolaterale, non è associata a deformità delle mani e la sua incidenza è di 1:150.000 nati 8. Il piede a “pinza di granchio” (o “cleft foot”) rappresenta la forma più grave di ectrodattilia, caratterizzato dall’ agenesia di un raggio centrale comprendente le tre falangi e parte del metatarso (Fig. 1). La chirurgia, in base alla gra-vità della deformità, può agire solo sulla commissura centrale procedendo con una semplice sutura oppure, dove è presente un’importante divergenza tra il primo e il quinto metatarso si può effettuare una artrodesi della cuneo-metatarsale per ottenere un raggio più stabile e un migliore risultato funzionale ed estetico 7; per questo tipo di intervento è meglio attendere l’avvenuta chiusura delle epifisi di accrescimento.I difetti di segmentazione si presentano come sindattilie, cioè la fusione delle dita del piede che può essere ossea, cartilaginea o soltanto cutanea. Le modalità di trasmissio-ne di questa malformazione è di tipo autosomico domi-nante, recessivo o sporadico e deriva da un arresto dello sviluppo del piede tra la 6° e l’8° settimana di gestazio-ne. Il secondo spazio interdigitale è quello maggiormen-te colpito da questa deformità seguito dal quarto spazio interdigitale ed infine interessamento dell’alluce. Questa malformazione è più frequente nei maschi con rappor-to di 3:2 e spesso si presenta in associazione con altre deformità come la polidattilia e la brachidattilia oppure appartiene a sindromi come quella di Apert 9.Poiché nelle forme lievi questa deformità non compromet-te la funzionalità del piede, il trattamento chirurgico può essere richiesto solo per motivi estetici a circa un anno di età. Nelle sindattilie gravi, invece, è necessario procede-re con un intervento chirurgico con lo scopo di migliorare la funzionalità del primo raggio, di ridurre il sovraccarico del 2° metatarsale e restringere il piede facilitando l’uso delle calzature.

FIGURA 1.A sinistra: Ectrodattilia con schisi mediana (Cleft toe) bilaterale in bambino di 12 mesi. A destra: Stabilizzazione del 1° e 5° raggio in correzione mediante fili di Kirshner e plastica cutanea.

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In questi casi l’intervento deve essere attentamente pianifi-cato poiché oltre al tempo chirurgico della de-sindattilizza-zione, bisogna procedere con un tempo chirurgico sull’osso con asportazione del secondo raggio e risparmio dell’ar-ticolazione della Lisfranc ed eventuali osteotomie del pri-mo per ottenere un buon allineamento e/o restringimento. L’infezione, i fallimenti dei lembi o dei trapianti cutanei, le necrosi parziali delle dita e le deformità angolari seconda-rie dovute a retrazione cicatriziale sono tra le complicanze più frequenti in questo tipo di interventi. La compromissione neurovascolare e la frequente formazione di cicatrici iper-trofiche o cheloidi rende necessaria una grande attenzione ad evitare trazioni della cicatrice cutanea e rispettare la vascolarizzazione delle dita e dei lembi 7.La polidattilia è un difetto di duplicazione caratterizzato dall’aumento numerico dei raggi digitali del piede e può interessare sia le parti molli con la formazione di semplici abbozzi che la componente ossea. Si trasmette con ca-rattere AD 8 ed espressività variabile anche se sono de-scritte rare forme recessive; ha una ricorrenza nella prole del 50%. L’incidenza è di 1:150 nati nella razza nera e 1:3000 nati nella razza bianca; il rapporto maschi/femmine di 3:1 e spesso è bilaterale  10. Malformazioni associate sono l’ipoplasia della tibia, la distrofia toracica infantile e la sindattilia. Distinguiamo vari quadri di poli-dattilia in relazione al livello della malformazione. Con polidattilia preassiale, si intende la presenza di dito so-vrannumerario con duplicazione di tutto o parte del I rag-gio. La polidattilia mesoassiale consiste nella presenza di dito soprannumerario con duplicazione di tutto o parte del II-IV raggio che si associa spesso a sindattilia. La poli-dattilia postassiale è caratterizzata dalla presenza di dita soprannumerarie dell’ultimo raggio. Il trattamento chirur-gico della polidattilia è rappresentato dall’asportazione del dito soprannumerario e può essere eseguito quando inizia la deambulazione e l’utilizzo delle calzature 8.La macrodattilia è caratterizzata da un significativo in-cremento della lunghezza e circonferenza di un dito ri-spetto alle dimensioni consuete per età e costituzione del soggetto. Questa malformazione estesa a più dita dello stesso piede è definita anche “Gigantismo del piede”. Il dito più frequentemente colpito è il secondo. L’intervento chirurgico, che ha lo scopo di ridurre le dimensione del dito colpito renderlo il più possibile proporzionato al con-trolaterale, vede l’associazione di tempi sulle parti molli e tempi sullo scheletro tenendo conto dell’età del pazien-te. Considerando che la maggiore parte delle tecniche chirurgiche sono eseguite nell’epoca dell’accrescimento, spesso c’è la necessità di intervenire più volte sulla stes-sa deformità. Per questo, ancora oggi, l’amputazione del dito o delle dita interessate rimane la tecnica chirurgica che da i migliori risultati estetici e funzionali senza neces-sità di reinterventi.

Le deformità angolare congentite sono molto rare e com-prendono l’alluce varo, l’alluce valgo, la clinodattilita e la camptodattilia.

DEFORMITÀ ACQUISITE DEL PIEDELe più comuni deformità del piede acquisite comprendono il piede piatto, il piede cavo e le deformità delle dita.

IL PIEDE PIATTOIl piede piatto è una deformità caratterizzata morfologica-mente dalla riduzione della volta plantare e dal valgismo del retropiede. Funzionalmente si definisce piatto un pie-de che, invece di alternare in modo equilibrato movimenti di pronazione durante la fase di appoggio e supinazione durante la fase di spinta, mantiene uno stato di prevalen-te pronazione durante la deambulazione e la stazione eretta. All’età di 10 anni il 4% dei bambini presenta un piede morfologicamente piatto, ma di questo gruppo solo circa il 10% presenta un piede funzionalmente piatto che necessita di trattamento al fine di evitare la comparsa di dolore e deformità secondarie in età adulta. Diversi auto-ri 11 12 hanno dimostrato che la semplice riduzione della volta plantare non sempre è correlata ad una alterazione della funzionalità del piede e che l’alterata morfologia del piede solo raramente è correlata con problemi in età adulta. Al contrario, un piede funzionalmente piatto, è un piede che può essere saltuariamente dolente anche in età evolutiva, ma se si interrogano i genitori vengono ri-ferite lamentele come precoce affaticamento, poca voglia di fare lunghe camminate e saltuari disturbi dopo attività sportiva.La diagnosi differenziale tra un piede funzionalmente o morfologicamente piatto durante l’età evolutiva è fonda-mentale per valutare la necessità di trattamento. Il piede piatto in età evolutiva, da un punto di vista etio-logico, può essere classificato in tre gruppi 12: congeni-to, secondario ed idiopatico. La forma più frequente è sicuramente il piede piatto idiopatico o piede piatto las-so infantile. Il piede piatto congenito comprende i difetti di segmentazione delle ossa tarsali ed il piede definito “astragalo verticale”; la forma secondaria può essere in relazione a patologie del tessuto connettivo, ad altera-zioni neuromuscolari oppure iatrogeno come nel caso di ipercorrezione di un piede torto equino-varo supinato. È pertanto importante raccogliere l’anamnesi con l’aiuto dei genitori per identificarne eventuali cause. Fondamentale risulta distinguere in età evolutiva i piede piatti funzionali 11. Questo si può ottenere attraverso una valutazione funzionale che comprenda un esame clinico, radiografico e strumentale del piede e dell’arto inferiore nel suo insieme. L’esame obiettivo deve comprendere una valutazione globale dell’arto inferiore ricercando dimorfi-smi ed eventuali lassità legamentose generali. Si possono

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inoltre associare altre caratteristiche come l’abduzione e la supinazione dell’avampiede, il ginocchio valgo, l’allu-ce valgo e lo scafoide prominente. La valutazione della motilità articolare della SA e del medio piede è importan-te nella presenza di un piede piatto rigido. L’esame clini-co funzionale consiste nell’analisi del cammino, e nella valutazione di alcuni test funzionali con il tip toe standing test, il Jack’s test e la correzione manuale del piede con un movimento elicoidale a ginocchio esteso e dorsiflessione del piede 11 13. L’analisi del cammino evidenzia precoce sollevamento del tallone, marcata intrarotazione tibiale, riduzione della spinta del piede per l’insufficienza funzio-nale del primo raggio. Altro segno di alterata funzionalità è l’instabilità in appoggio monopodalico.All’RX in proiezione dorso-plantare si valuta l’angolo di divergenza astragalo-calcaneare ed in proiezione latera-le la linea di Meary. L’angolo, normalmente di zero gradi, è aperto in alto in caso di piede piatto. Le proiezioni obli-que sono utili per evidenziare eventuali sinostosi, meglio valutabili con tomografia computerizzata o risonanza magnetica.La persistente pronazione dell’articolazione sottoastraga-lica durante la fase propulsiva del passo è la maggiore responsabile dello sviluppo delle principali deformità del piede in età adulta. Allo scopo di evitare ciò e le proble-matiche correlate a questa patologia, viene consigliato il trattamento chirurgico del piede piatto funzionale durante l’età dell’accrescimento. Il trattamento fino ai 4 anni di età non è indicato poiché la maggior parte dei piedi presenta una fisiologica pronazione non essendosi ancora svilup-pati i corretti rapporti articolari tra astragalo e calcagno. In età compresa tra i 4 e gli 8 anni, in presenza di piede piatto funzionale è indicato un trattamento conservativo attraverso l’utilizzo di plantari che consentano la stabi-lizzazione in posizione neutra del retropiede mediante una conchiglia rigida e mantengono il piede in posizione corretta favorendo la corretta attività muscolare e pro-priocettiva. La soletta contemplerà un cuneo supinatore posteriore che permette di correggere il calcagno valgo ed un cuneo pronatore dell’avampiede che consente una detorsione di questo. Oltre gli 8 anni di età il trattamento conservativo rara-mente è efficace nell’ottenere una correzione adeguata del piede piatto funzionale ed in questi casi è indicato il trattamento chirurgico. L’intervento chirurgico di artrorisi astragalo-calcaneare determina una limitazione dell’arti-colarità della sottoastragalica, mediante l’inserimento di una endortesi o di una vite in materiale riassorbibile o non riassorbibile che, riallineando astragalo e calcagno e producendo un parziale e controllato freno meccani-co dell’articolazione, contrasta l’eccessiva pronazione e permette al piede di sviluppare, durante l’accrescimen-to, i normali rapporti astragalo-calcaneari. Il vantaggio

dell’utilizzo di materiali riassorbibili in acido poli-L-lattico (PLLA) è quello di evitare un secondo intervento chirurgico di rimozione, in quanto il materiale di cui è costituita vie-ne degradato dall’organismo nell’arco di circa 4 anni 14 (Fig. 2). In alcuni casi è necessario effettuare procedure chirurgiche accessorie per ottenere una adeguata corre-zione della deformità come l’allungamento del tendine d’achille, il tempo mediale o la rimozione di sinostosi se presenti.L’intervento chirurgico eseguito in età dell’accrescimento permette una correzione efficace e duratura della defor-mità, ripristinando i corretti rapporti tra astragalo e calca-gno e consentendo un fisiologico rimodellamento dell’ar-ticolazione sottoastragalica ed un recupero funzionale dell’eccesso di pronazione.Nelle forme di piede piatto neurologico, miopatico, iatro-geno come l’esito di una ipercorrezione di piede torto, da grave lassità legamentosa o in caso di grave rigidità articolare l’intervento di scelta è l’artrodesi della sottoa-stragalica secondo Grice che prevede un primo tempo chirurgico in cui si esegue un prelievo di osso corticale a livello della tibia prossimale. Questa stecca di osso cor-ticale viene posta ad incastro a livello del seno del tarso per favorire l’artrodesi in buona correzione dell’articola-zione sottoastragalica.Il trattamento del piede piatto nell’adulto deve tenere in considerazione diversi aspetti quali la presenza di artrosi,

FIGURA 2.In alto a sinistra: RX in proiezione laterale di piede piatto flessibile del bambino. In alto a destra: Intervento di artrorisi sottoastragalica. In basso a sinistra: controllo radiografico ad 1 anno di follow up. In basso a destra: Controllo RM ad 1 anno di follow up.

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la presenza di alterazioni del tessuti molli e la causa della deformità.

I trattamenti del piede piatto senza artrosi comprendono l’osteotomia calcaneare in varo e l’osteotomia di Evans che si possono associare a procedure sui tessuti molli come il tempo mediale per il trattamento delle lesioni del tendine tibiale posteriore (TP) e l’allungamento del tendine d’Achille.

IL PIEDE CAVOIl piede cavo è una deformità complessa caratteriz-zata morfologicamente da retro piede varo e dor-siflesso e plantarflessione dell’avampiede con suc-cessiva elevazione dell’arco plantare in carico. Lo squilibrio di altezza tra avampiede e retropiede e la supinazione persistente durante la deambulazione sono i principali responsabili delle conseguenze funzionali che producono instabilità, sovraccarico dei tessuti molli e pro-blemi delle calzature. L’incidenza nella popolazione è di 1/1000 nati vivi. L’e-ziologia è riconducibile a 5 patogenesi: neuro-musculare, congenita, post-traumatica, idiopatica e miscellanea 15. Le patologie neuromuscolari che possono sviluppare il pede cavo includono la malattia di Charcot-Marie-Tooth, la di-strofia muscolare di Duchenne, la poliomelite e paralisi cerebrale infantile. L’eziologia congenita è da riferirsci a postumi di piede torto congenito, artrogriposi o, meno fre-quentemente, sinostosi tarsali. Eziopatogenesi traumatica include fratture, lesioni tendinee e sindromi compartimen-tali. Altre cause di piede cavo sono patologie endocrine, reumatiche e iatrogene 16.Il piede cavo idiopatico è il più frequente ed è descritto come un piede in prevalente o persistente stato di supina-zione. A seconda della localizzazione della deformità si distingue un piede cavo anteriore, posteriore o cavo-varo. I quadri clinici sono estremamente vari e la sintomatolo-gia comprende instabilità della caviglia, sovraccarico dei tessuti molli, impingement anteriore, distorsioni di cavi-glia, deformità delle dita, fascite plantare, tendinopatie e difficoltà nell’indossare calzature.

La scelta del trattamento si basa sull’età del paziente, la flessibilità del piede e la causa della deformità. Le forme più lievi possono trarre giovamento dal trattamento con-servativo mediante utilizzo di calzature idonee, plantari con rialzo al tallone e scarico metatarsale ed esercizi di stretching.

Il trattamento chirurgico deve essere attentamente pro-grammato e prevede l’intervento dapprima sui soli tessuti molli e, a seconda della deformità, procedure sull’osso. Fasciotomia plantare, allungamento del tendine d’Achille

sono tra le tecniche più utilizzate associabili a intervento di Jones, osteotomia del primo metatarso e trasposizioni tendinee 17. Le procedure sull’osso sono solitamente ese-guite in pazienti che hanno raggiunto la maturità schele-trica poiché il solo intervento sui tessuti molli non garanti-sce una completa correzione della deformità. Osteotomia calcaneare, tarsectomia, artrodesi della sottoastragalica, della mediotarsica ed interfalangee sono tra le tecniche più utilizzate (Fig. 3).

DEFORMITÀ DELLE DITAL’alluce valgo è una deformità dell’avampiede, caratte-rizzata dalla progressiva sublussazione laterale della falange prossimale del primo dito sulla testa del primo metatarso, associata a vari gradi di ingrossamento dell’e-minenza mediale. La deviazione in valgismo dell’alluce è considerata patologica quando supera i 15° 18. Interessa soprattutto l’età adulta e il sesso femminile ma può ma-nifestarsi anche in soggetti giovani nei quali si presenta frequentemente bilaterale ed associata a diverse malfor-mazioni a carico del piede. Clinicamente l’alluce valgo si presenta con dolore e re-azione infiammatoria a livello mediale della I metatarso-falangea, associato, a seconda della gravità del quadro clinico, a meta tarsalgia e a deformità delle dita esterne.

FIGURA 3.In alto: clinica ed RX piede cavo in paziente di 17 anni affetta da morbo di Charcot Marie Tooth. In basso a sinistra: Tempo di artrodesi modellante della colonna mediale. La paziente è stata sottoposta ad intervento di release della fascia plantare, artrodesi modellante della colonna mediale e laterale, osteotomia di sollevamento del 1° metatarso, tenodesi del peroneo lungo sul peroneo breve, trasposizione dell’estensore lungo dell’alluce sul 4° metatarso, tenotomia dei flessori ed artrodesi dell’articolazione interfalangea dell’alluce. In basso a destra RX di controllo a 2 anni dall’intervento.

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Sebbene il quadro clinico dell’alluce valgo si presenti in maniera simile ma con diversi gradi di gravità in tutti i casi, questa deformità è sostenuta da differenti quadri anatomopatologici che devono essere considerati per un adeguata correzione chirurgica.Nei casi di alluce valgo moderato con angolo intermeta-tarsale compreso tra 15° e 20° per la correzione delle de-formità sono indicate le osteotomie metatarsali distali. Le osteotomie distali sono inoltre indicate per la correzione dei casi di alluce valgo in cui è presente una deviazione dell’angolo articolare metatarsale distale (DMAA) o per la correzione della rigidità della I metatarso-falangea. Sono state descritte numerose tecniche chirurgiche con buoni risultati e la tecnica mini-invasiva S.E.R.I. (Simple, Effective, Rapid, Inexpensive) è tra e più affidabili per correggere le deformità dell’alluce. È caratterizzata da un’osteotomia lineare distale a livello del collo metatar-sale eseguita attraverso una mini-incisione e stabilizzata con un solo filo di Kirschner 19 (Fig. 4).La deformità delle piccole dita si può ritrovare in forma isolata o essere parte di un quadro più complesso di de-formità del piede o di una patologia generale. Le cause possono essere biomeccaniche, traumatiche, infiammato-rie, metaboliche, neurologiche o iatrogene. Metatarsal-gia e callosità, o difficoltà nell’utilizzo delle calzature per impingement, sono condizioni frequentemente associate. I quadri più frequenti sono: dita a martello (ipertensione della metatarso falangea con flessione dell’inter-falangea prossimale), dita in griffe (o ad artiglio) che si possono associare a lussazione metatarsofalangee. Qualora il trat-tamento conservativo con plantari e stretching non risulti soddisfacente, si rende necessaria la chirurgia. Le proce-dure comprendono tenotomie sottocutanee, artrodesi ed eventualmente protesi metatarso-falangee 20. Il quinto dito varo è una deformità dell’avampiede carat-terizzata da una deviazione in varismo del quinto dito, dalla prominenza del condilo laterale della testa del quin-to metatarsale, dall’irritazione cronica della borsa sotto-stante e da una cheratosi latero-plantare. Si tratta di una patologia piuttosto rara, se rapportata alle altre deformità dell’avampiede, come l’alluce valgo, il piede piatto, alle quali spesso è associata. Ha una frequenza maggiore nella popolazione femminile, probabilmente a causa dell’utilizzo di calzature incongrue. I meccanismi eziolo-gici del quinto dito varo non sono stati ancora chiariti. Nel corso degli anni diversi autori hanno proposto varie

tesi, che possono essere suddivise, in base alla loro origi-ne, in strutturali e meccaniche. A seconda della deformità gli interventi chirurgici comprendono osteotomie come la S.E.R.I. 21 oppure, in pazienti in età avanzata o in presen-za di artrosi di grado elevato, la resezione artroplastica dell’articolazione.

CONCLUSIONILe deformità del piede e delle dita comprendono un am-pio spettro di patologie con eziologie quadri clinici diffe-renti. Il trattamento conservativo o chirurgico deve essere considerato in base alle caratteristiche della deformità, della riducibilità, della patogenesi e dell’età del paziente.È fondamentale pertanto eseguire un’anamnesi completa ed un esame obiettivo accurato al fine di non tralasciare aspetti importanti della patologia e l’indicazione al trat-tamento.

FIGURA 4.A sinistra RX preoperatoria di alluce valgo e deformità delle dita in griffe e lussazione 2°metatarsofalangea. A destra RX postoperatoria di tecnica S.E.R.I. per correzione alluce valgo e artrodesi interfalangea prossimale delle dita esterne.

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F. CECCARELLI, A. CAROLLA, C. VIOLIDipartimento Chirurgico, Università degli Studi di Parma, Clinica Ortopedica e Traumatologica - Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma

Indirizzo per la corrispondenza:F. CeccarelliDipartimento Chirurgico, Università degli Studi di Parma, Clinica Ortopedica e Traumatologica - Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parmavia Gramsci 14, 43126 ParmaE-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S8-S13S8

Il piede, per la conformazione di tutte le sue strutture anatomiche, può compiere solo due movimenti comples-si triplanari, denominati pronazione e supinazione; sia in fase statica che durante la deambulazione, la corretta funzione del piede dipende da una specifica alternanza di questi due movimenti. Nei due movimenti complessi triplanari di pronazione e supinazione, la sottoastragalica interviene in correlazio-ne funzionale non solo con le altre articolazioni del piede (nell’ambito di quella che viene definita “catena cinema-tica del piede”), ma anche con quelle sovrasegmentarie come ginocchio ed anca (nell’ambito della cosiddetta “catena cinematica dell’arto inferiore”).Il piede piatto può essere definito da un punto di vista morfologico, una deformità caratterizzata da una dimi-nuzione dell’altezza della volta plantare associata a de-formità in valgo del retropiede, mentre da un punto di vista funzionale, essa invece può essere definita come un eccesso o prevalenza di pronazione.Nel piede piatto, a catena cinetica chiusa, l’eccesso di pronazione si determina per una rotazione esterna del calcagno attorno al suo asse longitudinale, mentre l’astra-galo ruotando attorno all’asse della sottoastragalica, si adduce e si flette plantarmente. Questo movimento dell’a-stragalo si auto-limita quando la sottoastragalica raggiun-ge il suo massimo grado si congruenza articolare con il processo laterale dell’astragalo che, ruotando medial-mente e spostandosi in avanti, raggiunge il contatto con il pavimento del seno del tarso. Per le correlazioni funzionali esistenti, a livello sovra-seg-mentario alla rotazione interna dell’astragalo corrisponde una rotazione interna di tutto l’arto inferiore, mentre a li-vello sotto-segmentario gli assi della astragalo-scafoidea e della calcaneo-cuboidea divengono paralleli sbloccando la mediotarsica, che a sua volta è soggetta ad una pro-nazione sia sul piano frontale che su quello orizzontale.Con il termine artrorisi (Fig. 1) si intende la limitazione, ottenuta chirurgicamente, del movimento di una articola-zione: nello specifico, il termine rappresenta la traduzio-

ENDORTESIEndorthesis

RiassuntoLe protesi di sotto-astragalica, denominata endortesi, sono utiliz-zate nei pazienti con eccesso di pronazione e permettono la cor-rezione della deformità e il miglioramento della funzione del pie-de mediante la limitazione del movimento della sotto-astragalica, artrorisi. Riportiamo i risultati e l’esperienza della nostra scuola con il modello di endortesi realizzato da Giannini che viene rico-nosciuta come una tecnica semplice, rapida ed effettiva. Parole chiave: endortesi, artrorisi, sotto-astragalica

SummaryThe prosthesis of the sub-talar joint, called endorthesis, are used in patients with excess pronation and allow the correction of the deformity and improvement of the function of the foot through the limitation of the movement of the sub-talar joint, arthroerei-sis. We report the results and experience of our school with the model endorthesis made by Giannini that is recognized as a technique simple, fast and effective.Key words: endorthesis, arthroereisis, sub-talar

INTRODUZIONELe protesi di sotto-astragalica, denominate endortesi, sono utilizzate nei pazienti con un eccesso di pronazio-ne, sia nel piede piatto dell’adulto che in quello infantile. Hanno come scopo la limitazione del movimento della sotto- astragalica (artrorisi), la correzione della deformità ed il miglioramento della funzione del piede.Negli ultimi 30 anni sono stati realizzati ed impiantati numerosi modelli di protesi in vari materiali per il trat-tamento del piede piatto sia in epoca di accrescimento sia nell’adulto ed utilizzati come tecnica isolata oppure combinata con tempi chirurgici accessori sulle parti molli.Tutti questi modelli sono classificabili in tre grandi gruppi a seconda della biomeccanica.In generale si può dire che le esperienze cliniche e spe-rimentali presenti in letteratura portano a risultati soddi-sfacenti nonostante le complicanze sempre comunque dominabili. FIGURA 1.

Disegno schematico del concetto di artrorisi.

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ne letterale del termine anglosassone “arthroereisis” che deriva dal concetto “joint raising up”, cioè “sollevare” l’astragalo e di conseguenza riposizionarlo al disopra del calcagno 1.Questa tecnica permette di correggere la deformità evitan-do l’artrodesi, limitando la pronazione della sottoastraga-lica, ma nello stesso tempo mantenendo l’alternanza con l’altro movimento complesso triplanare di supinazione.La ricostituzione dei normali rapporti fra astragalo e cal-cagno corregge quindi la deformità normalizzando l’asse di carico a livello del retropiede.Vogler 2 3 classifica i dispositivi per eseguire una artrorisi di sotto-astragalica in:1) IMPIANTI CHE MODIFICANO L’ASSE DELLA SOTTOA-STRAGALICA: questi impianti sono dotati di uno stelo che viene inserito verticalmente nel pavimento del seno del tarso subito al davanti della faccetta articolare posteriore del calcagno e di una superficie superiore allargata che si articola direttamente con l’apofisi laterale dell’astragalo: in questo modo la protesi, sollevando il pavimento del seno del tarso, solleva l’asse della sottoastragalica ridu-cendo la rotazione laterale del calcagno.2) IMPIANTI CON BLOCCO AD IMPATTO (O IMPATTO DI-RETTO): queste protesi, sostanzialmente simili a quelle del primo gruppo, vengono inserite sempre verticalmente a li-vello del pavimento del seno del tarso ma un po’ più ante-riormente: in questo modo si viene a creare un impingement fra la testa della protesi ed il bordo anteriore del processo laterale dell’astragalo che impedisce la sua progressione an-teriore e quindi la rotazione interna di tutto l’astragalo. 3) IMPIANTI AD INCASTRO AUTOBLOCCANTE (Fig. 2): questi impianti vengono inseriti nella porzione più laterale del seno del tarso lungo il suo asse maggiore e impedi-scono l’adduzione e la flessione plantare dell’astragalo sostenendo il collo dell’astragalo stesso e impedendo il contatto fra il processo laterale dell’astragalo e il pavi-mento del seno del tarso.

Giannini nel 1985 realizza una protesi cilindrica filettata e ad espansione per favorire una stabilità intrinseca. In questo modello, realizzato prima in teflon e poi in polieti-lene (Fig. 3 A), il meccanismo di espansione è determina-to da una vite metallica che introdotta nella protesi causa l’allargamento delle quattro flange terminali 4-6. Negli anni ’90, la comparsa della tecnologia dei materia-li riassorbibili convince Giannini a trasformare la protesi in un impianto biodegradabile (Fig. 3 B), con lo scopo di eliminare la necessità della rimozione a distanza: le pro-tesi di questo tipo oggi disponibili sono quella ad espan-sione 7.Per quanto riguarda la tecnica chirurgica tutti i modelli di protesi vengono impiantati attraverso la stessa via chirurgica laterale con incisione più o meno ampia, in corrispondenza del seno del tarso e con strumentari quasi sempre dedicati (Fig. 4).Da quanto fin qui detto emerge una correzione puramen-te passiva dei rapporti fra astragalo e calcagno esercitata dalle protesi, con conseguente correzione della deformi-tà: in realtà gli studi che si sono avvicendati negli anni in questo campo, sembrano dimostrare anche un ruolo neu-romotorio che agisce in sinergia con la funzione mecca-nica della protesi. La presenza della protesi in una zona a densa rappresentazione recettoriale, sembra capace di innescare, attraverso un coinvolgimento nocicettivo, archi riflessi di reclutamento dei muscoli supinatori in grado di sottrarre le strutture al conflitto con la protesi stessa e conseguente riduzione attiva dei rapporti astragalo-calcaneari 4.Nel soggetto in accrescimento, la ricostituzione dei rap-

porti reciproci fra le ossa del tarso, determina nel tempo con il successivo sviluppo, una ristruttura-zione ossea ed un adat-tamento delle parti molli mediali e plantari con stabilizzazione della cor-rezione anche una volta rimossa o riassorbita la protesi 8 9.

I RISULTATI E COMPLICANZENegli ultimi 30 anni, all’e-levato numero di modelli di protesi presenti sul mer-cato, corrisponde in lette-ratura un certo numero di pubblicazioni che dimo-strano come l’impianto di alcune di queste sia una metodica ampiamente

FIGURA 2.Disegno schematico della corretta posizione dell’endortesi.

FIGURA 3.L’endortesi ideata da Giannini. In A) il modello in polietilene con vite in acciaio, in B) la protesi in acido polilattico.

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utilizzata sia nel piede piatto nel bambino che nell’adul-to 3 7 10 (Figs. 5-7). In generale le revisioni delle esperienze cliniche con i diversi modelli di protesi, mostrano risultati clinici (sia soggettivi che oggettivi) e di immagine (parametri di misurazione radiografica) molto positivi con percentua-li di risultati soddisfacenti che arrivano anche ad oltre il 90% 3.Anche esperienze sperimentali dimostrano come l’utiliz-zo di protesi di sottoastragalica permetta di ristabilire un corretto asse di carico del piede attraverso la limitazione dell’eccesso di pronazione 3 11.Nonostante questo, diversi autori tengono ancora aper-to il dibattito riportando risultati simili con tecniche alter-native, come le osteotomie o procedure sulle parti molli, puntando sul fatto che l’introduzione di un corpo estraneo a livello del seno del tarso comporta comunque la com-parsa di complicanze che in letteratura arrivano anche al 30% dei casi.Le complicanze possono essere suddivise in due grandi gruppi: quelle generali e quelle specifiche dell’impianto.Fra le prime vengono riportati errori di posizionamento, mancata correzione o ipercorrezione della deformità, mi-grazione ed espulsione della protesi o infezioni.Il secondo gruppo comprende complicanze collegate alle proprietà specifiche dell’impianto come materiale di fab-bricazione, disegno e tipo di fissazione od alla biomecca-nica di funzionamento dell’impianto stesso.In questo gruppo rientrano quindi complicanze come l’u-sura dell’impianto, reazioni da corpo estraneo, sinoviti locali, formazione di gangli, fratture dell’impianto o sua mobilizzazione, fratture del calcagno o del processo la-

terale dell’astragalo, reazioni dell’osso sia come osteofiti o sclerosi e sia come riassorbimenti periprotesici o cisti intraossee, espressione di una sorta di stress-shielding 3.In un caso trattato con protesi ad impatto diretto è riporta-ta una estrema complicanza come la necrosi avascolare dell’astragalo 3.A parte questo caso limite per altro unico in letteratura, in tutti i casi il fallimento dell’impianto si traduce in dolore a livello del seno del tarso ed anche in possibilità di spasmo

FIGURA 4.Lo strumentario ideato per il posizionamento dell’endortesi di Giannini.

FIGURA 5.Maschio di 11 anni, in alto l’aspetto clinico ed in basso quello radiografico rispettivamente prima ed a distanza dell’intervento.

FIGURA 6.Piede piatto sinistro in una donna di 36 anni in esiti di precedente intervento correttivo.

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dei peronei con comparsa di piede contratto doloroso: di comune osservazione è comunque il fatto che, nella mag-gior parte dei casi, la rimozione della protesi determina la scomparsa dei sintomi senza una perdita di correzione della deformità. Nel paziente in accrescimento infatti, an-che la rimozione anticipata dell’impianto fa si che anche un periodo relativamente breve di mantenimento della correzione, sia sufficiente a portare a termine il processo di ristrutturazione ossea e delle parti molli.

ESPERIENZA DELLA NOSTRA SCUOLANella prima pubblicazione del 1987 di revisione di 50 casi consecutivi, Giannini et al. riportano una percentua-le elevata di risultati soddisfacenti, tuttavia constatano la necessitàà di un secondo intervento per la rimozione 6.A partire dal 1990, grazie all’evoluzione della tecnolo-gia dei materiali riassorbibili, l’endortesi, è stata proget-tata e costruita in Acido Polilattico (PLLA), eliminando così la necessità di un reintervento per rimozione del materiale estraneo.Le indicazioni al posizionamento dell’endortesi polimeri-ca sono:1) nell’infanzia (Fig. 5):

• piede piatto essenziale, quando vi sia una insuf-ficienza funzionale. L’età consigliata è fra 8 e 13

anni, quando cioè il piede ha avuto già uno svilup-po scheletrico sufficiente ma presenta ancora un potenziale di accrescimento e sviluppo;

• sinostosi tarsale: dopo la rimozione della sinostosi, l’artrorisi si rende necessaria per correggere l’ec-cesso di pronazione associato;

• piede piatto con astragalo verticale (indicazione limite): l’endortesi può essere usata a riempimento del vuoto che si crea fra calcagno ed astragalo dopo il release delle parti molli e riduzione dei rap-porti astragalo-calcaneari senza dover ricorrere ad altre tecniche come la trasposizione del tibiale an-teriore sul collo astragalico per ridurre il rischio di recidiva.

L’endortesi può rappresentare l’unico e definitivo tempo chi-rurgico per la risoluzione della patologia, tuttavia in alcuni casi bisogna ricorrere a tempi accessori, in particolare:

• allungamento percutaneo del tendine di Achille mediante emisezioni multiple alternate se, dopo la correzione dei rapporti astragalo calcaneari, il pie-de non raggiunge l’angolo retto in dorsiflessione;

• tempo interno di resezione tangenziale dello sca-foide con ritensionamento del tendine del tibiale posteriore, se è presente una insufficienza del ten-dine a causa di scafoide prominente o accessorio o se in proiezione radiografica laterale sotto-carico è presente una linea di Meary interrotta.

2) nell’adulto (Figs. 6, 7): in caso di piede piatto essen-ziale sintomatico, associato o meno a disfunzione del tendine del tibiale posteriore, purché la deformità sia riducibile, elastica e senza segni di artrosi.

Nell’adulto, i tempi accessori sono quasi sempre praticati, sia per la retrazione dell’Achille, che si instaura in rispo-sta al valgismo del retropiede, sia per la sempre presente, ma ridotta rispetto al bambino, capacità di ritensionamen-to delle parti molli mediali una volta corretti i rapporti fra astragalo e calcagno.In caso di disfunzione del tibiale posteriore, l’endortesi viene usata a protezione della riparazione del tendine stesso.

CONTROINDICAZIONINel bambino le controindicazioni sono rappresentate da:• piedi piatti in cui non è prevedibile una sufficiente

ristrutturazione delle ossa e dei tessuti molli come in caso di paralisi flaccide o lassità legamentosa gene-ralizzata.

• piedi piatti esiti di piedi torti equino varo supinati, in cui l’anatomia patologica è completamente differente rispetto al piede piatto essenziale.

Nell’adulto, l’artrorisi della sottoastragalica associata tempi accessori, è controindicata in caso di piedi piatti rigidi o con presenza di artrosi.

FIGURA 7.Stesso caso della figura precedente (Fig. 6) con aspetto clinico e radiografico a distanza dall’intervento.

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TECNICA CHIRURGICASi pratica un accesso di 1-1,5 cm laterale al seno del tarso incidendo cute e sottocute. Si identifica il retinacolo che viene aperto con una forbice smussa restando ade-renti al cuboide con la punta verso il basso 8. La forbice viene fatta progredire con una sua rotazione, al disotto del collo dell’astragalo fino ad avvertire un blocco mec-canico dato dal contatto della punta della forbice con canale del tarso sede del legamento interosseo. Questo non viene oltrepassato, in quanto tale manovra potrebbe favorire contratture dolorose del piede 8.Tramite gli alesatori smussi dedicati di diametro progres-sivo, si prepara l’alloggio per l’endortesi e si arriva alla definizione della misura corretta (di solito 8 mm). Con lo strumento smusso in sede, si verifica clinicamente l’av-venuta correzione della deformità, valutando l’ottenuto riallineamento del retropiede 8. Cute, sottocute e fibre del retinacolo degli estensori vengono retratte con due divari-catori a nastro di 5 mm per visualizzare adeguatamente il seno del tarso e agevolare l‘introduzione del cilindro dell’endortesi, utilizzando l’apposito introduttore 12.Con l’apposito cacciavite (Fig. 4), viene quindi inserita la vite, la cui introduzione comporta l’apertura delle alette del cilindro e la stabilizzazione dell’impianto.Si esegue infine la sutura del retinacolo degli estensori e della cute 8.Nell’adulto vengono spesso associate le seguenti proce-dure mediali:• ritensionamento del tendine del tibiale posteriore as-

sociato o meno a sinoviectomia della guaina;• tenolisi del tendine ed eventuali riparazione mediante

tubulizzazione, in caso di lesioni interatendinee;• augmentation del tibiale posteriore con il tendine fles-

sore lungo delle dita in caso di suo assottigliamento e allungamento;

• trasposizione del tendine flessore lungo delle dita in tunnel predisposto nel navicolare in caso di rottura completa del tendine;

• riparazione del legamento calcaneo-scafoideo plan-tare in caso di sua rottura.

TRATTAMENTO POSTOPERATORIONel bambino se viene eseguita la sola artrorisi viene con-fezionato uno stivaletto gessato per 3 settimane con ca-rico concesso dopo la prima. Nel caso vengano eseguiti tempi accessori il periodo di immobilizzazione in gesso sale a 6 settimane con carico concesso nelle ultime due.Nell’adulto il periodo di immobilizzazione in gesso e la concessione del carico sono variabili e dipendono dalla riparazione fatta a livello del tendine del tibiale posteriore.

RISULTATI RIPORTATI IN LETTERATURAGià in uno studio pubblicato sul JBJS nel 2001  13, ad opera di Giannini et al. è stato eseguito uno studio su 21 pazienti di età compresa fra gli 8 ed i 15 anni, tutti con piede piatto bilaterale con follow-up medio di 4 anni. Dopo l’intervento sono stati riportati: una significativa ri-duzione del dolore, il ripristino del valgismo fisiologico del tallone ed un recupero del suo varismo fisiologico alle manovre di valutazione. Radiograficamente si è constata-to un recupero della linea di Meary fisiologica.Da parte degli autori, sono state eseguite RMN in alcuni pazienti che hanno evidenziato il graduale riassorbimen-to dell’endortesi polimerica con la sostituzione con tessuto tipo fibrotico e il completo riassorbimento dai 3 ai 5 anni.Non sono state riportate complicazioni rilevanti. In 2 casi i pazienti hanno lamentato impingement di frammenti in via di riassorbimento dell’endortesi con la calzatura, uno andato incontro a risoluzione spontanea, l’altro invece ha richiesto un intervento di rimozione del frammento e risoluzione quindi della sintomatologia.Gutierrez et al., nei loro lavori del 2005 14 e del 2000 15, riportano il 90% di buoni risultati e constatano la non necessità di rimuovere l’endortesi, tranne che in casi di prolungato dolore postoperatorio (7,5% nella loro casi-stica). Inoltre preferiscono l’endortesi di Giannini poiché richiede una minor invasività chirurgica, una tecnica ed uno strumentario semplici ed un minor ricorso al tempo mediale, pur ottenendo risultati simili alle altre tecniche.In letteratura son reperibili pochi lavori di confronto diret-to fra endortesi polimerica ed altre tecniche. Villani et al., nel loro lavoro del 2003 16 riportano esiti positivi sia con l’endortesi, sia con la vite conica di Castamann, senza constatare differenze significative.Così pure Scialpi et al.  16 riportano risultati buoni con entrambe le metodiche, trovandole efficaci e sicure per il trattamento di tale patologia.

CONCLUSIONIL’endortesi polimerica viene riconosciuta, sia dal gruppo di autori che l’hanno creata, sia dalla Letteratura, come una artrorisi semplice, rapida ed effettiva.Consente un accesso mini-invasivo, rispetta i tessuti molli e, grazie all’effetto neuro-motorio oltre che meccanico di-retto, consente correzioni sia anatomiche che funzionali buone e durevoli nel tempo spesso senza ricorrere ad un tempo mediale.Tali esiti positivi sono favoriti anche da una tecnica chi-rurgica semplice e rapida, sostenuta da uno strumentario tanto essenziale quanto efficace. Tuttavia la tecnica deve essere meticolosa ed eseguita secondo le indicazioni ori-ginali, pena gli esiti dolorosi o le espulsioni secondarie dell’endortesi dal suo alloggiamento.

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16 Scialpi L, Mori C, Mori F, et al. Arthroeresis with Giannini’s endo-orthotic implanto and Pisani’s talocalcaneal arthroeresis, a com-parison of surgical methods. Chirurgia degli Organi di Movimento 2008;92:61-5.

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B. MAGNAN, E. SAMAIL, A. GALLO, I. BONETTIClinica Ortopedica e Traumatologica Università degli Studi di Verona

Indirizzo per la corrispondenza:Bruno MagnanClinica Ortopedica e Traumatologica Università degli Studi di VeronaAzienda Ospedaliera Universitaria Integrata, Polo Chirurgico “P. Confortini”, VeronaE-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S14-S19S14

cal treatment, using different devices so called “endortesis” which are implanted in the sinus tarsis, which can be as-sociated to other surgical procedures. In the literature, only 2-5% of the juvenile flat feet is suitable for surgey and it is represented by secondary hyperpronated flat feet, symp-tomatic, idiopathic flat feet and those which present an high risk of degenerative changes in adult. There are many different devices acting with different mechanisms and re-alized with various materials. Among them, the orthesis for the “calcaneal-stop” are positioned at the external orifice of the sinus tarsi between the talus and the calcaneus, not involving the articular cartilage surfaces. They can be im-planted by a direct approach to the sinus tarsi or from the plantar aspect of os calcis with a M.I.S. procedure allow-ing stability and reducing invasiveness in the tarsal sinus. Removal is not necessary; functional recovery is generally prompt. In the literature, good results in 80-96.4% of cas-es are reported, in terms of correction of hyperpronation, resolution of symptoms and function recovery.Key words: arthroereisis, flat foot, pronatory sindrome, calca-neo-stop

INTRODUZIONEIl trattamento conservativo, ortesico e kinesiterapico, del piede piatto idiopatico in età evolutiva non si è dimostrato efficace nel modificare la storia naturale della patologia 1

2, favorevole in circa il 90% dei casi; pertanto tale op-zione oggi dovrebbe essere considerata solo con finali-tà palliative, sintomatiche e di compenso in attesa di un eventuale trattamento chirurgico, che rappresenta l’unica terapia eziologica ed efficace.L’indicazione chirurgica è riservata solo ai casi in cui non si verifichi un’evoluzione favorevole spontanea en-tro i 8-14 anni, con elementi funzionali che dimostrino la persistenza di una pronazione patologica in tutte le fasi del passo, quindi a rischio di patologia secondaria degenerativa in età adolescenziale o adulta. Questi casi selezionati a prognosi sfavorevole costituiscono non più del 2-5% di tutte le sindromi da eccesso di pronazione o “piattismi” osservabili in età evolutiva. L’intervento chirur-gico di scelta nel trattamento del piede piatto idiopatico o essenziale in età evolutiva è rappresentato dalla pro-cedura di artrorisi della sottoastragalica (SA), praticata in età compresa tra i 8 ed i 13 anni, con l’impianto di dispositivi a livello del seno del tarso denominati endor-tesi, tra cui impianti avvitati per il “calcaneo-stop” 3-5, o ad “espansione” 6. L’endortesi è un’alternativa alle proce-dure sulle strutture ossee come le artrodesi intra- o extra-articolari, le osteotomie del calcagno e gli interventi di allungamento a livello del calcagno o della articolazione calcaneo-cuboidea, riservate prevalentemente a individui al termine dell’accrescimento o nei casi di sindromi pro-

L’ARTRORISI ENDOSENOTARSICA MEDIANTE “CALCANEO-STOP”Subtalar arthroereisis with “calcaneo-stop” device

RiassuntoIl trattamento chirurgico del piede piatto in età evolutiva costituisce l’unica terapia eziologica ed efficace. La chi-rurgia è riservata ai casi in cui non vi è un’evoluzione favorevole spontanea entro i 8-14 anni. L’intervento di scelta è l’artrorisi della sottoastragalica con impianto di dispositivi a livello del seno del tarso (endortesi), asso-ciato o meno a tempi chirurgici accessori. L’indicazione è limitata al 2-5% dei casi: sindromi pronatorie seconda-rie, piattismi idiopatici sintomatici e sindromi pronatorie ad alto rischio di patologia secondaria in età adulta. Esistono molte tipologie di dispositivi, che agiscono con diversi meccanismi e che prevedono differenti tecniche chirurgiche, realizzati in vari materiali. Tra questi, le ortesi per il “calcaneo-stop” sono posizionate a livello dell’orifizio esterno del seno del tarso, tra l’astragalo e il calcagno, non coinvolgendo le superfici articolari car-tilaginee. Impiantate per via anterograda o retrograda, soddisfano i requisiti di stabilità e ridotta invasività nel seno del tarso, coprono un ampio spettro di indicazio-ni e la loro rimozione non è indispensabile. Il recupero funzionale è veloce nella maggior parte dei casi. La Let-teratura riporta studi clinici con risultati positivi variabili dall’80 al 96,4%, quanto a efficacia nella correzione dell’iperpronazione, scomparsa dei sintomi e migliora-mento della funzione. Parole chiave: artrorisi, piede piatto, sindrome pronatoria, cal-caneo-stop

SummaryThe surgical treatment of juvenile flat foot is the etiologi-cal and effective therapy. Surgery is indicated when there is not a successful spontaneous evolution of the clinical aspect of the flat foot, and performed between age 8-14. Subtalar arthroereisis is today the gold standard for surgi-

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L’ARTRORISI ENDOSENOTARSICA MEDIANTE “CALCANEO-STOP”

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natorie secondarie (neurologiche, flogistiche, da lassità patologica) nelle quali una semplice artrorisi risulta spes-so insufficiente 7.

STORIAIl primo intervento di stabilizzazione del retropiede a li-vello della SA, per il trattamento del piede piatto in età evolutiva, fu eseguito da Green e Grice 8 nel 1951 me-diante l’apposizione di un autotrapianto a forma di tra-pezio, prelevato dalla tibia prossimale, con l’obiettivo di ottenere un’artrodesi extra-articolare. Oggi, all’intervento di Green-Grice va ancora riconosciuto di avere, per la pri-ma volta, identificato nell’alterazione dei rapporti astra-galo-calcaneari uno degli elementi fondamentali nella

patogenesi della deformità. Le prime procedure proposte a partire dagli anni ‘920 per la correzione del piattismo, infatti, erano state rivolte in sede mediale9, mostrandosi insufficienti se isolate, tanto che oggi possono costituire, in particolari casi, solo tempi chirurgici accessori delle procedure sul retropiede. Viladot, dopo aver proposto nel 1974 10 l’associazione della procedura di Grice ad un tempo sull’arco mediale (Grice-Miller)  11, e successi-vamente altre procedure (Grice-Viladot) 12, realizzò uno dei primi dispositivi impiantabili, un’endortesi a forma di clessidra in silicone 10. Questa veniva posizionata tempo-raneamente dall’orifizio esterno a quello interno del seno del tarso fino alla fine della crescita scheletrica, ma spes-so non veniva rimossa, con tutti i problemi legati all’usura

FIGURA 1B.Endortesi senotarsica ad inserimento calcaneare retrogrado in metallo.

FIGURA 1A.Endortesi senotarsica ad inserimento calcaneare a vite per il Calcaneo-Stop (CNF) in metallo.

FIGURA 1D.Spaziatore endosenotarsico a espansione, in materiale riassorbibile (vite di Giannini).

FIGURA 1C.Endortesi senotarsica ad inserimento calcaneare a vite per il Calcaneo-Stop (CNF) in materiale riassorbibile (acido poli-l-lattico).

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B. MAGNAN ET AL.

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di questo materiale. Altri dispositivi di questo tipo e con varie forme, da coniche a cilindriche, vennero proposte da vari autori negli anni ’970: da Voutey a Valenti e Ju-det 13-15, che impiegarono in genere materiali siliconici e polietilene. Le varie tipologie di endortesi si diffondono verso la fine degli anni ‘970 ed inizio degli ‘980, dopo alterne fortune degli impianti in silicone e della originale procedura di Grice. Fu Alvarez 16 che propose per primo l’impianto nel calcagno di una semplice vite per osteo-sintesi con direzione cranio-caudale e postero-anteriore che, impattando sul processo laterale dell’astragalo, ne limitasse l’escursione in valgismo associando un’azione di opposizione alla rotazione ed alla lateralizzazione del calcagno, creando i principi dell’intervento di “calcaneo-stop”. Questa procedura fu successivamente riproposta e razionalizzata da Burutaran ed introdotta in Italia da Pisani, Castaman e dalla nostra Scuola (Nogarin e Ma-gnan,), con la proposta da parte di tutti questi autori di specifici impianti  17 18. Oggi sono disponibili numerosi dispositivi, impiantabili a livello del seno del tarso, per la correzione chirurgica del piede piatto in età evolutiva (Fig. 1 a, b, c, d). In passato questi erano stati classificati in due categorie di dispositivi: “endosenotarsici” (impianti ad espansione posizionati dall’orifizio esterno del seno del tarso e fatti progredire fino all’arresto sul legamento interosseo), “esosenotarsici” (i dispositivi a “vite” per il “calcaneo-stop” 17 18 inseriti sulla porzione laterale del pa-vimento osseo calcaneare del seno del tarso, ad eccezio-ne di una proposta ad inserimento astragalico) 17. Oggi, tale distinzione appare superata a causa della sostanzia-le sovrapponibilità del meccanismo di azione all’interno del seno del tarso.

In Letteratura 19 i diversi dispositivi sono classificati in:• “axis altering device”: determinano la verticalizzazio-

ne dell’asse di Henke mediante l’inserimento di uno “spaziatore” tra il pavimento del seno del tarso ed il processo laterale dell’astragalo;

• “impact blocking devices”: limitano la traslazione an-teriore del processo laterale astragalico. Appartengo-no a questa categoria tutti i dispositivi a “vite” tipo “Calcaneo-Stop”, che pongono un arresto fisso allo spostamento rotatorio dell’astragalo;

• “self-locking wedge”: spaziatori endosenotarsici di “supporto” del collo astragalico, quindi tutte le endor-tesi ad “espansione”, generalmente a forma cilindrica o tronco-conica, inserite a pressione o con l’allarga-mento del dispositivo ad aumentare lo spazio tra pavi-mento senotarsico e collo astragalico.

Sono stati impiegati nel passato numerosi materiali, men-tre oggi si tende ad utilizzare il titanio o l’acciaio per le parti metalliche, l’acido poli-L-lattico per i dispositivi

riassorbibili  20, evitando se possibile il mantenimento di parti in polietilene, in quanto recante i problemi legati alla produzione di detriti e di fenomeni infiammatori ad essi correlati già evidenziati in altri distretti.

TECNICA CHIRURGICAFondamentale è l’indicazione al calcaneo-stop, che dovrà essere limitata a:• sindromi pronatorie secondarie: flogistiche, post-trau-

matiche, neurologiche, da lassità capsulo-legamentose patologiche (tesaurismosi, sindromi marfanoidi ecc.), nelle quali tuttavia, in alcuni casi, una semplice artro-risi SA è controindicata;

• i rari casi di “piattismi” idiopatici sintomatici in età evolutiva;

• sindromi pronatorie a rischio di patologia degenerati-va secondaria in età adulta.

L’intervento di calcaneo-stop è indicato elettivamente nell’età evolutiva, tra i 8-14 anni, in quei piedi che oggi noi definiamo funzionalmente e non solo morfologicamen-te piatti (Fig. 2). Durante tutto lo svolgimento del passo e soprattutto durante la fase attiva di contrazione muscola-re, l’articolazione SA resta prevalentemente in posizione di pronazione. È su questo elemento che l’intervento di calcaneo-stop può agire in maniera sicuramente impor-tante. L’endortesi di calcaneo-stop agisce, infatti, con un meccanismo attivo e passivo. Passivamente determina un arresto dell’eccessiva escursione dell’articolazione: la presenza di questo dispositivo “respinge” il calcagno cre-andone uno “stop” alla rotazione evitando l’eccesso di pronazione. Attivamente, invece, genera uno stimolo sui meccanocettori di cui il seno del tarso è ricchissimo, sia

FIGURA 2.Quadro pre-operatorio. RX piede sotto carico in proiezione latero-laterale che evidenzia la sovrapposizione radiografica del processo laterale dell’astragalo sul calcagno.

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L’ARTRORISI ENDOSENOTARSICA MEDIANTE “CALCANEO-STOP”

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di tipo propriocettivo che di tipo sensitivo e che integrano a livello midollare un riflesso di contrattura dei muscoli cavizzanti/supinatori che durante il passo determinano una correzione attiva dell’iperpronazione. Le principali controindicazioni sono rappresentate dai piattismi secon-dari, ad esempio a malattie neurologiche o da lassità capsulo-legamentosa patologica. In questi casi, infatti, non si verifica il corretto funzionamento delle componenti recettoriali muscolo-tendinee, vi è un deficit del meccani-smo neurologico e quindi il dispositivo non trasmette gli impulsi necessari alla correzione attiva della deformità. La maggior parte degli autori 21 sono concordi nel quanti-ficare i casi da sottoporre a trattamento chirurgico a non più del 2-5% di tutti i “piattismi” clinicamente osservabili in età evolutiva. Una serie di elementi clinici obiettivi possono essere ben correlati alla presenza di un piede funzionalmente piatto: • pronazione correggibile del calcagno; • età compresa tra 8-9 ed i 13 anni; • morfotipo del piede; • mancata correzione attiva della pronazione durante la

deambulazione ed in particolare nella deambulazione digitigrada;

• “great toe test” o “Jack test” (la mancata correzione della pronazione dorsiflettendo passivamente l’alluce correla con una prognosi peggiore);

• brevità del tendine di Achille (prognosi peggiore); mo-bilità della SA: in caso di rigidità va sospettata una contrattura muscolare, specie dei peronieri, o una si-nostosi tarsale;

• valutare sempre l’assetto rotazionale degli arti inferiori per escludere “piattismi” di “compenso” a situazioni sovra segmentarie (antiversione residua dei colli femo-rali, intratorsione tibiale ecc.): in queste situazioni è frequente l’autorisoluzione e la situazione del piede non è primariamente patologica.

In caso di sospetto clinico di una sindrome da eccesso di pronazione non compensata attivamente durante le fasi del passo, possono rendersi necessari alcuni esami stru-mentali: • esame podoscopico/podografico, per la valutazione

dell’appoggio statico sul terreno; • esame radiografico standard in ortostatismo (valuta-

zione “statica”, utile per le misurazioni radiografiche tradizionali e per l’eventuale evidenziazione di una “esuberanza” morfologica dello scafoide tarsale o presenza di ossa accessorie);

• esame baropodometrico computerizzato statico e/o di-namico/gait analysis, unici in grado di definire l’entità della anomala pronazione durante le fasi del passo;

• TC e RM, esami di secondo livello utili per l’approfon-dimento diagnostico.

L’approccio chirurgico è a livello dell’orifizio esterno del seno del tarso (Fig. 3), con una piccola incisione cutanea di 1,5-3 cm; il legamento anulare del tarso che sottende l’accesso al seno del tarso viene separato. Dovrà essere rimosso il meno possibile il tessuto connettivo lasso pre-sente nello spazio, poiché ricco di terminazioni sensitive e recettori propriocettivi che possono rivestire un ruolo importante nella correzione attiva dell’eccesso di prona-zione. A questo punto ogni dispositivo agisce creando un’opposizione all’eccessiva lateralizzazione e risalimen-to del pavimento calcaneare del seno del tarso con impat-to sul processo laterale dell’astragalo (Fig. 4 a, b). L’in-serzione dell’endortesi dovrà esercitare la correzione del retropiede e la sua azione andrà dosata evitando tuttavia un’ipercorrezione, fino a ottenere un grado di valgismo fisiologico, tra i 5° e la posizione neutra. La ricostruzione del legamento anulare del tarso e dei piani di accesso completano l’intervento. Due endortesi di calcaneo-stop prevedono un diverso posizionamento: l’endortesi retro-grada 5 che viene posizionata con metodica mini-invasiva e direzione disto-prossimale dalla superficie plantare del calcagno, senza aggressione diretta del seno del tarso, e viene condotta con apposita guida a compasso fino ad im-pattare il processo laterale dell’astragalo; l’endortesi con infissione a vite sull’astragalo 4 che è infissa con direzione disto-prossimale sul “tetto” del seno del tarso, agendo con il medesimo meccanismo e principio del “calcaneo-stop”. L’artrorisi della SA può essere associata a tempi chirurgici accessori come l’allungamento, in genere percutaneo, del tendine di Achille o il ritensionamento mediale del ten-dine tibiale posteriore. Le procedure accessorie descritte richiederanno il posizionamento di un gambaletto gessa-to per 5 settimane, di cui le prime 3 con astensione dal carico, prolungando il decorso post-operatorio. Rimosso il gambaletto gessato, o dall’immediato post-operatorio

FIGURA 3.Immagine intra-operatoria che documenta il posizionamento dell’endortesi a livello dell’orifizio esterno del seno del tarso.

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B. MAGNAN ET AL.

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in caso di artrorisi con endortesi “isolata”, il recupero funzionale potrà essere rapido con ripresa del carico e della mobilizzazione attiva e passiva delle articolazioni del complesso periastragalico. Il ritorno alle attività spor-tive è concesso attorno ai 3 mesi dall’intervento. In casi particolari, come nell’applicazione isolata dell’endortesi senza tempi accessori, la procedura può essere anche eseguita bilateralmente nella stessa seduta.

DISCUSSIONESi ritrovano in Letteratura numerose esperienze 22-26 che riportano studi clinici con risultati positivi variabili dall’80 al 96,4%, in termini di efficacia nella correzione della iperpronazione, scomparsa dei sintomi, qualora presenti preoperatoriamente e miglioramento della funzione. Le cause di eventuali complicanze possono essere riassunte in: errori di indicazione, errori di tecnica chirurgica, feno-meni irritativi locali e cedimento dei materiali.L’interesse è stato crescente per queste procedure, che hanno fornito buoni risultati sia da sole che in associazio-ne ad altri tempi chirurgici. L’esecuzione chirurgica si è dimostrata semplice con procedure che oggi sono consi-derate mini-invasive; il recupero funzionale è veloce nella maggior parte dei casi. Tuttavia tale chirurgia impone il rispetto delle corrette indicazioni ed una completa infor-mazione dei pazienti e dei genitori. Va segnalato oggi il potenziale vantaggio offerto dai materiali riassorbibili, anche se un impianto “perfetto” sembra ancora lungi dall’esistere. Sono inoltre necessari ulteriori studi con maggior livello di evidenza, specie nel valutare la reale efficacia nel modificare la storia naturale di questa patologia. Si è assistito negli anni ad un innalzamento dell’età dell’indicazione chirurgica dai 5-8 anni degli anni ’980, ai 9-13 anni di oggi. Ciò ha

portato alla diminuzione del numero delle indicazioni in età evolutiva, dimostrando con che tutta probabilità in molti dei piedi operati nel passato in età più precoci la storia naturale della deformità ed il superamento di molti dei fattori eziopatogenetici sovrasegmentari avrebbero portato alla risoluzione “spontanea” della deformità. In-fine, va notato come l’entusiasmo derivante da queste procedure ha comportato la tendenza attuale alla esten-sione delle indicazioni ad età superiori, adolescenziale ed adulta, ed a patologie sinora considerate una con-troindicazione come le sindromi pronatorie di origine neurologica, in alternativa ad altre procedure come l’in-tervento di Grice, l’osteotomia calcaneare di traslazione mediale o la artrodesi della SA. È evidente in questi casi il limite costituito dalla degenerazione artrosica even-tualmente presente associata o meno a dolore, dalla ri-gidità o, al contrario, dalla instabilità della deformità: questi sono elementi che potranno inevitabilmente deter-minare la riduzione della percentuale dei risultati positivi all’aumento dell’età e all’estensione delle indicazioni. In ogni caso, a circa 40 anni dalla proposta dell’artrorisi sottoastragalica con endortesi, oggi possiamo affermare che questa procedura soddisfa importanti requisiti quali sicurezza, efficacia, minima invasività, ridotti tempi chi-rurgici e standardizzazione. In particolare, l’endortesi di calcaneo-stop rappresenta una valida opzione chirur-gica e offre vantaggi non trascurabili. Sia essa impian-tata per via anterograda o retrograda, soddisfa requisiti importanti, quali stabilità, ridotta invasività a livello del seno del tarso, curva di apprendimento rapida e buon comportamento biomeccanico. Essa trova indicazione in numerose condizioni patologiche, ad esempio in caso

FIGURA 4B.Controllo RX post-operatorio (proiezione latero-laterale): l’endortesi va ad impattare il processo laterale dell’astragalo nella sua porzione anteriore, impedendo la rotazione sub-astragalica del calcagno.

FIGURA 4A.Controllo RX post-operatorio (proiezione dorso-plantare).

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L’ARTRORISI ENDOSENOTARSICA MEDIANTE “CALCANEO-STOP”

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di piede calcaneo-valgo, piede piatto evolutivo non mal-formativo, piattismo in via di strutturazione o piattismo scompensato. Riassumendo, l’intervento di calcaneo-stop presenta le se-guenti caratteristiche e vantaggi:• le viti si sono dimostrati più stabili rispetto ad altre

endortesi con maggior rischio di mobilizzazione (prevedono la presa ossea calcaneale o astragali-ca);

• si oppongono meccanicamente non solo all’eccesso di pronazione ma anche alla rotazione sub-astraga-lica del calcagno;

• non vi è interferenza col legamento interosseo;

• è altrettanto facile da impiantare rispetto alle viti a espansione;

• non vi sono parti in polietilene che si sono dimostrate potenzialmente dannose;

• non è prevista la rimozione;• la rimozione del dispositivo va eseguita esclusivamen-

te nei rari casi di intolleranza o rottura dello stesso;• il post operatorio prevede carico immediato senza im-

mobilizzazioni (apparecchio gessato o tutori) in caso di procedura di artrorisi isolata;

• il recupero funzionale è veloce nella maggior parte dei casi, con ripresa dell’attività sportiva ai 3 mesi dall’intervento.

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13 Voutey H. Manuel de chirurgie ortho-pédique et de reeducation du pied. Paris: Masson 1978.

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21 Pisani G. Capitolo 16 Sindrome pronato-ria, piede piatto, piede cavo in “Trattato di chirurgia del piede - patologia ortopedica”. Torino: Edizioni Minerva medica 2004.

22 Magnan B, et al. Il piede piatto: tecniche chirurgiche a confronto. Risultati del gruppo di studio sull’endortesi retrograda per il cal-caneo stop. Rivista Italiana di Ortopedia e Traumatologia Pediatrica 1997;XIII:211-6.

23 Bartolozzi P, Magnan B, Nogarin L, et al. Il Piede Piatto post-traumatico. Progressi in medicina e chirurgia del piede: n.2: “Il Piede Piatto”. Bologna: Aulo Gaggi 1993, pp. 237-249.

24 Magnan B, Bragantini A, Facci E, et al. L’intervento di calcaneo-stop a 20 anni dal-la sua ideazione. Abstract to Il piede piatto nel bambino e nell’adulto. Abano terme, 14 settembre 2001.

25 Viladot A. Surgical treatment of the child’s flatfoot. Clin Orthop 1992;283:34-8.

26 Myerson MS. Arthroreisis of the subtalar joint. Foot Ankle Clinics North America 2003;8:605-17.

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G. PUDDU, M. CIPOLLA, V. FRANCO, E. GIANNI’, G. CERULLO Clinica Valle Giulia, Roma

Indirizzo per la corrispondenza:Giancarlo PudduClinica Valle GiuliaVia de Notaris 2b, 00197 RomaE-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S20-S23S20

try’s antivarus closing wedge osteotomy turns upside down the method to get the correction, additioning the wedge medially instead of removing it laterally; in those cases of valgus deform-ity osteotomy should be performed on the femoral side with a lateral addition wedge. We present here our technique to perform the opening wedge osteotomy to accomplish better reproducible results than we have obtained with the classic closing wedge, with the less tech-nical difficulties as possible in performing the operation using a simple and easy system of dedicated instruments and plates. Their peculiarity is a spacer, a tooth as it was, available in many different sizes. The tooth enters into the osteotomy line holding the position and preventing a later collapse of the bone with the recurrence of the deformity. The thickness of the spacer must coincide with the desired angle of correction, calculated in ad-vance in the preoperative planning. Key words: knee unicompartmental arthritis, cartilage, instabili-ty, meniscal grafts, malalignement

INTRODUZIONEL’osteotomia tibiale di sottrazione esterna può essere gravata da alcune complicazioni specifiche: paresi (o paralisi) del nervo sciatico popliteo esterno (SPE) dovuta all’osteotomia del perone a qualsiasi livello venga esegui-ta  2 3, pseudoartrosi del perone nella sede dell’osteoto-mia, danno dei tessuti molli anterolaterali (muscolo tibiale anteriore) e dei vasi locali (arteria tibiale anteriore) con il rischio di una sindrome compartimentale 4. Inoltre qualora si rendesse necessaria la protesizzazione del ginocchio, l’osteotomia di sottrazione esterna riduce il “bone stock” disponibile e trasla lateralmente l’asse anatomico della tibia rendendo spesso necessaria una protesi dedicata 5.Riteniamo quindi che l’osteotomia valgizzante di addizio-ne mediale (Fig. 1) sia preferibile a quella di sottrazione laterale in quanto necessita di un solo taglio osteotomico anziché due come in quella di sottrazione; è molto preci-sa ed accurata riguardo all’entità di correzione grazie ad uno strumentario dedicato; non comporta una alterazione della metafisi tibiale tale da rendere difficoltoso un even-tuale intervento di artroprotesi. Inoltre non può provocare alcun danno allo SPE in quanto l’osteotomia di perone non è necessaria e nel contempo non danneggia né il muscolo né l’arteria tibiale anteriore. Infine anche l’osteo-tomia femorale distale di addizione esterna risulta conve-niente per gli stessi motivi su elencati rispetto a quella di sottrazione interna (Fig. 1).

TECNICA CHIRURGICAPer la correzione del ginocchio varo o valgo artrosico riteniamo l’osteotomia di addizione preferibile a quella di sottrazione in quanto tecnicamente più facilmente sem-plice, piu riproducibile  6 e perché rispetta esattamente il planning preoperatorio  7. Per tale motivo utilizziamo ormai da circa 20 anni placche tibiali e femorali dedi-

LE OSTEOTOMIE DEL GINOCCHIO. PERCHÉ UNA OSTEOTOMIA DI ADDIZIONE?Knee osteotomies. Why an open wedge osteotomy?

RiassuntoL’osteotomia è un classico intervento chirurgico utilizzato per trattare un’artrosi monocompartimentale iniziale o di media gravità, nel paziente giovane o di età media portatore di un ginocchio varo o valgo. Scopo dell’osteotomia è quello di ar-restare o ritardare l’evoluzione dell’artrosi e migliorarne la sin-tomatologia clinica. Attualmente le indicazioni alla osteotomia del ginocchio si sono ampliate sino ad associarla al trattamento della patologia condrale, ai trapianti meniscali ed alle ricostru-zioni capsulo-legamentose nelle gravi lassità croniche, potendo modificare in queste ultime anche l’inclinazione dei piatti tibiali (“slope”) secondo necessità. L’osteotomia di addizione offre al chirurgo ed al paziente al-cuni vantaggi rispetto alla classica osteotomia di sottrazione sec. Coventry 1 e permette inoltre di eseguire un intervento più facilmente riproducibile che rispetta con fedeltà il planning pre-operatorio. A tal fine utilizziamo uno strumentario costituito da placche tibiali e femorali dedicate, caratterizzate da un “dente” di vario spessore che una volta inserito nella rima osteotomica garantisce il rispetto del planning ed evita la perdita della cor-rezione stessa.Parole chiave: gonartrosi monocompartimentale, cartilagine, in-stabilità, trapianti meniscali, deviazioni assiali

SummaryOsteotomy is a classic operation for treatment of the uni-compar-timental osteoarthritis of the knee and also, with a more modern choice, to correct initial varus, or valgus deformity before slight chondral damages advance up to the progressive irreversible articular disease. More recently osteotomies can be performed in association with cartilage reconstruction and meniscal graft. Finally a smaller group is represented by those patients with an-terior, posterior and posterolateral ligament instability combined with a varus deformity; by changing the tibial slope and correct-ing the varus deformity the knee joint can be stabilized.The opening wedge osteotomy compared to the classic Coven-

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LE OSTEOTOMIE DEL GINOCCHIO. PERCHÉ UNA OSTEOTOMIA DI ADDIZIONE? S21

cate (Arthrex) 8-11, caratterizzate da un “dente” di vario spessore (da 5 a 20 mm con incrementi di 2,5 mm) che introdotto nella apertura osteotomica ne mantiene la cor-rezione decisa dal chirurgo impedendo nello stesso tem-po il possibile collasso dell’osso.Il problema del riempimento della sede del prelievo osseo con cresta iliaca, trapianto peraltro molto efficace per una rapida e sicura consolidazione dell’osteotomia, può oggi-giorno essere risolto con l’uso dell’osso sintetico, di ban-ca, o più semplicemente nelle osteotomie di minore entità senza riempire il gap osseo ma mobilizzando l’osso sia della metafisi tibiale prossimale che distale con una curette e applicando nel contempo del gel piastrinico (PRP) e/o dell’aspirato di midollo osseo.

OSTEOTOMIA TIBIALE VALGIZZANTE DI ADDIZIONEÈ consigliabile eseguire sempre una artroscopia come pri-mo atto chirurgico per confermare la diagnosi e trattare l’eventuale patologia meniscale e/o condrale. L’incisione chirurgica è anteromediale; i tendini della zampa d’oca vengono disinseriti, mentre il fascio superficiale del colla-terale mediale viene sezionato 1 cm. prossimalmente alla sua inserzione distale per poter applicare più facilmente la placca in sede mediale o postero-mediale.Si inserisce un filo di Steinmann, sotto controllo dell’ampli-ficatore di brillanza, con direzione obliqua medio-laterale e distale-prossimale da un punto situato 4 cm circa distal-

mente all’emirima articolare interna e diretto verso la testa del perone; l’osteotomia tibiale viene eseguita, dapprima con la sega oscillante e quindi con l’osteotomo su di una semplice guida parallela al piatto tibiale interno, lascian-do integra la corticale esterna. La linea di osteotomia vie-ne quindi aperta con un doppio osteotomo e mantenuta aperta con due cunei metallici fino alla introduzione della placca desiderata. Il nuovo asse meccanico viene con-trollato sotto amplificatore di brillanza. Se la correzione ottenuta è soddisfacente si sintetizza la placca e poi si riempie l’osteotomia a seconda delle abitudini del chirur-go (Figg. 2, 3).

OSTEOTOMIA FEMORALE VARIZZANTE DI ADDIZIONEEseguita la consueta artroscopia, si accede al terzo di-stale laterale di femore con una incisione longitudinale, si divarica il vasto laterale, e si proteggono le strutture vascolonervose posteriori con un divaricatore di Homan. Sotto amplificatore si passa un chiodo di Steinmann con direzione prossimale-distale e laterale-mediale da un pun-to situato 4-6 cm dall’interlinea laterale e verso l’epicondi-lo mediale. Quindi l’osteotomia femorale viene eseguita, aperta e sintetizzata con le stesse modalità della tibiale. Unica variante il modello della placca femorale conforma-ta a T rovesciata. Il difetto osseo viene preferibilmente col-mato con osso prelevato dalla cresta iliaca (Figg. 4, 5) 12.

POSSIBILI COMPLICAZIONI DELL’OSTEOTOMIA DI ADDIZIONEL’osteotomia di addizione è stata criticata di alcune com-plicazioni, prima fra tutte le possibili instabilità della sinte-

FIGURA 1.Schema di osteotomia di addizione tibiale e femorale.

FIGURA 2.Radiografia preoperatoria di ginocchio varo.

FIGURA 3.Radiografia postoperatoria di osteotomia tibiale di addizione interna.

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G. PUDDU ET AL.

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si e secondariamente, la possibile la rottura della placca e/o delle viti. Effettivamente nell’eseguire l’osteotomia è necessario prestare molta attenzione per non interrompe-re completamente la corticale esterna nella tibia e interna nel femore. A tal fine si possono utlizzare degli scalpelli centimetrati, e bisogna arrestare l’osteotomia a circa un cm dalla corticale controlaterale onde lasciare un’ade-guata “cerniera” biologica. Nel caso in cui la corticale venisse comunque interrotta è consigliato ricostruire la cerniera con una piccolo placca retta a due viti (Arthrex). Per evitare la la possibile precoce rottura della placca e/o delle viti, prima della sintesi bisogna accertarsi che il dente spaziatore alloggiato all’interno dell’osteotomia sia bene in contatto con le superfici ossee prossimale e distale. Ciò si ottiene forzando il ginocchio in varo nelle osteotomie tibiali ed in valgo nelle femorali, onde evitare la permanenza di spazio morto tra spaziatore ed osso. Un’altra critica che viene mossa alla osteotomia tibiale in specie dai sostenitori della tecnica di sottrazione laterale è quella di modificare l’inclinazione dei piatti tibiali in maniera sfavorevole per il paziente portatore di lassità

anteriore con lesione inveterata del legamento crociato anteriore. Tale osservazione risponde a verità se la plac-ca viene posta in sede antero-mediale, ma al contrario l’inclinazione (“slope”) dei piatti tibiali viene corretta in maniera ottimale se la placca è correttamente posizionata in sede postero-mediale!Una ultima complicazione, peraltro in comune con le oste-otomie di sottrazione tibiale, è rappresentata dall’effetti-vo abbassamento della rotula 13-15 dovuta alla fibrosi del tessuto adiposo che si trova tra tendine rotuleo e tibia; in tal caso le aderenze che si formano “accorciano” fun-zionalmente il tendine stesso trazionando distalmente la rotula. Pertanto qualora la rotula sia già pre-operatoria-mente “bassa” onde non aggravare il problema, si dovrà associare all’osteotomia antivaro una osteotomia della tuberosità tibiale che dovrà essere riposizionata più pros-simalmente e fissata con due viti.

CONCLUSIONI L’osteotomia di addizione mediale valgizzante di tibia e quella laterale varizzante di femore permettono di ottene-re una precisa correzione della deformità del ginocchio basandosi su di un accurato planning preoperatorio, una tecnica precisa e riproducibile, uno strumentario dedicato ed un sistema di mezzi di sintesi particolarmente adatto al mantenimento della correzione nel tempo, senza oltretutto compromettere la possibilità di una futura protesizzazione del ginocchio 16. È indicata soprattutto nei pazienti attivi di giovane o media età con buona compagine ossea, in particolare nei casi derivanti da pregresse meniscectomie anche associate a lassità capsulo-legamentose. In questo senso l’osteotomia di addizione può accompagnarsi o sostituirsi a trattamenti artroscopici ricostruttivi della car-tilagine articolare, plastiche capsulo-legamentose e tra-pianti meniscali e porsi in alternativa alla protesi mono-compartimentale. La relativamente bassa percentuale di complicazioni e il prolungato risultato correttivo nel tempo sopravanzano il non trascurabile sacrificio del periodo di astensione dal carico richiesto al paziente (30-45 gg nelle osteotomie tibiali, 45-60 gg nelle femorali). Inoltre la rimozione dei mezzi di sintesi, qualora neces-saria, non presenta alcun tipo di problema tecnico. Infine sottolineiamo la necessità di iniziare sempre l’intervento con un’artroscopia allo scopo di confermare e completare la diagnosi, escludere la compromissione del comparti-mento contro laterale e trattare la patologia associata.

FIGURA 4.Radiografia preoperatoria di ginocchio valgo.

FIGURA 5.Radiografia postoperatoria di osteotomia femorale distale di addizione esterna.

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LE OSTEOTOMIE DEL GINOCCHIO. PERCHÉ UNA OSTEOTOMIA DI ADDIZIONE? S23

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M.A. CATAGNI, L. LOVISETTI, F. GUERRESCHICentro Ilizarov, Ospedale Mangioni, Lecco

Indirizzo per la corrispondenza:M.A. CatagniCentro Ilizarov, Ospedale Mangionivia C. Cattaneo 42/H, 23900 LeccoE-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S24-S30S24

La tecnica dell’allungamento inizia con una interruzione del segmento osseo che, sottoposto direttamente a tensione in distrazione mediante osteosintesi transossea avvia un pro-cesso di riparazione che evolve in riproduzione cellulare a indirizzo osteogenetico. L’aumento in lunghezza dell’asse scheletrico mette in tensione indirettamente anche le parti molli, innescando aspetti di istogenesi nei nervi, nei vasi, nei muscoli, negli elementi a derivazione connettivale, con immagini cellulari che rievocano le tappe dell’ontogenesi. La progressione dell’istogenesi è condizionata da fattori meccanici (stabilità in sede di osteotomia, entità e ritmo dell’allungamento) e da fattori biologici (rispetto dell’inte-grità degli elementi osteogenetici e della vascolarizzazio-ne). La stabilità meccanica del focolaio di osteotomia è la premessa per una ottimale formazione di tessuto osseo 2-4 6.Gli esperimenti eseguiti presso l’istituto di KURGAN hanno dimostrato che montaggi a 4 stadi (due anelli prossimali e due anelli distali al focolaio di interruzione scheletrica) danno le maggiori garanzie di stabilità e realizzano le migliori condizioni di osteogenesi; montaggi a due stadi realizzano stabilità minori: il processo di moltiplicazione cellulare è presente ma meno vivace 2 6.L’entità e il ritmo di distrazione sono altri fattori mecca-nici influenti sull’istogenesi distrazionale. La sperimenta-zione ha evidenziato che la progressione di 0,25 mm per 4 volte nelle 24 h è l’entità di crescita maggiormente compatibile con una buona formazione ossea nei bam-bini, mentre nell’adulto il ritmo di 0,75 mm al giorno appare migliore. Allungamenti di 1,5-2 mm al giorno, causano stiramento dei vasi neoformati cui consegue trombizzazione e ischemia del rigenerato; allungamenti di 0,5 mm. possono invece esitare in una consolidazio-ne precoce 2 6.Ovviamente ogni individuo, per età o personalizzazione biologica, può deviare dai suddetti parametri che propon-gono solo dei valori standard (Fig.1).Essendo la crescita un fenomeno continuo, tale dovrebbe essere anche la progressione dell’allungamento.Si cerca quindi di distribuire uniformemente durante il giorno questi allungamenti con un ritmo di 0,25 mm ogni 6 o 8 ore.L’integrità degli elementi osteogenetici (midollo osseo, pe-riostio) e della vascolarizzazione è assicurata dalla tecnica e dalla sede di discontinuazione ossea.La tecnica è ravvisabile nella osteotomia a cielo chiuso a bassa energia con rispetto del periostio ovvero una sezio-ne a cielo coperto della continuità ossea senza deperiostiz-zazione o dislocazione dei frammenti.La sede elettiva metafisaria consente alla osteotomia di ca-dere a livello di una zona più fertile pur consapevoli che anche la sede diafisaria, permette una valida evoluzione di processi rigenerativi in distrazione 2 6.In conclusione l’osteogenesi si sostanzia nella interazio-

ALLUNGAMENTO DEGLI ARTI CON METODICA DI ILIZAROVPREMESSE TEORICHE (DA ANGELO VILLA 1985)AGGIORNAMENTO ALL’ANNO 2014Ilizarov method for limb lengthening: basic theory, indication and complicationsUpgrade from 1985 to 2014

RiassuntoNella metodica di Ilizarov è stata suggerita la possibilità di produr-re una istogenesi sottoponendo I tessuti a distrazione. Nel lavoro qui pubblicato si ripercorrono le prime esperienza di allungamento osseo, le finalità e le complicazioni, ripercorrendo il percorso degli ultimi 30 anni, partendo dalle premesse teoriche e mostrando le evo-luzioni che hanno permesso di migliorare la tecnica, fermo restando che la rigenerazione ossea sia una legge biologica naturale.Parole chiave: allungamento, rigenerazione ossea, fissatori esterni, ilizarov

SummaryIn the Ilizarov method has been suggested the possibility of pro-ducing a new histogenesis following tissues distraction:In the work published here will retrace the first experience of bone lengthening, the purpose and complicationsfollowing the path of the past 30 years, starting from the theoretical back-ground and showing the changes that have improved the tech-nique, except that bone regeneration is a natural biological law.Key words: lengthening, new bone formation, external fixation, ilizarov

REVISIONE E AGGIORNAMENTOLe metodiche di Ilizarov nell’allungamento degli arti, sono fondate sulla possibilità di evocare una nuova istogenesi in tessuti già differenziati 1-6.Torna utile, ai fini di una corretta applicazione della meto-dica, ricordare i dati sperimentali riguardanti l’importan-za e il ruolo dei fattori meccanici e biologici nella rigene-razione guidata dei tessuti.

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ALLUNGAMENTO DEGLI ARTI CON METODICA DI ILIZAROV.PREMESSE TEORICHE S25

ne tra fattori meccanici e biologici; l’ignoranza limitata anche di uno solo di essi penalizza sensibilmente il pro-cesso.

INDICAZIONI ALL’ALLUNGAMENTOL’indicazione è da noi posta per dismetrie di almeno 3 cm. per l’arto inferiore e di 5 cm. per l’omero.Preferibilmente si deve ottenere il compenso chirurgico del-la dismetria nel giovane in prossimità del termine di cresci-ta quando la correzione risulta definitiva.Nel soggetto in accrescimento tuttavia, se la dismetria è elevata e il compenso ortopedico difficoltoso, conviene procedere all’allungamento e terminare con una eventuale seconda tappa in età prossima alla conclusione della cre-scita se non alla fine della stessa.Le predizioni di crescita si avvalgono di tabelle specifiche (Metodo Multiplayer) 10.Nella dismetria congenita si ipotizza una crescita in percentuale rispetto alla lunghezza ossea. L’allunga-mento dovrà quindi essere effettuato sulla base della previsione di dismetria al termine della crescita stessa. Dobbiamo tenere presente che l’osteotomia di allun-gamento modifica comunque la velocità di crescita come avviene in caso di frattura e quindi agisce come uno stimolo mentre, allo stesso tempo, le tensioni che si trasmettono alle cartilagini metafisarie durante l’al-

lungamento (forze di compressione sulla cartilagine) possono agire in senso inibitorio sulla crescita stes-sa 11-13. Il compenso inoltre della dismetria ripristina normali sti-moli di carico sull’osso influendo in questo caso in senso positivo sulla crescita stessa.Se la menomazione è conseguenza di una epifisiodesi, si allunga in eccesso, stimando l’apporto alla crescita ineren-te alla cartilagine sterilizzata.

COMPLICANZELa sede e la direzione di infissione degli elementi di presa deve essere ben codificata al fine di evitare lesioni acci-dentali degli assi vascolo-nervosi.Lo scorrimento teno muscolare deve essere rispettato evitando la transfissione delle masse muscolari. La cute deve essere immagazzinata tra gli anelli nell’allungamen-to; deve essere raccolta nelle concavità e distesa sulle convessità nella correzione di concomitanti deviazioni assiali; in particolare non sarà mai messa sotto tensione immediata.Nonostante la corretta applicazione della metodica, spe-cie negli allungamenti di una certa entità (40-50% della lunghezza iniziale), possono verificarsi complicanze che si manifestano nel periodo di allungamento, di fissazione o dopo la rimozione dell’apparato 8.

FIGURA 1.La rigenerazione ossea: immagine istologica di rigenerato normale (a sinistra) e di rigenerato ipotrofico (immagini radiografica ed istologica). Originale da G.A. Ilizarov.

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Si propone la seguente schematizzazione:COMPLICANZE DURANTE L’ALLUNGAMENTO1) di ordine meccanico 1.1) difetti di assialità 1.2) sub lussazioni articolari 1.3) compressioni articolari 1.4) contratture2) di ordine biologico 2.1) alterazione del rigenerato 2.2) assenza del rigenerato 2.3) consolidazione precoce 2.4) infezioni 2.5) Complicanze neurologicheCOMPLICANZE NEL PERIODO DI FISSAZIONE1) di ordine meccanico 1.1) mobilizzazione dell’apparato (instabilità e invec-

chiamento del montaggio)2) di ordine biologico 2.1) ritardo di ristrutturazione del rigenerato.COMPLICANZE DOPO RIMOZIONE DELL’APPARATO1) cedimento o fratture del rigenerato2) persistenza di contratture, sublussazioni, rigidità.

Esaminiamo punto per punto le varie complicanze.

Durante l’allungamentoGeneralmente Il numero di complicanze aumenta propor-zionalmente alla lunghezza della distrazione 1 7.1.1) I difetti di assialità sono il valgo e la procurvatura nell’allungamento di gamba mentre nel femore; con le configurazioni attuali, le deformità sono più rare.Le deviazioni sul piano frontale sono giudicabili solo su teleradiografia in posizione ortostatica tracciando l’asse di carico dal centro della testa femorale al punto di mez-zo del ginocchio e della tibio tarsica.Radiografie limitate ad un solo segmento possono ma-scherare deviazione ad axim. Il procurvato si valuta sul-la proiezione laterale comprensiva del ginocchio e della gamba.Il valgo nella gamba è riconducibile alla prevalenza del-le formazioni anatomiche laterali (perone, muscolatura anterolaterale, membrana interossea) che sfuggono alla distrazione.La procurvatura è attribuibile all’azione combinata del tri-cipite surale e del quadricipite-tendine rotuleo che fanno ruotare anteriormente la metafisi prossimale e alla più ra-pida rigenerazione della corticale posteriore.1.2) Le contratture sono la risultante di una maggior lun-ghezza dell’asse scheletrico rispetto alle parti molli che dapprima sfruttano l’escursione fisiologica delle articola-zioni (equino del piede, flessione del ginocchio); la pro-gressione della contrattura può causare sub lussazione delle articolazioni del piede.

Il retropiede può deviare in varo o in valgo.1.3) Le contratture mettono sotto compressione continua le articolazioni che vanno incontro a deterioramento delle cartilagini cui consegue rigidità in estensione del ginocchio nell’allungamento del femore; nella gamba le articolazioni più colpite sono la sottoastragalica e la tibio tarsica.1.4) La discordanza in lunghezza tra osso e parti molli è conseguente al fatto che il primo, ancorato all’apparato, risponde in solido all’allungamento; le parti molli entrano in distrazione secondariamente; in carenza di adeguata kinesi terapia insorgono le contratture.Ne consegue che la kinesi terapia, realizzata con continu-ità e intensità, diventa stimolo idoneo a “caricare” le parti molli ai fini dell’istognesi distrazionale, esercitando su di essa la stessa azione che l’apparato ha sull’osso.Le contratture sono ricollegabili anche alla qualità del soggetto e alla sua reattività al dolore oltre alla capacità di conservare l’equilibrio psichico per tutta la durata del trattamento. L’eccessiva reattività al dolore conduce alla pigrizia funzionale, all’instaurarsi delle contratture e all’au-mento del dolore.Si instaura un circolo vizioso che può sfociare raramente nell’algodistrofia di Sudeck 7.

FIGURA 2.Aspetto radiografico di rigenerato normale, ipertrofico ed atrofico.

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ALLUNGAMENTO DEGLI ARTI CON METODICA DI ILIZAROV.PREMESSE TEORICHE S27

2.1) L’aspetto radiografico del rigenerato è caratteristico (Fig. 2): immagini di trabecole ossee parallele, longitudina-li, a densità crescente dalla periferia al centro che è occu-pato da area di radiotrasparente (zona di accrescimento) corrispondente a matrice organica preossea.La presenza di chiazze radio opache alla periferia o la ra-refazione delle trabecole testimonia una scarsa formazione di rigenerato.La trasformazione in tessuto fibroso consegue a una distra-zione eccessiva dei vasi neoformati che trombizzano.2.2) La tenuità o l’assenza del rigenerato è determinata o da una instabilità del montaggio o da una inadeguata risposta biologica degli elementi osteogenetici per condi-zioni locali preesistenti o incongrua osteotomia.Si ricorda che la stabilità dei montaggi è in proporzione diretta a:• diametro di fili e fiches;• tensione dei fili;• numero degli elementi di stabilità;• angolo di incrocio dei fili;• dislocazione dei fili lungo l’asse trasverso del segmen-

to scheletrico;• numero dei moduli di base (anelli più fili in tensione e

fiches);• la stabilità è in proporzione inversa al diametro degli

anelli.2.3) La consolidazione precoce è determinata da una in-sufficiente entità di distrazione in rapporto alla risposta ri-generativa dei tessuti La consolidazione precoce del perone è imputabile alla sua possibilità di sottrarsi alla distrazione se non è fissato prossimalmente e distalmente all’apparato.Nell’eventualità di consolidazione precoce si impone nuo-vamente la osteotomia 2.4) Le infezioni sono relativamente frequenti 7 8 14 sui fili a livello cutaneo con remota possibilità di propagazione all’osso; in questa evenienza, appare sulla radiografia un’area di osteolisi tondeggiante che contorna il filo. L’infe-zione dei tramiti delle fiches è meno frequente per la mag-giore stabilità delle stesse.Favorisce l’infezione l’ustione-escoriazione della cute lega-ta a elevata velocità di rotazione del trapano, l’ischemia circoscritta se la cute è in tensione, una medicazione non obliterante lo spazio tra cute e cerchi in modo da impedire lo scorrimento- attrito della pelle sul filo durante la deambu-lazione, il non rispetto delle norme di asepsi.La suppurazione del rigenerato è eccezionale e risolvibile mediante evacuazione del pus a drenaggio.2.5) La prevalenza di lesioni neurologiche periferiche è stata valutata nei vari studi variare dal 0,7 al 30% 14.L’allungamento di gamba a due livelli sembra avere una maggiore incidenza di complicanze neurologiche 9.

COMPLICANZE NEL PERIODO DI FISSAZIONE1.1) Apparati in sede da mesi, cessata la tensione di distra-zione che concorre a stabilizzare il montaggio, possono mobilizzarsi e causare decubito degli anelli della cute.Nel periodo di fissazione cessa l’incremento di discordan-za tra lunghezza dell’osso e parti molli per cui le contrattu-re acquistano le maggiori possibilità di risoluzione con la Kinesi terapia.La persistenza di rigidità articolare alla caviglia e al retro-piede è segno di deterioramento articolare.1.2) Nella maggioranza dei casi si assiste ad una minera-lizzazione progressiva del rigenerato fino alla corticalizza-zione (Fig. 3).L’evoluzione è più rapida sulla faccia posteriore ove il pe-riostio è rimasto indenne; nell’adulto e negli arti poliomeli-tici si osserva con relativa frequenza, il persistere a lungo di un “gap” anteriore.In un caso di ritardo di consolidazione, un effetto benefi-co può essere dato da un rapido accorciamento seguito da allungamento mentre nei casi peggiori un innesto di osso spugnoso o di fattori di crescita può portare al riem-pimento del difetto osseo.Se le condizioni di stabilità del montaggio non permango-no favorevoli per tutto il periodo di fissazione può verificar-si cedimento del rigenerato od evoluzione in pseudoartrosi.Progredendo la mineralizzazione del rigenerato, il seg-mento osseo acquisisce capacità autonoma di carico per cui l’apparato impedisce la completa informazione di ca-rico sull’osso.Al fine di mantenere lo stimolo funzionale si detende al-ternatamente per 24 ore ogni giunto (astina telescopica + astina filettata) lasciando lasco l’innesto tra i due elementi.Il giudizio sul momento di rimozione dell’apparato si basa su criteri clinici e radiologici.Detese le giunzioni si saggia manualmente la solidità del rigenerato; radiograficamente è opportuno attendere la corticalizzazione, vale a dire l’inspessimento della perife-ria del rigenerato.

COMPLICANZE DOPO RIMOZIONE DELL’APPARATO1) Incurvamenti sotto carico del rigenerato e fratture

sono da temersi se l’apparato è stato rimosso preco-cemente 7 8 14.

Nel caso di incertezza sulle qualità meccaniche sull’osso non formato è buona regola l’uso di bastoni canadesi o la tutela temporanea con gesso.

2) Le complicanze articolari non risolte (sublussazione-rigidità) possono anche peggiorare e si stabilizzano dopo la rimozione dell’apparato.

CONCLUSIONILe motivazioni che depongono a favore della metodica di ILIZAROV nell’allungamento delle gambe sono le seguenti:

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• riduzione al minimo degli atti chirurgici cruenti;• mantenimento della funzione dell’arto;• evocazione di processi ostogenetici naturali con pos-

sibilità di guidare e modellare il rigenerato;• neoformazione di osso sovrapponibile nell’ambito ana-

tomico di quello di partenza;• istogenesi delle parti molli;• possibilità di raggiungere percentuali di allungamento

più elevate che con altri metodi;• tolleranza dell’apparato anche per lunghi periodi di

tempo.La pratica realizzazione delle metodiche di osteosinte-si transossea per allungamento degli arti non è agevole; premessa la conoscenza della teoria, solo l’esperienza

consente di acquisire una progressiva confidenza e di do-minare la tecnica.La densità e la varietà delle complicanze sembrano espri-mere la ribellione della natura ad un atto di violenza.Si impone la stretta sorveglianza clinica e radiologica del-la progressione dell’allungamento al fine di sorprendere le eventuali complicanze al loro apparire e risolverle sfruttan-do la flessibilità dell’apparato e della metodica.Non si deve perseguire a tutti i costi il traguardo della ri-soluzione in una sola tappa delle grandi dismetrie; la va-lutazione critica dell’entità delle contratture e delle rigidità articolari irrisolvibili con Kinesi-terapia e tenotomie, concre-tizzano indicazioni idonee a sospendere l’allungamento e rinviare il risultato globale ad un secondo intervento.

FIGURA 3.Allungamento di femore e gamba in femore corto congenito: aspetti clinico e radiografico.

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ALLUNGAMENTO DEGLI ARTI CON METODICA DI ILIZAROV.PREMESSE TEORICHE S29

Chi applica la metodica deve rinunciare alla soddisfazione del risultato immediato; l’intervento è solo un prologo che apre la scena ad un lavoro continuo, diligente, a volte de-faticante che vede il chirurgo e il binomio malato-parenti procedere sotto braccio sino alla conclusione.Allo stato attuale dell’arte il fissatore circolare è cambia-to drammaticamente rispetto a quello che abbiamo usato nei primi anni 80, sia nei materiali che nella conformazio-ne del tipo di connessione fissatore-osso.Già nel 1983, si è intuito che era necessario incremen-tare la stabilità delle costruzioni esterne incrementando il numero di anelli e cercando di aumentare la leva di pre-sa sull’osso con migliore tolleranza da parte dei pazien-

ti: maggiore stabilità significa minore mobilità e minor dolore e incremento della funzione. Ma pur con questo accorgimento ancora si osservavano disturbi dolorosi e notevoli deviazioni angolari di segmenti ossei così che è stata introdotta una fissazione più stabile con fiches, mutuando tale fissazione da chi usava i fissatori monola-terali, con il vantaggio di poter infiggere gli elementi di presa in diverse direzioni, con incremento ulteriore della tenuta sull’osso (configurazione multi direzionale (Fig. 4).Per i materiali si è passati dagli anelli metallici a quelli di fibra di carbonio (radiotrasparenti) a quelli di alluminio scomponibili così da avere una migliore personalizzazio-ne dei montaggi.

FIGURA 4.Sezioni anatomiche trasversali dei livelli di fissazione (da sinistra: gamba, femore, omero ed avambraccio). Da: M.A. Catagni, Atlas for the insertion of transosseous wires and half pins) 5.

FIGURA 5.Correzione di grave deformità post traumatica in valgo del femore distale con fissatore esapodalico Taylor Spatial Frame.

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Anche le fiches sono state migliorate introducendo il tita-nio e la copertura di idossiapatite ove l’osteo integrazio-ne è drammaticamente migliorata.Con le configurazioni attuali del fissatore circolare, le difficoltà all’allungamento sono sicuramente diminuite sia per i minori rischi di danni prodotti dai fili (sindromi compartimentali subdole) sia per la possibilità di ottenere correzioni precise delle deviazioni angolari che spesso accompagnano le dismetrie.L’introduzione poi dei fissatori circolari esapodalici (Fig. 5) permette una applicazione del fissatore estremamente semplice (rispettando poche regole di orientamento) e il problema delle deviazioni angolari e rotatorie viene risol-to con una semplice riprogrammazione del software.

Certo per un semplice allungamento come può succedere in un femore corto, il fissatore monolaterale appare sug-gestivamente più semplice, ma chi conosce bene l’orien-tamento anatomico fisiologico, sa che non è facile correg-gere le deviazioni angolari con un fissatore monolaterale. Per questa ragione anche noi che usiamo il fissatore circo-lare, abbiamo cercato di fondere i vantaggi del monola-terale con il circolare, introducendo nuove configurazioni del circolare che potesse essere nello stesso tempo stabile (configurazione delle fiches a delta) ma potesse essere dinamizzato per eliminare quelle parti (anelli) scomode per il paziente (Fig. 6).

FIGURA 6.Fissatore circolare di femore convertito a fissatore monolaterale prima del termine del trattamento.

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E. CASTAMAN, C. SCIALABBA, A. STASI*U.O.C. di Ortopedia e Traumatologia, U.L.S.S. 5, Ospedale di Montecchio Maggiore (VI); * Scuola di Specializzazione in Ortopedia e Traumatologia, Università degli Studi di Trieste (TS)

Indirizzo per la corrispondenza:E. CastamanU.O.C. di Ortopedia e Traumatologia, U.L.S.S. 5, Ospedale di Montecchio Maggiore (VI)E-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S31-S34 S31

important bending moment in order to high distance between support and bone imposed by extrategumental implant.Bending moment expresses maximally in unilateral devices, where because of a different reaction in neutralization capacity longitudinal and transverse forces change value in relation to there direction and speed with distinct bioelectrical and trophic effects: longitudinal stresses tend to stimulate osteogenesis, trans-verse ones damage it.Clinically, external fixation involves iatrogenic lesions of the soft parts in which gripping elements enter and remain; it often causes various complications: infections, anatomical flogistic frictrions, pin loosening.Therefore, drilling minimization number needs, with a prefer-ential option for unicompartmental settings than ring ones; this choise includes, other risks, notably osteogenic disorders for the structural difficulties of these assemblages in a sufficient modera-tion of negative forces.In a cost/benefit evaluation adoption of external fixators pre-tends proportioning in a necessary and sufficient way invasive-ness of mechanical assemblies to the target: In according unilat-eral implants have high space.Key words: axial fixators-biomechanics and clinical

La fissazione esterna è sintesi ossea percutanea mediante apparecchi permanentemente accessibili con cui domina-re la giustapposizione scheletrica e produrre osteogenesi meccanodipendente. Tale potenzialità è subordinata ad una corretta gestione di tutte le forze d’impianto.In questo senso necessitano tre prerogative tecniche:• la registrabilità, cioè la manovrabilità sui monconi

ossei, con parametri di semplicità, potenza e preci-sione;

• la stabilità, cioè la capacità di conservare nel tempo il rapporto interosseo tramite una tenuta durevole degli elementi di presa e dell’apparato portante;

• l’osteoproduttività, cioè la capacità di indurre proces-si ossificativi promuovendo impulsi qualitativamente e quantitativamente vantaggiosi all’istogenesi del singo-lo caso.

Gli esoscheletrici si possono allestire in modo multiforme: ciò permette di ottenere requisiti differenziabili sia nel senso della portanza che del regime di forze in azione.È quindi un metodo personalizzabile che può adattarsi a variabili di frattura od osteotomia, sede focale, peso corporeo, comportamenti del paziente, ma soprattutto svolgervi un ruolo osteoproduttivo mirato, con gli apporti fisici specificamente più congeniali: assolve versatilmente secondo il bisogno funzioni di neutralizzazione, compres-sione, distrazione, deformazione ciclica o miste.I montaggi di fissazione esterna sono tipiche strutture a sbalzo, con il segmento osseo stabilizzato da piloni disassati; in questi ambiti, fattore basilare è il momento flettente, cioè la forza espressa a livello del focolaio in base al braccio di leva costituito dalla lunghezza utile degli elementi di presa: ciò vale sia che si applichi per

DEFORMITÀ DEGLI ARTI INFERIORI: IL FISSATORE ASSIALEDeformity of legs: the axial fixator

RiassuntoLa fissazione esterna è sintesi ossea percutanea mediante ap-parecchi permanentemente accessibili con cui dominare la gi-ustapposizione scheletrica e l’osteogenesi meccanodipendente. Gli esoscheletrici si possono allestire in modo multiforme con prestazioni differenziabili; sono comunque strutture a sbalzo, in cui il segmento osseo è trattenuto da piloni disassati; ciò de-termina un importante momento flettente per l’elevata distanza fra supporto e monconi ossei pretesa dal posizionamento extrat-egumentario.il Momento Flettente ha massima espressività nei montaggi mon-olaterali, in cui per una diversità nelle reazioni d’ammortamento forze longitudinali e trasversali cambiano valenza in relazione a direzione e velocità: esitandone differenti effetti bioelettrici e trofici: le sollecitazioni longitudinali tendono a stimolare l’osteoproduttività, le sollecitazioni trasversali a danneggiarla. Clinicamente, la fissazione esterna espone a lesioni iatrogene le parti molli in cui gli elementi di presa vengono introdotti e permangono: si producono spesso sequele infettive, da confri-cazione anatomica, da precarietà della tenuta.La minimizzazione delle perforazioni tegumentarie è quindi d’obbligo, con una scelta preferenziale di impostazioni mono-compartimentali rispetto a quelle ad anello; quest’opzione es-pone però ad altri rischi, nella fattispecie di disturbi osteoripara-tivi per la strutturale difficoltà di questi assemblaggi a calmierare convenientemente le forze negative.In una logica costo/beneficio l’adozione della fissazione ester-na pretende che si proporzioni in modo strettamente necessario e sufficiente l’invasività dei montaggi all’obbiettivo meccanico. In questo, gli impianti monolaterali hanno ampio spazio.Parole chiave: fissatori assiali- biomeccanica e clinica

SummaryExternal fixation is percutaneous osteosynthesis permanently disposable for dominate skeletal juxtaposition and produce me-chanical osteogenesis.The exoskeletons may be multiform with differentiable perfor-mance; however there are offset structures, in which fractures or osteotomies are restrained by misaligned pylons; it arises an

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E. CASTAMAN ET AL.

S32

attività funzionali sull’osso e venga contrastata dal telaio esterno sia che venga emanata dall’esoscheletro stesso. Per tale principio, a parità di carichi l’assetto segmentario subisce una flessione tanto maggiore quanto più lontano è il fulcro. Qualora il punto d’applicazione coincida con l’asse portante dell’impianto, il braccio di leva è azzerato e l’effetto flettente si annulla: si determina il cosiddetto carico di punta, caratteristico delle sintesi centrocanalari.Il momento flettente caratterizza invece quelle parassiali, in cui l’unità di sostegno lavora in parallelo a quella so-stenuta; assume significato peculiare in fissazione ester-na proprio per l’elevata distanza fra supporto e monconi ossei pretesa dal posizionamento extrategumentario, con un braccio di leva prolungato che massimalizza le conse-guenze vettoriali.Per tale rilevanza, nei fissatori esterni il momento flet-tente è discriminante fra successo e fallimento: tanto è potenzialmente prezioso nello sviluppare favorevolissi-me tensioni quanto deleterio nel caso di un loro fuori controllo.In effetti, sotto carichi uguali la deformabilità del sistema varia largamente a seconda di come è orientato nei loro riguardi: la direzione con cui agiscono modifica in modo sostanziale accelerazione ed entità dei movimenti evocati e quindi la relativa valenza induttiva. In questa varietà, i riverberi possono essere contrastanti, alternatamente fau-tori di incentivazioni o cadute osteoproduttive in relazione alla traiettoria d’interferenza. La tolleranza alle tensioni fisiche del mesenchima osteopoietico ha permesso di co-niare l’assioma di riferimento per cui ai fini consolidativi “le oscillazioni rendono, le succussioni costano”: ciò per-mette di distinguere i montaggi in affidabili od a rischio in base alla loro capacità di coordinare la congerie di forze così da rallentarne e ridurne gli effetti deformanti, in un giusto equilibrio fra subirle ed annullarle.Questa modulazione è di dosaggio difficile con possibili sconvenienze per eccesso o difetto: l’esagerazione del movimento intrinseco disturba l’osteogenesi, l’insufficien-za lo inertizza ed il compromesso è spesso aleatorio.Paradigmatico ed estremo è quanto avviene nei montag-gi monoplanari, soprattutto monolaterali: sono quelli che per frequenza d’uso hanno significato clinico nettamente predominante. Al loro interno, decisivo è il comportamen-to elastico del fondamentale complesso denominabile parallelogramma di presa costituito ai due poli dall’osso stabilizzato, da una coppia di viti, dalla barra portante a cui sono immorsettate. Su di esso le forze applicate, pur con differenze quantitative collegate a variabili quali la distanza osso-morsetto, l’interasse fra gli inserti, la loro inclinazione, svolgono un’influenza qualitativamente di-versa per come si dispongono.Incastellature per ossa lunghe, gli apparati fruibili sono quasi tutti parallelogrammi o cilindri con l’altezza molto

superiore a larghezza o diametro: il loro asse principale è in lunghezza.Forze coassiali, longitudinali, sono contrastate o trasmes-se dalla coppia di elementi di presa in modo sinergico, con uno dei due in azione di spinta, l’altro di trazione; questa complementarietà ammortizza il momento fletten-te, attenuandone l’urto: fra i monconi ossei si producono molleggi trattenuti e di piccola entità, detti effetti “menso-la”, osteoproduttivamente utili.Forze trasversali al piano su cui giacciono le viti insistono su ciascuna di esse separatamente con l’altra come per-no di rotazione; concentrato su punti isolati, il momento flettente sviluppa il massimo impatto: ogni moncone è sog-getto a bruschi basculamenti, definiti effetti “dondolo”, sfavorevoli alla formazione del tessuto riparativo.I pericolosi contraccolpi di taglio vengono aboliti da ele-menti di presa accessori: se filettati, devono risultare co-assiali alle forze da ammortizzare, quindi ortogonali al piano delle barre portanti; se costituiti da fili in tensione, sono variamente incrociati in senso triplanare: è quanto si realizza in montaggi arricchiti tridimensionalmente.Ne derivano importanti distinzioni biomeccaniche.Negli esoscheletri triplanari, ad anello od a diedro, la deformabilità si esprime costantemente in oscillazioni, in-dipendentemente dall’origine dei carichi.Negli esoscheletri monoplanari, usatissimi i monolaterali, rari i bilaterali, la deformabilità si esprime diversamen-te a seconda che gli stimoli si propaghino in parallelo all’asse lungo o trasversalmente al piano del telaio: nel primo caso i movimenti sono di tipo oscillatorio, nel se-condo succussivo. I differenti effetti in accelerazione ed entità di identiche forze relativamente a come percorrono il complesso ne stravolgono il valore osteoinduttivo: si di-mostrano vantaggiosi i momenti flettenti longitudinali, che vi fluiscono “armonicamente”, insidiosi quelli di taglio, che lo investono a falce. In questo contesto forze longitu-dinali e trasversali hanno diversa valenza in relazione a specifiche caratteristiche di direzione e velocità, che ne differenziano gli effetti bioelettrici e trofici: semplificando, le sollecitazioni longitudinali tendono a stimolare l’osteo-produttività, le sollecitazioni trasversali a danneggiarla. Nella fattispecie, buoni risultati od insuccessi dipendono quindi sostanzialmente da un corretto sfruttamento dei ri-levanti momenti flettenti tipici del metodo: la loro veicola-zione, selezionando quelli a valenza osteoproduttiva ed inibendo gli osteodistrofici, così come la loro ottimizzazio-ne in accelerazione ed intensità di sviluppo consentono massimi rendimenti clinici; una loro incongrua espressivi-tà può determinare importanti controproducenze, anche con pesanti fallimenti.Su queste premesse, in senso biomeccanico i montaggi si possono classificare sulla loro capacità di selezionare le forze, valorizzando le longitudinali e neutralizzando

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DEFORMITÀ DEGLI ARTI INFERIORI: IL FISSATORE ASSIALE

S33

le trasversali, distinguendo impostazioni monoplanari, di possibile problematicità, o triplanari, più sicuri.Al di la delle risultanze vettoriali, altri sostanziali rilievi ri-salgono da dati clinici imperniati sull’invasività perifocale del metodo: la fissazione esterna espone a lesioni iatro-gene le parti molli in cui gli elementi di presa vengono introdotti e permangono, talvolta esitandone nocumenti anche gravi. Nel suo utilizzo, se da un lato si ricavano ottimi rendimen-ti, da un altro scaturiscono precisi inconvenienti, collegati a quanto vi è di implicitamente elettivo: il conflitto infra-tissutale da parte di viti o fili a lunga permanenza e lo sviluppo di forze attraverso bracci di leva elevati.A causa degli infissi, complicanze accadono se pur rara-mente in fase chirurgica per offese dirette a grossi vasi o nervi, ma soprattutto si manifestano nel loro mantenimento durante il quale si producono spesso sequele distinguibili in infettive, da confricazione anatomica, da precarietà della tenuta, ognuna in grado variabile corrispettivamen-te a spessore e consistenza dei tessuti attraversati.Gli apparati portanti possono altresì danneggiare in base a inadeguatezza di portata con scomposizioni d’assetto secondarie a rotture o deformazioni plastiche.Nell’indispensabile controllo del momento flettente, la strada concettualmente semplice dell’adozione routinaria di gabbie triplanari si scontra pertanto con l’alto prezzo biologico delle loro numerose transfissioni: l’intolleranza soggettiva che ognuna di esse suscita e gli obbiettivi de-trimenti in termini di flogosi, sepsi, osteolisi ne fanno stru-menti potenziali di spiccata invasività.La minimizzazione delle perforazioni tegumentarie è quindi d’obbligo,e spinge alla scelta di impostazioni mo-nocompartimentali a 4 o 6 tramiti contro i 12 o 16 di quelle ad anello; quest’opzione espone però ad altri ri-schi, nella fattispecie di carenze o disturbi osteoriparativi per la strutturale difficoltà di questi assemblaggi a calmie-rare convenientemente le forze negative.In una logica costo/beneficio l’adozione della fissazione esterna pretende quindi un’indicazione appropriata ed un’ottimizzazione tecnica che proporzionino secondo le regole del massimo risparmio l’invasività dei montaggi rispetto all’obbiettivo meccanico. In questo, preferenziali sono i montaggi monolaterali in alternativa a qualsiasi altro: le tecnologie con cui si allestiscono offrono ampie prestazioni conservando in buona misura anche nella loro essenzialità il peculiare attributo di esprimere per-manenti regolazioni meccaniche, consentendo sull’osso precisissimi riposizionamenti estemporanei o graduali e la somministrazione di vari regimi di forza.In una vasta gamma di casi, la soluzione a 4 viti è già un’ottima risposta al proposito di ridurre le transfissioni; laddove per tipologia di lesione o particolari esigenze vettoriali servano esoscheletri più complessi, è bene co-

munque prevedervi quel numero di elementi di presa, fili o viti, appena indispensabile: ciò è appannaggio di strumentari dedicati o di modelli modulari, assemblabili secondo il bisogno.Il canone aureo è dosare ogni volta l’aggressività dell’im-pianto in relazione alle specifiche esigenze fisiche del caso, cercando il massimo rendimento biomeccanico con la minima invasività.La tibia è un’occasione didattica illuminante, come em-blematicamente si evince dalla pratica traumatologica: su una frattura meta-diafisaria semplice basta un montaggio monolaterale con 4 o 6 fori cutanei, a seconda del peso corporeo; se elude la loggia anteriore ancorandosi di cre-sta o sulla parete mediale, si dimostra tollerabile anche per molti mesi, essendo per questo in assoluto il più usato; su un fracasso epifisario, all’usuale presa monolaterale diafisaria occorre spesso associare per il moncone corto una croce di fili, secondo un commisto che con terminolo-gia veterinaria è chiamato “ibrido”, vale a dire un telaio monolaterale alla diafisi e triplanare all’epifisi, con 6 o 7 fori cutanei complessivi; un 3° frammento intermedio potrebbe richiedere l’aggiunta ai 4 o 6 fori basali di una vite in più, che lo agganci, portandone il numero a 5 o 7; se vi fosse una pseudoartrosi con perdita di sostanza ossea, si può ipotizzare una gabbia di Ilizarov almeno a 4 croci, in tutto 16 fori cutanei. Le diverse stereometrie d’infissione richiamano altrettante opportunità di perfezionare il rispetto tegumentario.Attualmente, il dilemma fra soluzioni biomeccanicamente sicure e biologicamente accettabili non è comunque risol-to, mancando ancora un buon compromesso tecnico nel contempo poco invasivo e osteogenicamente affidabile: se negli apparati tridimensionali non è possibile limita-re il numero degli elementi di presa senza compromet-terne l’ottimale equilibrio, negli apparati monolaterali i vari espedienti con cui compensarne la relativa instabilità sono spesso insufficienti.Servono progetti in grado di assecondare la ricerca del meglio implicita in quest’impostazione. Oltre al problema di ottenere con esoscheletri a minima rendimenti meccanici all’altezza, nel periodo del manteni-mento e della loro conduzione se ne propone un altro, più radicale: all’interno di impianti efficaci, con quali criteri regolare i vettori delle forze utili, in particolare secondo quali parametri modularne accelerazione ed intensità? I caratteri opportuni delle deformazioni dipendono da nu-merosissime variabili: tipo di frattura, trofismo, segmento coinvolto, configurazione dell’esoscheletro, peso corpo-reo, attività funzionale, stadio riparativo, collaborazione fattibile e molte altre. Per questo, l’identificazione di un protocollo ideale con cui coordinare la potenzialità ela-stica tramite i congegni disponibili dei fissatori è obiettivo affascinante quanto chimerico.

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E. CASTAMAN ET AL.

S34

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L. DELLA ROSAUniversita di Buenos Aires, Argentina

Indirizzo per la corrispondenza:Luciano Della Rosa Hospital Interzonal “Eva Perón” Balcarce 900, San Martín- Provincia de Buenos Aires, ArgentinaE-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S35 S35

The level of the bone affected was also considered (proxi-mal, middle and distal third).We position of two or three screws on each clamps, with minimal incisions approximately 1 centimetre, we can tre-at many different types of diaphyseal & joints fractures without the need to open the focus.Results respect: We considered healing, alignment, shor-tening and infection.

DISCUSSIONThe advantages of external fixations are:• minimal impairment of the fracture; • minimally invasive technique;• the absence of fixation in fracture focus; • stimulation of phisiology callus formation;• minor complications, less screw loosening and infec-

tion risk;• correction of the bone defect, with bone callotasis and

transport; • possibility to try multifragmentary, diaphyseal, me-

taphyseal and articular fractures;• easy access to repair soft tissue release;• loading and early mobilization.

CONCLUSIONSWith the use of external fixation for us has made easier the treatment of complex fractures, that some decades ago required the employment of complicated osteosynthesis.We believe that the synthesis using external fixation re-tains its validity because: • respects the concepts bio-physiological of consolida-

tion fractures;• it is effective in reducing and causes a rigid initial sta-

bility;• is a minimally invasive technique;• allows for the best control of any infections;• we can treat soft tissue injuries;• corrects bone defects;• allows control joint mobility.For all these reasons we consider the dynamic axial fixa-tor an excellent method for the treatment of complex frac-tures of the extremities.

EXTERNAL FIXATION IN LEG FRACTURESFissazione esterna nelle fratture della gamba

SummaryWe presented our experience in the treatment of leg fracture with external fixators.From a total of 357 patients treated from different pathologies with external fixation 164 were open and closed tibia fractures.Key words: External fixatión in leg

RiassuntoPresentiamo la nostra esperienza nel trattamento della frattura gamba con fissatori esterni. Su un totale di 357 pazienti trattati da diverse patologie con la fissazione esterna 164 erano fratture aperte o chiuse della tibia.Parole chiave: Fissazione esterna in gamba

INTRODUCTIONOur experience in the use of external fixation from 1992 to 2014 in the treatment of tibia fractures is presented in this paper.We consider external fixation a minimally invasive tech-nique to be used in the treatment of traumatic pathology of the limbs.Whatever the method that we decided to use in the tre-atment of a fracture, the purposes to which we have to arrive:• immobilization with analgesic purposes;• good alignment;• do not alter the process of consolidation;• avoid the risk of complications;• retrieve function in a short time.

MATERIAL AND METHODSA total of 164 cases of leg fractures were treated in 160 patients (four with bilateral tibia, two with close fracture and two with open fracture)In all cases we use the dynamic axial fixator designed by Professor De Bastiani and coll. at the University of Verona

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F. BENAZZO, G. ZANON, A. COMBI, L. PERTICARINI, M. MARULLOClinica Ortopedica e Traumatologica, Università degli Studi di Pavia, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Pavia

Indirizzo per la corrispondenza: Francesco Benazzo Clinica Ortopedica e TraumatologicaFondazione IRCCS Policlinico San Matteo, PaviaE-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S36-S41S36

INTRODUZIONELe lesioni muscolari rappresentano una delle più frequenti cause d’infortunio nello sport professionistico. Esse rappre-sentano il 31% di tutti gli infortuni nel calcio maschile 1 2, il 42,6% nel rugby 3, il 16,5% nell’atletica 4.Sebbene il recupero da questo tipo d’infortunio sia più rapido rispetto a quello di lesioni legamentose o tendi-nee, per la loro elevata frequenza sono responsabili del maggior numero di giorni di attività sportiva persi dagli atleti; nel calcio, rendono conto del 27- 37% del totale del tempo lontano dalle competizioni per infortunio 2 5.Le lesioni muscolari sono inoltre caratterizzate da un’e-levata incidenza di re-infortuni. Hägglund ed Ekstrand, esaminando una popolazione di calciatori professionisti, hanno dimostrato che i giocatori che hanno subito un in-fortunio muscolare nella stagione precedente hanno un rischio di nuovo infortunio tre volte maggiore rispetto a giocatori non infortunati. Inoltre, una precedente lesione a un qualsiasi gruppo muscolare dell’arto inferiore incre-menta il tasso d’infortunio del quadricipite femorale del 68% e del tricipite surale del 91% 6.La maggior parte degli infortuni avviene con meccanismo non da contatto, in muscoli bi-articolari o di complessa struttura e costituiti primariamente da fibre muscolari bian-che, a contrazione rapida. In altri sport come rugby, fo-otball americano e hockey su ghiaccio sono invece più frequenti i traumi muscolari diretti 7. L’epidemiologia, quindi, dimostra l’importanza di queste le-sioni nello sport professionistico. Il trattamento delle lesioni muscolari ha subito poche modifiche negli ultimi 30 anni. L’interesse per una corretta definizione di protocolli di recu-pero nasceva ad esempio già nel 1954 quando Woodard introduceva la mobilizzazione precoce come trattamento ottimale per la corretta guarigione delle lesioni muscolari, suffragato poi da Järvinen negli anni ’70. La principale evoluzione si è avuta nelle metodiche diagnostiche, pri-ma ultrasonografiche poi di risonanza magnetica, e nella conseguente classificazione. Nel 1995 Takebayashi e nel 2002 Peetrons valutavano le lesioni muscolari da un punto di vista strumentale, ultrasonografico, oltre che anatomo-patologo, mentre Stoller nel 2007 introduceva una classifi-cazione basata sui riscontri strumentali RM correlati.Attualmente la classificazione più diffusa è quella propo-sta da Muller-Wohlfahrt nel 2012, anatomo-patologica basata sulla risonanza magnetica 8.

ISTO-PATOLOGIA DI UNA LESIONE MUSCOLAREIl processo di guarigione di una lesione muscolare è con-traddistinto da un processo riparativo, non rigenerativo in senso stretto. Questo significa che avviene attraverso la formazione di tessuto cicatriziale con caratteristiche biomeccaniche ed istologiche profondamente diverse dal tessuto muscolare 9 10.

LESIONI MUSCOLARI: DIAGNOSI E PRINCIPI DI TRATTAMENTOMuscle injuries: diagnosis and treatment

RiassuntoLe lesioni muscolari rappresentano una delle più frequenti cause d’infortunio nello sport professionistico, essendo responsabili del maggior numero di giorni di inattività sportiva degli atleti. Il processo di guarigione di una lesione muscolare è contradd-istinto da un processo riparativo, non rigenerativo. Per una cor-retta valutazione e stadiazione, la diagnosi clinica deve essere supportata da una diagnostica strumentale, attraverso l’utilizzo dell’ecografia e della RM. Oltre al classico trattamento conserv-ativo, da alcuni anni l’utilizzo del gel piastrinico (PRP) è entrato nella pratica clinica. Somministrato a livello del sito di lesione, ha dimostrato efficacia nell’ottenere una migliore qualità del tes-suto rigenerato, riducendo di conseguenza il numero di recid-ive. I protocolli per l’applicazione del PRP variano a seconda del tipo di lesione, della sede, della dimensione e del decorso durante il programma riabilitativo verificato in base alla diag-nostica strumentale. Il trattamento chirurgico è riservato soprat-tutto alle complicanze e ai distacchi inserzionali mio-tendinei.Parole chiave: lesioni muscolari, risonanza magnetica, Platelet Rich Plasma, trattamento chirurgico

SummaryMuscle lesions are the most common injuries in professional sports and are responsible of the largest number of days lost from sport par-ticipation. The healing process of a muscle lesion is characterized by a reparative – not regenerative – process. Imaging, performed by ultrasonography and magnetic resonance imaging, is necessary for a correct evaluation of the lesion and of the healing process. In addition to well-known conservative treatments, recently platelet-rich plasma (PRP) is going to be a widespread tool in the treatment of muscle lesions. Injected in the site of injury, PRP drives healing towards a regenerated tissue of better quality and consequently a reduction of recurrences. PRP injections protocols depend by the site and the size of the lesion, and it changes according to rehabilitation and imaging. Surgical treatment is considered mainly for complications such as hematoma causing high intracompartmental pressure and insertional detachment of the muscle-tendon unit.Key words: muscle injuries, MRI, Platelet Rich Plasma, surgical treatment

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LESIONI MUSCOLARI: DIAGNOSI E PRINCIPI DI TRATTAMENTO

S37

Il processo riparativo di una lesione, indipendentemente dalla sua entità, avviene in tre fasi:• distruzione: avviene nelle prime 24 ore, in cui si ha

rottura e necrosi dei miociti, con formazione di ema-toma e l’avvio di un processo infiammatorio cellulare;

• riparazione: il tessuto necrotico è fagocitato, ha inizio in sede lesionale la neogenesi di fibre muscolari, tes-suto connettivo cicatriziale e vasi sanguigni. Inizia dal secondo giorno e può durare fino a 3 settimane;

• rimodellamento: fase cronica in cui il tessuto cicatri-ziale si riorganizza, retraendosi, e maturano i miociti, per cui il muscolo recupera la sua capacità contrattile.

Quindi, il processo riparativo di una lesione muscolare inizia con la formazione di un ematoma tra le miofibre lesionate. I miociti coinvolti vanno in necrosi, mentre il sar-colemma si richiude per proteggere le altre fibre musco-lari. Dai vasi sanguigni fuoriescono cellule dell’infiamma-zione, in particolare macrofagi, i quali rimuovono i detriti e liberano fattori di crescita. Queste molecole attivano le cellule satelliti presenti nel tessuto muscolare, in particola-re cellule multipotenti di riserva, in grado di differenziarsi in mioblasti. Avviene cosi la rigenerazione di miotubuli e miofibre mature, anche se in modo incompleto. Difat-ti queste cellule producono anche matrice extracellulare che serve da sostegno ai miociti; questo processo è però più rapido e quindi eccessivo rispetto alla rigenerazio-ne muscolare. Per cui si forma una fibrosi che limita la rigenerazione e di conseguenza la capacità contrattile muscolare 11.

DIAGNOSILa conoscenza del meccanismo traumatico che ha causa-to la lesione muscolare è dirimente nel processo diagnosti-co-terapeutico. Di conseguenza, è fondamentale svolgere un’accurata anamnesi. Nel calcio professionistico sono addirittura disponibili registrazioni filmate del movimento che ha provocato l’infortunio.Un accurato esame clinico è imprescindibile: l’osservazio-ne può fuorviare poiché i segni sono incostanti e di non univoca interpretazione. La presenza di ecchimosi, ad esempio, può non essere evidente in caso di lesioni pro-fonde. La sintomatologia spesso è discordante con l’entità della lesione, per lo più sproporzionata in eccesso.La palpazione accurata consente di rilevare franche aree di “minus”, o un incremento della consistenza del tessuto muscolare periferico alla lesione, ma spesso è insufficien-te per una precisa caratterizzazione della lesione. L’iter diagnostico deve quindi basarsi su indagini strumen-tali, rappresentate dall’ultrasonografia e dalla Risonanza Magnetica (RM). Una prima valutazione, sia per la di-sponibilità immediata, sia per consentire un orientamen-to diagnostico e terapeutico, è effettuata tramite studio ecografico. Si valuta la discontinuità dei fasci muscolari,

eventuale ematoma visibile come area ipo- o anecogena, e l’edema reattivo. La stima ecografica di una lesione deve però tenere conto di possibile approssimazione diagnosti-ca, nelle prime 48 ore, per la presenza di iperecogenicità da raccolte ematiche. L’utilizzo dell’ecografia ha inoltre un ruolo fondamentale nella valutazione strumentale del processo di guarigione muscolare, grazie anche alla pos-sibilità di eseguire uno studio dinamico della lesione.La RM è oramai considerata il “gold standard” poiché permette una valutazione tridimensionale ad alta risolu-zione della lesione, con conseguente elevata sensibilità e precisione nella valutazione dell’estensione e dell’entità del danno (Fig. 1) 12 13.In fase acuta si utilizzano le sequenze STIR per individuare la sede, grazie all’elevata sensibilità, con il limite di una risoluzione inferiore e di probabile sovrastima in caso di infarcimento emorragico. Migliore risoluzione e quindi mi-glior definizione della lesione si ottiene con le sequenze DPFS (con minore sensibilità) e ancor più con le T2 TSE caratterizzate da elevatissima sensibilità spaziale 12 13.

CLASSIFICAZIONE La classificazione di Mueller-Wohlfahrt distingue lesioni/disturbi muscolari indiretti e traumi muscolari diretti, quali contusioni e lacerazioni  8. Le lesioni muscolari indirette sono ulteriormente suddivise in disfunzioni muscolari da-gli infortuni strutturali. Per disfunzioni s’intendono disturbi muscolari funzionali acuti, senza evidenze macroscopi-che di interruzione delle fibre muscolari. Di conseguenza il loro imaging è negativo o evidenzia solamente edema diffuso. Tra queste possiamo identificare disturbi correlati a sforzi eccessivi: “fatigue-induced muscle disorder” (tipo 1a), “delayed-onset muscle soreness” (DOMS) (tipo 1b),

FIGURA 1 A,B.Immagini rm di un calciatore professionista di 34 anni eseguite 24 ore dopo un trauma contusivo diretto alla coscia destra. A immagine sagittale stir che evidenzia l’estensione dell’ematoma intramuscolare del quadricipite femorale destro. B immagine assiale dpfs che mostra l’infarcimento emorragico e la disorganizzazione delle fibre del vasto intermedio.

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disfunzioni neuromuscolari (tipo 2, suddiviso in 2a se di origine centrale, 2b se periferica).Le lesioni muscolari dirette, i più frequenti infortuni musco-lari negli atleti professionisti, sono suddivise in tre tipi: 3a, 3b e 4. Le lesioni parziali (tipo 3) sono classificate in mi-nori (3a) o moderate (3b) a seconda che rimangano con-finate o si estendano oltre un fascio muscolare secondario coinvolgendo anche il tessuto connettivale adiacente. Il tipo 4 comprende lesioni muscolari subtotali o totali, inclu-se lacerazioni di gran parte o tutto il diametro muscolare, lesioni tendinee o distacchi osteo-tendinei (Tab. I).

TABELLA I.Classificazione di Mueller-Wohlfahrt.

Disturbi/lesioni muscolari indirette

Disfunzioni muscolari

Tipo 1Sovraccarico

1a Fatigue-induced muscle disorder

1b DOMS

Tipo 2 neuromuscolari

2a origine centrale

2b origine periferica

Lesioni strutturali

Tipo 3parziali

3a parziali minori

3b parziali moderate

Tipo 4 subtotali o totali

Lesioni muscolari subtotali o totali

Distacchi tendinei

Lesioni muscolari dirette

contusioni

lacerazioni

TRATTAMENTO CONSERVATIVOIl trattamento delle lesioni muscolari è prevalentemente conservativo, affidandosi alla naturale capacità riparati-va dell’organismo. Il cardine del trattamento è l’algoritmo RICE: riposo, ghiaccio (ice), compressione ed elevazione. La giustificazione generale per l’uso di questo principio è pratica, in quanto tutti questi quattro metodi mirano a minimizzare il sanguinamento nel sito di lesione, seppur non vi sia alcuno studio clinico randomizzato che abbia validato l’efficacia del principio RICE nel trattamento delle lesioni muscolari 14. L’immobilizzazione prolungata è da evitare, poiché de-leteria per la trofia muscolare. All’esperienza pratica di Woodard nel 1953 si sono aggiunti negli anni diversi studi sia laboratoristi sia clinici  15-18. Un breve periodo di immobilizzazione, limitato ai primissimi giorni dopo la lesione, permette l’organizzazione dell’ematoma e la formazione di tessuto cicatriziale che unisce le fibre muscolari lesionate. Nel caso degli atleti, l’immobilità si può considerare relativa, cioè realizzata con uno stretto taping sul muscolo danneggiato, evitando l’uso di tutori. Le stampelle andrebbero utilizzate per gli atleti con lesioni gravi oppure quando quest’ultima si trova in un sito in cui un’adeguata immobilizzazione è altrimenti difficile da raggiungere, come ad esempio all’inguine.Al termine di questo breve tempo, dopo conferma eco-grafica della maturazione del tessuto di granulazione, si inizia un graduale recupero della escursione del muscolo leso, sempre sotto soglia del dolore. L’obiettivo di questa fase dovrebbe essere prevenire l’atrofia muscolare e la perdita di resistenza ed estensibilità, e successivamente favorire il recupero della forza muscolare.La mobilizzazione precoce porta a formazione di tes-suto cicatriziale armonico con la direzione delle fibre muscolari circostanti, sopportando le forze di trazione e minimizzando la formazione di punti di debolezza bio-meccanica. L’attenzione deve esser posta non solamente sul distretto muscolare coinvolto, ma al recupero di una propriocettività globale e al controllo neuromotorio a prevenzione di recidive e per risolvere eventuali fattori causali identificati. All’iniziale esercizio isometrico si as-sociano nelle prime fasi terapie fisiche locali, per ridurre flogosi ed edema locale. In progressione si aggiungerà l’esercizio isotonico senza resistenza; in seguito si potrà iniziare con carichi crescenti. Una volta che il tessuto di granulazione ha assunto caratteristiche di maturazione ai controlli strumentali e la sintomatologia regredisce, si può introdurre l’esercizio a contrazione eccentrica. Questo, eseguito secondo carichi progressivi, ha un ruolo fonda-mentale nel modellare la cicatrice, ancora in fase plasti-ca, secondo le linee di forza e contrazione. Durante tutto il periodo riabilitativo e al termine di questo, prima del ritorno al condizionamento atletico in campo, vanno ese-

FIGURA 2 A,B.Immagini RM di una lesione muscolare indiretta di grado 3b-4 alla giunzione mio-tendinea prossimale del bicipite femorale destro in un calciatore professionista di 19 anni. A Immagine assiale con sequenza STIR al tempo 0: si osserva edema con ematoma settale ed intra-lesionale. B Immagine assiale con sequenza DPFS a 1 mese dalla lesione, a seguito di due somministrazioni di PRP eseguite a 24 ore e a 10 giorni dal trauma. È evidente una completa guarigione della lesione con minima e uniforme cicatrice.

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LESIONI MUSCOLARI: DIAGNOSI E PRINCIPI DI TRATTAMENTO

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guiti test di valutazione strumentali, come test isocinetici, per valutare la ripresa funzionale.

PLASMA RICCO IN PIASTRINE (PRP)Il plasma ricco in proteine (PRP) sta avendo una notevole diffusione in ortopedia con gli utilizzi più vari. L’utilizzo del PRP nel trattamento delle lesioni muscolari ha l’obietti-vo di apportare in sede di lesione un concentrato di fattori di crescita autologhi che stimolino la guarigione in senso rigenerativo muscolare.Il PRP, somministrato in sede di lesione sotto forma di gel e attivato con trombina umana (autologa od omologa) e calcio, rilascia il contenuto degli a-granuli contenuti nel-le piastrine: PDGF (platelet-derived growth factor), TGF-b (transforming growth factor), FGF (fibroblast growth fac-tor), IGF-1 e IGF-2 (insulin-like growth factor), VEGF (va-scular endothelial growth factor), EGF(epidermal growth factor), endostatine, fattore piastrinico 4 e trombospon-dina 1. Diversi studi di laboratorio hanno evidenziato il ruolo di questi fattori di crescita nel promuovere la rigenerazione muscolare. B-FGF e IGF-1 stimolano la proliferazione e la fusione mioblastica e sono in grado di attivare la rigenerazione e aumentare la forza del muscolo lesionato 19. Osservazioni in vivo su modelli mu-rini hanno dimostrato come essi aumentino la velocità di guarigione e la resistenza alla contrazione rapida  20. FGF e VEGF aumentano l’angiogenesi nel muscolo in guarigione 21. Il TGF-b influenza l’organizzazione della matrice extracellulare ed esercita funzioni di supporto nei confronti di altri fattori di crescita 22. PDGF e IGF-1 stimolano la mitosi delle cellule mesenchimali e stimola-no la chemotassi e proliferazione dei fibroblasti. IGF-1 stimola inoltre la sintesi di collagene e inibisce l’apopto-si dei mioblasti 23.Gigante, in un recente studio su modelli murini, ha di-mostrato che il PRP stimola la rigenerazione muscolare e la neoangiogenesi e riduce la fibrosi nel muscolo, senza provocare metaplasia o ossificazione 24. Nonostante questi promettenti studi di laboratorio, non esistono ampi studi clinici che supportino la sicurezza e il potenziale rigenerativo del PRP. Inoltre, sino al 2010 l’Agenzia Mondiale Antidoping (WADA) considerava la somministrazione intramuscolare di PRP come pratica proibita, rendendo quindi la sua applicazione consenti-ta soltanto in sportivi non professionisti. Questo divieto è stato ritirato nel 2011 poiché non vi sono evidenze di incremento delle performance sportive dopo somministra-zione di PRP. Ancora nel 2010 un “Consensus Protocol” del Comitato Olimpico Internazionale affermava la man-canza di prove scientifiche che supportino l’utilizzo del PRP nel trattamento delle lesioni muscolari 25. Diversi aspetti restano ancora da chiarire, in particolare come, quando, con che formulazione e con che dosag-

gio somministrare il PRP per ottenere il maggior effetto rigenerativo possibile. Nella nostra esperienza abbiamo trattato con PRP oltre 200 lesioni muscolari, di cui 60 in calciatori di un’unica squadra di Serie A. Il nostro proto-collo prevede un trattamento individualizzato, legato al grado e alla sede della lesione e alla valutazione della guarigione con un costante monitoraggio strumentale tramite RM: nelle lesioni di grado IIIa sec. Mueller-Wohlfahrt: una o • due iniezioni intralesionali a distanza di circa 5-10

giorni, con controlli RM a non meno di 5 e non più di 20 giorni dall’applicazione;

• nelle lesioni di grado IIIb o IV: due o 3 iniezioni, con eguale intervallo e controlli RM a 14 e a 21 giorni dalla prima iniezione.

Abbiamo sempre somministrato la prima dose tra 48 e 72 ore dopo l’evento traumatico, durante la fase inizia-le del processo infiammatorio, allo scopo di influenzarlo verso la rigenerazione muscolare. Nella nostra esperien-za con i calciatori professionisti, diversamente dai pochi lavori presenti in letteratura, non abbiamo osservato un più rapido recupero nei soggetti trattati con PRP rispetto a quelli trattati conservativamente. Il monitoraggio stru-mentale della guarigione delle lesioni muscolari ha invece confermato una sua miglior evoluzione dopo somministra-zione di PRP; la lesione guariva con formazione di tessuto muscolare e minima quantità di fibrosi, esitando in una cicatrice piccola e stabile. L’espressione clinica di queste osservazioni strumentali è l’assenza di perdita di capacità contrattile del muscolo e la ridotta incidenza di reinfortuni. Nella popolazione in esame, abbiamo avuto un 13,3% di reinfortuni, minore rispetto ai dati presenti in letteratura. Inoltre, i reinfortuni causavano un’assenza dall’attività sportiva sovrapponibi-le a quella dei primi infortuni.A nostro parere la somministrazione intralesionale di PRP ha l’obiettivo di favorire la rigenerazione muscolare e non la riparazione, portando alla formazione di una ci-catrice contrattile, elastica, con proprietà biomeccaniche il più possibile simili al tessuto primitivo. Questo porta ad un minor rischio di recidive e non ad un’accelerazione dei tempi di guarigione.

TRATTAMENTO CHIRURGICOIl trattamento conservativo delle lesioni muscolari dà otti-mi risultati nella maggior parte dei casi; di conseguenza, solo in rari e ben definiti casi è indicato il trattamento chirurgico. Questo può esser preso in considerazione per evacuare un ematoma intramuscolare di grandi dimensio-ni oppure per suturare una lesione completa (grado 4 di MW) di un muscolo con pochi o nessun agonista 26.Le evidenze in letteratura sono comunque scarse e con bassa numerosità campionaria. In una serie di 10 cal-

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ciatori professionisti con lesioni complete del retto femo-rale trattati chirurgicamente, il ritorno alle competizioni è avvenuto in media dopo 3,8 mesi senza recidive; gli stessi autori riportavano un recupero in circa 55 giorni col trattamento conservativo, ma con un tasso di reinfor-tuni del 18% 27. Il trattamento chirurgico di lesioni muscolari complete ha un risultato significativamente migliore se eseguito in acuto, entro tre settimane dall’evento traumatico. Anche in alcune situazioni croniche è adeguato considerare la soluzione chirurgica, in particolare se il paziente lamenta dolore persistente (oltre 4-6 mesi) durante la contrazione di un muscolo precedentemente infortunato, associato ad un evidente deficit di estensione. In tal caso, va sospettata la formazione di aderenze cicatriziali limitanti il movimen-to del muscolo nel sito della lesione, un’eventualità che può richiederne la liberazione chirurgica 28.

MIOSITE OSSIFICANTELa miosite ossificante è una rara complicanza di una lesione muscolare, dovuta all’organizzazione dell’e-matoma e alla proliferazione al suo interno di tessuto osteo-cartilagineo. Un’evoluzione verso la miosite os-sificante dovrebbe essere sospettata se il dolore e la tumefazione post-lesionale non diminuiscono nonostan-te la progressione della riabilitazione, ma anzi i sin-tomi si acuiscono e la lesione si indurisce settimane o mesi dopo il trauma. La conferma radiografica è spesso tardiva, poiché le radiografie mostrano l’ossificazione solo dopo settimane 29.La prevenzione è la principale terapia: contrasto alla formazione di un vasto ematoma intramuscolare e as-sunzione di indometacina o celecoxib. Questi farmaci, antiinfiammatori non steroidei rispettivamente di prima e seconda generazione, sono comunemente utilizzati nella pratica clinica con questa indicazione pur non essendo stati validati da studi clinici randomizzati 29.Se i sintomi non regrediscono dopo mesi di trattamento riabilitativo fisioterapico, può esser presa in considerazio-ne l’asportazione chirurgica della massa ossea.La chirurgia va eseguita non troppo precocemente, cioè non prima che l’osso ectopico sia completamente matura-to, per evitare eventuali recidive. Di solito l’attesa dovreb-be essere di almeno 12 mesi dal trauma.

PREVENZIONE Le lesioni muscolari riconoscono diversi fattori predispo-nenti: scarsa propriocettività, (come in seguito a lesioni legamentose) ridotta “core-stability”, fattori individuali legati a sesso, età ed etnia dell’atleta, squilibri tra mu-scoli agonisti ed antagonisti, esiti di pregressi infortuni muscolari, eccessiva esposizione a stress metabolici (alta frequenza di competizioni senza adeguati allenamenti, condizionamenti esterni). Se alcuni di questi fattori sono immodificabili, come l’età del giocatore, o legati a interes-si economico-sportivi non gestibili dal medico di squadra (come il numero di partite e il periodo in cui sono giocate), su altri è possibile agire con un programma di prevenzio-ne e condizionamento atletico. Ad esempio, una ridotta escursione articolare di anca e ginocchio predispone a un’aumentata incidenza di distrazioni muscolari ai flessori dell’anca e agli ischiocrurali 30. Nel calcio sono disponibi-li programmi di prevenzione sviluppati direttamente dalla federazione internazionale (FIFA), mirati alla prevenzione degli infortuni in generale attraverso esercizi di rafforza-mento muscolare mirato, di agilità, di stimolo della propri-ocettività e di stretching. La prima versione “The 11” e la sua successiva, “The 11+” si sono dimostrate efficaci nel prevenire gli infortuni  31-33. Tuttavia, esaminando il loro effetto sugli infortuni muscolari, tali esercizi non si sono dimostrati efficaci nel ridurre le distrazioni in generale e gli infortuni a quadricipite, ischiocrurali e inguine.

CONCLUSIONILe lesioni muscolari costituiscono la principale causa di sospensione dell’attività agonistica negli atleti professio-nisti. La possibilità di approfondire in maniera precisa il meccanismo causale, i fattori predisponenti ma soprattutto di definire una completa e precisa caratterizzazione del danno muscolare, grazie alle metodiche di imaging oggi a disposizione (in particolare la RM), permette attualmente di ottimizzare sia il trattamento in acuto che la prevenzione degli eventi traumatici. In ultima analisi, l’utilizzo delle PRP ha consentito un miglioramento qualitativo della guarigio-ne che, associato a protocolli di riabilitazione sempre più precisi e individualizzati, deve tendere alla rigenerazione muscolare piuttosto che alla riparazione, recuperando quindi la piena efficienza contrattile del muscolo e dimi-nuendo l’incidenza di recidive.

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L.A. PEDERZINI, F. DI PALMA, F. NICOLETTA, E. DELLI SANTE Orthopaedic and Arthroscopic Department, New Sassuolo Hospital, Sassuolo (MO)

Indirizzo per la corrispondenza: F. Di PalmaOrthopaedic and Arthroscopic DepartmentNew Sassuolo Hospitalvia F. Ruini 2, 41049 Sassuolo (MO)E-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S42-S46S42

In chronic cases microtears are represented and can evolve to complete rupture of the tendon.Both conditions can be treated without surgery in most patients.Several surgical treatments have been proposed in the treatment of epicondylitis, however no one appears to be superior to oth-ers, and there isn’t, therefore, a universally accepted protocol 1.Key words: medial epicondylitis, lateral epicondylitis, extensor carpi radialis brevis, flexor carpi radialis, pronator teres

EPITROCLEITE L’epitrocleite, o “gomito del golfista”, è una sindrome do-lorosa che interessa il compartimento mediale del gomito spesso con irradiazione del dolore all’avambraccio e al polso omolaterali, causata, generalmente, da un sovrac-carico funzionale dei muscoli flesso-pronatori dell’avam-braccio che anatomicamente presentano un comune ten-dine di origine che si inserisce sull’epitroclea 2.Il tendine comune è posto nella parte anteroinferiore dell’epitroclea immediatamente prossimale al fascio ante-riore del legamento collaterale mediale.Nonostante il nome dato a questa patologia essa non è esclusiva dei golfisti ma è una patologia correlata a particolari mansioni lavorative e a particolari sport tra cui il golf.Gli stessi tennisti e altri sportivi che usano in maniera ri-petitiva la flesso-estensione del polso e delle dita possono sviluppare questa sindrome dolorosa.In particolare il tipo di impugnatura della racchetta e il movimento eseguito a garantire particolari effetti rotatori alla pallina stanno negli ultimi anni delineando una sin-drome dolorosa epitrocleare molto rara in passato nei tennisti.Gli sport che più frequentemente possono determinare tale patologia sono, quindi, il golf, il tennis, gli sport di lancio (lancio del disco, del giavellotto ecc) e sollevamen-to pesi 2.Comuni attività quotidiane che per essere compiute ne-cessitano di continui movimenti di flesso-estensione del gomito e del polso possono essere causa di epitrocleite come disegnare, martellare, tagliare la legna, usare un computer, cucinare e avvitare. I muscoli generalmente interessati sono il flessore radiale del carpo, pronatore rotondo e meno frequentemente il palmare lungo, il flessore ulnare del carpo e il flessore superficiale delle dita.Ripetuti microtraumi determinano microlesioni e indebo-limento nell’ambito del flessore radiale del carpo o del pronatore rotondo vicino alla loro comune origine sull’e-picondilo mediale caratterizzate da alterazioni tendinosi-che fibroblastiche con proliferazione di tessuto di granu-lazione vascolarizzato con alterazione dell’istologia del tendine fino ad arrivare ad una completa avulsione del tendine comune di origine 3.

EPITROCLEITE ED EPICONDILITEMedial and lateral epicondylitis

RiassuntoL’epicondilite mediale (o epitrocleite) e l’epicondilite laterale sono comuni sindromi dolorose del gomito causate da sollecita-zioni funzionali ripetitive di alcuni gruppi muscolari che si inse-riscono mediante un comune tendine di origine rispettivamente all’epicondilo mediale e laterale.L’epicondilite mediale coinvolge spesso il flessore radiale del carpo o il pronatore rotondo o entrambi vicino alla loro origi-ne, mentre l’epicondilite laterale, molto più frequente di quella mediale, è caratterizzata, generalmente, da lesione del tendine dell’estensore radiale breve del carpo.Considerate inizialmente condizioni infiammatorie, le epicondi-liti sono caratterizzate, invece, da alterazioni tendinosiche con-seguenti ad una incompleta risposta riparativa. Nella fase cronica il danno può essere rappresentato da micro-lesioni fino a rottura completa del tendine. Entrambe le condizioni possono essere trattate in maniera con-servativa nella maggior parte dei pazienti. Numerosi trattamenti chirurgici sono stati proposti nel trattamen-to delle epicondiliti, tuttavia nessun trattamento risulta essere superiore agli altri e non esiste, quindi, un protocollo universal-mente accettato 1.Parole chiave: epicondilite mediale, epicondilite laterale, esten-sore radiale breve del carpo, flessore radiale del carpo, prona-tore rotondo

SummaryMedial and lateral epicondylitis are frequent painful syndromes of the elbow due to repetitive stress to functional muscle groups inserting by a common tendon at the medial and lateral epicon-dyle respectively.The medial epicondylitis involves the flexor carpi radialis or pro-nator teres or both close to their origin, while the lateral epicon-dylitis, much more common than medial epicondylitis, is gener-ally characterized by lesions of the tendon of the extensor carpi radialis brevis. They were considered inflammatory conditions but the epicondy-litis are characterized, however, by tendons alterations resulting from an incomplete reparative response.

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EPITROCLEITE ED EPICONDILITE

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Il processo diviene cronico con insuccesso del processo riparatore.Generalmente colpisce persone con più di 35 anni 3 di età.Se non adeguamente trattata può determinare dolore cronico al gomito ed una limitazione articolare fino alla rigidità.L’epicondilite mediale può essere classificata 4 in 3 tipi: Tipo I (epicondilite mediale isolata), Tipo IIA epicondilite mediale con minima o media neuropatia dell’ulnare, Tipo IIB epicondilite mediale con moderata o severa neuropa-tia dell’ulnare.

Esame clinicoI pazienti oltre al dolore cronico mediale del gomito pos-sono lamentare una ipostenia alla mano e al polso con difficoltà alla flessione delle dita e parestesie al IV e V dito.L’insorgenza può essere insidiosa con sintomi crescenti o acuta.La diagnosi di epitrocleite può essere difficile a causa del-le diagnosi differenziali che includono diversi disordini come compressione del nervo interosseo anteriore, artrite, artrofibrosi, radicolopatia cervicale, sindrome del tunnel cubitale, corpi mobili, avulsione dell’epicondilo mediale, osteofiti, sinoviti, paralisi tardiva del nervo ulnare, insta-bilità del legamento collaterale mediale, sovraccarico in valgo estensione 5.Una completa raccolta anamnestica, esame clinico e ulte-riori indagini diagnostiche sono necessarie per una cor-retta diagnosi.All’esame clinico la digitopressione in corrispondenza dell’origine del gruppo dei flesso-pronatori sull’epitroclea evoca dolore esacerbato dai movimenti di flessione forza-ta del polso e pronazione.Il punto di massimo dolore è approssimativamente 5 mm distale e anteriore al punto medio dell’epitrcolea 5.L’esame clinico del nervo ulnare e il test di stress in valgo dovrebbero essere negativi per confermare la diagnosi di una epicondilite mediale isolata.Il legamento collaterale mediale deve essere valutato per evidenziare una eventuale instabilità o lesione parziale. Dolore lungo il legamento collaterale mediale con stress in valgo testato tra 30° e 80° di flessione è una indicazio-ne di instabilità. L’epitrocleite può comparire come fenomeno secondario ad una lesione del legamento collaterale mediale che in questo caso rimane la principale causa della patologia (con necessità di trattamento).A completezza diagnostica deve essere effettuato un esa-me clinico neurologico e una valutazione del rachide cer-vicale, della spalla e del polso. Un esame radiografico, includendo una proiezione an-teroposteriore, laterale e assiale, può evidenziare altre

cause di dolore mediale come una frattura, artrosi o cal-cificazioni.Indagini strumentali più approfondite come la RMN o l’e-cografia sono effettuate a completamento diagnostico.L’uso dell’ecografia 6 per esaminare il gomito viene sem-pre più considerato per l’assenza di esposizione di radia-zioni, facile accessibilità, costo ridotto e permette anche una valutazione dinamica rispetto ad altre indagini stru-mentali.La maggior parte dei reperti patologici vengono riscon-trati nei muscoli precedentemente citati. Il tendine comune dei flesso-pronatori può presentare ipoecogenicità, per-dita del normale assetto fibrillare, aumento del calibro, lesione parziale o a tutto spessore, calcificazione e ipere-mia (con indagine doppler). L’esame ecografico può essere di aiuto nel valutare even-tuale lesione del legamento collaterale mediale valutan-dolo con stress in valgo. Nell’età adolescenziale si possono sviluppare lesio-ni causate da sovraccarico funzionale in valgismo che verificandosi su scheletro immaturo possono generare osteocondrite dissecante del condilo omerale laterale e frammentazione dell’epitroclea o lesione del LCM che possono essere evidenziate con l’ecografia. L’elettromiografia e studi sulla conduzione nervosa sono indicati in pazienti con reperti anormali durante l’esame clinico neurologico.

TrattamentoLa gestione dell’epicondilite mediale si basa inizialmente sul trattamento incruento.L’obiettivo è quello di diminuire il dolore e l’infiammazio-ne con:riposo soprattutto dallo sport o dalle attività ripetitive cau-sa del dolore;crioterapia locale protetta con panno per 15-20 minuti per 3-4 volte al dì per diversi giorni;uso di FANS;esercizi di stretching e di tonificazione;ridurre il carico di lavoro al gomito, proteggendo il go-mito con un bendaggio elastico e ricordarsi di mantenere rigido il polso durante tutte le attività in cui si sollevano oggetti.Se questa terapia non ha successo nel controllare i sinto-mi, l’iniezione di corticosteroidi può essere presa in con-siderazione.Un graduale ritorno allo sport e alle attività lavorative è possibile quando il paziente non lamenta più dolore e dovrebbe prima esercitarsi con i movimenti tipici della sua attività.I pazienti con sintomi persistenti dopo 6 a 12 mesi di ge-stione incruenta dovrebbero essere considerati candidati al trattamento chirurgico 7-9.

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Il trattamento cruento dell’epitrocleite comprende tec-niche di release percutaneo  10, terapia con laser  11, al debridment a cielo aperto con o senza il distacco del tendine comune 12 13.La maggior parte delle tecniche chirurgiche per il tratta-mento dell’epitrocleite sono procedure chirurgiche a cielo aperto.La procedura descritta da Nirschl 12 consiste nell’asporta-zione del tessuto patologico del tendine comune di origi-ne dei flesso-pronatori in modo da lasciare intatto il tessu-to sano e riparazione del conseguente difetto.Vangsness e Jobe 13 preferiscono distaccare l’origine dei flesso-pronatori, asportare il tessuto patologico e riattac-care l’origine dei flesso pronatori all’osso sanguinante.Con entrambe le procedure il nervo ulnare è decom-presso e trasposto nei pazienti con sintomi di neuropatia dell’ulnare.

Tecnica chirurgicaL’anestesia è solitamente di plesso brachiale o generale. Il paziente è posto supino sul tavolo operatorio. L’arto supe-riore interessato viene reso temporaneamente ischemico mediante bracciale pneumatico applicato alla sua radice.Viene eseguita una incisione cutanea curvilinea di circa 5-7 cm appena posteriore all’epitroclea.I nervi cutanei e il nervo ulnare sono identificati e protetti durante l’intervento chirurgico.Il tendine comune dei flesso-pronatori è esposto longitudi-nalmente dall’origine e viene identificato il tessuto patolo-gico che viene rimosso lasciando la parte sana connessa all’epitroclea.Il legamento collaterale mediale viene valutato per esclu-dere lesioni a suo carico.Il difetto può essere suturato con filo riassorbibile o lascia-to beante a ricrearsi una neoinserzione distale all’epitro-clea.Il nervo ulnare viene anteposto solo in caso di sintomato-logia neurologica. Viene, quindi eseguita accurata emo-stasi previa rimozione del laccio. Sutura per piani.Nel post-operatorio i pazienti iniziano esercizi di movi-mento del polso e della mano immediatamente. Si lascia un tutore di posizione per circa 7-10 gg mentre la desutu-ra avviene a 12-15 gg e inizia il recupero articolare del gomito.Esercizi di tonificazione sono iniziati quando viene recu-perata la completa articolarità del gomito, generalmente 3 settimane dopo l’intervento.Un più prolungato periodo di immobilizzazione e una più lenta progressione di riabilitazione sono indicati in pa-zienti che vanno incontro a trasposizione del nervo ulnare o ricostruzione del legamento collaterale mediale 14-16.

EPICONDILITE LATERALEL’Epicondilite laterale o “gomito del tennista” è una ten-dinopatia degenerativa dell’estensore radiale breve del carpo (ERBC) e dell’aponeurosi dell’estensore comune delle dita a livello dell’epicondilo laterale del gomito e colpisce indifferentemente sia sportivi che lavoratori ma-nuali. L’epicondilite è la forma più comune di lesione da sovrac-carico a livello del gomito 17 18.

È da 2 a 3 volte più comune negli sportivi che praticano attività mediamente per almeno 2 ore settimanali, 3-4 vol-te più comune negli sportivi con più di 40 anni di età 18. Non c’è differenza significativa tra i due sessi. L’eziopatologia prende in considerazione la presenza di borsite, sinovite, flogosi tendinea, periostite, tendinosi, tendinite e lesione tendinea 19. L’ipotesi più accreditata sembra essere una lesione mi-croscopica del muscolo dell’ERBC da microtraumatismo ripetuto che causa la formazione di un tessuto riparativo chiamato iperplasia angiofibroblastica o tendinosi angio-fibroblastica 20. Successivamente il processo di microlesioni e di ripara-zioni tissutali porta ad un fallimento della funzionalità tendinea. Il paziente presenta tipicamente una storia recente di so-vraccarico funzionale del gomito con insorgenza insidio-sa del dolore nella regione laterale del gomito (di solito il dominante), anche se questo dato non sempre è presente.

Esame clinicoLa diagnosi è essenzialmente clinica.Il dolore è esacerbato dalla dorsi-flessione del polso con-tro resistenza con il gomito esteso. La tumefazione artico-lare al gomito è minima o assente. All’esame obiettivo si osserva una diminuzione della consistenza palpatoria dei tessuti dell’epicondilo laterale.Il punto di minore consistenza palpatoria dei tessuti si os-serva 5 mm distalmente e anteriormente rispetto l’epicon-dilo laterale. L’articolarità del gomito affetto è di solito nella norma rispetto al controlaterale, anche se negli atleti lanciatori può esserci un deficit di estensione.Le radiografie solitamente sono normali. La diagnosi differenziale deve essere fatta con la com-pressione del nervo radiale e la neuropatia compressiva del nervo interosseo posteriore, patologie intraarticolari del gomito, impingement postero-laterale del gomito, in-stabilità rotatoria posterolaterale, osteoartrite del capitel-lo radiale, radicolopatia cervicale C7, corpi mobili, oste-ocondrite, frattura del capitello radiale, plica sinoviale laterale.

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TrattamentoL’epicondilite risponde al trattamento conservativo nel 90-95% dei casi. Numerose sono le opzioni per un trattamen-to conservativo: riposo, antinfiammatori non steroidei, in-filtrazioni, tutori, FKT, ionoforesi, laserterapia, ultrasuoni, campi elettromagnetici pulsati, massoterapia, stretching, modifiche del gesto atletico, agopuntura e onde d’urto.Più recentemente sono state introdotte terapie che com-portano iniezioni di concentrato piastrinico e fattori di crescita autologhi  21-24. Il concentrato piastrinico (PRP, Platelet Rich Plasma) è un volume di plasma frazionato che si ottiene dalla centrifugazione del sangue intero e dalla successiva separazione delle piastrine dagli altri emocomponenti. Contiene una concentrazione di piastri-ne superiore ai valori basali che rilasciano diversi fattori di crescita. La guarigione delle ferite ed i processi di riparazione tissu-tale coinvolgono una complessa risposta cellulare e mole-colare, mediata da un’ampia gamma di fattori di crescita e citochine rilasciate dal plasma e da granuli intracellulari immagazzinati all’interno delle piastrine (α-granuli). Il PRP applicato nella sede di lesione fornisce quantità notevolmente superiori di questi mediatori con lo scopo di facilitare ed accelerare i processi di guarigione, aumen-tando la vascolarizzazione locale tramite la stimolazione della formazione di nuovi vasi. L’obiettivo della terapia infiltrativa con PRP è quello di ridurre o eliminare il dolore e l’infiammazione e recuperare la limitazione funziona-le. Alcuni Autori hanno dimostrato che l’iniezione di PRP determina la liberazione nel tessuto tendineo malato di una serie di sostanze cellulari e umorali che porta, attra-verso un complesso iter biologico, alla rigenerazione del tessuto  21 22. La procedura secondo alcuni autori porta ad un miglioramento delle condizioni cliniche e anche, in buona percentuale, dell’aspetto morfologico dei ten-dini 23. Rimane comunque un esiguo numero di pazienti che non presentano un cambiamento dell’imaging prima e dopo il trattamento anche a fronte di un netto miglio-ramento delle condizioni cliniche analizzate con i test di valutazione (VAS e Nirschl scores). La scarsa capacità rigenerativa dei tendini va forse ricercata nella loro esi-gua vascolarizzazione con conseguente ridotta nutrizione e ossigenazione del tessuto, caratteristica che spiega la bassa potenzialità di guarigione e di conseguenza la dif-ficoltà nel trattamento 24.

Tecnica chirurgicaAlla luce di quanto detto, il trattamento conservativo rap-presenta quindi il gold standard per questa patologia. Tut-tavia dal 5 al 10 % (in alcuni studi fino al 25%) di questi pazienti sviluppano una serie di sintomi che possono ri-chiedere il trattamento chirurgico. Spesso è la persistenza del dolore notturno a far optare paziente e chirurgo per

un trattamento più invasivo. Il trattamento chirurgico va riservato a quei pazienti in cui si assiste al fallimento del trattamento conservativo che non deve durare meno di 3 mesi. Il trattamento chirurgico può essere a cielo aperto, percutaneo o artroscopico, con percentuali di successo da buono a eccellente che variano da < 65 al 95% dei casi 20. Sono state descritte diverse tecniche a cielo aperto, le prime delle quali nel 1955 da Bosworth  25. Successiva-mente miglioramenti della tecnica sono stati apportati da Coonrad e Hooper 26, Nirschl e Pettrone 27, Baumgard e Schwartz 28 e Baker et al. 29 Bosworth propose 4 tipi di procedure chirurgiche: la sezione completa dell’origine aponeurotica comune dei muscoli estensori, la sezione dell’origine degli estensori e la rimozione della frangia sinoviale in prossimità del capitello radiale, la sezione completa dell’origine degli estensori e la resezione del legamento anulare e infine lo split verticale dell’origine comune degli estensori, associato alla resezione parziale del legamento anulare e la riparazione dell’origine degli estensori con una sutura sovrastante la testa del radio 25.Nirschl e Pettrone 27 riportarono la loro tecnica nel 1979. Tale tecnica prevede un accesso anteriore all’epicondilo. Si procede poi al distacco dell’inserzione dell’estensore radiale lungo del carpo (ERBL) dall’omero distale che viene retratta anteriormente per esporre così l’ERBC. A questo punto l’ERBC viene sollevato dalla sua origine in-serzionale in modo da esporre la zona del tendine alte-rata. Vengono rimossi tutti i tessuti patologici presenti, si disinserisce l’ERBC dalla sua origine e si praticano delle micro perforazioni al livello della regione anteriore dell’e-picondilo. Una riparazione anatomica dell’ECRL e EDC conclude la tecnica.Baumgard e Schwartz 28 descrissero un release percuta-neo nel 1982. A Baker et al si deve la prima esperienza e la classificazione delle lesioni inquadrate da un punto di vista artroscopico. La classificazione artroscopica di Baker prevede tre tipi di lesione. Il tipo I caratterizzato da assenza di rotture della capsula articolare laterale, il tipo II caratterizzato dalla presenza di una lesione longitudi-nale a livello della capsula articolare laterale, il tipo III da una rottura completa della capsula articolare laterale con retrazione e presenza di ampia esposizione dell’inserzio-ne tendinea dell’ERBC.Il trattamento artroscopico dell’epicondilite laterale avvie-ne in anestesia loco regionale o generale. L’arto supe-riore interessato viene reso temporaneamente ischemico mediante applicazione di bracciale pneumatico alla sua radice con il paziente in posizione prona. Si effettua un accesso anteromediale. Una volta ottenuta una buona vi-sualizzazione della superficie interna dell’ERBC e della capsula articolare laterale, se si ha una integrità di tali strutture si procederà al debridement artroscopico della

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capsula stessa attraverso il portale laterale. Asportata la porzione di tale capsula laterale, si otterrà la visualizza-zione della superficie interna dell’ERBC. A questo punto si può iniziare con la fase del release artroscopico, par-tendo dal punto di lesione e procedendo prossimalmente verso l’origine dell’inserzione muscolare a livello dell’e-picondilo laterale con uncino a radiofrequenza. Succes-sivamente, utilizzare un burr per decorticare l’epicondilo laterale o effettuare microperforazioni al fine di promuo-vere il processo riparativo grazie al sanguinamento così ottenuto. Da alcuni anni evitiamo di essere troppo aggressivi a livel-lo osseo asportando calcificazioni, se presenti, ma evitan-do microfratture e asportazioni in eccesso mediante burr.Nel periodo post operatorio si adotta una valva a 90° di gomito con articolazione radiocarpica in iperestensione per 15 giorni, inizio della FKT assistita attiva e passiva, ROM progressivo, crioterapia, esercizi di potenziamento graduali intorno alla 4-6 settimana una volta raggiunto

un rom completo, rieducazione ergonomica. Ritorno alla pratica sportiva intorno alla 6-8 settimana post op.

CONCLUSIONIL’epicondilite laterale è molto più frequente di quella me-diale.La maggior parte dei pazienti con epicondilite laterale o mediale rispondono ad un trattamento incruento. Tuttavia nei casi cronici con fallimento del trattamento incruento deve essere preso in considerazione il trattamento chirur-gico.La tecnica a cielo aperto è il metodo preferito per l’epi-trocleite.Per quanto riguarda l’epicondilite laterale preferiamo Il trattamento artroscopico descritto con un tasso di succes-so pari al trattamento a cielo aperto. L’artroscopia, tutta-via, è meno traumatica, consente il trattamento di associa-ti disturbi intrarticolari, e permette un più veloce ritorno al lavoro o sport rispetto alla procedura tradizionale aperta.

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P. VOLPI, A. QUAGLIA, L. BRAMBILLAUnità Operativa di Ortopedia del Ginocchio e Traumatologia dello Sport Humanitas Research Hospital - IRCCS - Rozzano, Milano

Indirizzo per la corrispondenza: Piero Volpivia Manzoni 56, 20089 Rozzano (MI)E-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S47-S49 S47

tions have been proposed.A very useful classification, that we use, includes three main forms:The pathology of the abdominal wall, pubic microtraumatic pa-thology, the adductor and abdominal muscle patology.Diagnosis. The diagnostic strategy uses a well conduct anam-nesis, an evaluation of the clinical symptoms and an accurate instrumental investigation.Treatment. The groin pain syndrome treatment is mainly conserv-ative except rare forms not involving the abdominal wall. The rest sports, local cryotherapy, nonsteroidal anti -inflammatory drugs, physical therapy, ultrasound, electrotherapy, high power laser, Tecartherapy, shock waves are useful and validated prin-cipals often in association with. The surgical treatment must be considered after the failure of conservative treatment and in the presence of a certain diagnosis.Key words: groin pain syndrome, etiology, diagnosis, treatment

INTRODUZIONECon il termine di pubalgia si fa riferimento a un’affe-zione tipica degli sportivi che ha un comune denomina-tore nel dolore in regione addomino-pubo-adduttoria. Anche se numerose definizioni sono state utilizzate per riferirsi a questo quadro patologico la terminologia “groin pain syndrome” sembra meglio raccogliere la vasta varietà di quadri patologici che possono ricon-dursi ad essa 1.Molte possono essere le cause di una pubalgia; svariate le attività sportive che possono favorirla anche se il cal-cio, il rugby, l’atletica leggera e l’hockey sono gli sport più coinvolti; l’incidenza oscilla fra il 2 e il 6% dei traumi sportivi. Sono coinvolti sia atleti di alto livello agonistico, sia chi pratica sport con intensità e frequenza, ma non in modo professionistico; quest’ultimi risultano essere più esposti in quanto spesso non mettono in atto nessun pre-sidio preventivo. Il sesso maschile ha un’incidenza relati-vamente maggiore, per fattori anatomici e biomeccanici, rispetto al sesso femminile, mentre non è risparmiato il giovane sportivo agonista. Spinelli 2 fu il primo a pubblicare settant’anni fa un lavoro che riguardava la pubalgia negli schermitori. Da allora molte sono state le pubblicazioni di svariati autori, ma senza riuscire a dare definizioni e inquadramenti precisi a quest’affezione tipica dello sportivo. Il calcio resta, per frequenza di praticanti e per diffusione, almeno in Euro-pa, lo sport più colpito. Molte sono le gestualità sia di tipo fisico, sia di tipo tecnico e tattico quali la corsa, il salto, i cambi di direzione, i dribbling, il gesto del calciare, i contrasti, il pressing, ecc. che nel calcio possono favorire l’insorgenza di una pubalgia.L’intensità richiesta negli allenamenti, la fisicità tipica de-gli atleti di oggi, la scarsa attenzione per i fattori preventi-vi costituiscono inoltre importanti fattori di rischio.

LA PUBALGIAThe groin pain syndrome

RiassuntoIntroduzione. Con il termine di pubalgia si fa riferimento ad una affezione tipica degli sportivi che ha un comune denominato-re nel dolore in regione addomino-pubo-adduttoria. Anche se numerose definizioni sono state utilizzate per riferirsi a questo quadro patologico, la terminologia “groin pain syndrome” sem-bra meglio raccogliere la vasta varietà di quadri patologici che possono ricondursi ad essa.Eziologia e classificazione. Molte possono essere le cause di una pubalgia e negli anni diverse classificazioni sono state proposte.Una classificazione, tra le altre, che riteniamo tra le più utilizza-bili, comprende tre forme principali:La patologia della parete addominale, l’artropatia pubica mi-crotraumatica, la mio-tendinopatia adduttoria e addominale.Iter Diagnostico. L’iter diagnostico si deve avvalere di un accura-to interrogatorio (anamnesi sportiva), di una valutazione clinica e d’indagini strumentali accurate. Le caratteristiche del dolore, in particolare, orientano il clinico verso un’ipotesi eziologica che potrà poi essere confermata o smentita mediante esami stru-mentali adeguati.Trattamento. Il trattamento è prevalentemente conservativo tran-ne che nelle non rare forme che interessano la parete addomi-nale che sono di pertinenza chirurgica. Il riposo sportivo, la crioterapia locale, i farmaci anti-infiammatori, la terapia fisica, ultrasuonoterapia, elettroterapia, laser ad alta potenza, tecarte-rapia, onde d’urto sono presidi utili e validati spesso in associa-zione ad un fisioterapia vera e propria. Il trattamento chirurgico, in genere, deve essere preso in considerazione dopo il fallimen-to del trattamento conservativo e in presenza di una diagnosi eziologia certa.Parole chiave: pubalgia, eziologia, diagnosi, trattamento

SummaryIntroduction. Groin Pain Syndrome refers to a athletes typical condition having a common denominator in pain in the abdomi-nal - pubis - adductor region.Although many definitions have been proposed to refer this path-ological, “groin pain syndrome” seems best to collect the wide variety of pathological conditions ascribed to it. Many causes can sustain a groin pain syndrome.Etiology and Classification. During last years, various classifica-

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P. VOLPI ET AL.

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EZIOLOGIA E CLASSIFICAZIONEDal punto di vista biomeccanico, il bacino costituisce un’au-tentica cerniera fra il tronco e gli arti inferiori, mentre le strutture mio-tendinee che s’inseriscono al pube agiscono sull’articolazione della sinfisi pubica come stabilizzatori. La sintomatologia e i differenti tipi di lesione anatomo-patologica indirizzano verso una classificazione che co-munque comprende molti quadri sovrapponibili che gene-rano spesso diagnosi imprecise e che portano a indirizzi terapeutici spesso non risolutivi, allungando così i tempi di recupero degli atleti. Sono stati descritti fattori intrinseci ed estrinseci che posso-no predisporre all’insorgenza della pubalgia nell’atleta.Tra i fattori intrinseci segnalati in letteratura 8-16, ricordia-mo l’antiversione del bacino, l’iperlordosi della colonna lombare, le dismetrie e i dismorfismi degli arti inferiori (ginocchio varo-valgo, piede cavo-piatto), i postumi di traumi agli arti inferiori non completamente risolti e spes-so frutto di recuperi affrettati. Tra i fattori estrinseci segnaliamo invece 17-20 l’inadegua-tezza degli equipaggiamenti sportivi e dei terreni di gio-co o errori di preparazione ed esecuzione del gesto atle-tico e lo stress agonistico.Ricordiamo come alcuni autori abbiano evidenziato più di 70 forme diverse di pubalgia e negli anni diverse clas-sificazioni sono state proposte 3 4.Una classificazione, che riteniamo tra le più utilizzabili, comprende tre forme principali:a. L’artropatia pubica microtraumaticab. La miotendinopatia adduttoria e addominalec. La patologia della parete addominale

a. L’artropatia pubica microtraumatica interessa prevalen-temente l’osso pubico con aspetti degenerativi a carico dell’articolazione della sinfisi.È spesso a carico di atleti dediti da lungo tempo a uno sport specifico che determina ipersollecitazioni mecca-niche e usura distrettuale. Concomita spesso una scarsa ampiezza dei movimenti del bacino e il quadro clinico, comunemente, non è correlato all’importanza del rilievo radiologico. b. La mio-tendinopatia adduttoria e addominale, vera sindrome retto-adduttoria, riguarda la giunzione mioten-dinea o l’entesi dei muscoli adduttori o addominali; può manifestarsi monolateralmente o bilateralmente. I muscoli addominali e adduttori sono strutture potenti a volte non equilibrate fra loro che trasmettono forze massimali in aree limitate dell’osso pubico.c. La patologia della parete addominale comprende tutta una serie forme patologiche della parete addominale e in particolare del canale inguinale, che possono essere di tipo congenito o acquisito, traumatico o microtraumatico, che si presentano con modalità variabili e possono riferir-

si a forme di ernia inguinale, a debolezze strutturali della parete addominale e anomalie del tendine congiunto.Secondo alcuni autori, inoltre, esiste un gruppo di pa-tologie, spesso inquadrate come pubalgia, ma che non sono riconducibili a lesioni tipiche delle strutture indicate e vengono inquadrate come “pseudopubalgie” 5 6.A tal proposito, è interessante la classificazione proposta da Omar et al. 7 dove vengono suggerite 37 diagnosi dif-ferenziali suddivise in 10 differenti categorie. Fra queste, vanno ricordate le lesioni di distretti muscolari adiacenti come l’ileo-psoas, sindromi canalicolari della parete addo-minale che riguardano intrappolamenti dei nervi ileoingui-nale, genitofemorale o altri, lesioni ossee come l’osteite pu-bica, fratture da stress, l’instabiltà della sinfisi pubica, fino a cause infiammatorie, neurologiche, infettive o tumorali.

ITER DIAGNOSTICOL’iter diagnostico si deve avvalere di un accurato interro-gatorio (anamnesi sportiva), di una valutazione clinica e d’indagini strumentali accurate. Il riscontro clinico si basa sulle caratteristiche del dolore: sede, irradiazione, insorgenza; sulla palpazione dei pun-ti dolorosi ossei e muscolo-tendinei; sulle manovre contra-state dei muscoli adduttori e addominali.Il dolore è monolaterale e solo nel 15% dei casi bilatera-le, prevalente è la localizzazione adduttoria e addomina-le rispetto alla sede perineale. La sintomatologia insorge in modo progressivo, mentre è più rara l’insorgenza acu-ta. Nelle forme iniziali la sintomatologia insorge durante l’attività sportiva, cessa e spesso scompare con il riposo nei giorni successivi. Nelle forme più gravi e croniche il dolore anche se sordo e attenuato è sempre presente an-che nelle attività della vita quotidiana e si accentua alla ripresa dello sport fino a determinare una vera impotenza funzionale e zoppia. Lo svolgimento dell’attività sportiva è comunque impedita.Lo studio dell’assetto in carico della colonna, del bacino e degli arti inferiori, della presenza di curve scoliotiche e/o dismetrie degli arti inferiori sono aspetti determinanti per l’inquadramento diagnostico, così come la deambulazio-ne può fornire elementi significativi. L’esame obiettivo evidenzia dolore alla palpazione in particolare sui punti ossei sede delle inserzioni muscolo-tendinee adduttorie e addominali. Le manovre contrastate dei muscoli addominali, obliqui dell’addome, adduttori a ginocchia flesse ed estese rappresentano fasi salienti dell’esame clinico. L’esame include la valutazione delle anche, della regione lombare e delle sacroiliache. L’accertamento strumentale prevede un bilancio radiolo-gico (Rx del bacino, colonna lombare, teleradiografia del rachide e arti inferiori, funzionale). Le radiografie dinamiche, in appoggio monopodalico alternato (flamin-go view), forniscono elementi sufficienti per escludere o

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LA PUBALGIA

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confermare un’instabilità della sinfisi pubica di solito di origine postraumatica. Va sempre considerata un’ecografia ed eventualmente una risonanza magnetica nucleare (RM) che ci può dare informazioni accurate sia sul tessuto muscolare che osseo. È particolarmente importante l’acquisizione, in risonanza magnetica, di una proiezione coronale obliqua per la va-lutazione dell’aponeurosi dell’adduttore lungo e del retto addominale 21.La risonanza magnetica, inoltre permette una valutazione sia di eventuali lesioni muscolo scheletriche che viscerali che possono essere concomitanti cause della sintomatolo-gia dolorosa.In genere non si ricorre all’utilizzo del mezzo di contrasto ma è sufficiente una RM standard a 1.5 Tesla 7.In casi particolari si può ricorrere a una scintigrafia (oste-oartropatia pubica). Una possibile e ricorrente diagnosi differenziale da consi-derare, soprattutto nei pazienti giovani e sportivi, è rappre-sentata dal cosiddetto conflitto femoro acetabolare (FAI). Il dolore si manifesta dopo attività fisica e sportiva (corsa, cal-cio, basket, ecc.) in regione inguinale; può essere intermit-tente e si accentua con postura seduta per un tempo prolun-gato. L’esame dell’articolazione coxo-femorale interessata evidenzia limiti al movimento, dolore all’intrarotazione, ad-duzione abbinata alla flessione (test di impingement). Una radiografia del bacino spesso risolve il dubbio diagnostico.

TRATTAMENTOIl trattamento è prevalentemente conservativo tranne che nelle forme (non rare) che interessano la parete addomi-nale e che sono di pertinenza chirurgica.

Il riposo sportivo, la crioterapia locale, i farmaci anti-in-fiammatori, la terapia fisica, ultrasuonoterapia, elettrotera-pia, laser ad alta potenza, tecarterapia, onde d’urto sono i presidi più utili, almeno in fase iniziale per contrastare e attenuare la sintomatologia dolorosa. È indubbio comun-que che la terapia riabilitativa rappresenti oggigiorno la via più affidabile e sicura per raggiungere risultati certi; in particolare consigliamo il ricorso all’idroterapia (esercizi in acqua), allo stretching, a un’attività muscolare progressiva che consenta di migliorare forza, resistenza ed elasticità e a un’attività coordinativa neuromuscolare globale. La ri-presa sportiva graduale e l’esclusione dei fattori di rischio completano un programma di recupero che coinvolge più professionalità (medico, fisioterapista, preparatore, allena-tore) verso una guarigione definitiva e duratura.Il trattamento chirurgico, in genere, deve essere preso in considerazione dopo il fallimento del trattamento conser-vativo. La strategia chirurgica è, come ovvio, conseguenza della sottostante patologia. In particolare, ci preme segnalare, nella frequente tendinopatia degli adduttori refrattaria al trattamento conservativo e di lunga durata, la possibi-lità di eseguire una tenotomia dell’adduttore lungo. In letteratura, è stato evidenziato un deficit medio di forza del 10% comunque ben compensato dagli altri muscoli dello stesso gruppo (adduttore breve, grande adduttore e pettineo) 22.La pubalgia è un argomento spesso controverso e di diffi-cile gestione, soprattutto per il fatto che la diagnosi risulta spesso complessa poiché solo con un’accurata diagno-si eziologica è possibile impostare il miglior trattamento possibile, sia esso conservativo che chirurgico.

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G. CARIMATI, F. RANDELLI, P. FERRUA*, L. SERRAO, P. BOTTIGLIA AMICI-GROSSI**Ortopedia 2. Reparto di Chirurgia dell’Anca, IRCCS Policlinico San Donato (MI); * Chirurgia Articolare del Ginocchio CARG - Istituto Ortopedico Gaetano Pini, Milano; ** I Divisione Ortopedia e Traumatologia Centro Studi e Ricerche in Traumatologia dello Sport, Istituto Ortopedico Gaetano Pini, Milano

Indirizzo per la corrispondenza:Filippo RandelliOrtopedia 2. Reparto di Chirurgia dell’Anca, IRCCS Policlinico San Donato (MI)E-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S50-S54S50

La sindrome compartimentale cronica (Chronic Exertional Compartment Syndrome-CECS) è definita come un’ische-mia transitoria causata da un’aumentata pressione all’in-terno di un compartimento muscolo-fasciale chiuso con conseguente riduzione della perfusione tissutale e com-parsa di un dolore di tipo ischemico. È una patologia spesso ricorrente associata ad attività fisica ripetitiva che colpisce prevalentemente gli atleti pra-ticanti sport come corsa, pattinaggio, ciclismo i cui gesti atletici specifici coinvolgono l’arto inferiore, e motocross e free climbing in cui l’arto superiore è maggiormente coinvolto  1. Tuttavia, anche soggetti sedentari, che non praticano sport, ne possono essere affetti 2.L’incidenza nella popolazione generale è poco conosciu-ta e può variare secondo i diversi Autori dal 10 al 60% 3. È una causa relativamente comune di dolore alla gamba con un’incidenza che va dal 27% al 33%, seconda solo alla Medial Tibial Stress Syndrome 4. I soggetti colpiti han-no un’età media di circa 20 anni. Non c’è differenza significativa tra i sessi  1. Detmer e Sharpe  5 nella loro casistica trovarono che l’87% dei pazienti affetti da CECS praticava sport e tra questi il 69% erano corridori. Edmun-dsson e Toolenen 6 riportarono una prevalenza del 90% di CECS in pazienti diabetici con dolore di gamba da sforzo in assenza di patologie vascolari.Si tratta di una patologia caratterizzata dalla presenza di un dolore che insorge a un preciso livello di sforzo, tale per cui la perfusione tissutale risulta compromessa non sopperendo più alle necessità metaboliche dei tessuti. Il dolore tipicamente crampiforme cessa con l’interruzione dello sforzo muscolare specifico. Questa caratteristica differenzia la CECS dalla sindrome compartimentale acuta, un’emergenza clinica in trauma-tologia, in cui il dolore non recede con il riposo e che richiede un trattamento chirurgico in emergenza per scon-giurare l’ischemia dell’arto e un danno tissutale perma-nente.Fu l’ufficiale medico Edward Wilson, che per primo, du-rante la spedizione britannica in Antartide guidata da Robert Falcon Scott (1910-1912) ne fece una prima de-scrizione 7. French e Price furono invece i primi a correla-re i sintomi con un documentato aumento della pressione intracompartimentale nel British Medical Journal 8.Mavor descrisse per primo l’intervento chirurgico di fa-sciotomia in un giocatore di calcio con CECS ad entram-be le gambe sul Journal of Bone and Joint Surgery nel 1956 9.L’esatta fisiopatologia delle CECS rimane poco chiara ma si pensa possa essere multifattoriale.L’aumento della pressione tissutale indotta dallo sforzo fisico in un compartimento osteofasciale non compliante è il fattore patogenetico primario e scatenante. Durante l’esercizio muscolare intenso e prolungato, infatti, si re-

SINDROMI COMPARTIMENTALI NELLO SPORTIVO: UNA DIAGNOSI DIFFICILEChronic exertional compartment syndrome in athletes: a difficult diagnosis

RiassuntoLa sindrome compartimentale cronica è definita come un’ische-mia transitoria causata da un’aumentata pressione all’interno di un compartimento osteofasciale chiuso. È una patologia spesso ricorrente associata ad attività fisica ripetitiva che colpisce pre-valentemente gli atleti. Si presenta tipicamente come un dolore sordo che comincia ad un ben definito e riproducibile livello di sforzo fisico. Il gold standard nella diagnosi della CECS rimane la misurazione della pressione intracompartimentale. Il tratta-mento iniziale dovrebbe essere di tipo conservativo e includere il riposo, l’uso di farmaci antiinfiammatori non steroidei e lo stretching. In caso di fallimento della terapia conservativa si ren-de necessario l’intervento di fasciotomia.Parole chiave: pressione intracompartimentale, fasciotomia, do-lore ischemico

SummaryChronic exertional compartment syndrome (CECS) is defined as reversible ischemia caused by an increased pressure within a closed osseofascial compartment. CECS is often recurrent and associated with repetitive physical activity and it is most com-monly seen in athletes. Tipically it presents with a dull pain that occurs at a well defined and reproducible level during exercise.The gold standard of diagnosing remains the measurement of in-tracompartmental pressure. Initial management of CECS should start with conservative methods which includes rest, use of non-steroidal anti-inflammatory drugs and stretching. In case of fail-ure of the conservative treatment, it is necessary the fasciotomy.Key words: intracompartmental pressure, fasciotomy, ischemic pain

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SINDROMI COMPARTIMENTALI NELLO SPORTIVO

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alizza un incremento dell’afflusso ematico distrettuale e della permeabilità del microcircolo. Queste alterazioni sarebbero a loro volta causa di un relativo incremento del liquido extracellulare e del volume muscolare che por-terebbero ad aumento della pressione intracompartimen-tale oltre i limiti fisiologici e ad un’ ischemia tissutale 10. Alcuni Autori hanno dimostrato che il volume muscolare può raggiungere fino al 20% in più delle sue dimensioni normali durante lo sforzo fisico 11.Tale teoria tuttavia non sembra essere avvalorata da alcun dato oggettivo e non ci sono studi che correlano l’aumen-to della pressione intracompartimentale con un’ischemia transitoria dei tessuti 1.Trease et al.  12 mediante studio scintigrafico S-PET, non trovarono alcun deficit di perfusione tissutale nei soggetti con aumentata pressione intracompartimentale rispetto a un gruppo di soggetti sani.Anche Amendola et al. 13, con l’aiuto della RMN, giun-sero alla conclusione che l’ischemia non fosse l’evento fisiopatologico primario responsabile della CECS.Successivamente sono state prese in considerazione altre possibili cause del dolore come uno squilibrio di ossige-nazione muscolare e nervoso, una stimolazione diretta dei nervi sensitivi della fascia e del periostio e un rilascio locale di chinine 1.Una ridotta forza, resistenza o elasticità muscolare o un esercizio fisico eccessivo sembrano rappresentare dei fat-tori di rischio importanti. Ad essi si associa l’utilizzo di steroidi anabolizzanti o creatina che aumenterebbero il volume muscolare e pertanto il rischio relativo di svilup-pare una CECS.Brennan e Kane  14 hanno dimostrato che negli sportivi adulti la contrazione muscolare eccentrica contribuisce alla diminuzione della compliance fasciale e quindi pre-dispone allo sviluppo di CECS.Edmusson et al. 15 trovarono nei pazienti con CECS una ridotta densità capillare che sarebbe all’origine della ri-dotta vascolarizzazione muscolare.Le alterazioni anatomiche a carico della fascia muscolare giocherebbero anch’esse un ruolo significativo. È stato, infatti, stimato che circa dal 10% al 60% degli atleti con CECS presenta dei difetti fasciali 14. La sede più frequen-te è vicino al setto intramuscolare tra comparto anteriore e laterale della gamba, dove fuoriesce il nervo peroneo superficiale.Turnipseed, Hurschler e Vanderby 16 trovarono una fascia più dura e spessa del normale in pazienti con CECS alla gamba.Anche se la CECS può coinvolgere qualsiasi comparti-mento osteofasciale del corpo come il comparto volare dell’avambraccio, la coscia, il piede e la mano, la loca-lizzazione più frequente, con il 95% dei casi è appunto la gamba 1. Nell’82% è bilaterale.

ANATOMIALa gamba è divisa in quattro compartimenti: anteriore, laterale, posteriore superficiale e posteriore profondo. Il muscolo tibiale posteriore può essere delimitato da una propria fascia e pertanto è da molti considerato come il quinto compartimento della gamba (Fig.1).Il compartimento anteriore è il più colpito (45%) seguito dal compartimento posteriore profondo (40%). Il compar-timento anteriore contiene il nervo peroneo profondo, il muscolo tibiale anteriore, il muscolo peroneo terzo, l’e-stensore lungo delle dita e l’estensore lungo dell’alluce. Un aumento pressorio in questa sede può causare dei deficit sensitivi nel 1° spazio interdigitale, parestesie al dorso del piede e più raramente deficit nella dorsiflessio-ne della caviglia e nell’estensione delle dita. Il compartimento laterale è formato dal muscolo peroneo lungo e peroneo breve e dal nervo peroneo superficiale. Segni di compressione di tale spazio includono pare-stesie al dorso del piede e un deficit dell’eversione del piede. Le strutture contenute nel compartimento posteriore super-ficiale sono il muscolo gastrocnemio e soleo e il segmento distale del nervo surale. Il sintomo di compromissione in questa sede è caratterizzato dall’intorpidimento della par-te laterale del piede e del polpaccio distale e da un deficit della flessione plantare. Lo spazio posteriore profondo delimita il muscolo tibiale posteriore, il flessore lungo delle dita, il flessore lungo dell’alluce, l’arteria peroneale e il nervo tibiale posterio-re. Un aumento pressorio in questo comparto causa un deficit della flessione delle dita e dell’inversione del piede e parestesie della parte plantare del piede.

FIGURA 1.I compartimenti della gamba.

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DIAGNOSILa sindrome compartimentale da sforzo cronico, come detto, si presenta tipicamente con un dolore che comincia a un ben definito e riproducibile livello di sforzo fisico. Il dolore, inizialmente di tipo sordo, peggiora con il per-sistere dell’attività fisica e cessa con il riposo. Può esse-re accompagnato da altri sintomi come una debolezza muscolare e parestesie nel territorio d’innervazione del nervo colpito.L’esame clinico è negativo se il paziente è a riposo e asin-tomatico. Se invece viene eseguito in presenza di dolore e subito dopo lo sforzo fisico è possibile notare un’ipertro-fia muscolare associata spesso a pallore.Alla palpazione il muscolo può presentarsi duro, i polsi periferici sono tipicamente presenti e validi.Lo stretching muscolare passivo riacutizza il dolore in condizioni di elevata pressione intracompartimentale. Possono essere presenti e palpabili delle erniazioni del muscolo nel 40-60% dei casi ma non sono segni specifici di CECS 17. Benché l’esame clinico risulti spesso negativo può tuttavia essere utile per differenziare la CECS dalle altre cause di dolore da sforzo cronico della gamba (Tab. I).

Attualmente il gold standard nella diagnosi della CECS rimane la misurazione della pressione intracompartimen-tale in condizioni di riposo e dopo l’esercizio fisico. Sono state proposte numerose tecniche di misurazione, ugual-mente accurate, tra cui la manometria ad ago che rimane

la più utilizzata (70% dei casi), la manometria ad ago side-ported, la manometria con catetere slit, la manome-tria con catetere wick, l’infusione microcapillare e la ma-nometria con trasduttore solid-state 4.Attualmente non esiste un protocollo standard che descri-va la corretta posizione, profondità e angolo d’inclinazio-ne del catetere o ago utilizzato.Alcuni Autori 18 hanno suggerito che, per la valutazione della pressione intracompartimentale della gamba il gi-nocchio venga mantenuto a 10° di flessione mentre la caviglia in posizione neutra o lievemente plantarflessa.Altri autori eseguono l’introduzione dell’ago o dello slit catheter sotto controllo ecocolor doppler per prevenire danni iatrogeni vascolo nervosi e monitorizzare il corretto posizionamento sub fasciale 10 (Fig. 2).I criteri diagnostici proposti da Pedowitz e coll.  19 sono i più citati in letteratura e la presenza di uno o più di essi è considerata sufficiente per porre diagnosi di CECS. Comprendono:• Pressione a riposo > 15 mm HG;• Pressione ad 1’ dalla sospensione dell’esercizio > 30

mm Hg;• Pressione a 5’ dalla sospensione dell’esercizio > 20

mm Hg.

In aggiunta a questi un innalzamento pressorio > a 10 mm Hg rispetto al valore basale in un singolo compartimento è considerato diagnostico. Tali livelli pressori dovrebbero rimanere elevati per 30’ o più in caso di CECS 4.È stato proposto anche di utilizzare i criteri di Whitesides e Heckman 20, concepiti per la sindrome compartimentale acuta, come valido strumento per la diagnosi di CECS.

FIGURA 2.Valutazione della pressione intracompartimentale sotto controllo ecocolor doppler.

TABELLA 1Diagnosi differenziale del dolore di gamba associato allo sforzo.

Patologie muscolo-scheletriche Medial Tibial Stress SyndromeFratture da StressEntesopatieMiopatieTenosinovitiBorsitiPeriostiti

Patologie vascolari Trombosi Venosa ProfondaEndofibrosiSindrome da intrappolamento dell’arteria popliteaCystic Adventitial Disease

Patologie neurologiche Intrappolamento rami nervosiClaudicatio neurogenicaStenosi canale midollareRadicolopatieNeuropatie periferiche

InfezioniTumori

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SINDROMI COMPARTIMENTALI NELLO SPORTIVO

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In realtà non è presente in Letteratura un consenso una-nime su nessuno di questi criteri, a causa della scarsa metodologia e dei numerosi bias che contraddistinguono la maggior parte degli studi.Roberts et al. 21 nella loro recente review sistematica con-fermano i limiti degli attuali criteri, sottolineando la ne-cessità di un protocollo standard nelle misurazioni e di ulteriori studi più accurati. Inoltre essi suggeriscono che i valori soglia di pressione intracompartimentale diagnosti-ci per CECS siano: 14 mm Hg a riposo, 36 mm Hg a 1’e 23 mm Hg a 5’.Negli ultimi anni molti Autori hanno proposto tecniche dia-gnostiche alternative, e meno invasive, alla misurazione diretta della pressione intracompartimentale, tra cui l’uti-lizzo della RMN e la Spettroscopia ad infrarossi (NIRS, Near Infrared Spectroscopy). Un RMN suggestiva di CECS presenta un aumento dell’intensità del segnale nel-le sequenze T2 pesate nel muscolo durante l’esercizio 23. La NIRS rappresenta un altro promettente test diagnostico. Essa è infatti in grado di mostrare la deossigenazione del muscolo durante l’esercizio fisico 24.

CENNI DI TERAPIAIl trattamento iniziale della CECS dovrebbe essere di tipo conservativo e includere, generalmente, il riposo, l’utilizzo di farmaci antiinfiammatori non steroidei, lo stretching, e se necessario l’utilizzo di ortesi plantari. In un recente stu-dio 25 è stata sottolineata l’importanza della corsa con ap-poggio sull’avampiede nell’ alleviare i sintomi della CECS del compartimento anteriore nel corridore. Non vi sono studi che confermino la validità di altre terapie conserva-tive, quali il massaggio profondo e le terapie fisiche, ad esempio gli ultrasuoni. In caso di fallimento della terapia conservativa e del persistere dei sintomi per un periodo superiore a 6-12 settimane si renderà necessario il trat-tamento chirurgico 26. In letteratura sono presenti diverse descrizioni di tecniche chirurgiche di decompressione, tra cui: la fasciotomia aperta a una o due incisioni 1 27, la fa-sciotomia percutanea 1 28, l’associazione con fascectomia parziale 29 o, in tempi più recenti, le fasciotomie percuta-nee endoscopiche (Fig. 3) 30. Non vi sono studi che dimo-strino la superiorità di una tecnica rispetto a un’altra; tut-tavia, la fasciotomia endoscopica garantisce una miglior visualizzazione delle strutture anatomiche a rischio e per-mette un accesso completo a tutto il compartimento 30. Indi-pendentemente dalla scelta chirurgica ogni ernia fasciale presente deve essere comunque inclusa nell’incisione.La fasciotomia è un procedimento chirurgico che si è di-mostrato efficace nel risolvere la sintomatologia algica e permettere il ritorno all’attività sportiva nel 90% dei casi 10 31. Il release del comparto anteriore e laterale del-la gamba presenta una percentuale di successo che va dall’80 al 100%  4, rispetto al 50-65%  4 riscontrato nel

comparto posteriore profondo. La percentuale di recidiva osservata con le varie tecniche chirurgiche va dal 2% al 17% 32 33 ed è da attribuire ad un’incompleta fasciotomia del compartimento o al mancato release di altri comparti-menti contigui. In molti casi infatti i compartimenti anterio-re e laterale della gamba vengono interessati contempo-raneamente, pertanto molti Autori eseguono in maniera routinaria il release di entrambe le fasce. Non esistono attualmente linee guida standard per il trat-tamento postoperatorio. Generalmente sono previsti il bendaggio compressivo, la crioterapia locale, il riposo e l’elevazione dell’arto. Il carico tutelato è concesso da subi-to e la mobilizzazione attiva e passiva deve essere il più precoce possibile, al fine di limitare la formazione di ade-renze e mantenere compliante il compartimento. Il ritorno all’attività sportiva è previsto dopo circa 8-12 settimane 4.Le possibili complicanze del trattamento chirurgico sono: la formazione di ematomi, possibili infezioni, lesioni ner-vose e trombosi venosa profonda e la loro incidenza va, nelle diverse serie, dal 2 al 13% 4.

CONCLUSIONILa CECS è una patologia relativamente frequente e spes-so misconosciuta. Tipicamente si osserva un ritardo dia-gnostico di circa 22 mesi, spesso dovuto all’assenza di segni clinici specifici, fatta eccezione per il dolore asso-ciato allo sforzo. È quindi la storia clinica l’elemento più suggestivo per il sospetto diagnostico di una CECS. La misurazione della Pressione intracompartimentale rimane attualmente il gold standard per confermare la diagnosi, così come la fasciotomia rappresenta ancora la procedu-ra terapeutica di prima scelta. Tutti gli Autori sono concor-di nell’affermare la necessità di studi clinici più accurati che possano garantire linee guida standard nel percorso diagnostico e terapeutico.

FIGURA 3.Fasciotomia aperta a 2 incisioni.

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M. RAMPOLDIUOC Ortopedia 2C.T.O. di Roma

Indirizzo per la corrispondenza:Michele Rampoldivia D. Silvagni 4, 00152 RomaE-mail [email protected]

2014;40(suppl.3):S55-S61 S55

Carpometacarpal dislocations of long fingers are more frequent respect to those of the thumb; ulnar metacarpals are commonly interested; carpal and metacarpal fractures are frequently as-sociated. 46 cases have been treated; 37 with closed reduction and percutaneous pinning, while 9 needed an open reduction. Results are excellent, with complete functional recovery, in pa-tients treated early; delayed treatment is associated with less favourable results.Carpometacarpal dislocation of the thumb is a rare injury. In-stability is the consequence of the tears of the dorsoradial liga-ments that must be repaired surgically to restore and maintain the proper articular relationship. In our experience surgical re-construction using suture anchors through a dorsal approach has led to very satisfactory clinical and radiographical results. Chronic instability, generally consequence of failure of primary treatment, has to be managed with legamentoplastic procedures with tendon sling.Key words: carpometacarpal dislocation, instability

INTRODUZIONELe lussazioni delle articolazioni carpo-metacarpali sono lesioni relativamente poco frequenti. In considerazione della diversità anatomica fra i raggi digitali occorre di-stinguere fra le lussazioni che interessano le dita lunghe e le lussazioni della articolazione trapezio-metacarpale del primo raggio, molto più frequentemente associata ad un’instabilità residua.

INSTABILITÀ CARPO-METACARPALE DELLE DITA LUNGHE Le articolazioni carpo-metacarpali delle dita lunghe sono artrodie a sella con gradi diversi di mobilità in relazione alla conformazione anatomica e all’apparato legamen-toso che le stabilizza. Nakamura et al., attraverso uno studio anatomico su 80 cadaveri, hanno descritto accura-tamente i legamenti carpo-metacarpali e intermetacarpali di queste articolazioni  1. Dorsalmente sono descritti tre legamenti carpo-metacarpali per il secondo e terzo meta-carpo e due per il quarto e quinto metacarpo; volarmente il secondo metacarpo è stabilizzato da un solo legamen-to, il terzo da quattro distinti legamenti, il quarto e quinto da un solo legamento. A questi vanno associati diversi legamenti intermetacarpali dorsali e volari e un legamen-to intrarticolare localizzato fra il capitato e l’uncinato e la base del terzo e quarto metacarpo. Le articolazioni carpo-metacarpali del secondo e terzo raggio non hanno praticamente movimento. Per il secon-do raggio è descritto 1° di escursione articolare in senso antero-posteriore e fra 2° e 3° per il terzo raggio; questo è il risultato dell’architettura ossea “ad incastro” fra le basi dei metacarpi e la filiera distale del carpo (trapezio, trapezoide e capitato) e dallo spessore e robustezza dei legamenti. La conformazione della superficie articolare dell’uncinato e la minore robustezza dei legamenti con-tribuiscono ad una maggiore mobilità delle articolazione

INSTABILITÀ CARPO METACARPALECarpometacarpal instability

RiassuntoLe lussazioni carpo metacarpali sono lesioni relativamente rare e poco studiate; il loro trattamento risulta ancora controverso. Dall’analisi della letteratura e della esperienza personale ven-gono discussi gli aspetti anatomo-patologici, diagnostici e di trattamento delle lussazioni carpo-metacarpali delle dita lunghe e di quelle dell’articolazione carpo-metacarpale del pollice. Il trattamento di queste lesioni è sempre chirurgico; la semplice riduzione incruenta e l’immobilizzazione in gesso espongono frequentemente ad una instabilità secondaria e alla conseguen-te degenerazione articolare. Le più frequenti lussazioni carpo-metacarpali delle dita lunghe interessano prevalentemente i raggi ulnari e sono spesso asso-ciate a fratture carpali o della base del metacarpo corrispon-dente. Sono stati trattati 46 casi; in 37 è stato possibile eseguire una riduzione incruenta e stabilizzazione percutanea con fili di K mentre in 9 è stata necessaria la riduzione a cielo aperto della lesione. I risultati sono eccellenti, con completo recupero funzionale, quando le lesioni sono trattate precocemente, meno brillanti quando trattate a distanza. La lussazione carpo-mtacarpale del pollice è una lesione rara. L ’instabilità è conseguente alla lesione capsulo legamentosa dor-soradiale che deve essere riparata chirurgicamente. In queste lesioni, difatti, la riparazione diretta della lesione appare indi-spensabile al mantenimento dei corretti rapporti articolari. Nella nostra esperienza la reinserzione con ancorette alla base del metacarpo attraverso un accesso dorsale ha garantito risultati clinici e radiografici molto soddisfacenti. Nelle instabilità cro-niche, più spesso conseguenza dell’insuccesso del trattamento iniziale, è necessario ricorrere a tecniche di legamento plastica.Parole chiave: lussazione carpo-metacarpale, instabilità

SummaryCarpometacarpal dislocations are relatively rare and not well known injuries; their treatment is still controversial. Through the review of the literature and their personal experience, the anatomo-pathological, diagnostic and treatment aspects of carpometcarpal dislocations of long fingers and of the thumb are discussed. Surgical treatment is needed in all cases; simple closed reduction and immobilization frequently leads to second-ary instability and degenerative arthritis.

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carpo-metacarpali del quarto e quinto raggio. La super-ficie piana della base del quarto metacarpo consente un’escursione articolare di circa 10° mentre l’orientamen-to obliquo del quinto metacarpo determina un arco di movimento in flesso estensione di circa 30°. La stabilità articolare, pertanto, decresce in senso radio-ulnare dal secondo al quinto metacarpo. Quest’ultimo è difatti quello più frequentemente interessato dalla lussazione; in questo caso alla instabilità articolare concorre anche la forza deformante del tendine Estensore Ulnare del Carpo che si inserisce dorsalmente sulla base del 5° metacarpo.Le lussazioni carpo-metacarpali sono considerate lesioni rare. Muller nel 1986, attraverso una revisione della lette-ratura mondiale, aveva identificato 54 casi di lussazioni isolate e 89 casi di lussazioni multiple 2; si tratta per lo più di case report o di serie limitate a pochi casi. La casistica più ampia è espressa da Frick et al che riportano la loro esperienza su 100 casi trattati in 7 anni (2002-2009) 3. Una revisione delle lussazioni carpo-metacarpali osserva-te nel nostro reparto ha evidenziato un numero di casi sorprendentemente elevato. Fra il 2002 e il 2013 sono state trattate 46 lussazioni carpo-metacarpali delle dita lunghe; la grande maggioranza di queste, 39 casi riguar-davano il 4° e 5° metacarpo. È probabile pertanto che queste lesioni, anche in relazione all’aumento dei traumi ad alta energia, non siano così rare come potrebbero far pensare i pochi casi descritti in letteratura.Le lussazioni sono il risultato di traumi diretti o, meno fre-quentemente, indiretti; la direzione della forza determina la lussazione volare o dorsale dell’articolazione. In rela-zione alla stabilità intrinseca delle diverse articolazioni le forze necessarie alla lussazione sono maggiori per il 2° e 3° metacarpo rispetto a quelle necessarie per dislo-care i metacarpi più ulnari; ne consegue che le più rare lussazioni dei metacarpi centrali sono sempre conseguen-za di traumi ad alta energia ed associati ad un maggior interessamento dei tessuti molli mentre al contrario le lus-sazioni del 4° e in particolare del 5° metacarpo possono essere determinate anche da traumi a bassa energia. Più comunemente la forza traumatica agisce determinando la lussazione dorsale dei metacarpi; più rara è la lussazione volare, spesso riscontrata in lussazioni multiple da trau-mi ad elevata energia, mentre limitate a casi eccezionali sono le lussazioni divergenti in cui si associa una lussa-zione dorsale di uno o più metacarpi e la contempora-nea lussazione volare dei restanti metacarpi 4 5. L’evento traumatico di più comune riscontro è il pugno; sebbene in questo tipo di trauma il 5° metacarpo è quello più fre-quentemente interessato 3 un’instabilità del 2° e 3° meta-carpo è stata descritta in pugili professionisti 6. Le lussazioni pure sono rare mentre più frequentemente associate a fratture del carpo 4 7 o della base del metacar-po corrispondente  3. Le lesioni più frequenti riguardano

la lussazione del 5° metacarpo associate a frattura della base del 5° e/o 4° metacarpo e/o dell’uncinato  8. Le fratture interessano in genere la superficie articolare, con possibile affondamento della stessa, e sono spesso com-minute e/o associate ad avulsione di uno o più frammenti.La diagnosi di lussazione carpo-metacarpale non sempre è agevole e non sono rari i casi di mancato o ritardato riconoscimento della lesione  4 9. L’esame clinico eviden-zia tumefazione, edema diffuso e dolore locale con de-formità variabile in relazione alla sede e direzione della dislocazione; si associa limitazione del movimento delle dita interessate. Alcuni tipi di lussazione possono deter-minare complicanze neurologiche e vascolari. La branca motoria del nervo ulnare decorre volarmente alla artico-lazione carpo-metacarpale del 5° raggio e può essere traumatizzata nelle lussazioni volari di questo metacarpo. Le lussazioni volari dei metacarpi centrali possono invece essere responsabili di sindromi acute di compressione del nervo mediano nel suo canale 10; la possibile avulsione del tendine dell’ERC è stata descritta dagli stessi autori.Nella diagnosi della instabilità carpo-metacarpale è in genere sufficiente la radiologia tradizionale. In presenza di lussazione l’esame evidenzia l’interruzione dell’arco metacarpale, il mancato parallelismo e la sovrapposizio-ne dei margini delle superfici articolari con la riduzione o scomparsa dello spazio articolare. Alle proiezioni ra-diografiche standard in AP e laterale dovrebbero essere associate le due proiezioni oblique a 30° che meglio vi-sualizzano il profilo dell’arco metacarpale; la proiezione obliqua in supinazione evidenzia l’articolazione carpo-metacarpale dell’indice mentre quella in pronazione quel-le del 4° e 5° raggio (Fig. 1 a,b). Il trattamento di queste lesioni deve essere sempre chirur-gico. La riduzione incruenta, se eseguita a breve distanza dal trauma, è in genere in grado di ripristinare i corretti rapporti articolari ma non è altrettanto in grado di mante-nere la riduzione nel tempo. Su una serie di 20 pazienti trattati incruentamente Lawlis et al riportano che solo in un caso la riduzione ottenuta era stata mantenuta 11. L’ede-ma massivo, la possibile interposizione di tessuti molli o di frammenti di frattura, la trazione esercitata dalle inser-zioni tendinee sono tutti fattori che concorrono all’insuc-cesso del trattamento incruento. La stabilizzazione percu-tanea con fili di K, viceversa, è sufficiente nella maggior parte dei casi a mantenere la riduzione ottenuta (Fig. 1 c,d). Vengono impiegati uno, due o tre fil di K; di questi uno attraversa l’articolazione carpo-metacarpale mentre il secondo può fissare la base del metacarpo lussato al metacarpo adiacente. L’immobilizzazione e i mezzi di sintesi sono mantenuti per un periodo variabile fra le 4 e le 8 settimane; la maggior parte degli autori concorda in un periodo di 6 settimane 12. La riduzione chirurgica della lussazione è indicata nelle lesioni esposte, in pre-

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INSTABILITÀ CARPO METACARPALE

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senza di complicanze neurologiche o vascolari (sindrome compartimentale), in caso di insuccesso della riduzione incruenta della lussazione o delle fratture associate e nelle lussazioni inveterate. L’accesso dorsale prevede un’inci-sione longitudinale, trasversale o obliqua, l’esposizione dell’articolazione, la riduzione e la stabilizzazione della lussazione e delle eventuali fratture associate con fili di

K o altri mezzi di sintesi (cambre, microviti). Per le lussa-zioni del 2° e 3° metacarpo alcuni autori raccomandano un’artrodesi immediata; Hanel riporta ottimi risultati clinici in 4 pazienti affetti da lussazione carpo-metacarpale dei metacarpi centrali e sottoposti ad artrodesi primaria 13.L’analisi dei risultati riportati in letteratura evidenzia ri-sultati clinici eccellenti nella grande maggioranza dei

FIGURA 1.Lussazione carpo-metacarpale del 5° metacarpo. Apparente normalità dei rapporti articolari in AP (a); la lussazione è evidente nella proiezione obliqua con frattura parcellare dell’uncinato (b). Riduzione incruenta e stabilizzazione con due fili K (c,d).

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pazienti diagnosticati e trattati precocemente. Lawlins e Gunther riportano risultati eccellenti in 13 su 15 pazienti trattati a cielo aperto 11. In uno studio su 100 casi Frick et al hanno ottenuto risultati clinici eccellenti nel 81% dei casi; viceversa imperfezioni radiografiche erano riscon-trate nel 32% dei casi, la maggior parte dei quali trattati mediante pinning percutaneo 4. I risultati appaiono meno brillanti nelle lussazioni dei metacarpi centrali, nelle lussa-zioni volari e, in particolare, nei casi inizialmente passati misconosciuti o associati a complicanze 7. Le lussazioni che interessano più metacarpi, sempre se trattate precoce-mente, non sembrano avere una prognosi peggiore rispet-to alle lussazioni di un singolo metacarpo 14 15.Nelle lussazioni inveterate il ricorso all’artodesi carpo-metacarpale appare logica specie nei metacarpi centrali che hanno mobilità praticamente nulla e i risultati assolu-tamente soddisfacenti  6. Maggiori controversie esistono nel trattamento del 5° metacarpo dove l’artrodesi elimina quei 30° di mobilità dell’articolazione carpo-metacarpa-le. Dubert e Khalifa propongono un’“artroplastica stabi-lizzata” per conservare una certa mobilità del raggio; per eliminare il conflitto articolare la base del metacarpo vie-ne resecata, mantenendo l’inserzione dell’EUC, e il meta-carpo stesso fuso al 4° metacarpo adiacente così da con-servare attraverso di questi un certo grado di mobilità 16.

ESPERIENZA PERSONALEDal 2001 al 2012 sono stati trattati 46 pazienti – 39 maschi e 7 femmine di età media di 36 anni, limiti 18-65 anni – affetti da lussazione carpo-metacarpale delle dita lunghe. La lussazione di un singolo metacarpo era pre-sente in 36 pazienti, 31 riguardanti il 5° metacarpo, 4 il secondo e 1 il 4° metacarpo. La lussazione era dorsale in 34 pazienti e volare in due. In 18 di questi la causa era da riferire ad un trauma diretto sulla mano chiusa a pugno. In 10 pazienti la lussazione riguardava due o più metacarpi, il 4° e 5° in 7 casi, il 2° e 3° in 2, il 2°, 3° e 4° in un singolo caso. 36 pazienti sono stati trattati entro i dieci giorni dal trauma; in 10 casi la diagnosi era pas-sata misconosciuta e i pazienti sono stati operati da 15 a 92 giorni dal trauma. Le lesioni erano esposte in 5 casi e chiuse nei rimanenti 31. Fratture del metacarpo corri-spondente o delle ossa del carpo erano presenti in 37 pa-zienti (80,4%). In 9 pazienti la riduzione è stata esegui-ta a cielo aperto mentre nei restanti 37 è stata possibile una riduzione incruenta e la stabilizzazione percutanea con fili di K. In nessun caso è stata eseguita un’artrodesi carpo-metacarpale.Dei 46 pazienti trattati è stato possibile controllarne clini-camente solo 28 (60%). 5 di questi presentavano esiti di lesioni complesse asso-ciate della mano e del polso che impedivano una valuta-zione funzionale specifica della lesione. Dei 23 pazienti

restanti 20 riferivano di non avere alcun dolore e nessuna limitazione funzionale avendo ripreso le precedenti atti-vità manuali. In 3 casi era riferito un saltuario indolenzi-mento dopo sforzi manuali e un recupero funzionale non completo; in tutti questi ultimi l’intervento era stato esegui-to a distanza di almeno 15 giorni dal trauma.

INSTABILITÀ CARPO-METACARPALE DEL POLLICE (O INSTABILITÀ TRAPEZIO-METACARPALE)La lussazione pura dell’articolazione carpo-metacarpale del pollice ( o trapezio-metacarpale, T-M) è una lesio-ne rara e molte controversie esistono sul trattamento da adottare. La conformazione geometrica a sella del-le superfici articolari che compongono l’articolazione (ciascuna delle quali presenta un porzione concava e una convessa che si incastrano reciprocamente) favori-sce una grande mobilità articolare, indispensabile per la completa opposizione, ma, al tempo stesso, è respon-sabile di una limitata stabilità. La stabilità è assicurata principalmente dalla capsula articolare e dai legamen-ti i quali, unitamente alla tensione passiva dei muscoli, concorrono anche a limitare l’escursione articolare. Due legamenti principali concorrono alla stabilità. Il legamen-to anteriore obliquo, nella porzione anteriore dell’ar-ticolazione, è stato per anni considerato l’elemento di stabilizzazione principale 17. Viceversa, Strauch, in uno studio su cadavere, dimostrava come il principale sta-bilizzatore dell’articolazione trapezio-metacarpale sia il robusto complesso dorso-radiale 18; questa osservazione è stata confermata clinicamente da Shah e Patel che han-no evidenziato la lesione del legamento dorso radiale e l’integrità del legamento anteriore obliquo in 4 casi di lussazione traumatica acuta dell’articolazione trapezio-metacarpale  19. Un’analisi della letteratura sugli studi anatomici, biomeccanici e istopatologici dei legamenti di questa articolazione conferma questa concezione: i le-gamenti dorsali rappresentano i principali stabilizzatori dell’articolazione T-M 20. La lesione è in genere conseguenza di una forza che si trasmette assialmente sul pollice flesso. Clinicamente si evidenzia una deformità del profilo del primo raggio associata a tumefazione, dolore impotenza funzionale nei movimenti. L’esame radiografico dimostra la dislocazione dorsale del primo metacarpo rispetto al trapezio.Il trattamento della lussazione acuta della T-M ha lo scopo di ottenere un corretto ripristino dei rapporti articolari e di evitare l’instabilità secondaria e la conseguente degene-razione articolare. La possibilità di una guarigione spon-tanea della lesione capsulo-legamentosa è stata suggerita da alcuni autori. Khan et al. riportano risultati assoluta-mente soddisfacenti in un caso di lussazione bilaterale trattato con riduzione e immobilizzazione in gesso 21. Bo-

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INSTABILITÀ CARPO METACARPALE

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smans et al 22 dimostrano una completa stabilità articola-re in due casi trattati incruentemente a 3 anni dal trauma. Peraltro, la maggior parte degli studi partono dal presup-posto che l’articolazione rimane instabile dopo la riduzio-ne della lussazione e che il trattamento di queste lesioni necessita di gesti aggiuntivi. La stabilizzazione della ridu-zione mediante pinning percutaneo è una tecnica sempli-ce ed ha ottenuto buoni risultati in diverse casistiche 23 24. La possibilità di un’instabilità secondaria con tale tecnica è stata però dimostrata da altri studi. Jacobsen e Eberg 25 evidenziano la persistenza di una sublussazione dell’ar-ticolazione a 18 mesi dal trattamento con pinning percu-taneo. Watt e Hooper 26 riportano un’instabilità con su-blussazione dorsale clinicamente sintomatica in due terzi dei pazienti operati mediante riduzione e stabilizzazione con fili di K. Simonian e Trumble  27 hanno studiato due gruppi di pa-zienti che avevano riportato la lussazione pura della T-M. I pazienti del primo gruppo (8 casi) erano stati sottoposti a riduzione e pinning percutaneo mentre quelli del secondo gruppo (9 casi) a ricostruzione a cielo aperto e legamento plastica con tendine del FRC. Nel primo gruppo 4 pazienti su 8 avevano riportato risultati insoddisfacenti con neces-sità di reintervento per instabilità o artrosi mentre nel se-condo gruppo tutti avevano ottenuto risultati soddisfacenti ad un follow-up minimo di 2 anni. Gli autori concludevano che in queste lesioni era raccomandata una ricostruzione immediata della lesione legamentosa per prevenire l’insta-bilità successiva e la conseguente possibile degenerazione artrosica. La tecnica di legamento plastica con tendine del FRC descritta da Eaton e Littler è quella più frequentemente impiegata 28 29. Altre tecniche descritte impiegano il tendi-ne del palmare gracile, l’ERLC, l’ALP.Nelle lesioni acute, tuttavia, appare più fisiologica la riparazione diretta della lesione capsulo legamentosa dorsale che si è venuta a determinare a seguito della lussazione. Pequignot riporta risultati positivi in una se-rie di 15 casi trattati mediante riparazione della lesione legamentosa dorsale 30. La reinserzione alla base del me-tacarpo con ancorette appare la tecnica attualmente più impiegata 31.

ESPERIENZA PERSONALELa nostra esperienza è relativa a 5 casi di lussazioni trau-matiche acute e a 5 casi di instabilità trapezio-metacarpa-le cronica, successive a insuccesso del trattamento iniziale (3 casi trattati incruentemente e 1 caso con pinning percu-taneo) o al mancato riconoscimento della lesione (1 caso).Nelle lussazioni acute, i primi due casi son stati trattati con riduzione e pinning percutaneo. In uno di questi si è evidenziata, a distanza di 6 mesi dall’intervento, un’in-stabilità secondaria con sublussazione dorsale del primo metacarpo clinicamente sintomatica che ha necessitato di

FIGURA 2.Lussazione carpo-metacarpale del pollice (a). Si evidenzia la rottura della porzione capsulo-legamentosa dorsale (b) che viene riparata mediante reinserzione con ancorette©. Stabilità articolare ad un controllo Rx a 24 mesi (d).

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un successivo intervento. Negli altri 3 casi è stata esegui-ta una riparazione diretta della lesione capsulolegamen-tosa dorso radiale mediante reinserzione alla base del metacarpo con ancorette (Fig. 2 a,b,c); a questa viene associata la stabilizzazione dell’articolazione con uno o due fili di K per 6 settimane. Con tale tecnica abbiamo ottenuto sempre una buona stabilità articolare nei control-li a distanza (Fig. 2 d) con recupero della forza di presa e assenza di dolore. Nelle lussazioni inveterate abbia-mo eseguito una ricostruzione utilizzando una porzione del tendine dell’ERLC secondo la tecnica di Biddulph 32 modificata. La porzione tendinea viene distaccata prossi-malmente, fatta passare nella base del primo metacarpo attraverso un tunnel trans osseo e reinserita alla base del 2° metacarpo tramite un’ancoretta. I pazienti sono stati controllati a distanza media di 26 mesi dall’intervento (10-48 mesi). In tutti i casi la riduzione era mantenuta nei controlli radiografici successivi; clinicamente la funziona-lità era buona (DASH medio 4,5).

CONCLUSIONILe lussazioni carpo-metacarpali delle dita lunghe sono le-sioni la cui frequenza è probabilmente sottostimata rispet-to a quanto riportato in letteratura. Frick et al. hanno stu-diato 100 casi giunti alla loro osservazione in 7 anni; nel nostro reparto sono stati trattati 46 casi in circa 10 anni. Circa l’85% delle lesioni riguardano i metacarpi ulnari e sono associate a fratture carpali o della base del me-tacarpo corrispondente. Le lussazioni, specie quelle dei metacarpi centrali, sono in genere conseguenza di traumi ad alta energia. La forza traumatica determina, preva-lentemente, la lussazione dorsale del metacarpo che è sostenuta dall’azione di trazione esercitata dalle inser-zioni tendinee dorsali delle basi metacarpali. Le più rare lussazioni volari possono essere associate a complicanze vascolari o nervose.

Queste lesioni, ancora oggi, non raramente passano misconosciute anche quando sottoposte ad accertamen-ti radiografici. Nel sospetto di lussazione interessante i metacarpi delle dita lunghe è spesso necessario ricorrere a proiezioni radiografiche aggiuntive per meglio eviden-ziare i rapporti articolari carpo-metacarpali. Il trattamento è sempre chirurgico poiché la semplice ridu-zione manuale e la contenzione in gesso sono gravate da un’alta percentuale di instabilità secondarie. La semplice fissazione percutanea con fili di K è in grado, nella mag-gioranza dei casi, di stabilizzare correttamente la lesione e di mantenere nel tempo la riduzione garantendo un recu-pero funzionale pressoché completo. La riduzione cruenta è indicata nei casi inveterati, di lesioni esposte o irriduci-bili, in presenza di complicanze. Nelle lesioni inveterate dei metacarpi centrali, in considerazione della mobilità ar-ticolare pressoché assente, trova indicazione eseguire una artrodesi; viceversa, nelle lussazioni dei metacarpi ulnari è sempre meglio, quando possibile, cercare di ripristinare i corretti rapporti mantenendo l’articolazione.Le lussazioni carpo-metacarpali del pollice sono lesioni rare che richiedono sempre un trattamento chirurgico. Nella nostra esperienza, e da quanto emerge dalla letteratura recente, la lussazione determina la lesione della porzione capsulo-legamentosa dorsale che deve essere riparata chi-rurgicamente a cielo aperto. Difatti la semplice riduzione associata o meno a stabilizzazione percutanea con fili di K può determinare una instabilità secondaria responsabile di dolore e limitazione funzionale e di successiva degenerazio-ne artrosica dell’articolazione. La riparazione con ancorette attraverso un accesso dorsale all’articolazione garantisce risultati radiografici e clinici assolutamente soddisfacenti.Nei casi di instabilità inveterata secondari a d insuccesso del trattamento iniziale occorre ricorrere ad una legamen-to-plastica utilizzando una porzione tendinea (FRC, ERLC, PL, ALP, ecc.)

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INSTABILITÀ CARPO METACARPALE

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D. VITTORE, M. BERARDI, M. DILONARDO*, B. MORETTI*, G. CAIZZI*Università degli Studi di Foggia, Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, S.C. di Ortopedia e Traumatologia; * Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, Dipartimento di Scienze Mediche di Base, neuroscienze e organi di senso, U.O. di Ortopedia e Traumatologia

Indirizzo per la corrispondenza: Gianni CaizziAzienda Ospedaliero-Universitaria Consorziale Policlinico di BariU.O. di Ortopedia e Traumatologiapiazza G. Cesare 9, 70124 BariE-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S62-S76S62

Tallodinia è un termine alquanto generico con il quale, comunemente, ci si riferisce a una condizione dolorosa del tallone, dolore calcaneare.Ci ha pensato anche la mitologia greca a parlare di un tallone difettoso che ha causato non pochi proble-mi al leggendario Achille: l’eroe sarebbe stato infatti immerso da bambino, per mano della madre Teti nelle acque fiume Stige, così che divenisse invulnerabile. Per immergere Achille, la madre dovette però tenerlo per il tallone, che rimase così l’unica parte vulnerabile del corpo dell’impavido guerriero. Secondo le versioni del mito riportate da vari autori greci, durante la guerra di Troia, il furbo Paride, venuto a conoscenza del punto debole dell’eroe, lo uccise colpendolo al tallone con una freccia (Fig. 1).Le cause alla base di tale sofferenza sono molteplici.Una prima distinzione dell’origine del dolore calcaneare può essere: • origine dai tessuti molli (tendini, fasce, borse, ecc.); • origine dai tessuti ossei (calcagno, astragalo, superfici

articolari).Le tallodinie possono avere cause biomeccaniche, trau-matiche, neurologiche, metaboliche o congenite. Spes-so la diagnosi è agevole per la identificazione di fattori scatenanti eclatanti come un’attività lavorativa o sportiva usurante, o la presenza di una predisposizione anatomi-ca locale; in altri casi tali elementi non sono facilmente ri-conoscibili e l’identificazione della causa della tallodinia diventa complessa, tanto che il paziente ed il medico si smarrisce in un vero labirinto diagnostico. È pertanto opportuno a nostro dire dipanare la questione con chiarezza e semplicità; a tal proposito eseguiamo una distinzione in cause comuni di dolore calcaneare e cause rare. Le cause comuni comprendono tutte quelle situazioni in cui la diagnosi è fondamentalmente clinico-anamnestica o può richiede esami di primo livello come l’ecografia e la radiografia.Nel primo gruppo annoveriamo le seguenti patologie:• Tendinopatia inserzionale del tendine d’Achille;• Fascite plantare (e sperone calcaneare);• Borsiti calcaneari;• Morbo di Sever (età evolutiva);• Artrosi della sottoastragalica;• Tendinopatia cronica dei peronieri. Tra le forme rare troviamo invece:• Sindrome del tunnel tarsale;• Sindrome del seno del tarso;• Fratture da stress del calcagno o dell’astragalo;• Neoformazioni calcaneari o astragaliche (cisti ossee

solitarie, cisti aneurismatica…);• Neoformazioni dei tessuti molli;• Sindrome da impingment tibio-astragalico posteriore

TALLODINIA: UN LABIRINTO DIAGNOSTICOHeel pain: a diagnostic labyrinth

RiassuntoTallodinia è un termine generico con il quale ci si riferisce a una condizione dolorosa del tallone. Rappresenta una patolo-gia infiammatoria e dolorosa al tallone, cioè a quella regione del piede che corrisponde alla parte posteriore e inferiore del calcagno, chiamata anche retropiede. Le cause alla base di tale sofferenza sono molteplici; a tal proposito eseguiamo una di-stinzione in cause comuni di dolore calcaneare e cause rare. Le cause comuni comprendono tutte quelle situazioni in cui la diagnosi è fondamentalmente clinico-anamnestica o può richie-dere esami di primo livello come l’ecografia e la radiografia. Le forme da cause rare richiedono di solito esecuzione di esami di secondo livello come la TC, la RMN, la scintigrafia ossea. Obiettivo di questo articolo è eseguire un esame ed una distin-zione di tutte le cause di dolore calcaneare, fornendo indica-zioni semeiotiche e strumentali per l’esecuzione di una corretta diagnosi differenziale.Parole chiave: Dolore calcaneare, Diagnosi differenziale

SummaryHeel pain identify any painful condition of calcanear region. Causes of heel pain are various; we identify common causes and rare causes. Common causes include all conditions with a simple clinical-anamnestic diagnosis and may need first level exams such ecotomography and radiography. Rare conditions of heel pain usually need more complex exams such CT, MRI, bone scintigraphy.Target of this article is to analize and identify all causes of heel pain, giving clinical and instrumental informations for a correct differential diagnosis. Key words: heel pain, differential diagnosis

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TALLODINIA: UN LABIRINTO DIAGNOSTICO

S63

• Sindromi da intrappolamento nervoso dei nervi peri-calcaneari e dei rami dello SPE;

• Algodistrofia del calcagno;• Tendinopatie rare (FLA, FLC in pazienti con piede piat-

to, oppure con artrite psoriasica…);• Radicolopatia compressiva lombare;• Sinostosi incompleta astragalo-calcaneare;

FASCITE PLANTARE (E SPERONE CALCANEARE)Con il termine fascite si intende l’infiammazione di una fascia anatomica, nel caso specifico della fascia planta-re, denominata “aponeurosi plantare”, una fascia fibrosa che decorre in avanti dalla zona mediale del calcagno sino a fondersi con i legamenti che s’inseriscono sulle dita. Le modificazioni degenerative dovute a microtraumi ripetuti a livello inserzionale della fascia plantare causa-no una periostite da trazione e microlacerazioni che pro-vocano dolore e infiammazione 1. Un’aponeurosi planta-re eccessivamente tesa ed iper-sollecitata, da ipercarico o evento traumatico, diviene quindi automaticamente il sito di una possibile lesione. La fascite plantare si può manifestare a livello del calcagno, e viene in questo caso denominata fascite plantare prossimale, oppure a livello del mediopiede, in questo secondo caso viene denomina-ta fascite plantare distale. Il processo infiammatorio può colpire specificatamente l’inserzione della fascia plantare e la tuberosità calcaneare mediale o può interessare altre strutture, come il nervo calcaneare mediale ed il nervo misto per l’abduttore del V dito 4.Tanz 2 fu il primo a proporre il concetto di intrapplamento nervoso nella patogenesi del dolore della fascite planta-re, osservato in una dissezione su cadavere. Rondhuis e Huston 3 credono che l’intrappolamento del nervo mi-sto (motorio e sensitivo) si verifichi tra la fascia profonda dell’abduttore dell’alluce ed il margine mediocaudale del muscolo quadrato della pianta del piede 4.All’origine di una fascite possono esserci varie motiva-zioni; una ricorrente è il sovrappeso, ma l’infiammazione dei fasci plantari può essere dovuta anche a un indiscri-minato e improvviso aumento del chilometraggio settima-nale, a una ridotta estendibilità del tendine di Achille, a determinate caratteristiche anatomiche o a sedute di alle-namento eccessivamente veloci e frequenti con calzature non adatte a questo tipo di preparazione.Una delle più frequenti cause della talalgia plantare è lo sperone calcaneare, definito anche spina calcanea-re, che consiste in una crescita anomala del  tessuto os-seo nella zona del calcagno, una sporgenza ossea del tallone che può essere di origine congenita o formarsi suc-cessivamente. Gli speroni calcaneari sono stati associati per la prima volta al dolore sottocalcaneare nel 1915 5. Shmokler e coll. 6 hanno rilevato un’incidenza del 13,2% di spine calcaneari su 1000 pazienti randomizzati e solo

il 5,2% del totale dei pazienti con speroni calcaneari non accusava nessun dolore al tallone. Williams e coll. 7 han-no osservato che il 75% dei pazienti affetti da talalgia aveva anche spine calcaneari. Lo sperone calcaneare si genera perché l’appoggio del piede durante la fase di deambulazione è alterato e ciò causa un’infiammazione attraverso una trazione continua della fascia plantare al punto di inserzione sul calcagno. L’esame istologico ha messo in evidenza una struttura della trabecolatura ossea del frammento esostotico pressoché normale 9, tranne ver-so la periferia dello sperone dove si sono repertati nidi di elementi cartilaginei e qualche cellula polinucleata. Il tessuto tendineo circostante, costituito da fasci di connet-tivo fibroso, presentava infiltrazione linfoistiocitaria. Tra questi fasci fibrosi talvolta si sono repertate delle aree di sostanza calcarea ed in tale occasione attorno a queste più fitta si è manifestata l’infiltrazione linfo-istiocitaria  8. Tale quadro anatomo-patologico aveva riscontro clinico in quei casi fortemente dolorosi in cui notevole era la com-promissione della statica e della dinamica del piede. In genere, le radiografie rivelano una sporgenza uncinata, lunga qualche millimetro, che parte dal centro del tallo-ne e ha la punta orientata verso le dita. Il dolore non si manifesta sempre: molti soggetti affetti da spina calcane-are convivono serenamente con l’anomalia. Il problema riguarda soprattutto persone di età superiore ai 40 anni e in sovrappeso, ma anche gli sportivi, i quali più facilmen-

FIGURA 1.Achille si volge a guardare il suo tallone colpito dalla freccia di Paride.

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te patiscono il dolore quando la parte sia sottoposta a continue sollecitazioni. La morfologia dell’osso calcaneare, legata alla meccani-ca del complesso muscolo-aponevrotico, gioca un ruolo importante nella valutazione etiopatogenetica delle spine calcaneari. Tali esostosi ossee infatti hanno sede nei punti di maggior sforzo della corticale dell’osso.La superficie inferiore del calcagno è la sede più frequente delle esostosi; meno frequenti sono infatti i casi nei quali lo sperone era localizzato posteriormente. Varia è la forma e la grandezza di questi speroni ossei; quelli più voluminosi hanno quasi sempre un aspetto più tozzo, mentre quelli di dimensioni inferiori sono per lo più aguzzi.L’orientamento di essi è stato pressoché costante per i di-versi tipi e cioè seguiva la direzione di trazione del siste-ma muscolo-aponevrotico sollecitante la superficie dell’os-so calcaneare: le esostosi sottocalcaneari erano orientate in avanti, quelle retrocalcaneari in alto.Il dolore abitualmente è localizzato posteriormente in sede plantare e mediale (a livello del tubercolo calcane-are mediale) ma può anche estendersi a tutta la pianta localizzandosi prevalentemente sul versante interno. La dorsiflessione delle dita, mettendo in trazione l’aponeuro-si plantare, risveglia il dolore (Fig. 2) 1. Il dolore è molto intenso la mattina quando ci si alza dal letto, e ogni volta che ci si mette in piedi dopo essere stati seduti o fermi per molto tempo. Se il dolore è localizzato e si percepisce come interno al tallone, verosimilmente la causa sarà lo sperone calcaneare o la fascite plantare, mentre se il fa-stidio è più diffuso ed esterno, allora il problema potrebbe essere una tendinite dell’achilleo. L’esame radiografico del piede, nel 60% dei casi, mostra la presenza di uno sperone calcaneare. Utile anche l’e-

cografia che evidenzia una infiammazione della fascia plantare (Fig. 3).

FIGURA 2.Sede abituale del dolore e test di evocazione in caso di fascite plantare.

FIGURA 3.Aspetto dello sperone calcaneare all’Rx (a sinistra) ed all’ecografia (a destra), dove si apprezza anche flogosi e disomogeneità della fascia plantare.

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TALLODINIA: UN LABIRINTO DIAGNOSTICO

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In caso di dolore calcaneare persistente dopo il tratta-mento incruento, può essere utile una scintigrafia ossea per escludere una frattura da stress. Graham 10 ha rinve-nuto una scintigrafia positiva in 35 su 36 pazienti con dolore calcaneare unilaterale. La maggior captazione del radioisotopo è stata riscontrata a livello della re-gione mediale antero-inferiore del calcagno. Sewell e coll.  11 hanno evidenziato un’aumentata captazione in corrispondenza dell’inserzione calcaneare del tendine del plantare lungo in pazienti con fasciti plantari. Modi-ficazioni della intensità della captazione hanno rispec-chiato un miglioramento della sintomatologia. Gli autori ritengono che la scintigrafia ossea consenta la valuta-zione dell’infiammazione e della terapia. Lin e coll.  12 hanno riportato un’accuratezza diagnostica del 94% eseguendo la scintigrafia con Tc99m metil-difosfonato (MDP) in confronto al solo 69% delle radiografie, nei pazienti affetti dal morbo di Reiter.Berkowitz e coll. 13 hanno cercato di definire le caratteri-stiche delle immagini RMN delle fasce plantari ed hanno osservato l’associazione tra l’ispessimento della fascia plantare e l’alterazione dell’intensità del segnale, anche se l’osservazione dell’eventuale ispessimento fasciale è possibile anche con l’ecografia.

TENDINOPATIA INSERZIONALE DEL TENDINE D’ACHILLELe tendinopatie inserzionali dell’Achilleo rappresentano, dopo la fascite plantare, la causa più frequente di tallo-dinia in età giovanile e nell’adulto. È una infiammazione localizzata a livello dell’inserzione del tendine sul calca-gno che può avvenire in qualsiasi momento e anche in pazienti che non sono particolarmente attivi. La tendinopa-tia inserzionale compare prevalentemente in soggetti con piede cavo, calcagno di Haglund e in alcuni sport, come la corsa o il calcio, nei quali è sollecitata la zona calcaneare.Può interessare sia il peritenonio che il tendine stesso. La peritendinite acuta coinvolge il peritenonio, il foglietto tis-sutale differenziato che riveste il tendine (formato rispet-tivamente dall’endotenonio ed epitenonio). È il parateno-nio che consente al tendine di muoversi liberamente nei confronti dei tessuti circostanti. Dal punto di vista ecogra-fico il tendine comunque appare circondato da una falda ipoecogena a carattere liquido.Nella tendinite il tessuto tendineo appare degenerato ed al-terato nelle sue caratteristiche istologiche ed ultrastrutturali sia focalmente che estesamente. Dal punto di vista anato-mo-patologico, si osserva una variazione dei proteoglicani presenti (condroitin-solfato invece che dermatane cheratan-solfato) con aumento del contenuto di acqua, dissociazio-ne delle fibrille e perdita dell’impacchettamento fibrillare con sovvertimento delle qualità di resistenza meccanica 14. Le tendinopatie possono essere classificate, a seconda della loro eziologia, in traumatiche, microtraumatiche,

e su base dismetabolica e/o infiammatoria. La tendini-te dell’Achille in genere non è legata ad un trauma spe-cifico. Il problema deriva da stress ripetitivi al tendine. Questo accade spesso quando spingiamo i nostri corpi nel fare troppo e troppo presto, ma altri fattori possono rendere più probabile lo sviluppo di una tendinite, tra cui:Un improvviso aumento della quantità o dell’intensità dell’attività fisica;Assenza di riscaldamento muscolare: avere i muscoli del polpaccio contratti o freddi e improvvisamente iniziare un programma di esercizi aggressivo può mettere ulteriore stress sul tendine di Achille;Malattia di Haglund: una malattia del calcagno che si struttura durante la fase della crescita e che porta ad una protuberanza ossea posteriormente. Questa protuberan-za sfrega contro il tendine e contro le normali calzature provocando una tendinite inserzionale talvolta molto fasti-diosa e dolorosa.I fattori che possono provocare patologie dei tendini (e in molti casi anche dei muscoli), del collo piede e del piede si possono genericamente dividere in intrinseci ed estrin-seci, ed agiscono in percentuale variabile da soggetto a soggetto 15. Per quanto riguarda i fattori intrinseci sono essenzialmente:La variabilità anatomica, con conseguente alterazione più o meno marcata della normale biomeccanica del cammi-no o del gesto atletico, il che sottopone il collo piede e piede ad uno stress anormale;Le malattie dismetaboliche, che possono favorire reazio-ni flogistiche locali, nonché provocare l’alterazione della composizione del normale tessuto tendineo fino a deter-minare un più precoce invecchiamento;Ultimo fattore, ma non meno importante, l’età dell’indivi-duo e gli anni di attività agonistica. Infatti, l’invecchiamen-to del tessuto tendineo provoca un rallentamento metabo-lico del collagene tissutale con una diminuzione graduale del rapporto cellule-matrice a favore di quest’ultima, una diminuzione del contenuto idrico delle fibre elastiche, dei proteoglicani e glicoproteine.Per quanto riguarda l’alterazione delle biomeccanica uno dei problemi principali è l’iperpronazione del retropiede durante la corsa che ha un’azione di frustata, come la corda di un arco, sul tendine d’Achille. Un altro fattore biomeccanico molto importante nel cau-sare patologie da sovraccarico nei tendini è l’eccessiva antiversione del collo femorale spesso associata, come meccanismo compensatorio, ad un’esagerata rotazione esterna della tibia e ad un’iperpronazione del piede. Tut-to ciò fa si che anche in questa situazione ci sia un’al-terazione della normale direzione delle forze che sono applicate sulle unità muscolo-tendinee degli arti inferiori. Anche la struttura del piede, se alterata, può favorire l’in-sorgenza di questo tipo di patologie. Sono stati evidenzia-

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ti tre tipi di piede comunemente responsabili delle lesioni di corsa. Il cosiddetto “piede di Morton”, caratterizzato da un primo raggio tarsale eccessivamente mobile e da un secondo osso metatarsale allungato, è frequentemente associato ad un’eccessiva mobilità subtalare 16. Il “piede cavo”, che con un arco molto incavato e rigido, non si prona a sufficienza e perciò non assorbe adeguatamente gli shock e non si adatta alla superficie percorsa. Con questo tipo di piede si osserva frequentemente tendinite (peritendinite) dell’achilleo e fascite plantare. L’iperprona-zione del collo piede del piede si può osservare anche come meccanismo compensatorio, per un accorciamento funzionale, in caso in cui si abbia una dismetria degli arti inferiori maggiore di 13 mm.Infine si è evidenziato che anche un’ipertrofia muscolare per un eccesso di allenamento, così come un’insufficienza muscolare, possono essere frequentemente causa di pa-tologie da sovraccarico. Nel primo caso per una perdita di elasticità nelle unità muscolo-tendinee più attive, e nel secondo perché l’individuo finisce col chiedere troppo sforzo ed in un tempo troppo breve all’unità muscolo-ten-dinea per compensare l’insufficienza muscolare.Per quanto riguarda i fattori estrinseci, essi diventano spesso determinanti nell’instaurazione della tendinopatia da sovraccarico al collo piede e piede.Si distinguono principalmente quattro fattori:1) gli errori in allenamento2) le condizioni ambientali3) i terreni di gara o di allenamento4) la calzaturaGli errori di allenamento sono sicuramente tra le cause estrinseche più frequenti. Distanza eccessive, esercizi in-tensivi intervallati con esercizi blandi (corsa veloce alter-nata ad andatura lenta) e rapidi aumenti delle distanze, superano la capacità dell’organismo di adattarsi ai nuovi livelli di sforzo. Infatti se si esercita un muscolo quando è affaticato, è meno elastico e non è in grado di assorbire l’energia derivante da colpi e stress ripetuti. Le condizioni ambientali sono un altro importante fattore estrinseco nella patologia da sovraccarico. Un ambiente freddo può ritardare il riscaldamento dei muscoli e dei tenditi, le funzioni degli enzimi muscolari son impedite, o molto diminuite, con conseguente diminuzione della con-trattilità e facilità alle lesioni.I terreni di gara o di allenamento si distinguono in natu-rali e artificiali. Tra i naturali si distinguono: piste in terra che specie se umida, sarebbero la superficie ideale per gli allenamenti e le corse di durata; le superfici erbose che assorbono abbastanza bene i colpi, ma sono irre-golari favorendo traumi discorsivi e stiramenti; la sabbia che è instabile. Se si hanno terreni in pendenza, come la spiaggia o il margine di una strada, il piede sarà co-stretto a pronarsi eccessivamente dalla parte più alta del

declivio con incremento della pressione dei tendini e sui legamenti del collo piede. Correre in salita può stressare eccessivamente il tendine d’Achille, mentre la discesa, aumentando l’impatto durante il colpo di tallone, può fa-vorire l’insorgenza di tendinite dell’achilleo e di fasciti plantari calcaneari (tallonite). Infine tra i naturali si ha il parquet che è molto regolare, ma non molto elastico e può contribuire a lungo andare, all’instaurarsi di patolo-gie da sovraccarico. Per quanto riguarda i terreni sintetici, come quelli a base asfalto, cementi porosi e manti coerenti elastici, hanno più o meno tutti la caratteristica di non assorbire molto i colpi, aumentando quindi in modo esagerato lo shock trasmesso ai piedi, alle gambe, alla colonna (Fig. 4).La scarpa è un elemento fondamentale per il trattamento e la prevenzione delle lesioni. Scarpe mal confezionate o inappropriate possono contribuire al trauma durante l’impatto del piede al suolo. Le scarpe senza l’imbottitura non danno la stabilità necessaria per proteggere il piede e la gamba dai ripetuti scossoni della corsa. Lo stimolo meccanico, per quanto ripetuto ed intenso, non è da solo sufficiente a giusti care l’insorgenza di quadri patologici da sovraccarico.Esiste infatti una estrema variabilità in individui pratican-ti le stesse discipline sportive e quindi esposti agli stessi fattori patogenetici ed è quindi lecito ipotizzare una sorta di “diatesi” individuale nella quale considerare sia fattori genetici che acquisiti. A favore dei fattori genetici è sta-to dimostrato il netto aumento di collagene di tipo III nei tendini di soggetti con rotture spontanee ripetute, inoltre sempre da ricerche sperimentali è risultata una correlazio-ne tra rotture tendinee spontanee e gruppo sanguigno 0.Tra i fattori acquisiti nell’insorgenza delle tendinopatie dell’achilleo è di particolare importanza l’allenamento e l’età in cui l’individuo ha iniziato quella particolare disci-plina sportiva.Per quanto riguarda il primo concetto si è osservato che l’allenamento non soltanto è il mezzo indispensabile per l’apprendimento di un programmato gesto atletico, ma anche l’unico fattore esterno utilizzabile per far acquisire al sistema effettore quella capacità di assorbimento delle sollecitazioni senza la quale lo sforzo massimale diver-rebbe di per sé causa inesorabile di lesioni sul sistema muscolo-tendineo.Riguardo all’età d’apprendimento del gesto atletico spe-cifico, è risultato che individui giunti più tardivamente all’attività agonistica sono quelli maggiormente colpiti da patologie tendinee. In passato è stato attribuito valore etiologico a molte ma-lattie sistemiche, quali sifilide, tubercolosi, gonorrea, got-ta, diabete, arteriosclerosi e obesità, ma solo in rari casi sono state riscontrate nel contesto del tendine alterazioni strutturali riconducibili alla malattia di base.

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Da studi recenti, effettuati su osservazioni di Cummins, Christensen ha elaborato la teoria delle variazioni anato-miche individuali, secondo cui le fibre dell’Achilleo prove-nienti rispettivamente da gastrocnemio e dal soleo, man mano che discendono verso il calcagno, subiscono un certo grado di rotazione reciproca, di entità variabile nei diversi soggetti. Secondo Christensen durante determinati movimenti, quali si verificano tipicamente nella corsa e nel salto, si può verificare una sorta di sfregamento a sega tra i due gruppi di fibre, in relazione alle variazioni indi-viduali del grado di torsione reciproca di quest’ultime, e alla mancanza di una perfetta coordinazione muscolare, come si verifica più facilmente in condizioni di scarso al-lenamento. In realtà, la possibilità di un danneggiamento reciproco delle fibre tendinee non è stata mai dimostrata, restando soltanto un ipotesi suggestiva tesa a valorizzare il peso dei fattori individuali nelle genesi della rottura.La sintomatologia della tendinite è caratterizzata da un

dolore localizzato posteriormente appena sopra il calca-gno, che può variare nell’intensità (da occasionale e tran-sitorio fino a continuo), nell’insorgenza (sotto sforzo o a riposo) e nell’estensione (diffuso o localizzato).I sintomi più comuni della tendinite dell’Achilleo includono:– Dolore e rigidità lungo il tendine d’Achille al mattino.– Dolore lungo il tendine o posteriormente al tallone che

peggiora con l’attività.– Dolore intenso il giorno dopo l’esercizio.– Ispessimento del tendine.– Sperone osseo (si osservano solo nella tendinite inser-

zionale).– Gonfiore che è sempre presente e peggiora durante il

giorno con l’attività.La pressione sul tendine risulta spesso dolorosa e si pos-sono osservare delle tumefazioni locali legate all’infiam-mazione dei tessuti circostanti ed un aumento di spessore del tendine stesso.

FIGURA 4.Esempi di terreni di gioco: sintetici (in alto) che sono regolari ma poco elastici ed ammortizzanti, e naturali (in basso) che sono ammortizzanti ma irregolari.

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L’esame radiografico è sempre importante per evidenzia-re l’eventuale presenza dello sperone calcaneare poste-riore. È necessaria anche un ecografia per evidenziare lo stato di sofferenza del tendine, che può essere valutato ancora meglio con una Risonanza Magnetica. In partico-lare, nelle sequenze pesate in T1 in sezione sagittale il tendine si presenta ispessito con alterazione di segnale al suo interno ed eventuale interruzione parziale delle fibre (Fig. 5).

BORSITI CALCANEARIUna borsite rappresenta un’infiammazione delle borse sierose retrocalcaneari o sottocutanee che favoriscono lo scorrimento delle strutture periferiche del tendine. A livello dell’area inserzionale del tendine d’Achille sono associa-te due borse (Fig. 6):– la borsa retrocalcaneare profonda, detta anche prea-

chillea o di Bowis, situata tra il decorso del tendine ed il calcagno

– la  borsa retrocalcaneare superficiale,  sottocutanea, detta anche del tendine di Achille, situata tra la cute ed il ventre tendineo 17.

Le borsiti riconoscono diverse cause, alla loro origine in-fatti possono esserci problemi di tipo anatomico (spina calcaneare, malattia di Haglund, piede cavo), ma posso-no anche essere dovute ad allenamenti quantitativamente o qualitativamente errati oppure a calzature poco idonee o eccessivamente usurate. La deformità di Haglund (pump bump syndrome) rappresenta la causa principale di in-fiammazione. I pazienti riferiscono dolore alla pressione della scarpa sulla zona interessata.Il quadro ecografico ed RMN è caratteristico e permette la diagnosi agevolmente (Fig. 7).

FIGURA 5.Quadro radiografico della tendinopatia dell’achilleo (in alto), con evidente calcificazione inserzionale; in basso quadro RMN di paziente con lesione atraumatica del tendine d’Achille, che mostra segnale irregolare da tendinosi cronica.

FIGURA 6.Borse calcaneari 1.

FIGURA 7.In alto borsite superficiale sottocutanea (ecografia); in basso quadro RMN di borsite retro calcaneare.

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MORBO DI SEVER (ETÀ EVOLUTIVA)Viene anche chiamata “apofisite calcaneale”, si tratta di una osteocondrosi dell’apofisi calcaneale, probabilmente collegata alla trazione esercitata dal tendine di Achille. Consiste in una sofferenza del nucleo di accrescimento che regola lo sviluppo della regione posteriore (tuberosi-tà) del calcagno. Rappresenta la causa più comune in pe-diatria di dolore al tallone con picco d’incidenza tra gli 8 e i 13 anni. La malattia è strettamente collegata all’attività fisica ed è più frequente tra i maschi 1.Le cause che determinano la sofferenza di questo nucleo di accrescimento non sono note. Si ipotizza un meccanismo di sovraccarico del sistema achilleo-plantare. Pertanto, come per la fascite plantare, i principali fattori predispo-

nenti sono rappresentati dai dimorfismi podalici (piede cavo o piede piatto), dall’obesità e dall’attività sportiva. Con l’attività fisica il tendine di Achille esercita una forza di trazione sull’apofisi calcaneare. Nella maggior parte dei pazienti i sintomi sono associati ad una determina-ta attività sportiva, più frequentemente il calcio. I sintomi sono più gravi all’inizio della stagione agonistica, oppure durante periodi di crescita intensa. I sintomi sono aggra-vati dal carico del peso corporeo e dall’utilizzazione di alcune calzature, in particolare le scarpe da calcio 18.L’esame obiettivo evidenzia dolore alla palpazione a livel-lo dell’inserzione ossea del tendine di Achille ed a livello dell’apofisi posteriore del calcagno, rigidità del tendine, dolore al tallone in seguito a compressione medio-laterale.La diagnosi è esclusivamente clinica: comparsa in età ado-lescenziale di dolore in sede postero inferiore accentuato dalla palpazione. Il dolore in genere inizia gradualmente spesso dopo allenamenti pesanti o su terreni duri e dap-prima limita soltanto l’attività sportiva. Spesso il fastidio viene trascurato anche perché il piccolo paziente, consa-pevole che potrebbe essere costretto a fermarsi, non dice nulla o minimizza fin quando l’allenatore o i genitori nota-no una zoppia e, preoccupati, lo fanno visitare. L’esame radiografico evidenzia una frammentazione e sclerosi del nucleo di accrescimento il cui valore diagnostico è discuti-bile in quanto si può osservare anche in soggetti sani. La diagnosi differenziale và fatta con le altre condizioni di sovraccarico delle strutture del sistema achilleo plantare ed in particolare con le tendinopatie inserzionali dell’a-chilleo che si caratterizzano per una localizzazione po-steriore del dolore ma in una posizione più alta (Fig. 8).La persistenza del dolore nonostante le terapie ed in particolar modo se questo si prolunga oltre l’età adole-scenziale impongono ulteriori accertamenti (Rx, esami di laboratorio,  RMN) per individuare altre affezioni locali quali infezioni e neoplasie o sistemiche come reumatismi infiammatori cronici (Fig. 9).

ARTROSI DELLA SOTTOASTRAGALICAL’articolazione sottoastragalica è una artrodia che permette contatto e movimento tra due ossa impor-tantissime del piede: l’astragalo ed il calcagno. L’articolazione sot-toastragalica consente movimen-ti millimetrici atti a realizzare un perfetto equilibrio delle forze di carico e contribuisce, in condizioni ottimali, alla perfetta centratura del baricentro del corpo. Questi piccoli movimenti non sono importantissimi per una vita di relazione sedenta-ria, mentre lo diventano quanto più

FIGURA 8.Diagnosi differenziali per sede del dolore calcaneare 1.

FIGURA 9.Quadro radiografico dell’Osteoocondrosi del calcagno (Morbo di Sever).

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raffinato diventa l’utilizzo del pie-de: alcuni tipi di sport, la danza, l’equilibrismo, ecc. Questa artico-lazione riveste un ruolo di partico-lare importanza nella trasmissione dei carichi e delle forze durante la deambulazione; una artrosi causa rigidità con notevole limitazione ar-ticolare (Fig. 10) 19.La sofferenza della sottoastragalica è legata a molteplici cause, le più frequenti possono tuttavia essere imputate ad una eccessiva motilità della stessa per lassità o rottura dei sistemi di contenzione capsulo-lega-mentosi isolata od in concomitanza di una frattura dell’astragalo, dello scafoide e del calcagno o di tutti e tre. Spesso, inoltre, questo tipo di fratture coinvolge la rima articolare della sottoastragalica “fratture articolari” con scalinatura della superficie di scorrimento di tale arti-colazione che diviene sofferente e dolorosa anche dopo la guarigione delle fratture che ne hanno condizionato il danno. Pertanto, le fratture di astragalo, scafoide e di calcagno devono sempre essere osservate con estrema attenzione soprattutto per valutare un eventuale danno della sottoastragalica al fine di intraprendere immediata-mente un trattamento terapeutico più severo o per avvisa-re il paziente che nel tempo potrà avere dei problemi che dovranno in un secondo tempo affrontati con nuove cure per lo più chirurgiche.Anche gravi malattie reumatiche come l’artrite reumatoide possono indurre gravi sofferenze meccaniche e dolorose della sottoastragalica, così come la mal posizione del pie-de, come avviene per lo più nel piede piatto dell’adulto. Le fratture del calcagno presentano una frequenza del 2% di tutte le fratture, e circa i tre quarti sono intra-articolari e la principale sequela è una grave compromissione artrosi-ca della sotto-astragalica che si manifesta con una irrego-larità della superficie articolare talamica. L’incongruenza astragalo-calcaneare porta di conseguenza ad una dege-nerazione artrosica e secondariamente ad una degenera-zione calcaneo cuboidea e talonavicolare e tibiotarsica. Anche le fratture dell’astragalo che rappresentano circa lo 0,8% delle fratture possono con gli esiti invalidare la sottoastragalica.In caso di artrosi la sottoastragalica presenterà una per-dita di altezza, aumento di larghezza con alterazione dell’asse, deformità in varo-valgo del retropiede con difficoltà della deambulazione e ad indossare calzature normali. I pazienti presentano dunque dolore e limita-zione funzionale, dolore nella fase di stacco durante il passo. La caviglia si presenta deforme, edematosa, do-

lente ai movimenti di pronosupinazione, tenosinovite dei peronieri, dolore trafittivo alla base del calcagno dovuto ad uno stiramento della fascia plantare in seguito ad un allungamento dell’arco mediale e alla pronazione del piede.

TENDINOPATIA CRONICA DEI PERONIERIUna problematica a carico dei tendini peronieri, interessa generalmente persone giovani, attive e gli atleti. La zona critica, dove cioè più comunemente origina la patologia, si trova nella zona di passaggio dei due tendini lungo un tunnel fibroso a livello della caviglia 1.

FIGURA 10.Aspetto TC e radiografico dell’artrosi sottoastragalica.

FIGURA 11.Aspetto ecografico (in alto a sinistra) ed RMN dei tendini peronieri (in basso e a destra).

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Un quadro clinico caratterizzato da dolore in sede calca-neare e perimalleolare esterna, associato ad una tumefa-zione retro e sottomalleolare, è significativo per una pato-logia infiammatoria dei tendini peronieri (tenosinovite dei peronieri). In questi casi all’anamnesi in genere si rileva una pregressa patologia traumatica: grave distorsione o distorsioni recidivanti della caviglia, fratture di calcagno o malleolari esterne, lussazione dei peronieri. Un disas-setto strutturale del calcagno in varismo  e supinazione rappresenta un ulteriore fattore predisponente.Esistono anche forme ad eziologia reumatica (spondilite anchilosante, psoriasi, etc). La conferma diagnostica si ottiene con l’esame ecografico o con l’RMN che mostra un aumento del liquido sinoviale nelle guaine che rivesto-no questi tendini (Fig. 11). Il trattamento è inizialmente conservativo: riposo, ghiaccio, farmaci antinfiammatori, terapie fisiche e bendaggio funzionale. Nel caso di in-successo della terapia conservativa o nei casi in cui vi sia rottura tendinea o lussazione recidivante dei peronei è consigliato il trattamento chirurgico. A seconda della tipologia della lesione si potranno effettuare i seguenti atti operatori: tenosinoviectomia, debridement tendineo, sutura tendinea, trasposizione tendinea.

SINDROME DEL TUNNEL TARSALELa Sindrome del Tunnel tarsale è dovuta ad una compres-sione  del nervo tibiale posteriore e/o dei suoi rami in sede retro malleolare, nel suo passaggio dalla loggia po-steriore della gamba alla pianta del piede, contornando da dietro in avanti il malleolo tibiale. Il canale dentro cui passa è inestensibile, il pavimento è costituito dal lega-mento deltoideo e il tetto è rappresentato da uno sdop-piamento del retinacolo che racchiude i tendini tibiale posteriore e flessori dell’alluce e delle dita 1.La prima manifestazione di questa patologia è una tallo-dinia che si aggrava con la stazione eretta e la deambu-lazione. La sede del dolore é simile a quella della fascite plantare ma si colloca in una posizione più mediale. In questa stessa zona possono manifestarsi sensazione di intorpidimento o di formicolio (Fig. 12).Nelle forme paralitiche vi è difficoltà all’apertura laterale delle dita e al loro avvicinamento. Importante è la positi-vità ai test di evocazione (manovre cliniche) dei sintomi dolorosi e parestesici mediante stress passivo del piede in dorsiflessione ed eversione. La palpazione della doccia retro e sottomalleolare malleolare puo produrre una riacu-tizzazione del dolore con sensazioni di “scossa elettrica” irradiata alle dita (segno di Tinel positivo).Le cause di compressione sono rappresentate da tutte quelle lesioni  in grado di produrre  una riduzione dello spazio all’interno del canale ostofibroso tarsale: cisti ten-dinee, cisti artrogene, varici venose (Fig. 13). Anche un evento distorsivo può essere causa di insorgenza della

sindrome del tunnel tarsale in rapporto allo sviluppo di edemi o ematomi locali. Altre patologie come il diabete possono provocare lo stesso effetto.

FIGURA 12.Sede del dolore nella Sindrome del tunnel tarsale 1.

FIGURA 13.Quadro intra-operatorio di intervento di liberazione del nervo tibiale posteriore, che appare compresso da numerosi gavoccioli venosi.

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La diagnosi strumentale è difficile per la incostanza dei re-perti ecografici e di RMN; un ulteriore aiuto deriva dall’e-same elettromiografico che comunque, considerate le pe-culiarità del distretto anatomico da esaminare, richiede una particolare esperienza da parte dell’operatore.

SINDROME DEL SENO DEL TARSOIl seno del tarso è rappresentato dall’ampia parte laterale che continua in un piccolo canale mediale detto canale del tarso. Il seno del tarso contiene il ligamento cervicale, il ligamento astragalo-calcaneare interosseo (a siepe), le tre radici del retinacolo inferiore degli estensori (Fig. 14) 20.La sindrome del seno del tarso è caratterizzata da do-lore localizzato nella regione del seno del tarso e nella regione laterale del piede, una sensazione di formicolio e “punture da spillo”, dolore durante la dorsiflessione del piede (durante la deambulazione), dolore aumenta con lo stare in piedi e si riduce col riposo, instabilità del retropie-de mentre cammina su terreni sconnessi; il dolore tarsale aumenta quando il piede viene forzato in inversione.La causa più comune della sindrome del seno del tarso è una lesione inversione al piede. Ciò si verifica quando il piede rotola verso l’interno e si estende il tessuto mol-le della cavità. Quando il piede è sollecitato da questo movimento verso l’interno o una lacrima deformazione si verifica per i legamenti. L’infortunio a questi risultati lega-menti infiammazione, gonfiore e ispessimento.Le altre cause di questa condizione sono di natura strut-turale come apposto al pregiudizio di cui sopra. Una di queste anomalie strutturali che possono verificarsi sia cre-scite o masse di tessuti molli. Oltre la crescita dei tessuti nervosi o di grasso nella cavità può causare aumento del-la pressione e provocare dolore. Il dolore in questa zona può anche essere causato da variazioni nella struttura

ossea. Ad esempio, speroni ossei, l’artrite e ponti ossei può essere responsabile dello sviluppo della sindrome del seno del tarso.

FRATTURE DA STRESS DEL CALCAGNO O DELL’ASTRAGALONumerosi sport praticati possono condurre a traumatismi importanti che possono sfociare in patologie da “sovrac-carico funzionale”. Ciò è più frequente negli atleti adulti sia per fenomeni di sommazione in relazione alla durata della carriera sportiva, sia perché con l’età le strutture inserzionali sono meno resistenti ai carichi ripetuti ed han-no una minore capacità di recupero. Si riscontra un’ele-vata frequenza nelle donne per la maggiore lassità delle strutture miotendinee e per le variazioni del metabolismo osseo legato all’amenorrea da “sport”.Le prime fratture da fatica sono state descritte in soldati dopo lunghe marce. La prima descrizione della frattura da fatica risale a Breihaupt, un medico militare prussiano. Nel 1855 Breihaupt descrisse un caso di piedi dolenti e tumefatti in soldati dopo lunghe marce 21. Dagli anni 60 in poi sono state riportate numerose descrizioni di fratture da fatica in militari ed anche negli atleti. Con la diffusione della corsa, le fratture da stress delle estremità inferiori, specialmente del piede sono diventate molto comuni. Fat-tori predisponenti quali irregolarità del ciclo mestruale, osteoporosi, morbo di Paget ed artrite reumatoide, abuso di alcool e fumo, ipotiroidismo, anoressia, neuropatie dia-betiche o idiopatiche, possono rendere l’osso più suscetti-bile ai danni da fatica. Le fratture da fatica del calcagno sono molto comuni, quel-le dell’astragalo, più rare, coinvolgono maggiormente la cupola. Queste fratture sono il risultato di carichi ripetuti, inclusa la compressione da urto durante attività di carico che comportano uno sforzo del gastrcnemio e del soleo tra-

FIGURA 14.Aspetto RMN dei legamenti del seno del tarso 20.

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smesso tramite il tendine di Achille. Il paziente visitato per-ché affetto da un piede dolente deve essere sottoposto ad una accurata anamnesi, che può rivelare un incremento o una modifica recente dell’attività sportiva, o del tipo di su-perficie sulla quale era svolta, o una recente modifica delle calzature. Il paziente con una frattura del calcagno giunge all’osservazione per la presenza di dolore e gonfiore su entrambi i lati del calcagno e fastidio alla palpazione sia sulla faccia laterale che su quella mediale del calcagno 22. La diagnosi spesso è chiara con l’esame clinico integrato con quello radiografico; nei casi dubbi può essere utile l’esecuzione di una scintigrafia con tecnezio, molto sensi-bile nei confronti di alterazioni come le fratture, ma non specifica per la frattura da fatica. Però, anche con la scin-tigrafia ossea, c’è un intervallo dopo la frattura da fatica, durante il quale la scintigrafia potrebbe non essere posi-tiva. Questo periodo è valutato della durata di numerosi giorni dall’inizio dei sintomi, e la possibilità di risultati falsi negativi durante questo periodo deve essere tenuta bene in mente. Se rimangono ancora incertezze riguardo la diagnosi, si può eseguire una TC o una RMN della parte coinvolta (Fig. 15). In una valutazione dopo una lesione, le immagini della RMN forniscono informazioni sui legamenti e può rivelare una danno alla cartilagine articolare o all’osso sottostante.

NEOFORMAZIONI OSSEE O DEI TESSUTI MOLLI DEL RETROPIEDE Un dolore calcaneare in un paziente oncologico potereb-be essere causato da una metastasi. Importante è quindi una accurata anamnesi per individuare il tipo di tumore primitivo. Il rilievo anamnestico di un tumore della mam-mella, della prostata, di un melanoma o di una emopatia deve suggerire un approfondimento diagnostico strumen-tale (Rx,Tc, RMN, Scintigrafia) che potrebbe confermare l’origine metastatica del dolore calcaneare.Il dolore al tallone può essere provocato da lesioni tumo-rali o simil tumorali primitive e locali, patologie rare la cui diagnosi richiede accertamenti strumentali multipli ed in ultima analisi una biopsia 1. I tumori delle parti molli localizzati al tallone presentano forme maligne molto rare, le forme benigne sono i lipo-mi, i fibromi, mieloplassi e i gangli sinoviali che in genere comportano disturbi legati alla semplice compressione meccanica. Più frequenti sono i neurinomi  che possono interessare il nervo surale o i rami calcaneari del nervo ti-biale posteriore e presentano una sintomatologia algopa-restesica posteromediale o posterolaterale. Una tallodinia può anche derivare da angiomi profondi. Per tutte queste forme tumorali l’esame radiografico può essere negativo, utile invece la RMN che nelle sue diverse pesate è in gra-do di precisare la natura del tessuto (liquido, lipidico…) e le dimensioni della neoformazione (Fig. 16) 1.

Tra i tumori ossei benigni localizzati al tallone, la  cisti ossea solitaria è uno dei più frequenti. All’Rx è evidente un’area osteolitica calcaneare, a limiti netti senza orlet-ti sclerotici; essa, a differenza della cisti aneurismatica, non dà luogo ad alcuna sintomatologia, ma può scatena-re improvvisamente una tallodinia in caso di frattura. Un quadro simile sia clinico che radiografico è dato dal tu-more a cellule giganti che però ha potenzialità maligne.

FIGURA 15.Aspetto RMN di una frattura da stress del calcagno.

FIGURA 16.Caso clinico di neoformazione dolente del seno del tarso, che si è rivelato essere un tumore a cellule giganti delle guaine tendinee.

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La diagnosi differenziale spesso deriva solo dall’esame istologico del materiale prelevato durante l’exeresi chi-rurgica della lesione. L’osteoma osteoide è abbastanza frequente nel calcagno, soprattutto nei ragazzi tra i 10 e i 25 anni; è caratterizzato all’rx da un’area osteoliti-ca circondata da un orletto sclerotico, dolore prevalen-temente notturno e comunque indipendente dal carico. Il condrosarcoma  e l’osteosarcoma rappresentano due forme maligne che possono colpire il calcagno, prevalen-temente nell’età adulta, con dolore più o meno intenso, accentuato dal carico ma presente anche a riposo. Alla palpazione è presente un termotatto positivo. Radiogra-ficamente abbiamo aree di osteolisi a margini sfumati, eventuale interruzione della corticale associate ad aree più o meno ampie di addensamento. Infine tutte le lesioni ulcerative della regione del tallone di origine non chiara devono far sospettare un origine neoplastica (cisti epi-dermoide, basalioma, melanoma) e pertanto richiedono esami bioptici 1.

SINDROMI DA INTRAPPOLAMENTO NERVOSO DEI NERVI PERI-CALCANEARI E DEI RAMI DELLO SPELa sindrome del primo ramo del nervo plantare laterale è simile ad una fascite plantare.Per frequenza, si associa alle tallodinie da fascite planta-re o mioentesite dell’abduttore dell’alluce; colpisce atleti che sollecitano la regione del tallone. Il nervo interessato decorre fra l’abduttore dell’alluce ed il quadrato plantare profondamente nella guancia calcaneare mediale e poi si porta lateralmente tra quest’ultimo muscolo ed il flessore breve delle dita.Il reperto patognomonico nei pazienti con compressione del primo ramo del nervo plantare laterale è il dolore pun-tiforme alla palpazione nel punto che si trova alla giun-zione della cute plantare con quella mediale circa 5 cm. davanti al margine posteriore del calcagno.Se il dolore è intrattabile, nonostante riposo, ortesi e tera-pia fisica, è necessario programmare una decompressio-ne che include un fasciotomia plantare ed una liberazio-ne diretta del ramuscolo nervoso.Nel piede altre sedi di intrappolamento nervoso sono pos-sibili a livello di peroniero superficiale, specie per ciò che riguarda il ramo laterale, che è esposto a traumi nel tratto che perfora la fascia pretibiale, il nervo surale ed anche il safeno interno.Per tutti vale la regola di individuare l’associazione fra area di ipoestesia-anestesia-iperestesia e collegarla con manovre tipo Tinel al punto di emergenza del nervo. Spesso sui scopre così che un’ernia muscolare, una ipero-stosi del perone, una ossificazione premalleolare interna associate a compressione da parte della scarpa utilizzata per lo sport realizzano un quadro di compressione su uno specifico tronco nevoso 23.

ALGODISTROFIA DEL CALCAGNOTallodinia algodistrofica (edema midollare del calcagno) è un termine scientifico utilizzato per indicare certe situa-zioni caratterizzate da disturbi vasomotori locali che inte-ressano l’osso del calcagno. All’interno dell’osso si forma un un “edema“ che ne compromette la vascolarizzazione, provocando decalcificazione distrettuale e dolore calca-neare di tipo urente, diffuso e persistente. Questa patolo-gia è frequente nel sesso maschile in età adulta, correlata con attività lavorative piuttosto stressanti, sia dal punto di vista fisico, con molte ore di lavoro in piedi e spesso con l’uso di scarpe antinfortunistiche, sia dal punto di vista psichico con evidenti note di tipo ansioso depressivo.In un articolo del GIOT del 2002 Nogarin ha identifi-cato quattro stadi della patologia a seconda del grado di estensione del dolore, che inizia plantare negli stadi iniziali, per poi diventare progressivamente anche media-le, laterale e superiore 24. Le ipotesi patogenetiche preve-dono che alla base della patologia ci sia un ipercarico funzionale, che provocherebbe microlesioni dell’osso tra-becolare da cui scaturisce l’edema osseo. Il dolore poi viene sostenuto dal fatto che la corticale rimane integra, con conseguente aumento di pressione e stimolazione dei nocicettori endostali.La diagnosi strumentale è essenzialmente di RMN (con segnale della spongiosa del calcagno ipointensa in T1 ed iperintensa in T2) e scintigrafica (iperaccumulo della fase osteometabolica).Lo studio di Nogarin ha inoltre evidenziato, mediante ar-teriografia selettiva, un aumento della vascolarizzazione locale.La terapia in fase iniziale è conservativa e consiste in riposo funzionale, ortoesi e fisioterapia (soprattutto onde d’urto); nelle fasi avanzate, non rispondenti alla terapia fisica conservativa, buoni risultati si ottengono con l’ese-cuzione di perforazioni della corticale calcaneare, che riduce la pressione endomidollare, comportando risolu-zione relativamente rapida della sintomatologia 25.

RADICOLOPATIA COMPRESSIVA LOMBAREIl dolore calcaneare è frequentemente presente nei pa-zienti con sindrome radicolare compressiva lombare. La regione del calcagno infatti è innervata medialmente dal-la radice di L4, al centro dalla radice di L5 e lateralmente dalla radice S1 (Fig. 17).La compressione radicolare a livello lombare provoca pertanto dolore riferito in regione calcaneare, che spesso rappresenta l’unico sintomo della patologia.La tallodinia da radicolopatia compressiva compare ti-picamente di notte o a seguito del mantenimento della postura fissa con il busto per lungo tempo (ad esempio durante la guida per lunghi tratti) e si associa spesso a parestesie urenti.

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TALLODINIA: UN LABIRINTO DIAGNOSTICO

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La diagnosi è clinico-anamnestica e spesso è una diagno-si di esclusione dalle altre forme di tallodinia.La diagnosi prevede l’esecuzione di esami finalizzati alla conferma della causa compressiva lombare (ernia del disco, spondiloartrosi) ed alla sede ed entità del danno nervoso (EMG ENG).Il paziente con lombosciatalgia dall’ernia del disco lom-bare avverte un dolore lungo tutto il decorso del nervo sciatico, accompagnato da perdita di sensibilità e di for-za e parestesie diffuse al piede.Il dolore è urente gravativo-trafittivo, spesso associato a deficit della sensibilità, parestesie, riduzione o scomparsa della percezione del tatto o della differenza caldo-freddo, a riduzioni della forza o del movimento di uno o più distretti di uno od entrambe gli arti inferiori, come cedimenti improv-visi del ginocchio o della caviglia, difficoltà nel sostenersi sulla punta di un piede o sul tallone, difficoltà nel piegare od estendere le dita del piede o la caviglia. Nei casi più gravi può associarsi a paralisi di uno o più nervi periferici (impossibilità ad effettuare i movimenti di flessione od esten-sione delle dita del piede, della caviglia, del ginocchio) 1.

SINOSTOSI INCOMPLETA ASTRAGALO-CALCANEARECon il termine di sinostosi astragalo-calcaneare si intende una fusione (fibrosa o ossea) tra l’astragalo e il calcagno. La localizzazione è bilaterale è nel 50 % dei casi. Tale condizione patologica spesso è associata ad un piede

piatto e si caratterizza per una rigidità articolare del retro piede; abbastanza tipica è l’osservazione della mancata comparsa dell’arco plantare se si invita il paziente a sol-levarsi sulla punta dei piedi.La sinostosi non sempre causa dolore, ma talvolta si ma-nifesta con una fastidosa tallodinia. Ne consegue che, in un paziente con piede piatto rigido, la comparsa di un dolore calcaneare deve far sospettare l’esistenza di una sinostosi astragalo calcaneare. Questa è difficilmente rile-vabile con le proiezioni radiografiche tradizionali mentre è facilmente diagnosticabile con un esame TC 1 (Fig. 18).

MALATTIE REUMATICHE E METABOLICHEQuando la tallodinia non viene inquadrata in queste cau-se comuni diventa indispensabile ricorrere ad una dia-gnostica di secondo livello per ricercare cause rare di dolore calcaneare.Un dolore calcaneare diffuso, che colpisce soggetti giova-ni, che si manifesta in forma cronica e che tende a interes-sare, in modo contemporaneo o sequenziale entrambi i piedi, deve far pensare a una possibile origine reumatica o metabolicaTra queste patologie ricordiamo le seguenti: malattie di origine dismetabolica (come per esempio la gotta, una patologia in cui un aumento della produzione di acido

FIGURA 17.Territori di innervazione cutanea arti inferiori.

FIGURA 18.Aspetto radiografico e RMN di una sinostosi incompleta astragalo-calcaneare.

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D. VITTORE ET AL.

S76

urico, o una sua diminuita escrezione, è all’origine di un progressivo accumulo di cristalli di acido urico, accumulo che provoca dolorose infiammazioni a livello articolare) oppure reumatica (come per esempio l’artrite reumatoide, le artriti sieronegative, il lupus eritematoso sistemico ecc.);Per fare diagnosi sono importanti i segni sistemici (altera-zioni cutanee, oculari, delle mucose o di altri apparati) variabili da malattia a malattia. L’anamnesi può rivelarsi

utile in quanto il paziente potrebbe essere già a cono-scenza di una patologia sistemica in atto. Gli esami ra-diologici evidenziano alterazioni strutturali spesso bilate-rali del calcagno: demineralizzazione, lesioni erosive ed iperostosi più o meno pronunciate.Gli esami di laboratorio (VES,PCR, acidi urici, glicemia, test reumatici, fattore HLAB27, etc.) a darci ulteriori con-ferme, indirizzandoci verso una specifica eziologia.

Bibliografia1 Formica A, Il dolore calcaneare: un vero e

proprio labirinto diagnostico! http://www.medicitalia.it/minforma/ortopedia/1629/il -dolore-calcaneare-un-vero-e-proprio-labirinto-diagnostico.html. Pubblicato il 12/02/2013.

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2014;40(suppl.3):S77-S81 S77

C. VILLANI, L.L. MARCOVICI, B. ZUCCHI, E. SACCO, P. PERSIANIDipartimento di Ortopedia e Traumatologia “Sapienza” Università di Roma

Indirizzo per la corrispondenza:Ciro VillaniDipartimento di Ortopedia e Traumatologia “Sapienza” Università di Roma piazzale Aldo Moro 5, 00185 Roma E-mail: [email protected]

insulto meccanico, di uno o più legamenti della caviglia, che in condizioni fisiologiche, servono a fornire stabilità meccanica, informazioni propriocettive e mobilità diretta della caviglia.Nelle persone con uno stile di vita sedentario tali lesioni possono essere dolorose, ma nella maggior parte dei casi si risolvono facilmente senza determinare conseguenze sulla qualità della vita. Tuttavia, negli sportivi o in perso-ne con alte richieste funzionali, tali lesioni possono avere degli effetti importanti. Alcuni sport (ad esempio basket, calcio e pallavolo) hanno una incidenza molto alta di le-sioni alla caviglia. La natura e la gravità delle distorsioni della caviglia dipendono dal meccanismo di lesione. Ge-neralmente queste lesioni sono il risultato di una eccessiva inversione del piede combinato con una rotazione ester-na della gamba. Queste lesioni da inversione tipicamente causano danni al complesso legamentoso laterale della caviglia, che è costituito dal legamento peroneo astra-galico anteriore (PAA), il peroneo calcaneare (PC) e il peroneo astragalico posteriore (PAP). Il legamento PAA è quello più frequentemente leso, seguito dal PC. Studi di sezione sul cadavere hanno dimostrato che a seguito della rottura del PAA, le forze di rotazione interna aumen-tano sensibilmente in stazione eretta, ponendo i restanti legamenti intatti ad un aumentato stress sotto carico. Studi scientifici hanno valutato che le rotture combinate del PAA e del PC incidono per il 20% dei casi, mentre una rottura isolata del PC è rara. Le lesioni isolate del PAP sono più frequentamene associate a fratture lussazione. Tradizionalmente, lesioni dei legamenti laterali sono clas-sificati I, II o III (o 1, 2 o 3). Grado I (lieve) rappresenta una distorsione senza lesioni legamentose, II (moderata) con una lesione legamentosa parziale e III (grave) una lesione legamentosa completa. Tuttavia, è stato dimostra-to che la gravità di una distorsione alla caviglia non può prevedere il tasso di recupero. La maggior parte delle lesioni si risolve con un trattamento incruento, alcuni, in-vece, evolvono in un’instabilità cronica. In seguito ad una distorsione di caviglia aumentano le possibilità di avere un secondo episodio. Un recente studio sulle distorsioni di caviglia nei giocatori di basket ha trovato che i gioca-tori con una storia di infortunio alla caviglia hanno una probabilità cinque volte in più di avere una distorsione di caviglia. Una prevenzione per le distorsioni di caviglia ha un ruolo importante per quelle persone che si dedicano a sport ad alto rischio e chi ha subito un infortunio pre-cedente. Inoltre un trattamento adeguato per coloro che hanno subito una distorsione può ridurre la possibilità di un quadro di instabilità cronica alla caviglia.

LA PREVENZIONEUna Cochrane Review del 2008 ha dimostrato che ese-guendo misure di prevenzione in persone a rischio di

DISTORSIONE DI CAVIGLIA - DALLA PREVENZIONE AL TRATTAMENTOAnkle sprains - from prevention to treatment

RiassuntoLa distorsione di caviglia è tra le più comuni cause di ac-cesso al pronto soccorso. Tal evento può causare importante disabilità e lunghe assenze dal lavoro e da attività sportive. Lesioni in inversione coinvolgono circa il 25% di tutte le lesioni del sistema muscolo-scheletrico e il 50% di tutte le lesioni corre-late allo sport. La prevenzione rappresenta un importantissimo mezzo nella riduzione di tale casistica, essa mira a identificare i gruppi a rischio e applicando misure come lo stretching e tutori che riducono l’incidenza di un primo evento o la ricorrenza di un secondo evento di distorsione. La maggior parte delle lesioni sono trattati incruentemente, solo lesioni di alto grado in pa-zienti con alte richieste funzionali vengono indirizzate verso un trattamento chirurgico.Parole chiave: distorsione, caviglia, trauma sportivo

SummaryThe ankle sprain is the most common cause of access to the emergency room. This event can cause major disability and long absences from work and sports activities Inversion injuries about the ankle involve about 25% of all injuries of the musculoskeletal system and 50% of all sports-related injuries. Prevention is an im-portant tool in the reduction of this series, it aims to identify groups at risk and applying measures such as stretching and guardians that reduce the incidence of a first event or the occurrence of a second event of distortion. The majority of the lesions are treated non-operatively, only high-grade lesions in patients with high func-tional demands are directed towards a surgical treatment.Key words: sprain, ankle, sport trauma

INTRODUZIONETra i motivi più frequenti d’ingresso dei pazienti ai reparti di emergenza si trovano le lesioni di caviglia. Di questi, i pazienti con distorsioni di caviglia, rappresentano una grande percentuale di queste lesioni. Per definizione, le distorsioni di caviglia sono dovute ad una lesione, per un

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C. VILLANI ET AL.

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distorsione di caviglia si riduce tale evento. I gruppi a rischio sono considerati sportivi, soldati e persone che hanno subito già una distorsione di caviglia. Tra i metodi efficaci troviamo:• Ginnastica propriocettiva e Stretching: studi in lette-

ratura dimostrano che l’allenamento prolungato con ginnastica propriocettiva e stretching del tricipite della sura riduce il rischio di recidiva soprattutto in persone che hanno subito una distorsione.

• Taping: questa misura migliora probabilmente le ca-pacità propriocettive del piede e della caviglia. In pazienti con storia di lassità legamentose, ridotto trofi-smo muscolare o storia di distorsioni di caviglia, usan-do il taping durante le attività sportive riduce in modo significativo il rischio di distorsione.

• Tutori semi-rigidi da portare durante le attività spor-tive: in vari studi si è visto che soldati e giocatori di basket che portano tutori alla caviglia riducono in modo statisticamente significativo il rischi di un evento di distorsione alla caviglia. Questo effetto diventa an-cora più significativo in pazienti con una precedente distorsione.

Le misure di prevenzione sono importanti sia in persone a rischio come soldati e sportivi (prevenzione primaria) sia in persone che hanno subito un evento di distorsio-ne, quest’ultimi generalmente vengono trattati in modo incruento mediante un prolungato programma di fisiotera-pia che funge sia da trattamento all’evento di distorsione, come vedremo in seguito, sia come prevenzione seconda-ria a un nuovo episodio di distorsione.

IL TRATTAMENTOIl trattamento delle distorsioni acute della caviglia acute prevede 2 fasi: trattamento immediato e mobilizzazione precoce con riabilitazione graduale. Il trattamento acuto si concentra sul ridurre il gonfiore della caviglia, ridur-re il dolore, proteggere da ulteriori distorsioni e l’avvio della riabilitazione per limitare i deficit a lungo termine in termini di forza, escursione articolare e resistenza alle recidive. Gli obiettivi della mobilizzazione precoce du-rante il percorso riabilitativo comprendono il ripristino del range di movimento (soprattutto dorsiflessione), il recupe-ro della forza muscolare (in particolare dei muscoli pero-nei), il ripristino della propriocezione e il ritorno all’atti-vità fisica. Il trattamento immediato inizia dopo l’evento acuto e continua fino a quando persistono il gonfiore e il dolore. Un aiuto mnemonico che viene utilizzato per ricordare le componenti essenziali di trattamento acuto è PRICEMMMS, (estensione del precedente RICE), consi-stente in:• P di PROTECTION. Protezione, prevenzione, da suc-

cessive lesioni distorsive. Si applica un bendaggio contentivo o un tutore che limita l’inversione e l’ ever-

sione della caviglia, mantenendo la dorsi flessione plantare

• R di REST (mantenimento). L’ immobilizzazione deve essere mantenuta costantemente fino alla risoluzione del dolore e del gonfiore, in seguito il suo utilizzo può essere limitato esclusivamente durante l’esercizio fisi-co.

• I di ICE (ghiaccio). Il ghiaccio è efficace fino a quando è presente il gonfiore. Dovrebbe essere posto diretta-mente sulla pelle un sacchetto di ghiaccio tritato per 20 minuti ogni ora.

• C di COMPRESSION. La compressione diretta contri-buisce a facilitare il riassorbimento di edema fuori del-lo spazio articolare, cio consente una mobilizzazione precoce.

• E di ELEVATION (sollevamento). Il sollevamento sopra illivello del cuore migliorerà ritorno venoso e diminuire il gonfiore.

• M di MEDICINE (farmaci). I farmaci, come analgesi-ci e antinfiammatori, hanno una ruolo importante nel controllo del dolore e dell’infiammazione dopo la le-sione acuta.

• M di MODALITIES. La stimolazione muscolare elettrica può essere utilizzata per controllare il dolore e mante-nere la forza muscolare.

• M di MOBILITATION. La mobilizzazione dovrebbe ini-ziare il prima possibile.

• S di STRENGHT (allungamento muscolare). L’allena-mento per la forza dei muscoli peronei e del gastroc-nemio dovrebbe iniziare il più presto possibile.

La seconda fase del trattamento per le distorsioni acute, seconda non per importanza, è la fase riabilitativa. Ricon-quistare la normale funzionalità e la forza della caviglia e prevenire future distorsioni sono gli obiettivi primari della riabilitazione. È importante che il ritorno alle attività fisi-che non avvenga alla risoluzione del dolore o del gonfiore ma piuttosto avvenga gradualmente, con un programma di esercizi che sottopongano la caviglia a stress gradua-li e progressivi. L’importanza della riabilitazione risiede nella riduzione della probabilità della recidiva, general-mente di maggiore gravità e dunque nello sviluppo di una instabilità cronica della caviglia. Attività sportive come acqua-jogging, nuoto e il ciclismo aiutano a migliorare la forza e la propriocezione mantenendo il fitness cardio-vascolare in modo tale che quando la caviglia è comple-tamente riabilitata, il fitness cardiovascolare del paziente è sufficientemente allenato per ritornare a una normale attività fisica. Dopo la piena riabilitazione, i pazienti pos-sono tornare all’attività fisica progressivamente. Gli spor-tivi dovrebbero iniziare il ripristino dell’attività in maniera semplice e graduale ma senza alcuna restrizione, con il recupero immediato della flesso-estensione del piede con il mantenimento dell’immobilizzazione per 3/4 settimane.

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DISTORSIONE DI CAVIGLIA - DALLA PREVENZIONE AL TRATTAMENTO

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L’uso del tutore deve continuare infatti finché l’atleta non può giocare senza alcuna restrizione, ovvero fino a guari-gione completa, in quanto il tutore permette di migliorare il feedback propriocettivo durante l’esercizio fisico.Le terapie riabilitative di più frequente utilizzo sono:• gli ultrasuoni, anche se non vi è evidenza scientifica

dell’efficacia del trattamento dopo 14 giorni di tratta-mento i pazienti sottoposti alla terapia mostravano un significativo miglioramento rispetto ai pazienti trattati con la sola immobilizzazione

• bagni alternati di acqua fredda e calda che stimolan-do la circolazione periferica riducendo l’edema

• TENS (stimolazione neuromuscolare transcutanea elet-trica) corrente bifasica che stimola i nervi sensoriali per attenuare le vie del dolore e stimolare la produzio-ne di endorfine che normalizzano l’attività simpatica

• massaggi locali possono contribuire a ridurre il gonfio-re drenando il liquido intravascolare

• taping migliora la propriocezione a causa di input sensoriali provenienti dalla pressione sulla pelle, ridu-ce anche il gonfiore tramite la compressione, viene uti-lizzato anche come elemento per la mobilizzazione.

L’approccio chirurgico per le lesione legamentose acute è controverso. Alcuni autori lo ritengono un approccio op-portuno nei giovani atleti professionisti e nei giovani adul-ti, nella convinzione che la riparazione diretta immediata possa accelerare la guarigione e ridurre la percentuale di recidive. In realtà non esistono dei dati scientifici in lette-ratura che supportino questa tesi. Entrambe le metodiche danno dei risultati buoni e sovrapponibili. Con l’aggiunta che un trattamento chirurgico è aggravato da potenziali complicanze legate all’intervento chirurgico. Così come nelle lesioni della sindesmosi tibio-peroneale, che non ab-biano provocato una diastasi della pinza malleolare nè una frattura, possono essere trattate conservativamente con un’immobilizzazione rigida (stivaletto gessato o fun-zionale). Certamente il periodo di disabilità è più prolun-gato rispetto alle normali lesioni capsulo-legamentose e i risultati a distanza sono meno soddisfacenti. Quando in-vece è presente un’alterazione radiografica dei rapporti tibio-peroneali, è necessario il trattamento chirurgico con l’inserzione temporanea di una vite attraverso il perone per ristabilire i giusti rapporti con la tibia. L’approccio chirurgico viene generalmente riservato ai casi di instabi-lità cronica di caviglia come conseguenza di distorsioni acute recidivanti che possono portare a deficit meccanici o funzionali dell’ articolazioneCause meccaniche di instabilità cronica possono com-prendere:• la lassità capsulolegamentosa;• modifiche sinoviali;• alterazioni cartilaginee degenerative.

Cause funzionali di instabilità cronica possono compren-dere• anomalie della propriocezione;• perdita di controllo neuromuscolare;• insufficiente controllo posturale;• deficit di forza muscolare.I pazienti affetti da instabilità della caviglia riferiscono dolore persistente spesso a causa di una lassità articolare sebbene l’instabilità cronica può essere presente senza una maggiore lassità legamentosa.Come causa o effetto dell’instabilità vi possono essere modificazioni degenerative dell’articolazione. Tali modi-ficazioni comprendono:• lesioni osteocondrali dell’astragalo;• impingement;• corpi liberi intrarticolari;• aderenze;• condromalacia;• osteofiti.Anche nell’instabilità cronica di caviglia la prima linea di trattamento consiste nel rinforzo muscolare. Questo si basa su esercizi destinati a migliorare la forza e l’equilibrio e spesso porta ad un recupero funzionale completo. In par-ticolare, l’obiettivo è di ottimizzare il controllo posturale degli arti inferiori e di ripristinare la stabilità attiva degli arti inferiori. Inoltre, il taping o il rinforzo della caviglia interessata può fornire un supporto meccanico supplemen-tare e una migliore propriocezione. Nell’instabilità cronica sono disponibili inoltre una serie di ortesi caviglia-piede a seconda della causa e della natura dell ‘instabilità.

LE OPZIONI CHIRURGICHESe il trattamento conservativo fallisce possiamo interveni-re con varie opzioni chirurgiche di riparazione anatomi-ca o di ritensionamento legamentoso Le riparazioni ana-tomiche più comuni sono le seguenti:• la tecnica di Brostrom: si esegue l’embricatura della

parte centrale e si sutura il legamento laterale;• la tecnica di Brostrom modificata da Gould: si mobi-

lizza anche la porzione laterale del retinacolo degli estensori;

• la tecnica di Karlsson: si ancora il legamento alle estre-mità prossimali attraverso fori di ancoraggio.

Le tecniche di ritensionamento legamentoso prevedono il prelievo di un tendine sano per ricostruire il sistema lega-mentoso della caviglia non più funzionale. In genere si usa il tendine del muscolo peroneo breve (che si trova a livello della caviglia) o il tendine del muscolo gracile (la zona del prelievo è poco sotto il ginocchio ed è uno dei tendini comunemente usato per ricostruire il legamento crociato anteriore).Le procedure di stabilizzazione legamentosi comuni sono le seguenti:

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C. VILLANI ET AL.

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• la procedura di Watson- Jones: innesto del peroneo breve e tenodesi al perone e al calcagno;

• la procedura di Evans: innesto del peroneo breve e tenodesi al perone;

• la procedura Chrisman-Snook:split del peroneo breve innesto e tenodesi al perone e al calcagno.

Se sono presenti delle lesioni associate, ottimi risultati si ottengono anche con la tecnica artroscopica, quando sono presenti lesioni associate soprattutto nei giovani atleti, in quei casi di sindrome da impigment sinoviale ed osseo come conseguenza di una instabilità cronica della caviglia, o in caso di corpi liberi intra-articolari. Le distorsioni della caviglia sono le lesioni muscolo-scheletriche più frequenti, soprattutto nei giovani atleti e negli adoloscenti. La maggior parte di esse interessa il comparto laterale rispetto a quello mediale. Nei trau-mi acuti il trattamento di scelta è quello conservativo, in caso di traumi recidivanti che portano ad una insta-bilità cronica della caviglia il trattamento è controver-so, sebbene si considera valido il proseguimento del trattamento conservativo per le lesioni di grado I e per le lesioni di grado II e III e per quelle di natura cronica un approccio chirurgico in aggiunta alle misure pre-ventive.

CONCLUSIONILe distorsioni di caviglia sono tra le lesioni muscolo-schele-triche più frequenti di accesso al pronto soccorso negli Stati Uniti, soprattutto tra gli adolescenti, i giovani adulti e gli atleti. La maggior parte delle distorsioni della caviglia sono lesioni che avvengono con meccanismo di inversione del piede con lesione del complesso legamentoso laterale. Gli specialisti dovrebbero raccogliere un’anamnesi dettagliata ed eseguire un esame obiettivo completo per delineare le caratteristiche e l’ entità del trauma. Ci sono misure di pre-venzione sia primaria che secondaria per le distorsioni. La prevenzione riduce il rischio di lesione e di conseguenza ha importanza nel ridurre i costi e l’affollamento nel pronto soccorso. Tra le misure di prevenzione più efficaci troviamo i tutori, la ginnastica propriocettiva, lo stretching e l’utilizzo di taping. Le distorsioni acute devono essere trattate con un approccio conservativo, tenendo presente che una pre-cedente distorsione della caviglia rappresenta il fattore di rischio maggiore per le successive distorsioni con maggio-re probabilità di instabilità cronica futura. Sebbene il tratta-mento di queste lesioni rimanga, alquanto controverso le le-sioni di basso grado hanno dimostrato di rispondere bene al trattamento incruento, considerando che le lesioni di alto grado e quelle di natura cronica possono richiedere un trattamento chirurgico in aggiunta alle misure conservative.

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DISTORSIONE DI CAVIGLIA - DALLA PREVENZIONE AL TRATTAMENTO

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R. MORA, B. BERTANI, G. TUVO, S. LUCANTO, F. DE ROSA, L. PEDROTTIDipartimento di Scienze Clinico Chirurgiche, Diagnostiche e Pediatriche dell’Università di Pavia, Clinica Ortopedica e Traumatologica dell’Università di Pavia, Polo Universitario “Città di Pavia”

Indirizzo per la corrispondenza:Redento MoraClinica ortopedica e Traumatologica dell’Università di PaviaPolo Universitario “Città di Pavia”via Parco Vecchio 27, 27100 PaviaE-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S82-S87S82

improvement in the management of simple and complex deformities of the lower limbs, and allow to obtain excellent results in experienced hands. These techniques, however, have some disadvantages, represented by the need to fol-low an exact order of priority with a sequential deformity correction, and by the tolerability of the patient, with fre-quent need to employ devices with special configurations. From the 1980s a second generation of circular external fixators (hexapod systems or six-axis external fixation de-vices) has been developed, linked to computer planning software: these devices combine a quick assembly and a high stability, and ensure a remarkable accuracy in the simultaneous correction of all kinds of deformities of the long bones, in adults and children. Since these features allow to improve versatility of devices, tolerability of the patient and nursing, six axis external fixation has become one of the most useful tools in deformity correction.Key words: lower limb deformities, circular external fixation, ste-wart platform, hexapod systems

INTRODUZIONEL’impiego dei sistemi di fissazione esterna circolare trova ampia applicazione nel trattamento delle deformità com-plesse degli arti inferiori, grazie anche alla loro versati-lità. L’osteosintesi interna classica presenta molte limita-zioni nel trattamento di questi tipi di patologia, poiché permette di risolvere solo alcuni dei problemi posti dalle deformità degli arti. La fissazione esterna offre innanzitut-to la possibilità di agire in ogni fase del trattamento sulla correzione ottenuta. La fissazione assiale in particolare presenta minore ingombro con conseguente maggiore tollerabilità, in particolare nelle applicazioni vicine alla radice dell’arto; essa consente tuttavia di eseguire piutto-sto agevolmente solo la correzione di deviazioni assiali e dismetrie. Le deformità di ogni tipo (multidirezionali, multiplanari, a più livelli) possono invece essere corrette con gli apparecchi e le tecniche di fissazione circolare. Le indicazioni all’impiego di tali sistemi devono essere va-lutate in base a diversi parametri: stabilità di montaggio, maneggevolezza e versatilità, semplicità di applicazione e di gestione, tipo di patologia da affrontare (e conse-guenti maggiori o minori possibilità di correzione delle deformità), frequenza delle modifiche da apportare al montaggio durante il trattamento 1-5.I vantaggi della fissazione circolare si possono riassume-re in concessione precoce del carico funzionale, possibi-lità di correggere gli spostamenti dei frammenti ossei su ogni punto della circonferenza dell’osso e in ogni fase del trattamento, facilità di rimozione al termine del tratta-mento. Sono tuttavia necessarie alcune precisazioni, che riguardano il segmento scheletrico interessato, il tipo di montaggio, le possibilità di riduzione e di immobilizza-zione efficaci, la stabilità del montaggio, la tollerabilità

LE DEFORMITÀ DEGLI ARTI INFERIORIDISMETRIA CON DEVIAZIONI ANGOLARI: CORREZIONE SEQUENZIALE CON FISSATORE ESTERNO CIRCOLAREDeformities of the lower limbs. Leg length discrepancy with angular deviations: sequential correction by means of circular external fixation

RiassuntoI sistemi di fissazione esterna circolare “classica”, introdotta in Unione Sovietica negli anni ‘50, hanno rappresentato un enor-me progresso nel trattamento delle deformità complesse degli arti inferiori, consentendo di ottenere in mani esperte eccellenti risultati.Essi tuttavia presentano alcuni inconvenienti, costituiti dall’obbligo di seguire un preciso ordine di precedenza, con correzione sequenziale delle deformità, e dalla tollerabilità da parte del paziente, con frequente necessità di ricorrere a mon-taggi speciali. A partire dagli anni ‘90 la fissazione esterna circolare è però entrata in una nuova fase di sviluppo, con l’ in-troduzione di sistemi di “seconda generazione”. I nuovi sistemi circolari esapodalici o a 6 assi, a controllo computerizzato, in-fatti, consentono nel bambino e nel soggetto adulto l’esecuzione di montaggi più rapidi grazie alla semplificazione del montag-gio e alla elevata stabilità, e permettono la più ampia possibilità di azione sui segmenti scheletrici, con correzione simultanea delle deformità grazie alla elaborazione delle informazioni, fornite dagli esami strumentali, da parte di un software dedica-to. Tali caratteristiche consentono di migliorare sensibilmente la versatilità dei montaggi, la tollerabilità da parte dei pazienti, il “nursing” e in definitiva la qualità del risultato finale.Parole chiave: deformità degli arti inferiori, fissazione esterna circolare, piattaforma di Stewart, sistemi esapodalici

Summary “Classic” circular external fixation systems, introduced in the Soviet Union in the 1950s, represented an enormous

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da parte del paziente, l’ordine da seguire nella correzio-ne di deformità variamente associate fra loro (deformità complesse). Riguardo al segmento scheletrico, la tollerabilità da parte del paziente si riduce man mano che si procede verso la radice dell’arto, anche se molti artifici vengono messi in atto per ridurre i disturbi causati dall’apparecchio di fissazione circolare. Il tipo di montaggio deve essere stu-diato tenendo in considerazione due punti fondamentali: l’importanza preminente del rispetto delle parti molli, e la necessità di adattamento al livello della deformità in quel determinato segmento osseo. A livello femorale la correzione può essere particolarmente difficile e richiede una profonda conoscenza dell’anatomia della regione, dei possibili spostamenti dei capi ossei e delle loro cause, dei principi che regolano la correzione delle deformità stesse. Inoltre in tale sede l’immobilizzazione dei fram-menti con i sistemi di fissazione esterna circolare è più dif-ficile da mantenere e occorre spesso eseguire montaggi “personalizzati”. Una adeguata stabilità del montaggio consente a una deformità ossea ben corretta e immobi-lizzata di evolvere verso la consolidazione: lo scopo da raggiungere è ogni volta quello di programmare e costru-ire un montaggio che offra il massimo della stabilità con il minor numero di elementi utilizzati. Nel trattamento delle deformità una delle regole più importanti da seguire, per assicurare la massima tollerabilità, è quella del rispetto dei tessuti molli, e in particolare della creazione di una ri-serva di tessuti molli ogni volta che è necessario eseguire una distrazione. In caso di deformità complesse, infine, la correzione simultanea di più di una deformità non è effettuabile, e occorre stabilire un ordine di priorità, det-tato da motivi sia teorici che pratici. La prima deformità da correggere è la deviazione assiale: ciò consente di riportare in posizione parallela gli anelli dell’apparecchio e di eseguire con maggiore comodità e precisione allun-gamento, quindi derotazione e infine correzione della traslazione.

PROGRAMMAZIONEUn’accurata programmazione è necessaria per l’imposta-zione del trattamento, e richiede una precisa definizione e un esatto inquadramento 6 7.Viene considerata deformità una qualsiasi alterazione della normale anatomia che oltrepassi i limiti di variabili-tà della maggior parte della popolazione sana. La defor-mità è classificabile in semplice (deformità in lunghezza, deviazione assiale, torsione, traslazione) o complessa (associazione di due o più deformità). Le deformità sem-plici possono presentarsi sul piano frontale o sagittale o su un piano obliquo (ipometria, deviazione assiale, trasla-zione) oppure sul piano trasversale (torsione).Le deformità in lunghezza si distinguono ulteriormente

in simmetriche (nella grande maggioranza inquadrabili nel capitolo dei deficit staturali) e asimmetriche (dismetrie degli arti). I deficit staturali a loro volta possono suddivi-dersi in 4 grandi gruppi 8: variazioni staturali nell’ambito della norma, anomalie scheletriche strutturali, malattie croniche organiche, sindromi endocrine. Le dismetrie de-gli arti possono derivare da difetti congeniti o da lesioni acquisite; possono essere già presenti nel bambino o ma-nifestarsi in età adulta. Nelle dismetrie degli arti la som-ma delle lunghezze dei segmenti che compongono l’arto è differente nei due lati. Le deviazioni assiali possono essere uniplanari (e presentarsi sui molteplici piani che ruotano attorno all.asse maggiore di un segmento osseo: valgismo o varismo sul piano frontale, procurvazione o recurvazione sul piano sagittale, deformità angolari su tutti gli altri piani) o multiplanari; esse si distinguono ul-teriormente in uniapicali o multiapicali. Le deformità tra-slazionali consistono in uno spostamento laterale di una parte di un segmento scheletrico rispetto all’altra; si tratta frequentemente di deformità post-traumatiche, come con-seguenza di una frattura. Le deformità torsionali, infine, sono deformità presenti intorno all’asse longitudinale del segmento osseo interessato 9. Si parla di extratorsione se l’epifisi distale del segmento osseo è deviata verso l’e-sterno, di intratorsione se l’epifisi distale è deviata verso l’interno.

STUDIO DELLA DEFORMITÀ

Accertamenti clinici e strumentaliDopo una attenta anamnesi e un accurato esame clini-co generale, la valutazione delle deformità inizia con l’esame clinico locale in clinostatismo e in ortostatismo. La valutazione in posizione supina consente di verifica-re l’escursione articolare e la stabilità delle articolazioni e l’identificazione della sede e del tipo di deformità; la misurazione della lunghezza degli arti inferiori (distan-za SIAS- malleolo mediale) definisce la dismetria degli stessi. La valutazione in ortostatismo si rende necessaria per confermare le deformità e verificare come l’eventua-le instabilità articolare modifichi l’entità delle deformità iuxtarticolari.La diagnostica strumentale si basa sugli esami radiogra-fici. La teleradiografia degli arti inferiori in carico con rotule allo zenit è necessaria per la valutazione e com-parazione degli assi meccanici dei due arti e della rota-zione dei segmenti scheletrici. In presenza di ipometria è necessario eseguire l’esame correggendo l’accorciamen-to con un rialzo di compenso fino ad ottenere il corretto livellamento del bacino, per annullare l’atteggiamento in flessione del ginocchio dell’arto più lungo. L’entità del rialzo stabilisce la differenza di lunghezza degli arti infe-riori. Viene sempre eseguita una radiografia di femore o di gamba nelle due proiezioni standard che comprenda

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le interlinee articolari. Lo studio delle deformità iuxtar-ticolari di anca, ginocchio e caviglia viene completato eseguendo una radiografia del’articolazione nelle due proiezioni.In presenza di deformità rotazionali, la TAC per lo studio rotazionale degli arti inferiori può contribuire a definire con precisione i gradi di extra- o intra-rotazione.

Allineamento degli arti inferioriLa linea virtuale che unisce il centro della testa femorale con il centro del pilone tibiale definisce l’asse meccanico dell’ arto inferiore. Tale asse non passa per il centro del ginocchio, ma decorre leggermente mediale ad esso.La distanza tra l’asse meccanico e il centro del ginocchio misurata sull’interlinea articolare viene definita “devia-zione dall’asse meccanico” (“mechanical axis deviation” o MAD): il MAD fisiologico è traslato medialmente di 8 millimetri. Qualsiasi variazione del valore fisiologico identifica un malallineamento dell’asse meccanico (“malalignment test” o “MAT”) (7). Se il MAD è spostato medialmente per oltre 8 mm, vi è un malallineamento in varo; se il MAD è spostato lateralmente, vi è un malallineamento in valgo.

Assi femorali e tibialiL’asse meccanico del femore sul piano frontale o sagittale è identificato da una linea retta che congiunge il centro della testa femorale e il centro del ginocchio. L’asse mec-canico della tibia sul piano frontale o sagittale è identifi-cato da una linea retta che congiunge il centro del ginoc-chio e il centro della caviglia.L’asse anatomico del femore è identificato nei due piani dalla linea mediodiafisaria, che è retta sul piano fronta-le, ma curva sul piano sagittale, in rapporto all’anatomia dell’osso femorale. L’asse anatomico della tibia è identi-ficato invece nei due piani dalla linea mediodiafisaria: nel piano frontale interseca al ginocchio la spina tibiale mediale e alla caviglia un punto mediale rispetto al centro articolare di circa 4 mm; nel piano sagittale interseca al ginocchio il piatto tibiale al quinto anteriore e alla cavi-glia il centro del pilone tibiale.Sul piano frontale l’asse meccanico e l’asse anatomico della tibia sono paralleli e distanti fra loro solo alcuni mm; l’asse meccanico e l’asse anatomico del femore non sono paralleli ma convergono distalmente.Qualsiasi deformità divide il femore o la tibia in due o più segmenti, di cui è possibile tracciare gli assi. L’utilizzo dell’asse anatomico consente uno studio più agevole del-la deformità nelle due proiezioni radiografiche standard, a partire dall’identificazione delle linee mediodiafisarie di ciascun segmento. Nelle deformità iuxta-articolari femorali o tibiali sul pia-no frontale o sagittale, dove il segmento adiacente è di

lunghezza insufficiente per identificare la linea medio-diafisaria, l’asse iuxta-articolare viene tracciato a partire dall’angolo di orientamento articolare.

Orientamento articolareL’orientamento articolare si riferisce alla posizione di cia-scuna superficie articolare rispetto all’asse del relativo segmento osseo, che identifica quindi l’angolo “di orien-tamento articolare” nei piani frontale e sagittale. Per con-venzione ciascun angolo viene denominato da un acroni-mo che specifica: 1. asse di riferimento: anatomico (a) o meccanico (m); 2. posizione rispetto all’asse: mediale (M) o laterale (L) nel piano frontale; anteriore (A) o posteriore (P) nel piano sagittale; 3. posizione nel segmento osseo: prossimale (P) o distale (D); 4. segmento osseo: femore (F), tibia (T).Nel femore prossimale gli angoli necessari per analizzare la deformità sono costituiti da: “Lateral Proximal Femoral Angle” (LPFA) e da: “Posterior Proximal Femoral Angle” (PPFA). Nel femore distale gli angoli necessari per analiz-zare la deformità sono costituiti da: “Lateral Distal Femo-ral Angle” (LDFA) e da: “Posterior Distal Femoral Angle” (PDFA).Nella tibia prossimale, gli angoli necessari per analizza-re la deformità sono costituiti da: “Medial Proximal Tibial Angle” (MPTA) e da: “Posterior Proximal Tibial Angle” (PPTA) o “slope posteriore”. Nella tibia distale, gli angoli necessari per analizzare la deformità sono costituiti da: “Lateral Distal Tibial Angle” (LDTA) e da “Anterior Distal Tibial Angle” (ADTA) o “tilt anteriore”.Di ciascun angolo è noto il valore fisiologico, ricavabi-le dall’angolo corrispondente del lato sano o dall’an-golo medio della popolazione di riferimento. Tracciata pertanto la retta tangente alla superficie articolare (che rappresenta un lato dell’angolo), si calcola l’angolo di orientamento articolare con vertice fissato sul punto ar-ticolare in cui normalmente giunge l’asse del segmento scheletrico. Il secondo lato dell’angolo rappresenta quindi l’asse iuxtaarticolare corretto.

Deformità angolare In una deformità angolare, il punto di intersezione degli assi identifica l’apice della deformità angolare (“center of rotation of angulation” o “CORA”), nei piani frontale e/o sagittale. L’angolo risultante dall’intersezione degli assi dei frammenti definisce l’entità della deformità angolare.Il CORA è il punto attorno al quale deve necessariamente avvenire la correzione della deformità; pertanto a que-sto livello devono essere sempre posizionati gli snodi. Se l’osteotomia viene eseguita a livello del CORA, si ot-terrà sempre la correzione della deformità con ripristino dell’asse della tibia e di tutto l’arto inferiore. Se l’osteoto-mia viene eseguita a distanza dal CORA, si otterrà una

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correzione della deformità angolare associata però ad una traslazione in senso opposto (che porta tuttavia al recupero degli assi). In caso di errato posizionamento de-gli snodi di correzione, pur ottenendo la correzione della deformità angolare, si verificherà sempre una traslazione patologica con alterazione dell’asse del segmento interes-sato e dell’asse meccanico dell’arto inferiore.

Deformità in traslazioneLa distanza tra l’asse del segmento prossimale e quello del segmento distale definisce la misura della traslazione del segmento distale nei piani frontale e /o sagittale. In presenza di deformità angolare e/o dismetria associate, la traslazione viene misurata sulla linea perpendicolare all’asse prossimale che congiunge i due assi all’altezza dell’apice del frammento traslato.

Deformità in lunghezzaIn assenza di deformità associate, la comparazione della misura della lunghezza degli assi della tibia normale e del-la tibia patologica definisce l’esatta ipometria della gamba. In presenza di deformità angolare associata, la lunghez-za del femore o della tibia è data dalla somma delle lunghezze dei segmenti in cui è divisa sul lato convesso della deformità. Se tale lunghezza corrisponde a quella del lato sano, la deformità angolare è l’unica componente determinante l’ipometria. In caso contrario la differenza tra le due lunghezze definirà la misura dell’ipometria pre-sente. In presenza di deformità complesse, il calcolo della dismetria deve essere effettuato una volta corrette tutte le altre deformità.

Deformità in rotazioneLe deformità in rotazione o torsionali sono presenti intor-no all’asse longitudinale della tibia. Solo raramente le me-todiche strumentali (Rx, TAC, RMN) appaiono realmente più affidabili della accurata valutazione clinica.

Malalignment testLa conoscenza dei normali assi ed angoli radiografici, presenti nell.arto inferiore, e dei rapporti fra asse anato-mico, asse meccanico e linea di orientamento articolare, è assolutamente fondamentale per una precisa valutazio-ne della deformità.Questa valutazione preliminare consente di riconoscere la presenza di un’eventuale deviazione dell’asse meccanico del ginocchio (malallineamento). Quest’ultimo può dipen-dere da varie cause: ossee (deformità femorale o tibiale); capsulo-legamentose (lassità o sublussazione); cause lega-te alle superfici articolari (deficit dei condili femorali o dei piatti tibiali); combinazione fra le cause precedenti.Paley e Tetsworth 7 hanno ideato un test abbastanza sem-plice, il cosiddetto “Malalignment test” (MAT), che permet-

te di determinare l’esatta sede della deviazione dell’asse meccanico. Identificata l’origine (femorale o tibiale) del malallineamento, occorre determinare il livello della de-formità angolare, che è in genere evidente nelle deviazio-ni assiali diafisarie, meno evidente in quelle metafisarie o iuxta-articolari.

TRATTAMENTO La fissazione esterna circolare “classica” ha rappresenta-to per decenni un enorme progresso nel trattamento delle deformità complesse degli arti inferiori, consentendo di ottenere eccellenti risultati.Essa tuttavia presenta ancora, come già sottolineato, al-cuni importanti inconvenienti costituiti dalla necessità di seguire un preciso ordine di precedenza, con correzio-ne sequenziale degli spostamenti, e dalla tollerabilità da parte del paziente, che si riduce via via che si procede verso la radice dell’arto, con frequente necessità di ricor-rere a montaggi speciali a causa dell’insufficienza dei montaggi “standard”.

Dopo un periodo di lento rinnovamento delle metodiche, a partire dagli anni Novanta la fissazione esterna circola-re è entrata in una nuova fase di sviluppo, con l’ introdu-zione di sistemi di “seconda generazione”. I nuovi sistemi circolari esapodalici o a 6 assi, a controllo computeriz-zato, infatti, oltre a consentire l’esecuzione di montaggi più rapidi grazie alla semplificazione delle tecniche ap-plicative e alla loro superiore stabilità 10-13, permettono la più ampia possibilità di azione sui segmenti scheletrici, con correzione simultanea di accorciamento (o allunga-mento), angolazione, rotazione e traslazione sulla base di calcoli eseguiti da un software dedicato che elabora informazioni fornite dagli esami strumentali.Questi sistemi si basano sul meccanismo a sei gradi di libertà noto come “piattaforma di Gough - Stewart”, basa-to sulle ricerche di Gough e Whitehall 14 e di Stewart 15, costituita essenzialmente da una base e da una piattafor-ma mobile, collegate da 6 aste estensibili.

Nel 1995 i fratelli H.S. Taylor e J.C. Taylor di Memphis presentarono il primo sistema esapodalico basato su cal-coli matematici (Taylor Spatial Frame, TSF) 16. L’unità-base è costituita da una coppia di anelli e da 6 aste telesco-piche oblique, regolabili millimetricamente in lunghez-za e collegate a ciascun anello da giunti cardanici, e che utilizza quali elementi di presa fili transossei, viti o combinazioni fra essi, come nei fissatori circolari classi-ci. L’aggiunta di un anello prossimalmente e distalmente all’unità-base può fornire ulteriore stabilità al montaggio. L’accuratezza della correzione si basa sull’analisi dei ra-diogrammi, che forniscono i parametri sulla posizione del fissatore, sul tipo ed entità della deformità e sul reciproco

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rapporto tra fissatore e osso. Utilizzando tali parametri un programma computerizzato calcola le modifiche da ap-plicare gradualmente alle 6 aste telescopiche per ottenere la correzione in 6 gradi di libertà e fornisce una scheda che viene consegnata allo stesso paziente perché possa provvedere quotidianamente alle regolazioni. L’impiego del Taylor Spatial Frame si è diffuso in vari Paesi e questo sistema è attualmente il più utilizzato nel mondo (Fig. 1).Al sistema TSF hanno fatto seguito negli anni successi-vi numerosi altri sistemi esapodalici, ideati in vari Paesi, a controllo computerizzato mediante programmi basati su misurazioni radiografiche. Nel 1996 Seide e Wolter ad Amburgo presentarono il Polihex Ilizarov Hexapod System  17 che permette infatti di utilizzare gli anelli del sistema Ilizarov e di regolare le aste telescopiche in ma-niera più fine del TSF. Nello stesso anno venne presenta-to l’Hexapod Spatial Fixator Eisenberg, costituito da due doppi anelli collegati da 6 aste telescopiche e da speciali morsetti che consentivano una varietà di posizionamento degli elementi di presa, per ridurre al minimo i disturbi a livello dei tessuti molli 18. Sistemi piuttosto simili al TSF sono stati presentati successivamente: lo Smart Correc-tion, ideato in Turchia  12 19, e il sistema HCF (Hexapod Correction Frame), ideato in Corea 12 19.Nel 2009 venne proposto il sistema Adam Frame, svilup-pato in Turchia. Si tratta di un sistema non esapodalico ma octopodalico, con 4 aste telescopiche non oblique ma longitudinali, collegate a 4 aste telescopiche oblique. Questa struttura rende più simile all’impiego dei sistemi circolari “classici” e più intuitivo l’utilizzo del fissatore 20.Un nuovo fissatore ideato in Cina e presentato nel 2011 (3D Hexapod Computer-assisted Orthopaedic Surgery System) si presenta con aspetto simile al TSF; il software è però basato su un processo di ricostruzione d’immagine attraverso tomografia computerizzata 21.Nel 2012 venne presentato negli Stati Uniti il sistema esa-podalico TL-HEX, evoluzione del fissatore circolare di tipo “classico” True-Lok. Il sistema presenta caratteristiche in-teressanti soprattutto nell’hardware. In particolare le aste oblique si fissano “a coppia” in fori posti su tabs ango-late (presenti sul bordo degli anelli del fissatore), ove è presente anche l’alloggiamento per la vite che stabilizza entrambe le aste 22. Il sistema presentato nel 2009 da Solomin, Utekhin e Vi-lenski a San Pietroburgo, denominato Ortho-SUV Frame dalle iniziali dei nomi dei tre ideatori, offre soluzioni mol-to interessanti e differenti dai sistemi Hexapod precedenti. Le aste possono essere collegate a qualsiasi tipo di anello dei sistemi circolari in commercio. Inoltre, ciascuno degli anelli è collegato a tre sole aste telescopiche, mentre le altre tre aste sono collegate ciascuna a un lato di un’altra asta. I calcoli matematici del programma computerizzato si basano sulla lunghezza delle aste oblique e sulla lun-

ghezza dei lati dei due triangoli formati su ciascuno dei due anelli dai collegamenti delle aste telescopiche; inoltre l’acquisizione delle due proiezioni radiografiche diretta-mente nel software facilita e velocizza notevolmente le misurazioni dei vari parametri sulla deformità in tratta-mento. Questo tipo di montaggio rende il sistema molto più leggero e il programma estremamente preciso oltre che molto intuitivo e semplice da utilizzare 23 (Fig. 2).

FIGURA 1.Applicazione di taylor spatial frame per il trattamento di deformità femorale.

FIGURA 2.Montaggio di Ortho-Suv Frame per il trattamento di deformità tibiale.

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LE DEFORMITÀ DEGLI ARTI INFERIORIDISMETRIA CON DEVIAZIONI ANGOLARI S87

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23 Tyulyaev V, Vorontsova TN, Solomin LN, et al: Development history and modern concern of problems of management of extremity in-juries by external fixation. Travmatologiia i Ortopedia Rossii 2011;2:179-89.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVEI sistemi di fissazione esterna circolare si sono rivelati, sin dalla loro introduzione nella pratica clinica ortopedica, un eccellente strumento per la correzione delle deformità degli arti inferiori.

L’introduzione della “seconda generazione”, costituita dai sistemi di fissazione esapodalici a controllo compute-rizzato, permette di superare le limitazioni che gli appa-recchio “classici” presentavano, migliorando notevolmen-te la versatilità dei montaggi, la tollerabilità da parte dei pazienti e la qualità del risultato finale.

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S. BOERO, S. MANNINO*, F. RATTO**, S. RIGANTIIstituto Giannina Gaslini, Genova; * Clinica Ortopedica Policlinico Paolo Giaccone, Palermo; **Clinica Ortopedica Ospedale S. Martino, Genova

Indirizzo per la corrispondenza:Silvio Boerolargo Gaslini 5, 16100 GenovaE-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S88-S92S88

sociated with axial deviation eight plate represents a treatment complementary to external fixator. These two seemingly antitheti-cal devices must otherwise be exploited by surgeon. Their versa-tility allows to make combined solutions for any deformity type. The surgeon can decide to use the plate before, during or after a treatment with external fixation.Key words: emiepiphisiodesis, 8-plate, limb-length discrepancy treatment

INTRODUZIONEPer “crescita guidata” intendiamo la possibilità di sfrutta-re il potenziale di accrescimento dell’osso durante l’età evolutiva per ottenere la correzione di eterometrie e de-viazioni assiali degli arti.La base del trattamento è, ovviamente, la presenza di cartilagini di accrescimento aperte, che possano quindi essere selettivamente “bloccate” per un periodo di tempo sufficiente ad ottenere la correzione desiderata 1.Per la correzione delle deviazioni assiali si deve realiz-zare una emi-epifisiodesi temporanea mediante l’appo-sizione di una placca o di una cambra a cavallo della cartilagine stessa 2-4.Il costo non eccessivo del materiale, il relativo impegno chirurgico, la breve ospedalizzazione e la buona com-pliance dei pazienti, hanno portato ad una larga diffusio-ne di queste metodiche, specialmente dopo l’introduzione della tecnica modificata da Stevens 5.Non va, infatti, dimenticato che esistono alternative tera-peutiche: la fissazione esterna circolare, che permette di ottenere la correzione graduale di deformità complesse. La fissazione esterna può essere presa in considerazione sia come trattamento successivo che contemporaneo alla emi-epifisiodesi.Le placchette ad otto sono adatte a correggere deformità angolari meta-epifisarie ed eterometrie sia degli arti supe-riori che inferiori 6.Nella nostra trattazione considereremo quelle a livello de-gli arti inferiori.

MATERIALI E METODIA partire da Gennaio 2006 a Marzo 2014 abbiamo trat-tato presso l’UOC di Ortopedia e Traumatologia Pediatri-ca dell’Istituto Giannina Gaslini di Genova 140 pazienti con placca ad otto e/o fissatore esterno, in base al tipo di deformità ed all’età dei pazienti. Essi presentavano de-formità degli arti inferiori dovute a patologie neuromusco-lari, endocrine, metaboliche, genetiche, tumorali, oltre a deformità idiopatiche ed esiti traumatici.Di tali pazienti solo 27 presentavano una eterometria as-sociata a deviazione angolare (Tab. I) e sono stati trattati con la “crescita guidata”, secondo la tecnica chirurgica standardizzata.L’età media dei pazienti trattati era di 10,3 anni (range 2 - 16).

CRESCITA GUIDATAGuided growth

RiassuntoPer “crescita guidata” intendiamo la possibilità di sfruttare l’ac-crescimento dell’osso durante l’età evolutiva per correggere ete-rometrie e deviazioni assiali degli arti.Nel nostro lavoro abbiamo considerato pazienti con deviazio-ni assiali degli arti inferiori associate ad eterometrie. Tali pa-zienti sono stati trattati con emiepifisiodesi con placca ad otto associata o meno a fissatore esterno (f.e.), in base al tipo di deformità. L’emiepifisiodesi è stata sempre effettuata mediante placca ad otto che, a nostro avviso, possiede delle caratteristi-che importanti che la contraddistinguono dalla cambra, tra cui il suo posizionamento extraperiostale e la possibilità di eseguire re-interventi, in quanto non è stato intaccato il periostio. Solo eterometrie inferiori ai 4 cm in assenza di deviazioni assiali rappresentano l’indicazione a un trattamento con sole placche; in questi casi infatti si può bloccare selettivamente la o le fisi dell’arto controlaterale.Nelle eterometrie associate a deviazioni assiali la “placca ad otto” è uno strumento complementare al f.e. Questi due disposi-tivi, apparentemente in antitesi, devono essere entrambi sfruttati dal chirurgo. La loro versatilità permette di individuare soluzioni combinate che si adattano ad ogni tipo di deformità. Il chirurgo può quindi decidere se ricorrere alla placca prima, durante o dopo un trattamento con f.e.Parole chiave: emiepifisiodesi, placca ad otto, trattameno etero-metrie degli arti

Summary We mean “guided growth” the ability to exploit the potential of bone growth in childhood for correction of limb length discrep-ancy (lld) and axial deviation of the limbs. Our work analyzed patients with axial deviation of the lower limbs associated with lld. We treated these patients with “guided growth” plate with or without external fixator, according to the deformity. The he-miepiphysiodesis was always performed by eight plate which, in our opinion, has important features that distinguish it from staples: extraperiosteal placement and the possibility to perform re-operation because of the periosteum integrity. According to us, only lld less than 4 cm without axial deviations represent the indication to a treatment with only plates. In these cases, we can selectively block the physis of the controlateral limb. In lld as-

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CRESCITA GUIDATA

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Di ogni deformità sono state registrate le caratteristiche cliniche: eterometria, misurazione in gradi della defor-mità angolare, distanza intermallolare (DIM), distanza intercondilare (DIC), ROM ed eventuale lassità capsulo-ligamentosa (Tab. II).

TABELLA I.

Diagnosi N. pazienti Varo Valgo

Idiopatiche 5 1 4

M. di Blount 3 3 0

Post-traumatiche 3 0 3

Pseudoacondroplasia 2 0 2

S. Ellis Van Creveld 3 0 3

M. Ollier 2 1 1

Displasia di Stuve-Wiedemann 1 1 0

Displasie epifisarie/Epifiso-metafisarie 1 1 0

S. di Schmid 1 1 0

Emimelia 3 0 3

Post-artrite 1 0 1

Post-tumore 1 0 1

Coxa Vara 1 1 0

Totale 25 9 16

TABELLA II.

Caratteristiche cliniche

Eterometria 38mm (10 – 160)

Varismo 22° (12 - 43)

Valgismo 20° (7 – 30)

DIM 95mm (32 – 130)

DIC 56mm (43 – 93)

ROM Completo in 23

Instabilità articolare 3

Il planning preoperatorio è stato eseguito sulla base di un esame teleradiografico degli arti inferiori sotto carico in proiezione AP (Fig. 1), con rotule allo zenith, una radio-grafia in proiezione LL del segmento interessato, una TAC nel caso di deformità torsionali e, nei pazienti vicini al termine dell’accrescimento, una radiografia del polso per determinare l’età ossea e stimare la crescita residua 6-8.L’intervento chirurgico è stato eseguito in anestesia gene-rale, con laccio ischemico alla radice dell’arto, attraverso un minima incisione di circa 3 cm centrata sulla cartilagi-ne di accrescimento.

Èstata utilizzata una sola placca per ogni fisi coinvolta, ponendo particolare attenzione al posizionamento della stessa sotto fasciale o sottomuscolare ma assolutamente extraperiostale 5. Abbiamo eseguito tale intervento in pa-zienti la cui crescita residua minima era stimata in 12 mesi.Di fondamentale importanza è la valutazione fluorosco-pia intraoperatoria dell’impianto, affinché risulti in proie-zione AP a cavallo della fisi e in proiezione LL centrato sull’asse longitudinale diafisario (Fig. 2).Nei casi in cui l’eterometria risultava maggiore ai 4 cm è stato posizionato, in associazione alla placca, un fissato-re esterno circolare.

FIGURA 1.Paziente S.C., femmina, 8 anni, emimelia longitudinale esterna con accorciamento di 3 cm.

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S. BOERO ET AL.

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Il ricovero post-intervento è stato mediamente di 3 giorni nei pazienti trattati solo con placca, 10 giorni se trattati anche con fissatore esterno.Il carico è stato concesso a tolleranza senza necessità di fisioterapia specifica, tranne nei casi di scarsa collabora-zione del paziente.Dopo la dimissione i pazienti hanno effettuato visite di controllo ambulatoriali con cadenza settimanale fino alla rimozione dei punti di sutura (mediamente 15 giorni), quindi trimestrale, per quelli in cui era stata applicata solamente la “placca ad otto”. Abbiamo eseguito una valutazione esclusivamente clinica della correzione della deformità, eseguendo un solo controllo tele radiografico sotto carico 9, a correzione clinicamente raggiunta, per decidere la tempistica di rimozione della placca.Per i pazienti trattati anche con fissatore esterno è stato seguito protocollo standard fino alla rimozione dell’appa-rato: tale protocollo prevede una valutazione clinica e ra-diografica mensile fino alla correzione della eterometria, quindi una valutazione trimestrale fino alla consolidazio-ne del rigenerato osseo.Abbiamo rivalutato i pazienti anche dopo correzione e ri-mozione dell’impianto circa ogni sei mesi fino al raggiun-gimento della maturità scheletrica, in modo da monitorare eventuali recidive.

RISULTATII nostri parametri di valutazione sono stati: il ripristino dell’omometria, la correzione dell’asse meccanico, il do-lore pre e post-intervento valutato mediante scala VAS, i tempi di ripresa dell’attività fisica, il ROM e l’eventuale instabilità articolare.Il trattamento ha avuto una durata compresa tra 6 e 17 mesi con media di 11,4 mesi.Abbiamo ottenuto la correzione della eterometria in 12

casi e la neutralizzazione dell’asse di carico in 13 defor-mità trattate.2 pazienti sono tuttora in trattamento, pertanto non è an-cora valutabile il risultato.Le complicanze sono state: 1 rottura del filo guida per la vite cannulata; 2 infezioni superficiali della ferita chirurgi-ca; 2 fratture per trauma diretto e 1 frattura su rigenerato.Di tutti i pazienti trattati abbiamo avuto 3 recidive, inten-dendo per recidive la ricomparsa di eterometria e devia-zione assiale (Fig. 3).Nessun paziente riferiva dolore pre intervento. 2 pazienti trattati con placca mediale alla tibia prossimale hanno riferito dolore elettivo in corrispondenza dei tendini del-la zampa d’oca (VAS 3) nell’immediato post-operatorio, risoltosi nel giro di pochi giorni con crioterapia locale e blandi analgesici.Al termine della correzione nessun paziente lamentava algie.La ripresa della normali abitudini di vita è avvenuta me-diamente dopo 30 giorni, la deambulazione è stata con-cessa dalla seconda giornata post-operatoria e solo in 2

FIGURA 3.Paziente S.C., femmina anni 12, recidiva della deformità e successivo trattamento combinato con placca e fissatore esapodalico.

FIGURA 2.Controllo post-operatorio e a termine della correzione della stessa paziente della figura 1.

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CRESCITA GUIDATA

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casi è stato necessario ricorrere a un trattamento fisiote-rapico.In tutti i casi, al termine del trattamento, si è ottenuto il ripristino del ROM pre-operatorio.Al termine della correzione, nei casi di emimelia longitudi-nale esterna, abbiamo riscontrato un importante migliora-mento della stabilità articolare con negativizzazione del varo-valgo stress e miglioramento del test di Lachmann.

DISCUSSIONE La correzione delle eterometrie e delle deviazioni assiali rimane un problema difficile da affrontare, che richiede una accurata comprensione delle deformità e una attenta pianificazione del trattamento 10 11.È importante sottolineare che, nei casi di emimelia longi-tudinale esterna, il valgismo, è prevalentemente presente a livello femorale mentre l’ipometria è tibiale. È presente, inoltre, una certa instabilità articolare del ginocchio, do-vuta al valgismo, per ipoplasia del condilo femorale ester-no, e ad ipo-aplasia del legamento crociato anteriore.In tali casi il miglioramento della stabilità dipende sia dal-la correzione della deformità ossea, che dal riequilibrio dell’apparato capsulo-ligamentoso e dal recupero di un buon tono-trofismo muscolare.Le due infezioni superficiali della ferita chirurgica sono state trattate e si sono risolte con terapia antibiotica per via orale.Le 2 fratture, entrambe in m. di Ollier, sono state trattate con fissatore esterno per ottenere la guarigione della le-sione e un ulteriore allungamento dell’arto.

Anche la frattura del rigenerato osseo è stata trattata con fissatore esterno; in questo caso tuttavia non abbiamo ten-tato una ulteriore correzione della eterometria. Per quanto riguarda le recidive un fattore sicuramente molto impor-tante è l’età; infatti, una volta corretto l’asse e ripristinata l’omometria, gli arti continuano a crescere, provocando la recidiva sia dell’eterometria che della deviazione assiale spesso presenti in bambini affetti da osteocondrodisplasia o disordini metabolici dell’osso. Secondo la nostra espe-rienza, la placca ad otto ha il vantaggio di poter essere posizionata extraperiostale, con il fulcro della correzione esterno alla cartilagine di accrescimento, quindi senza compressione della fisi. La placca agisce come fascia di tensione, mantenendo intatta la cartilagine di coniugazio-ne, mentre le viti agiscono come cardini; esse divergono durante la correzione, impedendo la dislocazione verso l’esterno della placca 1. A differenza delle cambre 12 13

che debbono contrastare la crescita, la placca ad otto la guida, pertanto, è sufficiente una sola placca per ogni fisi da trattare, ad eccezione del ginocchio flesso osseo in cui è necessario applicarne due anteriori. Un altro vantaggio della crescita guidata, forse il più importante, è quello di potersi applicare anche su pazienti molto piccoli, dai 19 mesi di età e su “fisi malate” 10, che presentino però un sufficiente potenziale accrescitivo.A nostro avviso soltanto le eterometrie inferiori ai 4 cm, in pazienti in cui sia prevista una buona statura a termine crescita, in assenza di deviazioni assiali, rappresentano l’indicazione a un trattamento con sole placche; in que-sti casi, infatti, si può bloccare selettivamente la o le fisi dell’arto controlaterale  14-16, correggendo l’eterometria con una tecnica poco invasiva.In caso di eterometria associata a deviazione assiale la “placca ad otto” rappresenta uno strumento complemen-tare al fissatore esterno.Nei pazienti che presentano deformità in esiti di distacchi epifisari, l’applicazione della placca deve essere prece-duta dalla “riapertura” della cartilagine di accrescimento mediante de-epifisiodesi (Fig. 4).Questo atto chirurgico per quanto semplice non può ga-rantire la ripresa della crescita del segmento.È assolutamente necessario rendere edotto il paziente e i genitori che il risultato atteso può non essere raggiunto e l’utilizzo della placca, in queste situazioni, è ancora “off-label”.Per tale motivo consigliamo di restringere questa indica-zione chirurgica solo a casi molto selezionati.

CONCLUSIONILa crescita guidata della fisi, a nostro avviso, va eseguita avvalendosi di un dispositivo che permetta l’esecuzione di un intervento chirurgico “semplice”, che non rechi danno al periostio e alla fisi, che dia la possibilità di eseguire re-

FIGURA 4.Paziente V.F., maschio, 13 anni, eterometria e deviazione assiale post-traumatica (distacco epifisario tipo 5). a)Planning preoperatorio b)controllo dopo intevento di de-epifisiodesi e apposizione di placca ad otto c)controllo a termine della correzione (si noti la migrazione metafisaria del cemento) d)correzione eterometria con doppia placca controlaterale.

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S. BOERO ET AL.

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interventi in caso di recidiva, che permetta di avere una buona compliance del paziente 17 e che non infici la pos-sibilità di utilizzare altre metodiche in caso di insuccesso.La “placca ad otto” permette di correggere sia eterometrie modeste che deviazioni assiali. Il trattamento di deformità con fissatore esterno è in genere indicato per dismetrie importanti e deformità multiplanari.Questi due dispositivi, però, apparentemente in antitesi,

possono essere complementari. Devono essere perciò sfruttati dal chirurgo per la loro versatilità che permette di individuare soluzioni combinate che si adattano ad ogni tipo di deformità. Il chirurgo può quindi decidere se ricorrere alla placca prima, durante o dopo un tratta-mento con fissazione esterna, al fine di ottenere i migliori risultati per il bambino con il minor impegno chirurgico possibile.

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M. INNOCENTI, C. CARULLI, A. MACERA, F. MATASSI, R. CIVININIClinica Ortopedica, Università di Firenze

Indirizzo per la corrispondenza:Christian CarulliClinica Ortopedica, Università di Firenzelargo P. Palagi 1, 50139 FirenzeE-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S93-S95 S93

lopiù nei soggetti adulti e anziani che conducono una vita più dinamica e praticano sport 2. Tali soggetti, alla richiesta di una soluzione per le problematiche articolari di anca e ginocchio, generalmente presentano aspettative che vanno aldilà dell’eliminazione o riduzione del dolore e della ripresa di una articolarità: spesso, intendono es-sere restituiti alle loro pratiche sportive, seppur di basso profilo. In tale ottica, poiché il successo clinico di un ar-troprotesi è notevolmente documentato e pubblicizzato, negli ultimi decenni si è verificato un notevole incremen-to degli impianti protesici in soggetti “iperdinamici”  3 4. Tuttavia, è noto che, sebbene tale chirurgia si avvalga di tecniche e vie di accesso sempre più conservative e di materiali altamente performanti, una protesi può an-dare incontro a fallimento. Aumentando il numero degli impianti, in particolare di anca e ginocchio, stiamo assi-stendo anche ad un aumento del numero di fallimenti 5. Specificatamente, la principale causa di fallimento degli impianti è rappresentata dall’usura dei materiali, seguita dall’instabilità, dall’infezione e da cause emergenti, lega-te all’eccessiva dinamicità dei soggetti protesizzati, come le fratture periprotesiche 6 7. Un paziente protesizzato può indurre così un’accelerazione dei fenomeni legati all’usu-ra con il mantenimento di un’attività sportiva che ovvia-mente determina un consumo maggiore rispetto alla vita quotidiana; inoltre, può essere soggetto a traumatismi che possono causare una frattura nelle vicinanze di una o più componenti protesiche, determinando un’altra spiacevole situazione da risolvere.È così ragionevole suggerire ad un soggetto protesizzato di limitare al massimo tutte le condizioni che possano indurre un fallimento dell’impianto, comprese le attività sportive.Nel tentativo di fare chiarezza sull’opportunità da parte di soggetti portatori di protesi di anca o ginocchio di svol-gere con regolarità attività sportive, dobbiamo comun-que analizzare a fondo le possibili complicanze legate ad eventuali cause di fallimento e di revisione protesica, come accennato in precedenza.Tali situazioni possono essere ricondotte a varie condizio-ni spesso concomitanti, riassumibili in fattori dipendenti dal paziente, dall’intervento chirurgico e legate all’im-pianto protesico stesso.

FATTORI LEGATI AL PAZIENTE L’età rappresenta il fattore più importante riguardo l’out-come e la durata di un impianto protesico. La maggior parte dei pazienti sottoposti ad artroprotesi ha un’età media di 70 anni 7 e i Registri internazionali hanno dimo-strato un rischio di revisione di 2,5 volte maggiore nei pa-zienti con osteoartrosi di età inferiore a 65 anni rispetto a quelli con età superiore a 65 anni 8-10. A questo si associa una sopravvivenza degli impianti ridotta di quasi cinque volte in soggetti di età inferiore ai 55 anni 8 11, per la

DEFORMITÀ DEGLI ARTI INFERIORI. PROTESI DI ANCA E DI GINOCCHIO E SPORT: FORSE SÌ, FORSE NODeformities of the legs. Total hip and knee arthroplasties and sports: we should or we do not?

RiassuntoNegli ultimi decenni sono sempre di più le persone che sotto-poste ad impianto protesico di anca o ginocchio proseguono un’attività sportiva.Tuttavia, la ripresa di uno sport può portare a gravi conseguen-ze per l’impianto, come una maggiore usura delle componenti protesiche, mobilizzazione asettica ed insorgenza di fratture periprotesiche inseguito ad eventi traumatici.Tali condizioni posso condurre al fallimento dell’impianto, even-to devastante non solo per i pazienti ma anche frustante per i chirurghi.In questa review, esponiamo i motivi per cui le attività sportive dovrebbero essere limitate nei soggetti protesizzati, anche se giovani e attivi.Parole chiave: protesi totale d’anca, protesi totale di ginocchio, sport, chirurgia protesica

SummarySport activities are part of the new generation of patients with joint replacement. However, sport may lead to severe sequelae as increased wear of the prosthetic components, aseptic loosen-ing, and traumatic situations leading to peripsosthetic fractures. Since failures of arthroplasty are devastating for the patients and frustrating for the surgeons, we expose why sports activities should be limited in subjects with a joint replacement, also if young and active.Key words: total hip arthroplasty, total knee arthroplasty, sport, orthopaedic surgery

Il costante incremento dell’età media della popolazione generale ha determinato una maggiore durata della vita “attiva” e quindi ad una maggiore richiesta in termini funzionali anche a livello articolare  1. Tutto ciò ha de-terminato un conseguente peggioramento delle patologie osteoarticolari soprattutto a carattere degenerativo e per-

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M. INNOCENTI ET AL.

S94

precocità dell’intervento e la maggiore richiesta funziona-le che può inevitabilmente determinare un’accelerazione dell’usura. Consigliare sport a questi soggetti così come a quelli più anziani, pertanto sembrerebbe non ragionevo-le. Molti chirurghi infatti non raccomandano sport ad alto impatto per l’aumentato rischio di frattura e di usura del polietilene 12 13. Alcune attività in particolare (per esempio calcio, ciclismo, sci o tennis) comportano carichi articola-ri superiori a quelli fisiologici determinando elevati livelli di usura del polietilene 14 15. Schmalzried et al. 16 hanno dimostrato un aumento statisticamente significativo del li-vello di attività e quindi di usura del polietilene a secondo dell’età del paziente. Infatti i pazienti con età maggiore di 60 anni, presentano una media di 4.400 passi/al giorno corrispondenti a 0,8 milioni di cicli/l’anno sulla super-ficie articolare, mentre i pazienti con meno di 60 anni hanno una media di 5732 passi/giorno corrispondenti a 1.046.000 di cicli/l’anno sulla superficie articolare.Inoltre, il controllo motorio e neurologico degli arti in atti-vità ad alta richiesta funzionale può essere non adeguato in soggetti anziani, determinando un rischio aumentato di caduta con risvolti catastrofici in caso di paziente prote-sizzato. Del resto, abbiamo già accennato come le frattu-re periprotesiche siano in continuo aumento 6.Ciò dimostra che i pazienti giovani sono sottoposti a solle-citazioni di carichi maggiori rispetto ai pazienti più anziani e che quindi il fattore età/livello d’attività, è strettamente correlato a un possibile fallimento dell’impianto protesico.

FATTORI LEGATI ALL’INTERVENTO CHIRURGICOIl successo di una protesi è anche influenzato dall’accura-tezza nel posizionamento dell’impianto. Errori di orienta-mento o sopra/sotto-dimensionamento delle componenti possono essere causa di rapida instabilità, usura precoce e, talvolta, rottura delle componenti 17 18. Ciò riguarda in particolare il Polietilene sia nell’anca che nel ginocchio che la testa femorale in ceramica 11 14 18 19.La riduzione degli errori chirurgici, attraverso il controllo dell’orientamento delle componenti, l’ottimizzazione del grado di tensione muscolare e il rilievo di eventuali conflit-ti meccanici rappresentano la vera prevenzione per l’in-sorgenza di fenomeni di usura e di instabilità articolare.Fattori legati all’impianto protesicoIl design dell’impianto, la sua modularità, il tipo di su-perfici di accoppiamento e le sue dimensioni sono tutte possibili cause di produzione di detriti e di usura  20 21. I detriti da usura degli elementi protesici rappresentano un elemento fondamentale nel fallimento di un impianto, poiché sono responsabili della formazione del tessuto di granulazione periprotesico alla base della mobilizzazio-ne asettica dell’impianto 23.Con lo scopo di ridurre l’usura e aumentare quindi la lon-gevità dell’impianto protesico sono stati sviluppati nuovi

materiali e nuovi accoppiamenti protesici 20 23. Tra questi ricordiamo gli inserti in Polietilene reticolato (UHMWPE) che se associati ad agenti antiossidanti come la vitamina E hanno dimostrato una maggiore resistenza all’usura e all’ossidazione, così come l’utilizzo lo Zirconio ossidato che combina la forza di un metallo con le proprietà di usura della ceramica 23-26. Tuttavia, il mantenimento di atti-vità eccessivamente faticose come lo sport in soggetti con risposta muscolare sub ottimale determina inevitabilmente un sovraccarico di lavoro tricologico con una ovvia acce-lerazione della produzione di detriti e pertanto un rischio più precoce di mobilizzazione asettica degli impianti. Inoltre, l’elevata concentrazione di forze locali a livello di una protesi associate ad un controllo muscolare inade-guato possono determinare la rottura delle componenti o dell’osso all’interfaccia con le protesi stesse 6 7 15 18 19.Il crescente numero di revisioni, ha quindi indotto nelle società scientifiche internazionali ad una progressiva rinascita ed attrazione verso la chirurgia conservativa dell’anca e del ginocchio.Negli ultimi due decenni, questa chirurgia risulta in conti-nuo aumento, grazie anche ad una migliore comprensio-ne dei meccanismi fisiopatologici del sistema osteoartico-lare che hanno consentito lo sviluppo di nuove tecniche di trattamento.Lo scopo di questo “modello di chirurgia” è di permette il salvataggio, soprattutto nei giovani adulti, dell’articola-zione in diverse affezioni a patto che si riesca ad interve-nire precocemente e con le corrette indicazioni.Molteplici trattamenti sono disponibili in soggetti con una patologia articolare non severa, e tra le opzioni tera-peutiche maggiormente adottate abbiamo quelle “biolo-giche” (attraverso l’utilizzo di cellule staminali stromali, fattori di crescita autologhi ed impianti di condrociti) in grado di promuovere i processi di neoangiogenesi ed osteogenesi riparativa 27 28 e l’utilizzo di tecniche minin-vasive, come l’artroscopia d’anca, trattamento di scelta nelle lesioni labrali e condrali, e le osteotomie correttive, riservate a deformità articolari iniziali, in grado di ridurre la sintomatologia dolorosa e rallentare la progressione della malattia 29 30.Rimane comunque un dilemma terapeutico per il chirurgo ortopedico sapere quale sia la scelta migliore tra il tratta-mento di chirurgia conservativa e l’intervento di artropro-tesi in grado di permettere la remissione della sintomato-logia dolorosa ed una sicurezza in termini di durata ed efficacia del trattamento fornito. Sicuramente, il successo della chirurgia protesica di anca e ginocchio, in soggetti con una artropatia grave è ben documentato in letteratura ma l’ampia diffusione della procedura anche in soggetti giovani ha aumentato il ri-schio di fallimento precoce o tardivo degli impianti.

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DEFORMITÀ DEGLI ARTI INFERIORI. PROTESI DI ANCA E DI GINOCCHIO E SPORT: FORSE SÌ, FORSE NO S95

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11 Julin J, Jamsen E, Puolakka T, et al. Younger age increases the risk of early prosthesis

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16 Schmalzried TP, Szuszxzewics ES, Northfield MR, et al. Quantitative assessment of walk-ing activity after total hip or knee replace-ment. J Bone Joint Surg Am 1998;80:54.

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21 Schmalzried TP, Callaghan JJ. Wear in total hip and knee replacements. J Bone Joint Surg Am 1999;81:115-36.

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27 Hernigou P, Beaujean F. Treatment of osteo-necrosis with autologous bone marrow graft-ing. Clin Orthop Res 2002;405:14-23.

28 Gangji V, Hauzeur J-P, Matos C, et al.Treatment of osteonecrosis of the femoral head with implantation of autologous bone-marrow cells. A pilot study. J Bone Joint Surg 2004;86A:1153-60.

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V. DEANESI

Casa di Cura Polispecialistica, Villa Berica Vicenza, Unità Operativa - Foot and Ankle Care

Indirizzo per la corrispondenza:V. DeanesiVilla Berica, 36100 VicenzaE-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S96-S101S96

(MIS) technique where a bone travel is provided by percutane-ous devices (screws/k-wire etc.) Synthesis.Key words: mini-invasive surgery, hallux valgus, algorithm, sur-gical technique

INTRODUZIONENel piede → alluce valgo/allux valgus (AV) è definibile come una sindrome-funzionale/meccanica con deformità anatomica interessante il 1° raggioAV → deformità su più piani MTRSO addotto MTRSO pronato MTRSO elevato Deviazione MT-F 1^ laterale Congruenza articolare Sub-lussazione sesamoidi Valgo-pronazione falangea

Esistono molti tipi di AV. La patologia → AV è una patologia che comporta una modificazione spaziale ossea della colonna mediale inte-ressante il 1° raggio che risulta funzionalmente inefficace. Non è da considerarsi una mera patologia ossea.

Esistono moltissime tecniche chirurgiche per la correzione dell’AV in relazione → A) diversità del tipo di valgismo dell’alluce;B) opinioni del chirurgo;C) capacità chirurgo operatore (esperienza-manualità-curva apprendimento).

Dopo una valutazione psico-somatica della persona as-sistita,Fondamentale per una corretta indicazione → A) valutazione obiettività clinica; B) studio iconografico strumentale;Il tutto per inquadrare il tipo di valgismo dell’alluce in un algoritmo di riferimento.

Definito l’inquadramento patologico, l’obiettivo chirurgi-co deve creare un asse del 1° raggio funzionalmente efficace.

Si crea un asse del 1° raggio funzionalmente efficace per:A) tendere al miglioramento in percentuale dei sintomi; B) procrastinare preventivamente l’insorgenza di situazio-

ni patologiche ai raggi adiacenti o allo stesso raggio.

In ortopedia l’avvento delle tecniche miniinvasive rappre-senta una tendenza innovativa inprescindibile.

I vantaggi → incisioni cutanee efficientemente minimali, minori perdite ematiche, dimissioni rapide, minor dolore

ALLUCE VALGO SINDROME → APPROCCIO CHIRURGICO CON TECNICA MININVASIVAALLUX VALGUS SYNDROME → MINIMALLY INVASIVE SURGERY APPROACH

RiassuntoIn ortopedia l’avvento delle tecniche mininvasive rappresentano una tendenza innovativa inprescindibile.La sindrome dell’alluce valgo è la patologia più frequente nell’ambito delle malattie del piede.Moltissime tecniche chirurgiche negli anni sono state e sono utiz-zate per correggere tale patologia.La tecnica mininvasiva (MIS) nell’ambito della sindrome dell’al-luce valgo è un innovativo approccio chirurgico. La tecnica mininvasiva (MIS) ha un suo “razionale” anatomo-fisiologico-meccanico. La tecnica mininvasiva (MIS) ha un suo “razionale utilizzo” se inquadrata in un algoritmo dove si prevedono tecniche diverse in funzione dei diversi tipi di alluce valgo. “Work in progress” → estensione dell’utilizzo della tecnica mi-ninvasiva (MIS), dove è prevista una traslazione ossea utilizzan-do mezzi di sintesi percutanei.Parole chiave: Chirurgia Miniinvasiva, alluce valgo, algoritmo, tecnica chirurgica

SummaryIn orthopaedics the coming of minimally invasive techniques represents an innovative inprescindibile trend.The syndrome of ‘hallux valgus’ is the most frequent pathology in the context of the diseases of the foot.Many specific surgical techniques during the years have been and are used to correct the pathology mini-invasive technique (MIS) in the syndrome of ‘hallux valgus’ is an innovative ap-proach to surgery.Mini-invasive technique (MIS) has a “rational” physiological, anatomy -mechanical use.Mini-invasive technique (MIS) has a “rational use” if classified in an algorithm where different techniques for different types of hallux valgus are supposed.“Work in progress” → extension of the use of the mini-invasive

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ALLUCE VALGO SINDROME → APPROCCIO CHIRURGICO CON TECNICA MININVASIVA S97

post-operatorio, globale soddisfazione del paziente, de-vono in ogni caso compararsi con le percentuali in merito a complicanze-risultati-follow-up con le tecniche di chirur-gia tradizionale.

Tecnica MISPer valutare la patologia dell’AV consideriamo i seguenti parametri: 1) Clinici-sintomatologici2) Conformazione del piede e dei segmenti sovraseg-

mentari3) Bio-meccanica deambulatoria4) Parametri specifici5) Angolo intermetatarsale (IMA) relazionato Conforma-

zione avampiede (retto/addotto/abdotto)6) Congruenza articolare7) Cuneo-mt 8) “Elasticità clinica” della metataso-falangea 1^ (MT-F

1^).

Algoritmo che utilizziamoIMA minore od uguale 15° - MISIMA dai 15° ai 20° - MT-F 1^ non elastica → osteotomie distali + eventuale

akin-mis1 non congruenza articolare chevron 2 congruenza articolare reverdin-green MT-F 1^ elastica → 1 osteotomia distale lineare tipo boesch e varianti (pdo-

seri)2 “work in progress” osteotomia chevron-mis IMA maggiore 20° 1 cuneo-mt trasversa → osteotomia prossimale sec.

Juvara mod. MIS 2 cuneo-mt obliqua → artrodesi cuneo-mtale sec. La-

pidus *associate (se necessario) akin-mis e/o reverdin

La tecnica MIS è indicata1) alluce valgo con ima minore od uguale 15°“work in progress” Estensione tecnica mis utilizzando una fissazione percu-tanea con mezzi di sintesi (m.di s.)

- Osteotomie distali al 1° metatarso → chevron-mis- Osteotomie prossimali al 1° metatarso → ju-

vara mod.-mis2) Osteotomia sec. Akin3) buone condizioni articolari4) presunta buona qualità ossea5) non deficit gravi trofismo cutaneo e vascolari6) età non avanzata

La tecnica MIS è controindicata1) alluce valgo con ima superiore 15°“work in progress”Estensione tecnica mis utilizzando una fissazione percu-tanea con mezzi di sintesi (m.di s.).Osteotomie distali al 1° metatarso → chevron-misOsteotomie prossimali al 1° metatarso → juvara mod.-mis2) cattive condizioni articolari/mt-f 1^ rigida3) cartilagini di accrescimento attive4) osteopenia-osteoporosi accertata5) deficit gravi trofismo cutaneo e vascolari6) patologie di ordine psico-somatico7) età avanzata.

Razionale della correzione → AVFondamentale nella correzione della patologia dell’al-luce valgo, la creazione, attraverso osteotomie ossee, qualunque tecnica utilizzata, di un asse del 1° raggio funzionalmente efficace.

L’attuale chirurgia “convenzionale” dell’alluce valgo →Principalmente correzione ossea Correzione triplanare della deformitàPrincipalmente staticaLa chirurgia mis dell’alluce valgo → Principalmente riorientamento articolarePrincipalmente è dinamica

Razionale fisio-bio-meccanico tecnica MIS1) Tenotomia abduttore/legamento sesamoido-falangeo

laterale: → leva “blocco” della deformità.2) Osteotomia MT e falangea:

A) ricentrano e riorientano superfici articolari perpen-dicolarmente all’asse frontale dell’articolazione e del 1° MTRASO

B) orientandone ed equilibrando le forze di trazione tendino-muscolare.

3) Placca plantare rimane in continuità con la falange solo con il sesamoide mediale:

→ trazione solo degli intrinseci mediali.4) Medicazione in ipercorrezione + la componente me-

diale di trazione degli intrinseci: → influenzano una modificazione secondaria dell’ad-

duzione di M1 e ricentraggio progressivo sesamoidi.

Bio-meccanicamente, il principio può in qualche modo es-sere suggestivamente associabile alla tecnica del riequili-brio funzionale dela 1^ articolazione metatarso-falangea (mio-capsulo-legamentoso) indicata e pubblicata dal prof. G. Pisani per la correzione di alcuni tipi di valgismo dell’alluce.

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V. DEANESI

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La differenza sostanziale è che il riequlibrio funzionale del prof. G. Pisani agisce intervenendo solo con una pla-stica sui tessuti molli con rischi di ritorno precoce della deformità iniziale, mentre la tecnica mis modificando e riallliendo l’asse della MT-F 1^ attraverso le osteotomie a M1 e alla falange prossimale dell’alluce, rende il sistema stabile e duraturo nel tempo.

Fondamenti tecnica MISMininvasiva va intesa come se fosse intervento chirurgia ortopedica maggiore.

Preparazione paziente-sala operatoria• Decubito supino• Non laccio ischemico• Campo sterile con possibilità di movimento arto• Amplificatore di brillanza “vestito”• Motore > bassi giri (max 10.000) > max potenzaDevice e strumentario• Adeguato• Dedicato• Conoscerlo e sapere come utilizzarloDevice • Amplificatore di brillanza/fluoroscopio

Strumentario• Frese• Motore• Bisturi• Raspe

Tempi chirurgici della tecnica mis utilizzabili →A) buniectomia distale mediale A M1B) osteotomia sec. Revedin-isham A M1C) tenotomia capo falangeo abduttore alluce + legamen-

to sesamoido-falangeo lateraleD) osteotomia sec. Akin A F1E) capsulotomia dorsale if con tenotomia epa

FIGURA 1.Buniectomia distale mediale A M1.

FIGURA 2.Buniectomia distale mediale A M1.

FIGURA 3.Osteotomia sec. Revedin-isham A M1 (1-2).

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ALLUCE VALGO SINDROME → APPROCCIO CHIRURGICO CON TECNICA MININVASIVA S99

Sequenza tempi chirurgici utilizzabili →- Buniectomia distale mediale A M1 (fig. 1; fig. 2)- Osteotomia sec. Revedin-isham a m1 (fig. 3; fig. 4;

fig. 5)- Tenotomia capo falangeo abduttore alluce e legamen-

to sesamoido-falangeo laterale- Osteotomia sec. Akin A F1- Capsulotomia dorsale if con tenotomia epa.

Tempi chirurgici insostituibili → - Buniectomia distale mediale A M1- Tenotomia capo falangeo abduttore alluce e legamen-

to sesamoido-falangeo laterale (fig. 6; fig. 7; fig 8)- Osteotomia sec. Akin A F1 (fig. 9; fig. 10)

FIGURA 4.Osteotomia sec. Revedin-isham A M1 (3-4).

FIGURA 5.Osteotomia sec. Revedin-isham A M1.

FIGURA 6.Tenotomia capo falangeo abduttore + lisi legamento sesamoido-falangeo laterale.

FIGURA 7.Tenotomia capo falangeo abduttore + lisi legamento sesamoido-falangeo laterale.

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V. DEANESI

S100

“Tecnica chirurgica semplice, non facile” (dr. M. De Prado)

L’operatore deve conoscere ed avere la capacità di tratta-re ogni patologia dell’avampiede-mesopiede-retropiede-caviglia.

L’operatore deve essere esperto di chirurgia open, in maniera di essersi sviluppato una “mappa mentale ana-tomica”.La curva di apprendimento deve essere graduale.

Problematiche e difficoltà tecnica MIS riguardano → - Vie d’accesso - Quale bisturi utilizzare- Quale fresa utilizzare- Funzione delle raspe- Chirurgia biplanare non direttamente visuabile- Rispetto anatomia- Utilizzo adeguato dell’amplificatore di brillanza- Sensibilità di valutare la consistenza ossea- Osteotomia/buniectomia adeguate - Confezione adeguata del taping di allineamento del

1° raggio.

Errori più comuni tecnic mis riguardano →- Burn-skin (strumentario non adeguato/alti giri motore/tecnica

non idonea)- Correzioni non adeguate (curva di apprendimento non completata)- Lesioni nervose (irispettosi anatomia)

Complicanze più comuni tecnica mis riguardano →- Osteotomie inadeguate.

Vantaggi tecnica MIS →- Dolore post.op. Minimo- Chirurgia di giornata appropriata- Anestesia spesso tronculare- Non compressione emostatiche- Deambualzione protetta immediata- Articolarità non limitata- Estetica- Complicanze minime se curva di apprendimento com-

pletata.

FIGURA 8.Tenotomia capo falangeo abduttore + lisi legamento sesamoido-falangeo laterale.

FIGURA 9.Osteotomia sec. Akin A F1.

FIGURA 10.Osteotomia sec. Akin A F1.

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ALLUCE VALGO SINDROME → APPROCCIO CHIRURGICO CON TECNICA MININVASIVA S101

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ankle 24

Svantaggi tecnica MIS → - Indicazioni limitate- Uso scopia - Chirurgia bidimensionale- Mani esperte- Curva di apprendimento lunga - Facili entusiasmi- Medicazioni frequenti- Strumentario monouso- Aspettative improprie paziente.

Prospettive-evoluzioni-considerazioni tecnica MIS- Le indicazioni devono essere oculate e non avventate.- È una chirurgia non di partenza ma di arrivo.- È una chirurgia semplice ma non facile.- La curva di apprendimento non è veloce né immediata.

Il futuro evolutivo comprende: - osteotomie distali con traslazione ossea e fissazione

percutanea- osteotomie prossimali con fissazione percutanea

Le critiche riassunte in una maggiore % di complicanze rispetto a tecniche convenzionali ed ad una maggiore % di recidive a due anni, non possono essere che ritenute presunte.Infatti il follow up globale è working in progress.

Riguardo alla nostra unità, abbiamo in atto una revisione dei nostri interventi commissionata a specialista ortopedi-co e specialista fisiatra estranei al ns. staff.Lo studio prevede utilizzo scheda aofas; Lo studio revisiona interventi comparativi open vs. MIS, con parametri pre op. simili.Interventi in revisione: MIS > 201 casi su 254 (2009/ giugno 2012)Open > 460 casi (2009/ giugno 2012)A breve i nostri risultati.

Si ritiene in conclusione che la tecnica MIS deve esser un bagaglio culturale dell’ortopedico già esperto in tecniche tradizionali.La tecnica MIS non sostituisce la chirurgia aperta ma si integra.La tecnica MIS, però, costituisce sicuramente un “presente innovativo” e un “futuro prossimo evolutivo”.

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A. VOLPE, A. POSTORINO, D. VAROTTO, A. VALCARENGHIPoliclinico Abano Terme, Foot and Ankle Clinic

Indirizzo per la corrispondenza:A. VolpePoliclinico Abano Terme, Foot and Ankle ClinicE-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S102-S108S102

sal over the sesamoidal apparatus, rebalancing the joint just on the midpoint position.Thanks to further modications, like the bicorrectional variation to correct the obliquity of the 1st metatarsal head (DMMA) and the safety and early bone healing assured by a stable internal fixa-tion, the Austin osteotomy is today considered as gold standard in the international literature for low and medium grade hallux valgus deformity.Key words: bunion surgery, distal osteotomies, Austin osteotomy

INTRODUZIONEFra le osteotomie distali per la correzione dell’alluce val-go l’osteotomia di Austin 1, che prende il nome dall’Au-tore che per primo la descrisse, detta anche Chevron 2 per il caratteristico design, è una osteotomia a V coricato con apice distale, aperta a 60° nella sua descrizione originale.Si definisce come una osteotomia di traslazione/ricen-traggio, il cui scopo è quello di riportare la testa metatar-sale in posizione fisiologica, cioè sopra il sistema gleno-sesamoideo plantare ed allineata rispetto all’azione di forza della muscolatura lunga (FLA ed ELA), muscolatura notoriamente assai più potente della debole muscolatura intrinseca e dei relativamente deboli sistemi legamentosi.Come per molte osteotomie distali, l’indicazione origi-naria all’utilizzo di tale osteotomia è stata circoscritta dall’entità dello spostamento possibile, partendo dal con-cetto teorico che uno spostamento di 1 mm è capace di correggere di 1° il valore dell’angolo intermetatarsale (detto IMA) 3 4. Così, nell’algoristmo proposto da Mann e Coughlin e adottato dall AOFAS, l’indicazione a correggere l’alluce valgo con questa tecnica si limitava a situazioni di addu-

L’ALLUCE VALGO: QUALI OSTEOTOMIE DISTALIL’OSTEOTOMIA DI AUSTINHallux Valgus:which distal osteotomyAustin osteotomy

RiassuntoLa deformità in valgo dell’alluce vanta una infinita serie di pro-cedure chirurgiche proposte nel tempo. Fra esse, le osteotomie distali hanno conquistato negli anni un ruolo preminente nelle deformità di grado lieve e medio, con angolo intermetatarsale (IMA) compreso indicativamente fra 12° e 18° gradi.Fra le molte, l’osteotomia descritta da Dale Austin e chiamata altresì chevron per la il suo design a “gradi di caporale” ha conquistato negli anni sempre più popolarità, grazie alla sua facile esecuzione e le sue capacità correttive.Si tratta di una osteotomia distale del primo metatarsale a V coricato con apice distale, nella modifica più attuale aperta ad 80°, che consente un effetto di traslazione e ricentraggio della testa del primo metatarsale sul complesso sesamoideo.Grazie a ulteriori perfezionamenti, quali la variante bicorrec-tional per correggere l’obliquità distale del primo metatarsale (DMMA) e la sicurezza di una consolidazione rapida garantita dalla sintesi interna stabile, l’osteotomia di Austin viene conside-rata oggi il gold standard nella letteratura internazionale, per la correzione dell’alluce valgo di gravità lieve e media.Parole chiave: chirurgia dell’alluce valgo, osteotomie distali, osteotomia di Austin

SummaryIn the bunion surgery there is a large range of surgical proce-dures described during the last years. The distal osteotomies seems to be the better choise for hallux valgus with low and medium grade of deformity, with intermetatarsal angle (IMA) between 12° and 18° degrees.In the group of distal osteotomies, the Austin osteotomy, also called chevron for his design mimating caporal grade, has ob-tained in the years more popularity, because easy to performing and very effective in the deformity correction.This osteotomy is defined as a transpositional osteotomy , with a V design and distal apex, usually opened at 80° degrees, and allows to translate the capital fragment of the distal 1st metatar-

FIGURA 1.Design dell’osteotomia di Austin-Chevron type modificata.

• ANGOLO APERTO A 80°• APICE OSTEOTOMICO DORSALE

(più osso spugnoso per affondare la vite di sintesi)• BRACCIO PLANTARE LUNGO

(maggior contatto/autocompressivo perché parallelo al suolo/spazio per 2 viti)

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L’ALLUCE VALGO: QUALI OSTEOTOMIE DISTALIL’OSTEOTOMIA DI AUSTIN S103

zione del primo metatarsale con angolo IMA fino a 13° e deviazioni in valgismo moderate, non superiori a 30° di angolo di valgismo, come si osserva appunto in questo tipo di varietà della deformità 5 6.L’introduzione della sintesi interna con vite, la modifica del design osteotomico con apertura fino a 90° e braccio lun-go plantare, la possibilità di asportare un cuneo correttivo dorsale per correggere l’obliquità della superficie epifisa-ria rispetto alla diafisi (angolo DMMA) hanno consentito di espandere le indicazioni, portando oggi l’affidabilità di questa tecnica anche a deformità di grado medio, oltre che moderato, con valori limite di 18° dell’angolo inter-metatarsale IMA, deviazioni in valgismo fino a 4°, pre-senza di DMMA superiori ai 10/12°7-10 (Fig. 1).In questa sua aggiornata versione l’osteotomia di Austin si avvicina alla osteotomia ad L descritta da Green come modifica della originale osteotomia di Reverdin, poi per-fezionata da Laird e da Todd (Osteotomia RVG). In questa osteotomia la presenza di un braccio lungo plantare offre spazio per una sintesi con due viti (una di compressione/una antirotazione) con ulteriore espansione delle indica-zioni per questa osteotomia, che così si avvicina a quella modifica della osteotomia SCARF detta SCARF corta 11-14.

TECNICAL’intervento correttivo per l’alluce valgo deve essere pia-nificato primariamente sul piano clinico, con una corretta valutazione biomeccanica non solo del complesso avam-piede/retropiede, ma di tutto l’apparato locomotore del paziente.Disegualità degli arti, tendine di Achille breve, disalline-amento sul piano frontale o sagittale del ginocchio, sono elementi etiopatogenicamente importanti nel determinare un alluce valgo.Il distretto da operare deve poi essere ulteriormente valu-tato sul piano clinico, valutando correggibilità, rigidità, sede del dolore, aree di ipercarico metatarsali, deformità delle dita, condizione della cute e sottocute.Sul piano del planning preoperatorio sarà fondamentale disporre di radiografie in carico per calcolare i principali angoli di riferimento e la loro discrepanza rispetto ai va-lori normali 15.Tali valori sono principalmente:– Angolo intermetatarsale o IMA– Angolo di Valgismo o HAV– Obliquità piano epifisario rispetto alla diafisi o DMMA– Posizione dei sesamoidi o SP– Lunghezza di M1 rispetto a M2 o MPGravità della deviazione angolare quindi definizione di articolazione congruente, incongruente o sublussata.Molta attenzione andrà inoltre posta verso le condizioni articolari dell’articolazione da correggere, poiché la pre-senza di una compromissione artrosica non solo dimiui-

sce le possibilità di successo del trattamento, ma in casi avanzati rappresenta una controindicazione.Nelle Tabelle I e II sono presentate le indicazioni e le con-troindicazioni alla osteotomia di AustinL’intervento correttivo si può utilizzare con vari tipi di ane-stesia, noi preferiamo il blocco anestetico di caviglia, sia per il fatto di essere una anestesia loco-regionale, sia per la valida copertura sul dolore.Il blocco di caviglia può essere associato ad una seda-nalgesia, se richiesto dsl paziente o in soggetti ansiosi.L’incisione può essere mediale o dorsomediale. Tradizio-nalmente abbiamo sempre utilizzato quest’ultima, poiché essa offre la possibilità di eseguire sia il tempo mediale che quello laterale. Molta attenzione va riservata alla pro-tezione del nervo sensitivo dorsomediale, che va accura-tamente scollato e protetto.La liberazione laterale va programmata nel caso di spo-stamento dei sesamoidi oltre la posizione 4, se resistenza alla correzione manuale della deformità, indice di struttu-razione e contrattura delle parti molli.La liberazione laterale prevede la tenotomia del tendine del muscolo adduttore, con distacco del capo falangeo, e la sezione della sola parte del legamento collaterale

TABELLA II. Controindicazioni alla osteotomia di Austin.

Alluce valgo evoluto sintomatico con:Angolo di valgismo superiore a 40°

Angolo intermetatarsale superiore a 18°

Osteopenia/osteoporosi

Condizioni articolari deteriorate

Recidiva dopo precedente osteotomia distale

Età fertile con cartilagini di crescita aperte

Età avanzata

Condizioni distrofiche delle parti molli

Marcata rigidità articolare della MTP1

TABELLA I. Indicazioni alla osteotmia di Austin.

Alluce valgo evoluto sintomatico con:Articolazione congruente/incongruente/sublussata

Angolo di valgismo superiore a 15°/non superiore a 40°

Angolo intermetatarsale fino a 18°

Angolo di obliquità epifisaria da 8° in su

Posizione dei sesamoidi 3 od oltre

Buone condizioni articolari

Buona qualità ossea

Accettabili condizione trofiche cutanee e vascolari

Età non avanzata

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diretta al sesamoide fibulare, il cosiddetto legamento so-spensore. Va rigorosamente preservato il legamento col-laterale, onde evitare instabilità secondarie.Si passa poi alla capsulotomia mediale, che consigliamo lineare, con la possibilità di asportare secondariamente cunei capsulari plantari, se la capsula fosse molto ab-bondante, ma sempre con la premessa di evitare sutura capsulare in duplicazione o plicatura, onde evitare ec-cessive sporgenze o ispessimenti del piano capsulare nel sottocute.Di conduce quindi l’esostosectomia, che deve essere di minima, usando microsega motorizzata, limitandosi a creare una superficie liscia e ad esporre il circolo dell’os-so spugnoso cefalico, il cosiddetto “cancellous circle”.L’osteotomia va programmata individuando, come primo gesto, l’apice osteotomico. Questo si trova a distanza di sicurezza dal piano epifisario, circa 8 mm, e deve avere una direzione ben stabilita, indirizzata dal filo di Kirschner apicale, in genere 1,2 mm di diametro. Dal-la direzione di tale filo dipenderà in sintesi la possibilità di accorciare, allungare o spostare in maniera neutra il frammento cefalico, rispetto alla lunghezza del secondo metatarsale che è l’asse di riferimento.Sul piano frontale la direzione del filo di K. permetterà di plantarizzare (in genere di 20°), di spostare in maniera neutra, di elevare (rararamente).Inserita e controllata la direzione del filo si esegue l’oste-otomia che ha i due bracci aperti a 80°, meglio se con guida. Ovviamente non dovrà essere minimamente intac-cata la superficie cartilaginea cefalica.Il braccio plantare dovrà cadere circa 5 mm prossimal-mente all’attacco plantare capsulare, che va protetto, es-sendo sede del fascio vascolare plantare 16.Il braccio dorsale, appena prossimale all’attacco della plica sinoviale, dovrà essere eseguito con massima caute-la nel suo versante laterale, per non danneggiare il fascio vascolare dorsomediale (la cosiddetta Cracchiolo’s safe zone) 17.Molto importante è anche prevenire lo stress termico all’osso con adeguata irrigazione.Si posizionano tre divaricatori, in genere una leva Putti sotto i condili, e due leve Hohman una prossimale all’at-tacco capsulare plantare e una dorsale a circa 2 cm dalla superficie articolare. Le due leve saranno il nostro punto di riferimento poiché andranno a cadere all’origine dei 2 bracci osteotomici. Nell’eseguire l’osteotomia si deve te-nere presente che sono necessarie superfici liscie e rego-lari, eseguite in un’unica sezione, per consentire contatto e scivolamento adeguato.Quando la sezione sarà completa è necessario far com-piere al frammento capitale un contemporaneo movimen-to di rotazione/scivolamento nella traslazione laterale. Ciò fatto si impatta con forza la testa verso la diafisi,

onde ottenere massimo contatto e congruenza (Fig. 2).Nel caso in cui si sia stabilito di dover correggere l’obli-quità epidfisaria misurata attreaverso l’angolo DMMA, si esegue la sottrazione del cuneo calcolato a base mediale, mirato a riportare il valore del DMMa intorno a 8°, che è il valore fisiologico. Si esegue dunque in questo caso quella che viene chiamata Austin bicorrectional 7 (Fig. 3).Dopo aver verificato l’adeguata traslazione e la correzio-ne del DMMA si stabilizza il tutto con un filo di Kirschner temporaneo da 1,2 mm, che non interferisca con la previ-sta posizione della vite.

FIGURA 2.Aspetto dell’osteotomia prima della traslazione/impattazione.

FIGURA 3.Osteotomia di Austin detta bicorrectional o biplanar per correggere il DMMA.

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L’ALLUCE VALGO: QUALI OSTEOTOMIE DISTALIL’OSTEOTOMIA DI AUSTIN S105

L’osteosintesi risulta essere fondamentale per questa tec-nica, permettendo di ottenere una stabilità assoluta. L’a-deguato contatto osseo spugnoso e il braccio plantare parallelo al piano di appoggio del piede, garantiranno una guarigione rapida e sicura, consentendo da subito il carico (benché protetto) ed una mobilizzazione imme-diata.Nell’eseguire l’osteosintesi, si deve tener presente che la direzione della vite (e quindi del foro da eseguire) deve intersecare il più perpendicolarmente possibile il braccio osteotomico plantare e contemporaneamente cadere in zona spugnosa adeguata, evitando il bordo tagliente an-teriore del moncone prossimale, dove l’osso è più fragile. Inoltre la parte filettata della vite deve superare la rima osteotomica per un buon effetto autocompressivo.Noi di preferenza utilizziamo una vite tipo Herbert dia-metro 3,9 mm poiché tale mezzo di sintesi unisce stabilità assoluta, sicurezza, compressione. La lunghezza è in ge-nere variabile fra 16 e 22 mm, con preferenza statistica per la lunghezza di 18 mm.Per un adeguato posizionamento della vite si perfora a motore la corticale dorsale con un filo di Kirschner da 1,8 mm e successivamente si inserisce il filo guida da 1,0 mm, questo per evitare l’intrappolamento del filo guida nella fresa e rendere più facile il passaggio nella spugnosa del-la vite autofilettante. Si slarga l’ingresso del foro mediante la fresa, per permettere il passaggio della vite attraverso la corticale prossimale, quindi si inserisce il misuratore. Di norma si sottraggono 2 mm alla misura segnata, per ave-re un margine di sicurezza nei confronti della cartilagine plantare e si inserisce la vite. Si controlla la superficie plantare per essere certi, “de visu”, che non vi siano spor-genze indesiderate. Si valuta il contatto osseo a livello della spugnosa metafisaria.Dopo aver saggiato la stabilità, che è in genere assoluta, si regolarizza il margine osseo interno con sega sagittale, fino a ottenere una superficie piana. In caso di plantariz-zazione della testa vanno infine smussati con la fresa gli spigoli dorsali sempre presenti quando si è asportato un cuneo per il DMMA. Dopo aver eseguito un abbondante lavaggio per elimina-re i residui ossei si passa alla ritensione capsulare.È necessario che l’assistente posizioni il 1° dito senza vizi di rotazione (unghia allo zenit) in leggera flessione e ipercorrezione in modo tale da poter visualizzare ed asportare la capsula esuberante. La capsula articolare deve essere richiusa in media tensione evitando ritensioni eccessive per non esporre l’articolazione ad una rigidità secondaria. Vanno inoltre evitate le duplicazioni capsula-ri per non incorrere a sporgenze/rigonfiamenti esagerati.Preferiamo eseguire la ritensione da distale a prossimale con punti singoli di Vicryl 3-0 o 2-0, evitando la cap-sulorrafia con una sutura continua per non incorrere nel

rischio di piccoli versamenti ematici che avrebbero poca possibilità di essere drenati. La sutura cutanea viene eseguita, nel caso di pazienti che non presentino particolari problematiche circolatorie o ci-catriziali, con Vicryl Rapid 3-0.Tempi accessori alla osteotomia di Austin possono essere una osteotomia falangea tipo Akin nel caso di coesisten-za di angolo di valgismo interfalangeo o di incompleta correzione della deformità per un valgismo dell’alluce maggiore di quanto previsto. Questa associazione sem-bra dare risultati molto favorevoli, anche se il rischio di ri-gidità dell’interfalangea dell’alluce è possibile, così come un certo effetto a “S” nella correzione 28.Rireniamo inoltre fondamentale eseguire un controllo fluo-roscopico intraoperatorio, possibilmente con braccio a C piccolo dedicato, per poter vsalutare con assoluta sicu-rezza posizionamento e lunghezza dei mezzi di sintesi, nonché correttezza della traslazione e perfetto raggiungi-mento dei parametri correttivi desiderati (Fig. 4).Dopo l’intervento eseguiamo un bendaggio embricato in leggera compressione raccomandando arto elevato su due cuscini ed esercizi attivi in flesso estensione della ca-viglia fin dal primo giorno.È infatti importante mantenere sia la tonicità muscolare, che il pompaggio venoso garantito dalla funzione del tricipite.Fino alla prima medicazione, che eseguiamo in genere fra il 5° ed il 7° giorno, raccomandiamo di non caricare l’arto, mentre dopo tale controllo viene concesso carico libero con scarpa post-operatoria a tacco posteriore pro-lungato.Molto importante iniziare in questa data una mobilizza-zione attiva dell’alluce ed eseguire manipolazione passi-

FIGURA 4.Controllo fluoroscopico prima e dopo la correzione. Notare la perfetta normalizzazione dei parametri goniometrici e la congruenza articolare ottenuta nella correzione.

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A. VOLPE ET AL.

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va dell’alluce stesso in flesso estensione, in leggera tra-zione e senza forzare.L’utilizzo di stampelle di routine non è necessario, se non per pazienti meno giovani o con problemi di equilibrio.Viene eseguita una profilassi anti-TVP con eparina a bas-so peso molecolare per 12 gg, fino cioè alla completa ripresa del carico.A 4 settimane viene eseguita una radiografia di controllo, concesso il carico totale con scarpa comoda a punta lar-ga e suola robusta. Viene suggerita una mobilizzazione attiva in carico per l’alluce operato.Il recupero completo, con utilizzo di scarpa normale an-che con tacco, ed una attività quotidiana e sportiva senza restrizioni avviene in genere fra il secondo ed il terzo mese.

RISULTATIL’utilizzo di una osteotomia distale per la correzione dell’alluce valgo con IMA superiore ai tradizionali 15° è già stata segnalata abbondantemente in letteratura 10 11.Inoltre la correzione del DMMA (PASA) aumenta le po-tenzialità correttive di una osteotomia di ricentraggio me-diante traslazione laterale 12.Questo grazie alla intrinseca decompressione articolare realizzata da cuneo di sottrazione che consente, al con-tempo, di evitare eccessivi accorciamenti della lunghezza di M1 potenziali responsabili, come noto, di metatarsal-gia da trasferimento.L’osteotomia di Austin con le giuste indicazioni (cioè in caso di alluce valgo isolato sintomatico con deformità di grado moderato o medio) ha dimostrato nella nostra esperienza risultati buoni e ottimi intorno al 92% 19.La qualità dei risultati varia semmai in base alle aspetta-tive del paziente, alle eventuali deformità associate, alle condizioni locali e generali, alle eventuali complicanze.La cosmesi è in genere ottima e così pure la mobilità (Fig. 5 a, b, c).Le complicanze della osteotomia di Austin sono assai si-mili alle altre osteotomie distali del primo metatarsale per la correzione dell’alluce valgo 20.Un’eventuale recidiva (totale o parziale) è in genere cor-relata a una non corretta indicazione o non corretta ese-cuzione (mancata liberazione laterale, insufficiente trasla-zione laterale, tilt della testa metatarsale).La necrosi avascolare del frammento capitale è assoluta-mente rara e sempre correlata a danno vascolare indotto, o per errore di sede (osteotomia eccessivamente distale) oppure per mancato rispetto anatomo-chirurgico degli afflussi vascolari. Durante l’esecuzione dell’osteotomia, come già ricordato, è fondamentale evitare eccessivo o brusco affondamento della lama della sega oscillante nei tessuti laterali e relativi afflussi vascolari 21.Non viene in realtà segnalato alcun rischio in più di ne-

crosi avascolare in caso di liberazione laterale ben ese-guita e ciò è confermato dai dati in nostro possesso 22.A vantaggio della osteotomia RGL rispetto alla tradizio-nale Austin-Chevron-type, come segnalato da Malal vi è l’osservazione che un braccio plantare lungo, prossima-lizzando l’osteotomia, riduce significativamente il rischio di danno vascolare a livello del principale ingresso vasco-lare plantare per la testa metatarsale 31.A proposito della necrosi avascolare, va ricordato che modeste alterazioni radiografiche postoperatorie a livello della testa, con piccole aree di riassorbimento, sono rara-mente sintomatiche ed è assolutamente eccezionale una evoluzione verso l’osteonecrosi, con progressivo collasso della testa metatarsale 22.La rigidità post-chirurgica, accanto alla evoluzione oste-oartrosica dell’articolazione operata rappresenta un’in-sidia sempre presente, poiché si tratta di un intervento articolare non protesico. Una accurata emostasi, una at-tenta gestione della ferita ed una mobilizzazione precoce sono la chiave per evitare tale complicanza. Noi usiamo mantenere uno splint per i primi due/tre mesi in leggera ipercorrezione, mentre promuoviamo una intensa ripresa del movimento in carico fin dalla quarta settimana.L’ipercorrezione con varismo dell’alluce è legata o a fat-tori scheletrici, per eccessiva traslazione del frammento capitale, oppure ad eccessiva tensione della capsulorra-fia mediale, in genere in associazione ad aggressiva liberazione laterale, con danneggiamento del legamento collaterale laterale.

FIGURA 5 A, B, C.Eccellente risultato. Notare la normalizzazione dei parametri correttivi, la congruenza articolare metatarso-falangea dopo la correzione, l’ampia mobilità.

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L’ALLUCE VALGO: QUALI OSTEOTOMIE DISTALIL’OSTEOTOMIA DI AUSTIN S107

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La neurodinia del ramo sensitivo dorsomediale non è rara nella via di accesso dorsomediale, è in genere transitoria e di tipo ipoestesico, raramente disestesica.Una metatarsalgia da trasferimento è complicanza possi-bile di tutte le osteotomie distali per la correzione dell’al-luce valgo. Va innanzitutto osservato che una attenta valutazione preoperatoria, relativa ad aree di ipercarico plantare a livello metatarsale, nonché un attento studio sui radiogrammi in carico della lunghezza relativa del secon-do metatarsale rispetto al primo, consentono di evitare tale complicanza, trattando eventualmente al contempo la problematica metatarsalgica.Nella nostra esperienza la metatarsalgia da trasferimento è la conseguenza di una rigidità articolare, oppure di un eccessivo accorciamento post-chirurgico della diafisi di M1 o, infine, legata ad una elevazione del frammento capitale nella traslazione laterale.La pseudoartrosi nella osteotomia di Austin nella nostra esperienza è praticamente assente.Nell’esperienza generale è legata ad errori di osteosin-tesi, a irregolarità grossolane dei tagli osteotomici (per inesperienza o strumentario inadeguato)con scarso con-tatto o a danno termico dell’osso durante l’esecuzione dell’osteotomia.Altre complicanze sono rappresentate da problemi di cica-trizzazione (guarigione per seconda intenzione, cheloidi), da distrofia simpatico riflessa, da sindrome seno-tarsica per scorretta deambulazione, da edema persistente di tipo lin-fatico o venoso. Tali complicanze sono transitorie e vanno riconosciute prontamente, nonché opportunamente trattate.

CONCLUSIONIL’osteotomia di Austin-Chevron-type con le giuste indica-zione e con adeguato vagfaglio tecnico e di attrezzatura specifica, in grado di garantirne una esecuzione ottima-le, rappresenta oggi il il gold standard per la correzio-ne dell’alluce valgo di lieve e media gravità, con valori massimi di angolo intermetatarsale di 18° e di angolo di valgismo fino a 40°.

La sintesi interna con una/due viti consente traslazioni spinte e biplanari in massima sicurezza, consentendo un carico accettabilmente precoce e sicuro.Il temuto rischio della necrosi avascolare post-osteotomica è sceso intorno all’1% grazie alla modifica del design osteotomico con braccio plantare lungo e al meticoloso rispetto dell’apporto vascolare.Elemento di significativo rischio e sicuramente ulteriormen-te da valutare è la presenza di evoluzione osteoartrosica del distretto operato nelle valutazioni a lunga distanza di tempo.Limiti specifici della osteotomia di Austin per via dorsome-diale rispetto ad altre tecniche (MIS-PDO/SERI, etc) sono rappresentati da:– maggior incidenza di neurodinia del nervo sensitivo

dorsomediale;– discreta incidenza di rigidità post-chirurgica, per il fat-

to stesso di aver condotto un intervento con apertura capsulare e parziale denudazione del complesso arti-colare;

– rispetto di un tempo di scarico parziale con adegua-ta scarpa postoperatoria con tacco posteriore (4 set-timane).

Per ciò che riguarda la nostra esperienza, in rapporto alle tecniche suddette, i vantaggi della osteotomia di Austin ci sembrano essere soprattutto una notevole prevedibilità di risultato, una facile ripetibilità del gesto chirurgico che è guidato da regole precise e non affidato alla sensibilità/esperienza del singolo operatore, un decorso postopera-torio agile, con scarsa componente dolorosa e limitata richiesta di controlli ambulatoriali.Il costo dell’intervento rientra inoltre in termini assoluta-mente accettabili, sia per la velocità di esecuzione in mani esperte (fra 30-40 min.) che per l’utilizzo di aneste-sia periferica (blocco di caviglia). Il ridotto costo odierno del materiale impiantabile e la possibilità di eseguire l’intervento in regime di day surgery ne aumentano ulte-riormente la proponibilità nel campo della moderna Chi-rurgia Ortopedica.

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C. RACANO, C.N. ABATI, O. DONZELLIOrtopedia e Traumatologia Pediatrica, Istituto Ortopedico Rizzoli, Bologna

Indirizzo per la corrispondenza:Onofrio DonzelliOrtopedia e Traumatologia Pediatrica dell’Istituto Ortopedico Rizzolivia G.C. Pupilli 1, 40136 BolognaE-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S109-S114 S109

INTRODUZIONELa Neurofibromatosi tipo 1 (NF1) o morbo di Rekling-hausen è patologia congenita con incidenza di 1/2500 -3000 nati1,2. La diagnosi è clinica e si basa sulla presen-za di caratteristici segni fenotipici quali le chiazze cuta-nee color caffè-latte, i neurofibromi cutanei, le lentiggini ascellari, il glioma ottico, i noduli di Lisch e le lesioni os-see caratteristiche 1 3 4. Il segmento osseo più colpito dalla lesione displasica è la diafisi tibiale, l’aspetto radiografi-co della lesione può essere variabile da una lesione scle-rotica ad una soluzione di continuo completa ad un’area litica simil cistica della tibia e del perone anche se esisto-no casi rari di pseudoartrosi isolata di perone  1 4. Altri segmenti scheletrici frequentemente colpiti sono l’ulna ed in misura nettamente inferiore la clavicola. Una particola-re attenzione deve essere posta alla struttura scheletrica del rachide anche in assenza di altre alterazioni scheletri-che; infatti la scoliosi o cifo-scoliosi neurofibromatosica è potenzialmente fortemente evolutiva, spesso non control-labile con la tutorizzazione e quindi evolvente verso un precoce trattamento chirurgico 1.Esistono poi forme di particolare gravità di NF che colpi-scono tutte le strutture scheletriche ed i neurofibromi sono talmente aggressivi da determinare oltre a zone di oste-olisi, anche spostamento dei capi articolari  1 6 7. Questi pazienti sono di pertinenza del chirurgo generale o del neurochirurgo in quanto i neurofibromi comprimendo gli organi del bacino o le strutture nervose del collo possono portare a conseguenze gravi fino all’exitus 6 7. (Fig. 1)

LA NEUROFIBROMATOSIThe neurofibromatosis

RiassuntoLa Neurofibromatosi tipo 1 è una patologia congenita, la cui diagnosi è clinica e si basa sulla presenza di caratteristici segni fenotipici (chiazze cutanee color caffè-latte, neurofibromi cuta-nei, lentiggini ascellari, glioma ottico, noduli di Lisch e lesioni ossee). Le alterazioni scheletriche si possono presentare con aspetto radiografico variabile, da una lesione sclerotica ad una soluzione di continuo completa ad un’area litica simil cistica. I distretti scheletrici più frequentemente interessati sono la tibia, l’avambraccio ed il rachide. In questo lavoro abbiamo esamina-to le pecularietà cliniche e radiografiche, i tipi di trattamento e le possibili complicanze. I risultati non sono sempre soddisfacenti per la frequente incidenza di pseudoartrosi. Il recente uso delle cellule staminali mesenchimali, come promotori dell’osteogenesi e la medicina rigenerativa aprono interessanti prospettive anche nel trattamento delle pseudoartrosi.Parole chiave: neurofibromatosi, morbo di Recklinghausen, pseudoartrosi congenita di tibia, cellule staminali mesenchimali

SummaryNeurofibromatosis type 1 is a congenital disease, whose diag-nosis is clinical, based on the presence of typical phenotypic signs (milk-coffee-colored skin rash, cutaneous neurofibromas, axillary freckles, optic glioma, Lisch nodules and bone lesions). Skeletal abnormalities may present with variable radiographic appearance (sclerotic lesion, pseudoarthrosis, cystic areas). The skeletal lesions are in different distrects, the most frequent sites are tibia, forearm and spine. In this work, we examined clini-cal and radiographic features, types of treatment and compli-cations. Results are not always satisfactory as non union is not uncommon. Recent use of mesenchymal stem cell, as promoters of osteogenesis and regenerative medicine open up interesting perspectives in the treatment of nonunions.Key words: neurofibromatosis, Recklinghausen’s disease, conge-nital tibia pseudarthrosis, mesenchymal stem cell

FIGURA 1.Forma grave di NF con neuro fibromi aggressi ed interessamento scheletrico.

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ARTO INFERIOREUna classificazione della pseudoartrosi congenita di gamba in neurofibromatosi che tenga in considerazione solo l’aspetto radiografico o clinico potrà essere utile da un punto di vista didattico, mentre non lo è sempre da un punto di vista pratico; per tale motivo gli sforzi compiuti dalle diverse scuole per ricercare una certa unitarietà dia-gnostica e classificativa non hanno fino ad ora portato a risultati concreti e definitivi 1 5 6. Pur considerando vali-

di gli apporti scientifici sull’argomento di Anderson e di Boyd 4, distinguiamo essenzialmente due forme:• sclerotica – displastica;• franca – cistica.Siamo per altro convinti che non esiste una forma fissa di pseudoartrosi, in quanto riteniamo che nella maggior parte dei casi il destino ultimo della forma sclerotica-di-splastica sia quello di approdare verso la forma franca dopo un evento fratturativo 1 5. Pertanto l’inserimento del

paziente in un determinato gruppo di appartenenza non esprimerà un giudizio prognostico evolutivo della malattia ma solo una “immagine” fotografica della deformità in quel momento 5 8 9.È importante però essere certi che questa alterazione scheletrica, rife-rendoci alla forma sclerotica-displa-stica, sia effettivamente una pseu-doartrosi in neurofibromatosi  5 7 10; infatti la diagnosi differenziale con altre forme di ipometrie alla nasci-ta potrebbe essere difficile, allor-ché non sia stata ancora fatta una diagnosi di certezza di NF  9 11 12. Un elemento clinico importante è l’assenza nella pseudoartrosi in NF dell’ombelicatura cutanea anteriore (elemento costante in molte forme di ipoplasia congenita di gamba), inoltre il canale si presenta sempre ristretto in sede di deformità sia a livello tibiale che peroneale e non sono mai presenti deformità in mi-nus a livello dei raggi del piede 5 9. (Fig. 2 a-b-c-d).L’approccio terapeutico a questa patologia così subdola all’esordio, multiforme nella presentazione e mutevole nel divenire può creare dubbi ed incertezze 7 14.Il trattamento conservativo consiste nella tutorizzazione dell’arto affetto da proseguire fino al termine dell’ac-crescimento scheletrico (Tab. I) 2 8 13. Nella forma sclerotica-displastica, fatta la diagnosi, è consigliabile applicare una tutorizzazione per permettere il carico con una suffi-ciente tranquillità  6 13. Questo tuto-re sarà rinnovato ogni anno fino a termine di accrescimento. Una volta instauratasi una lesione di continuo,

FIGURA 2.Forma displastica di pseudoartrosi di gamba; b) Forma di pseudoartrosi franca del perone e forma sclerotica della tibia; c) Forma cistica; d) Pseudartrosi franca di tibia e perone.

FIGURA 3.Trattamento a fine crescita con fissatore esterno tipo Ilizarov; b) Comparsa di focolaio di pseudoartrosi nel focolaio di allungamento.

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LA NEUROFIBROMATOSI

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questa, inevitabilmente evolverà verso una forma franca. Sarà quindi necessario armare lo scheletro mediante un infibulo endomidollare che dovrà essere sostituito in rela-zione alla crescita staturale del paziente fino ai 14/15 anni quando si procederà, se la pseudoartrosi sarà anco-ra presente, al trattamento di compressione mediante fis-satore esterno circolare e corticotomia per la contestuale correzione dell’asse e della dismetria 7.Il trattamento chirurgico include svariate procedure che consistono nella resezione del segmento osseo displasico e nella ricostruzione della continuità scheletrica median-te un innesto osseo autologo e un chiodo endomidollare oppure nell’utilizzo di un fissatore esterno circolare che, secondo la tecnica d’Ilizarov, consente la resezione del focolaio di pseudoartrosi, la compattazione dei segmenti bonificati e, in un unico tempo, l’allungamento dell’arto tramite un’osteotomia prossimale su osso “sano” 6 7 13 15. Tutte queste procedure sono spesso fallimentari per la necessità di ripetuti interventi chirurgici, per il recidivare della pseudoartrosi,per la progressiva deformità dell’arto e l’importante dismetria. Il recente uso delle cellule mesen-chimali staminali (MSC) come promotori dell’osteogenesi e la medicina rigenerativa nelle applicazioni delle ripara-zioni di perdita di sostanza ossea aprono interessanti pro-spettive anche nella terapia di questo tipo di lesione 5 11 16.Bisognerà che il paziente sia informato del fatto che la NF è presente in tutto il segmento gamba e per tale moti-vo una lesione di pseudoartrosi si potrà avere anche nel focolaio di allungamento 5 11 13 (Fig. 3a-b)Altra informazione da dare al paziente sarà quella di non credere ad una guarigione del focolaio di pseudoartrosi dopo un intervento di osteosintesi specie se l’arto viene lasciato libero dal tutore, in quanto anche a distanza di due-tre anni si potrà assistere al riformarsi della lesione stessa con rottura del mezzo di sintesi sia esso un chiodo

TABELLA I.Schemi di trattamento delle differenti forme di pseudoartrosi di gamba.

FIGURA 4.Esempi di rottura del mezzo di sintesi in sede di pseudoartrosi.

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endomidollare che una placca. Una sicurezza maggiore di un buon esito di un intervento di osteosintesi lo si potrà avere in età adolescenziale-matura 6 7 13(Fig. 4).Gli interventi del perone vascolarizzato prelevato dall’ar-to contro laterale, indicazione validissima nei primissimi anni di vita potrà dare ottimi risultati nella pseudoartrosi congenita senza NF, nel paziente affetto da NF può dare dei seri dispiaceri in quanto anche se la resezione tibia-le sarà massiva, la malattia potrà intaccare il segmento scheletrico trasferito, con una rarefazione completa fino ad una decisione di amputazione 7 13-15.L’orientamento di molti colleghi specie di origine anglo-sassone è proprio quella di intervenire in maniera drasti-ca e demolitiva entro il primo anno di vita per le forme franche che si instaurano al terzo inferiore della tibia e che presentano notevole difficoltà alla tutorizzazione ed alla stabilizzazione con una sintesi 4 7.Un problema particolare è rappresentato dalla valgo pro-nazione della caviglia dovuto sia al valgismo della metafi-si distale della tibia, sia all’accorciamento ed innalzamen-to del malleolo peroneale tale da provocare una grave

valgo-pronazione del retropiede 8 13 17 18. In questi casi si dovrà cercare di migliorare il rapporto calcaneo-astraga-lo mediante un intervento di artrorisi della sottoastragali-ca (calcaneo stop, endortesi riassorbibile) e dopo sei/otto mesi eseguire un intervento secondo la procedura di Lan-genskiold (fusione della metafisi distale del perone con la metafisi distale della tibia rimuovendo parte della zona di neurofibromatosi del perone ed apponendo frammenti di osso prelevato dalla cresta iliaca). Questo intervento consente una buona stabilità della tibiotarsica rimandan-do a termine dell’età adolescenziale, quando i rischi di una pseudoartrosi iatrogena sono minori, una eventuale ostotomia di varizzazione della tibia 8 13 17 18(Fig. 5 a-b-c).

ARTO SUPERIOREPer l’arto superiore non esiste una vera classificazione in quanto il più delle volte si manifesta come un dismorfismo dell’avambraccio con deformità assiale e scarsi disturbi funzionali; radiograficamente oltre alla deformità assiale si noterà un restringimento del canale midollare ed un addensamento delle corticali 8 16. A volte le deformità assiali sono così poco evidenti da passare inosservate fino al momento di una frattura.Il dimorfismo scheletrico può interessare solo l’ulna o an-che il radio. Un intervento chirurgico atto a ripristinare l’asse scheletrico deve essere ben ponderato in quanto c’è il pericolo di una mancata consolidazione delle oste-otomie. Questa evenienza dovrà essere tenuta in conside-razione anche nel caso di una frattura 1 4 (Fig. 6a-b-c-d).La lesione scheletrica della clavicola può essere presente alla nascita ed il più delle volte viene confusa come frat-tura ostetrica. Il quadro radiografico però è determinante per una diagnosi differenziale in quanto nella psudartrosi di clavicola i monconi di frattura sono sclerotici spesso

con forma a punta e distanziati fra di loro, mentre nella frattura trauma-tica ostetrica i monconi presentano un buon canale midollare sono fra di loro sovrapposti e non hanno foma appuntita 5 9 10 (Fig.7a-b).Per quanto riguarda la clavicola te-nendo presente sempre l’evenienza di una recidiva della pseudoartrosi, l’intervento ha migliori prospettive se eseguito entro i 5 anni d’età: innesto lungo prelevato dall’ala ilia-ca, rimozione di parte della zona di pseudoartrosi esistente fra i due monconi, un filo di K percutaneo tiene in asse i due monconi della clavicola, alloggiamento della dop-pia stecca corticale che abbraccia quasi del tutto la clavicola; al termi-

FIGURA 5.Clinica e Rx di pseudoartrosi di perone; c) Intervento di Langenskiold.

FIGURA 6.Forma displastica con deformità assiali e mano ulnarizzata; b) Frattura con deformità assiale; c) Trattamento con innesti ossei e placche; d) Progressivo riassorbimento dopo chirurgia ed asportazione mezzi di sintesi.

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LA NEUROFIBROMATOSI

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ne si applica toraco-brachiale gessato che ingloba il filo di K 19.L’apparecchio gessato viene mantenuto per 45 giorni cir-ca, rinnovabile o con braccio al collo per altri 45 giorni in relazione al quadro radiografico. (Fig. 8).

RACHIDELa cifoscoliosi nella NF1 ha una incidenza che va dal 5 al 40 % 1 3 20. Una netta distinzione deve essere eseguita fra la scoliosi distrofica e non distrofica riguardo al trat-tamento, infatti quest’ultima ha le caratteristiche evolutive proprie di una scoliosi idiopatica quindi segue le modali-tà di trattamento di quest’ultima (fisioterapia, ortesi, gessi eventuale chirurgia) la forma distrofica necessita di con-trolli clinici radiografici ravvicinati e soluzione chirurgica di artrodesi anteriore e posteriore. Anche in questi casi si dovrà informare il paziente di tutte le complicanze tipiche degli interventi sulla colonna oltre all’eventuale compli-canza di pseudartrosi 20.

TRATTAMENTO CON CELLULE STAMINALI MESENCHIMALI (MSC)Dagli studi eseguiti sull’osso prelevato e sul materiale fi-broso in sede perilesionale nelle pseudoartrosi congeniti di tibia con e senza NF1 e dall’andamento dei pazienti operati si è evidenziato che le cellule mesenchimali stro-mali prelevate dal sangue midollare di bambini affetti da pseudoartrosi congenita hanno maggiore potere osteoin-duttivo di quelle prelevate in sede di lesione, che esistono numerosi fattori di crescita liberati dalle piastrine che pro-muovono l’interazione tra le varie cellule del tessuto osseo (osteoblasti, osteoclasti, osteociti) unitamente a fattori che

FIGURA 7.Pseudoartrosi congenita di clavicola in NF; b) Frattura ostetrica di clavicola.

FIGURA 8.Trattamento chirurgico della pseudoartrosi congenita della clavicola.

FIGURA 9.Scoliosi in NF trattata chirurgicamente.

FIGURA 10.NF interessa strutture cervicali con conseguente scoliosi.

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C. RACANO ET AL.

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fanno parte del microambiente e che mediano le rispo-ste cellulari 5 16 21. Sicuramente la medicina rigenerativa potrà svolgere un ruolo fondamentale come adiuvante la tecnica chirurgica classica nel trattamento di questo tipo di lesioni  21-23. Ancora sono in corso studi volti ad individuare alcuni fattori di crescita dei fibroblasti dosa-bili nel sangue periferico che potrebbero essere utilizzati come screening per identificare i pazienti che potrebbero rispondere positivamente a questo tipo di trattamento  5

22-25. Altro studio è volto ad individuare possibili materiali utilizzabili come scaffold, in soggetti in accrescimento, per migliorare l’adesione e l’azione delle MCS. Nel no-stro studio 10 pazienti affetti da pseudoartrosi congenita di tibia sono stati trattati con MSC prelevate dalla cresta iliaca e gel piastrinico. La consolidazione ossea è stata ottenuta in 3 pazienti con pseudartrosi congenita di tibia associata a NF1. Nei soggetti guariti, le MSC coltivate in presenza di siero autologo erano in grado di formare no-duli minerali in vitro. Ne risulta che sarà inutile sottoporre a questo tipo di trattamento lungo e costoso i pazienti la cui prova in vitro risulterà negativa (Fig. 11).

FIGURA 11.Paziente di 3 anni dopo trattamento con MSC.

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C. VILLANI, L. MARTINI, M. DI DOMENICA, F.M. RANALDI, A. ZAMBRANO*, M. CELLI*, P. PERSIANIDipartimento di Ortopedia e Traumatologia, Sapienza Università di Roma; * Dipartimento di Pediatria, Sapienza Università di Roma

Indirizzo per la corrispondenza:Lorena MartiniDipartimento di Ortopedia e Traumatologia, Sapienza Università di RomaE-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S115-S124 S115

Abbiamo eseguito l’intervento per trattare un evento fratturativo in 17 segmenti. Abbiamo eseguito una media di 2 osteotomie correttive per segmento su 32 segmenti.Abbiamo scelto il mezzo di sintesi da utilizzare in base all’età, al diametro del canale midollare, alle condizioni cliniche gene-rali e all’obiettivo terapeutico e di aspettativa ambulatoria del paziente.Abbiamo eseguito una valutazione preoperatoria: Radiografi-ca, Funzionalecon GMFCS 1, Qualità della vita con questionario POSNA 2 3.Abbiamo eseguito controlli post operatori a 21- 40- 60 giorni dopo ciascun intervento chirurgico, in cui abbiamo ripetuto va-lutazione radiografica e del GMFCS.Abbiamo valutato le perdite di sangue intraoperatorie tramite valutazione dei valori di emoglobina pre e post operatori e va-lori di emoglobina al momento della dimissione e correlati con la valutazione anestesiologica intra operatoria 4.Abbiamo posto come termine ultimo del follow-up: 12 mesi dall’intervento chirurgico, quando abbiamo eseguito un’ultima valutazione radiografica, del GMFCS e somministrato questio-nario POSNA.Risultati. Tutti i pazienti hanno migliorato il grado di funzione motoria secondo scala di GMFM al termine del follow up di 12 mesi ad eccezione di un paziente.Tutti i pazienti hanno avuto un miglioramento del punteggio PO-SNA al termine del follow up.Abbiamo osservato una perdita di sangue perioperatoria che varia da 50 cc a 250cc con una perdita ematica media di 197cc per la sintesi con chiodo telescopico e perdita ematica media di 180cc per la sintesi con sliding nails, è stato neces-sario eseguire trasfusione di 250cc di globuli rossi concentrati in 2 casi.Abbiamo avuto una buona percentuale di sopravvivenza dei mezzi di sintesi a 12 mesi post op: 100% per il chiodo telesco-pico FD e 85,2% per i TEN.Discussione. Al termine del follow-up di 12 mesi, in base alle valutazioni compiute, è stato osservato che in tutti i pazienti c’è stato un miglioramento della qualità della vita e della funzione motoria.Nel nostro studio abbiamo osservato che i pazienti affetti da OI tipo III e IV, forme più gravi, sono stati quelli che hanno maggior-mente giovato dell’intervento chirurgico, in merito a recupero della funzione e miglioramento della qualità di vita, rispetto ai pazienti con OI di tipo I, forma più lieve.Le perdite ematiche sono state maggiori in pazienti di più pic-cola età e aumentavano in modo direttamente proporzionale ovviamente in relazione al numero di osteotomie eseguite e ai tempi operatori.In entrambi i casi in cui è stato necessario eseguire trasfusione di sangue omologo, si trattava di pazienti affetti da OI tipo III, con anamnesi familiare positiva per disfunzione piastrinica, en-trambi sottoposti ad intervento di osteotomie correttive multiple e sintesi con chiodo telescopico femorale.Abbiamo inoltre osservato che in quei casi dove c’è stata una maggiore compliance della famiglia ed è stato eseguito un trattamento riabilitativo continuativo, i risultati in relazione a punteggio POSNA e GMFCS score mostravano un più spiccato miglioramento.

MANAGEMENT DELLE FRATTURE E DEFORMITÀ A CARICO DELLE OSSA LUNGHE DEGLI ARTI INFERIORI IN UN GRUPPO DI PAZIENTI AFFETTI DA OSTEOGENESI IMPERFETTA TIPO I, III E IVManagement of long bones fractures and deformities of lower extremities in patients with osteogenesis imperfecta type I, III AND IV

RiassuntoIntroduzione. L’osteogenesi imperfetta (OI), o sindrome delle ossa fragili, è una patologia rara del tessuto connettivo, eteroge-nea in termini sia di ereditarietà che di espressività fenotipica.Le ossa lunghe dei pazienti osteogenetici presentano spesso deformità in pro- o re-curvato, assiali o rotazionali, all’apice delle deformità molto spesso per un ovvio meccanismo di leva, si verifica una frattura che non fa altro che rinforzare un circolo vizioso per cui la deformazione causa nuove fratture che, con-solidandosi, aggravano la deformità stessa.L’obiettivo del trattamento ortopedico deve essere perciò sempre quello di curare le deformità per prevenire l’evento acuto frattu-ra, da trattare necessariamente in urgenza.Vi riportiamo la nostra esperienza riguardo al trattamento e follow-up intra e post-op di fratture e deformità a carico delle ossa lunghe degli arti inferiori in pazienti affetti da Osteogenesi imperfetta di tipo I, III e IV trattate con osteotomie correttive e sin-tesi endomidollare con chiodo telescopico FD oppure 2 chiodi TEN con tecnica sliding nails.Materiali e metodi. Dei 195 pazienti afferenti al Presidio per le Osteodistrofie Congenite, sito nel Dipartimento di Pediatria del nostro Policlinico, abbiamo selezionato 13 pazienti di età compresa tra 5 e 13 anni, affetti da OI di tipo I, III e IV, tutti in trattamento con Neridronato da almeno un anno, che pre-sentavano fratture o deformità a carico degli arti inferiori, che necessitavano di trattamento chirurgico.Abbiamo trattato un totale di 36 segmenti ossei (24 femori, 12 tibie), utilizzando in 14 segmenti l’inchiodamento con 2 TEN con tecnica di sliding nails; e in 22 segmenti l’inchiodamento con chiodo telescopico Fassier Duval.

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Conclusioni. L’indicazione all’intervento chirurgico nei bambini con OI è rappresentata dalla presenza di deformità ossee pree-sistenti o esiti di fratture multiple e da fratture scomposte.Riteniamo che entrambe le tecniche chirurgiche, se utilizzate con la giusta indicazione, possano portare a dei buoni risultati.In accordo con altri autori riteniamo che l’uso di chiodi TEN con tecnica di sliding nails sia vantaggioso in pazienti di età infe-riore ai 5 anni, con canale midollare molto ristretto o con bassa aspettativa di vita o deambulatoria.Il chiodo telescopico trova indicazione in tutti quei casi in cui il diametro del canale midollare ne consente l’inserimento, e in tutti i pazienti in crescita di età maggiore di 5 anni 5.Parole chiave: osteogenesi imperfetta, arti inferiori, trattamento, sintesi endomidollare

SummaryBackground. Osteogenesis imperfecta (OI), or brittle bone syn-drome, is a rare connective tissue disorder.The long bones of patients often are deformed with axial rota-tion or bent, and often at the apex of deformity for an obvious lever mechanism, there is a fracture that reinforce a vicious circle whereby deformation causes new fractures that, consolidating, worsen the same deformity.The goal of the orthopaedic treatment must be always to treat deformities to prevent acute fracture event, That we have to deal with urgent needs.We present our experience about treatment and follow-up intra and post-op of long bones fractures and deformities of lower extremities in patients with osteogenesis imperfecta type I, III and IV treated with corrective osteotomies and syntehsis with Fassier Duval telescopic rod or 2 TEN nails with sliding nails technique.Methods. 195 patients are treated in Congenital Osteodystrofic Desease clinical centre, in Department of Pediatrics of University of Rome, La Sapienza.We included 13 patients, age between 5 to 13 years old, af-fected by OI type I, III and IV.All patients have Neridronate therapy for at least 1 years, and presented lower extremities fractures or deformities which need for surgical treatment.We treated 36 bones (24 femur, 12 tibiae), in 14 cases with 2 TEN nails with sliding nails technique, and in 22 cases with Fassier Duval telescopic rod.We treated fractures in 17 bones, we perform an average of 2 corrective osteotomies in 32 bones.We chose the type of rod to use based on the age, diameter of the Medullary Canal, the General clinical condition, therapeutic target and ambulatory patient expectation.We performed a preoperative evaluation: radiographic imag-ing, functional evaluation with GMFCS scale 1, quality of life evaluation with POSNA questionnaire 2 3.Post op evaluations were performed at 21-40-60 days after each surgery.Intra-op Blood loss was evaluated by pre and post op hemo-globin values, and hemoglobin value at discharge and we corre-lated that values to anesthesiologic intra operative assessment 4.Follow up time was of 12 mounths, when we performed the last

evaluation with x ray, GMFCS and POSNA questionnaire.Discussion. At 12 mounths evaluation we observed an improve-ment of quality of life and motor function in all patients.Patients with OI type III and IV, most severe form, have benefited of surgery more than those with OI type I, mildest form.Younger Patients had more Blood loss than the others, and that loss increased in direct proportion with number of osteotomies and time for surgery. We had to do blood transfusion in 2 cases, and in all of that cases we performed corrective osteotomies and synthesis with FD telescopic rod and both of patients was OI type III with famili-arity for platelet dysfunction. Conclusion. We suggest that both of surgical tecnique were good to obtain soddisfacent results in OI patients, but we have to chose that tecnique with correct surgical indication.We suggest the use of TEN nails with sliding nails technique in patients with age less than 5 years, thin medullary canal or in patients with low life or ambulatory expectation. We suggest the use of FD Telescopic rod in all of patients with age more than 5 years and who have medullary canal which could allow the insertion of the rod 5.Key words: osteogenesis imperfecta, lower extremities, treat-ment, intramedullary sinthesys

INTRODUZIONEL’osteogenesi imperfetta (OI), o sindrome delle ossa fragi-li, è una patologia rara del tessuto connettivo, eterogenea in termini sia di ereditarietà che di espressività fenotipica.È caratterizzata da gradi variabili di fragilità e deformità ossea, di riduzione della densità minerale ossea, di bassa statura, di ipoacusia, associati ad altri segni di alterazio-ni connettivali quali: sclere blu, dentinogenesi imperfetta, lassità legamentosa, alterazioni cardiache 1 2.Classificata da Sillence e Gloriex, sulla base delle carat-teristiche cliniche, in VII tipi. L’applicazione delle più recenti metodiche di ricerca han-no evidenziato il ruolo centrale delle mutazioni dei geni del collagene di tipo I (COLIA1 e COLIA2) nella genesi di questa sindrome.L’OI è stata definita da Glorieux la malattia dell’osteobla-sta 3, che produce matrice qualitativamente e\o quantita-tivamente anomala con conseguente aumento del rimo-dellamento tessutale e diminuzione della densità minerale ossea, la quale si riduce ulteriormente durante i lunghi periodi d’immobilizzazione dovuti alle frequenti fratture.Al momento attuale non esiste una terapia risolutiva. L’uso dei bifosfonati, associato o meno ad ormone della cresci-ta (GH), si è mostrato utile nel trattamento sintomatico dei pazienti affetti da forme severe di OI, nei quali si è avuto un incremento della densità minerale ossea e una riduzio-ne del numero delle fratture e del dolore 4-7.Gli obiettivi del trattamento variano in rapporto alla gravi-tà della malattia, ma anche in rapporto all’età.Le problematiche del trattamento variano in rapporto alla

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MANAGEMENT DELLE FRATTURE E DEFORMITÀ A CARICO DELLE OSSA LUNGHE DEGLI ARTI INFERIORI S117

qualità dell’osso, alla presenza di deformità, alla presen-za di patologie concomitanti che complicano l’aspetto anestesiologico e di gestione del paziente, le modifica-zioni dell’osso indotte dall’assunzione di bifosfonati.Pazienti con severa osteoporosi, crolli vertebrali e\o dolo-ri osteo-muscolari diffusi vengono trattati con Neridronato che migliora la densità minerale ossea, riduce l’incidenza di fratture, riduce il dolore; tuttavia induce delle modifi-cazioni ossee che possono creare difficoltà tecniche ope-ratorie e di gestione del paziente come l’aumento dello spessore corticale a scapito del diametro midollare che risulta notevolmente ristretto oltre che decentrato a causa della deformità coesistente.Le ossa lunghe dei pazienti osteogenetici presentano spes-so deformità in pro- o re-curvato, assiali o rotazionali, che si sviluppano come esito di fratture mal consolidate o mi-crofratture misconosciute o come conseguenza della estre-ma fragilità e deformabilità dell’osso sottoposto a carico.All’apice delle deformità molto spesso per un ovvio mec-canismo di leva, si verifica una frattura che non fa altro che rinforzare un circolo vizioso per cui la deformazione causa nuove fratture che, consolidandosi, aggravano la deformità stessa (Fig. 1).L’obiettivo del trattamento ortopedico deve essere perciò sempre quello di curare le deformità per prevenire l’even-to acuto frattura, da trattare necessariamente in urgenza.Vi riportiamo la nostra esperienza riguardo al trattamento

e follow-up intra e post-op di fratture e deformità a carico delle ossa lunghe degli arti inferiori in pazienti affetti da Osteogenesi imperfetta di tipo I, III e IV.L’uso di placche e viti è controindicato in bambini ed ado-lescenti con OI a causa della ridotta qualità dell’osso che, impedendo un’adeguata presa della vite, provoca un’in-stabilità di placca, la quale essendo inoltre costituita da un materiale molto più rigido dell’osso, può provocare un’osteolisi sottostante con rischio di frattura sub- e peri-placca. Inoltre in alcune forme di OI (VI-V), la presenza di placche e viti induce la formazione di un callo ipertrofico.Il tipo di soluzione chirurgica più indicata in questi pa-zienti è senza dubbio l’uso di chiodi endomidollari. La lunghezza, la fragilità ossea intrinseca ed il diametro mi-dollare delle ossa lunghe, che nei pazienti con OI presen-tano misure inferiori rispetto a quelle della popolazione sana, necessitano l’uso di chiodi di piccolo diametro: fili di Kirschner, chiodi di Rush, chiodi di Williams, chiodi tensoelastici in titanio (TEN) e telescopici. I chiodi endomidollari percutanei inestensibili possono es-sere utilizzati per effettuare una fissazione precoce e sta-bile in pazienti molto piccoli di età, con canale midollare troppo ristretto o in condizioni troppo gravi per subire una chirurgia più definitiva, oppure in quei pazienti che hanno raggiunto una statura quasi definitiva8.I chiodi statici non si allungano con la crescita, lasciando distalmente un’area ossea non protetta; è perciò ritenuto

FIGURA 1.

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gold standard di trattamento l’utilizzo di chiodi telescopici o chiodi statici inseriti con la tecnica di sliding nails.Quest’ultima metodica prevede l’inserimento di 2 fili, uno dall’estremità prossimale dell’osso e uno da quella dista-le, facendo in modo che ci sia una sovrapposizione dei due all’interno della cavità midollare (Fig. 2). Questo con-sente lo spostamento in direzioni opposte dei fili, consen-sualmente alla crescita ossea, in quanto ciascun mezzo di sintesi resta fissato ad una epifisi.

I chiodi telescopici, gold standard di trattamento, sono costituiti da due componenti (maschio e femmina) che si inseriscono l’una nell’altra all’interno della cavità midolla-re, e scorrendo l’una sull’altra si allungano con la crescita dell’osso.Il chiodo telescopico da noi utilizzato è quello di Fassier-Duval (FD) che prevede un unico accesso chirurgico pros-simale per l’inserimento del dispositivo, evitando così la necessità di eseguire artrotomie di ginocchio, caviglia.Il chiodo telescopico FD viene quindi inserito da un unico piccolo accesso e offre l’ulteriore vantaggio di eseguire la correzione della deformità per via percutanea o mininva-siva sotto controllo amplioscopico.La tecnica chirurgica prevede l’esecuzione di osteotomie correttive procedendo con la fresatura del canale endo-midollare.Si inserisce quindi prima la componente maschio del chiodo in modo che la sua estremità distale si centrata nell’epifisi sia in proiezione AP che LL; poi si inserisce la componente femmina, precedentemente tagliata nella misura corretta.Si taglia quindi il chiodo maschio in eccesso, facendo attenzione a non piegare l’estremità che impedirebbe al-trimenti lo scorrimento dell’impianto.L’assenza di componenti aggiuntive all’estremità del chio-do e la possibilità di inserimento dell’impianto solo ante-rogrado, ha notevolmente migliorato la riuscita e ridotto le complicanze post operatorie per questo tipo di intervento.Inoltre esistono misure di diametro diverso (da 3,2 a 6,4 mm), che meglio si adattano ai piccoli diametri delle ossa lunghe dei pazienti osteogenetici.

TECNICA CHIRURGICAIn alcuni casi, soprattutto per le deviazioni assiali e rota-zionali, si può sfruttare la frattura per correggere la defor-mità senza eseguire ulteriori osteotomie (Fig. 3).

La presenza del chiodo telescopico, che richiede un alli-neamento rigoroso dell’osso e che risulta maggiormente resistente rispetto ai chiodi TEN, arma l’osso su tutta la sua lunghezza riuscendo spesso ad impedire la scompo-sizione della frattura per un trauma successivo.Con questo studio vogliamo condividere la nostra espe-

rienza sul trattamento e management intra e post opera-torio delle fratture e deformità a carico delle ossa lunghe degli arti inferiori in un gruppo di pazienti affetti da OI tipo I, III e IV.

MATERIALI E METODIDei 195 pazienti afferenti al Presidio per le Osteodistrofie Congenite, sito nel Dipartimento di Pediatria del nostro Policlinico, abbiamo selezionato 13 pazienti di età com-presa tra 5 e 13 anni (5 F, 8 M), affetti da OI di tipo I (6 pz), di tipo III (3 pz) e di tipo IV (4 pz), tutti in trattamento con Neridronato da almeno un anno, che presentavano fratture o deformità a carico degli arti inferiori, che ne-cessitavano di trattamento chirurgico (età media al primo intervento 7 anni).Abbiamo sospeso la terapia farmacologica con Neridro-nato (Nerixia®, dosaggio 2mg/kg ev ogni 3 mesi) per 4 mesi dopo ogni intervento chirurgico che avesse previsto osteotomie correttive, come raccomandato da Fassier e Glorieux, al fine di evitare ritardo di consolidazione e pseudoartrosi 9 10.Abbiamo trattato un totale di 36 segmenti ossei (24 fe-

FIGURA 2.

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FIGURA 3.

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mori, 12 tibie), utilizzando in 14 segmenti (10 femori, 4 tibie) l’inchiodamento con 2 TEN con tecnica di sliding nails; e in 22 segmenti (14 femori, 8 tibie) l’inchiodamen-to con chiodo telescopico Fassier Duval.Abbiamo eseguito l’intervento per trattare un evento frat-turativo in 17 segmenti: 7 fratture di femore trattate con 2 TEN, 3 fratture di tibia trattate con 2 TEN; 5 fratture di femore trattate con chiodo telescopico, 2 fratture di tibia trattate con chiodo telescopico.Abbiamo eseguito una media di 2 osteotomie correttive per segmento su 32 segmenti.Non abbiamo eseguito osteotomie correttive in 4 casi, tutti segmenti trattati per fratture (3 fratture di femore trat-tate con 2 TEN e 1 frattura di femore trattata con chiodo telescopico), in cui abbiamo sfruttato la frattura per cor-reggere deviazioni assiali e rotazionali presenti.Abbiamo scelto il mezzo di sintesi da utilizzare in base all’età, al diametro del canale midollare, alle condizioni cliniche generali e all’obiettivo terapeutico e di aspettati-va ambulatoria del paziente.Abbiamo valutato le perdite di sangue intraoperatorie tramite valutazione dei valori di emoglobina pre e post operatori e valori di emoglobina al momento della dimis-sione e correlati con la valutazione anestesiologica intra operatoria 11.Abbiamo eseguito una valutazione preoperatoria:Radiografica: Rx standard in due proiezioni (anteroposte-riore e laterale), al fine di valutare le caratteristiche delle deformità e/o della frattura, la qualità dell’osso e l’even-tuale necessità di eseguire osteotomie correttive;Funzionale: Gross Motor Function Classification System (GMFCS), questo sistema, riconosciuto a livello interna-zionale, valuta la funzione motoria dei pazienti in base all’età, secondo 5 livelli di autonomia funzionale 12.Questa valutazione pre-operatoria è stata ovviamente possibile solo in quei pazienti sottoposti a interventi chi-rurgici di correzione preventiva della deformità.Nei pazienti fratturati, abbiamo considerato come valo-re di partenza l’ultima valutazione funzionale eseguita in corso di visite ambulatoriali.Qualità della vita: Questionario fornito dalla Pediatric Orthopaedic Society of North America (POSNA)  13 14. Il questionario POSNA è un test a risposta multipla per la valutazione di dolore, abilità e capacità di relazione sociale e di svolgimento delle attività di vita quotidiana. Ad ogni risposta viene assegnato un punteggio che ci ha consentito di ottenere lo score di partenza per ciascun paziente. Abbiamo eseguito controlli post operatori a 21-40-60 giorni dopo ciascun intervento chirurgico, in cui abbiamo ripetuto valutazione radiografica e del GMFCS.Abbiamo stabilito un programma riabilitativo post opera-torio che prevedesse:

Immobilizzazione in gesso per 3 settimaneInizio idrokinesiterapia e kinesi a secco in 4° settimana post opInizio deambulazione in 6° sett post op con recupero pro-gressivo del caricoAbbiamo posto come termine ultimo del follow-up: 12 mesi dall’intervento chirurgico, quando abbiamo eseguito un’ultima valutazione radiografica, del GMFCS e sommi-nistrato questionario POSNA.

RISULTATILa valutazione GMFM pre-op ha mostrato che 2 pazienti partivano da un grado V, 6 pazienti da un grado III e 5 pazienti da un grado II.Tutti i pazienti hanno migliorato il grado di funzione mo-toria secondo scala di GMFM al termine del follow up di 12 mesi ad eccezione di un paziente.In particolare 9 pazienti hanno guadagnato 1 grado, 3 paziente ha guadagnato 2 gradi e 1 paziente non ha modificato il grado di partenza.Abbiamo somministrato il questionario POSNA per valu-tare la qualità di vita in fase pre-operatoria e al termine del follow up di 12 mesi dall’intervento chirurgico subito.Tutti i pazienti hanno avuto un miglioramento del punteg-gio al termine del follow up.Abbiamo osservato una perdita di sangue perioperatoria che varia da 50 cc a 250cc con una perdita ematica media di 197cc per la sintesi con chiodo telescopico e perdita ematica media di 180cc per la sintesi con sliding nails, è stato necessario eseguire trasfusione di 250cc di globuli rossi concentrati in 2 casi.La valutazione clinica e anamnestica nei controlli ambu-latoriali intermedi, ha evidenziato che in 24 casi su 32 (75%) in cui abbiamo eseguito osteotomie correttive è sta-ta necessaria una terapia del dolore per una media di 4 giorni post operatori.Abbiamo valutato il dolore secondo scala VAS nel control-lo a 21 giorni post-op, ed abbiamo osservato uno score di 2 in 9 casi, di 3 in 6 casi, di 4 in 5 casi, di 5 in 8 casi, di 6 in 5 casi, di 7 in 3 casi.L’assenza del dolore è stata riscontrata in 25 casi su 36 (69,4%) nel controllo a 40 giorni post-op.Abbiamo ritenuto importante valutare il raggiungimento del ROM articolare del ginocchio e anca di 90°; in tutti i 14 casi trattati con chiodo telescopico femorale questo traguardo è stato raggiunto entro la 5 settimana, in tutti gli 8 casi trattati con chiodo telescopico tibiale entro la 6 settimana; in 8 casi su 10 trattati con sliding nails fe-morale entro la 6 settimana, in 1 caso su 10 entro la 8 settimana ed in 1 caso su 10 questo traguardo non è stato raggiunto (paziente che partiva da uno score di GMFM di V); in 3 casi su 4 trattati con sliding nails tibiale entro la 5 settimana, in 1 caso su 4 entro la 6 settimana.

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MANAGEMENT DELLE FRATTURE E DEFORMITÀ A CARICO DELLE OSSA LUNGHE DEGLI ARTI INFERIORI S121

Abbiamo avuto una buona percentuale di sopravvivenza dei mezzi di sintesi a 12 mesi post op: 100% per il chio-do telescopico FD e 85,2% per i TEN.Abbiamo osservato mancato scorrimento dei mezzi di sintesi in 1 caso di inchiodamento telescopico e in 3 casi di sintesi con TEN; migrazione del chiodo in 1 caso di inchiodamento telescopico e in 2 casi di sintesi con TEN; deformazione del chiodo in 3 casi di sintesi con TEN.Abbiamo notato inoltre che in 3 casi trattati con TEN (1 femore e 2 tibie) si è verificata un’epifisiodesi che ha por-tato allo svilupparsi di una deviazione assiale del ginoc-chio. Evento che non abbiamo osservato in nessun caso trattato con chiodo telescopico.

DISCUSSIONEAl termine del follow-up di 12 mesi, in base alle valuta-zioni compiute, è stato osservato che in tutti i pazienti c’è stato un miglioramento della qualità della vita e della funzione motoria.Tuttavia, nei pazienti trattati con chiodo telescopico abbia-mo notato che nei controlli intermedi a 21, 40 e 60 giorni post-operatori c’è stata una riduzione più precoce del dolo-re ed un più ampio recupero della funzione motoria.Abbiamo poi considerato il ROM di 90° in flessione del ginocchio come valido parametro per valutare il recupero funzionale articolare, poiché questo corrisponde al grado di movimento necessario per salire e scendere in modo corretto le scale e stare seduti comodamente sulla sedia.Questo obiettivo è stato raggiunto in 35 casi su 36 con un tempo medio di 5,4 settimane per la sintesi di femore e 5,7 settimane per la sintesi di tibia.Riteniamo che il raggiungimento più veloce di tale obiet-tivo nei casi trattati con chiodo telescopico sia da corre-lare al mezzo di sintesi utilizzato, che oltre a offrire una maggiore stabilità dell’impianto, viene inserito attraverso un’unica via d’accesso in senso anterogrado, non neces-sitando di alcuna artrotomia di ginocchio.Inoltre, nel nostro studio abbiamo osservato che i pazienti affetti da OI tipo III e IV, forme più gravi, sono stati quelli che hanno maggiormente giovato dell’intervento chirurgi-co, in merito a recupero della funzione e miglioramento della qualità di vita, rispetto ai pazienti con OI di tipo I, forma più lieve.Nella valutazione delle perdite di sangue perioperatorie abbiamo osservato che queste erano pressoché sovrap-ponibili nelle procedure chirurgiche eseguite per frattura senza osteotomie o per correzione preventiva della de-formità.Le perdite perioperatorie aumentavano esponenzialmente in quei casi di frattura che necessitavano osteotomie cor-rettive aggiuntive; perché ovviamente al sanguinamento della frattura si aggiunge l’inevitabile sanguinamento in-tra e post operatorio dei siti di osteotomia.

Nei casi di inchiodamento telescopico la necessità di pre-parare il canale midollare e di eseguire un maggior nu-mero di osteotomie correttive per l’inserimento del mezzo di sintesi assolutamente non deformabile, ma provocato perdite di sangue maggiori.Le perdite ematiche sono state maggiori in pazienti di più piccola età e aumentavano in modo direttamente propor-zionale ovviamente in relazione al numero di osteotomie eseguite e ai tempi operatori.In entrambi i casi in cui è stato necessario eseguire trasfu-sione di sangue omologo, si trattava di pazienti affetti da OI tipo III, con anamnesi familiare positiva per disfunzio-ne piastrinica, entrambi sottoposti ad intervento di osteo-tomie correttive multiple e sintesi con chiodo telescopico femorale.In 2 casi abbiamo eseguito osteotomie del femore prossi-male per correggere un eccessivo varismo coxo femorale, deformità di frequente riscontro in pazienti con OI poiché il collo femorale non riesce a sostenere il peso corporeo.L’intervento chirurgico, che abbiamo preso in conside-razione quando l’angolo d’inclinazione risultava < 90°, consiste in un’osteotomia correttiva sottotrocanterica, si ricrea la normale inclinazione cervico-diafisaria, quindi abbiamo inserito il chiodo telescopico e stabilizzato i frammenti tramite sintesi con fili di kirschener e cerchiag-gi (Fig. 4) 15.In ultima analisi aggiungiamo che, durante gli interventi chirurgici di sintesi con chiodo FD, ci siamo trovati di fron-te ad alcuni imprevisti intraoperatori.In particolare, in 6 segmenti abbiamo dovuto rimuovere chiodi TEN precedentemente impiantati, per sostituirli con chiodo telescopico FD.Abbiamo osservato in sede intraoperatoria che i TEN, all’interno del canale midollare, avevano formato degli pseudo-canali (Fig. 5) che portavano il filo guida su false strade, costringendoci a praticare un numero maggiore di osteotomie per il corretto inserimento del chiodo tele-scopico.Questo ha comportato l’allungamento dei tempi chirurgi-ci, maggiori perdite intraoperatorie di sangue, tempi di recupero più lunghi.Per quanto riguarda la tecnica chirurgica di inserimento del chiodo FD, è importante valutare il diametro corretto del chiodo da posizionare, infatti chiodi di diametro trop-po piccolo hanno una maggiore probabilità di mobiliz-zarsi, mentre chiodi di diametro troppo grande possono provocare l’osteolisi della corticale ossea.Per scegliere correttamente il diametro del chiodo FD, bi-sogna considerare che nei pazienti sottoposti a terapia cronica con bifosfonati la corticale ossea è molto spessa ed il canale midollare molto ristretto.È necessario sempre procedere utilizzando frese di dia-metro gradualmente crescente, allargando il canale mi-

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FIGURA 5.

FIGURA 4.

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dollare fino ad ottenere il diametro desiderato per il posi-zionamento del chiodo telescopico.Molto spesso il canale midollare risulta decentrato rispetto all’asse diafisario; in questi casi il filo guida ci fa eseguire una fresatura non corretta del canale, con rischio di rottu-ra della corticale più sottile.In questi casi abbiamo preferito fresare il canale midolla-re senza l’utilizzo del filo guida, utilizzando la fresa per creare un nuovo canale più centrato.In merito allo svilupparsi di epifisiodesi in seguito a sintesi con TEN, riteniamo in accordo con altri auto-ri che l’attraversamento obliquo della cartilagine di accrescimento provoca maggior danno e quindi un maggior rischio di epifisiodesi rispetto al suo attraver-samento perpendicolare come avviene per il chiodo telescopico 16.Nonostante la maggior percentuale di complicanze veri-ficatesi con chiodi TEN, va detto che nel 75% dei casi i TEN hanno evitato la scomposizione della frattura.Abbiamo inoltre osservato che in quei casi dove c’è sta-ta una maggiore compliance della famiglia ed è stato eseguito un trattamento riabilitativo continuativo che pre-vedesse idrokinesiterapia e terapia a secco, i risultati in relazione a punteggio POSNA e GMFCS score mostrava-no un più spiccato miglioramento.

CONCLUSIONILa gestione ortopedica dell’OI inizia al momento della diagnosi. Per prevenire e/o trattare le deformità delle ossa lunghe che impediscono una buona funzionalità e per ridurre il rischio di fratture, ma soprattutto per aiutare

il paziente a raggiungere il massimo dell’autonomia com-patibile con la gravità della malattia, deve essere stabilito un programma appropriato di management delle fratture e di interventi chirurgici.L’indicazione all’intervento chirurgico nei bambini con OI è rappresentata dalla presenza di deformità ossee pree-sistenti o esiti di fratture multiple e da fratture scomposte.La cura preventiva delle deformità risulta di fondamenta-le importanza per evitare di dover trattare deformità in occasione di un evento fratturativo con tempi chirurgici spesso più lunghi, perdite ematiche maggiori, planning pre-op spesso più difficili.Riteniamo che entrambe le tecniche chirurgiche, se uti-lizzate con la giusta indicazione, possano portare a dei buoni risultati.In accordo con altri autori riteniamo che l’uso di chiodi TEN con tecnica di sliding nails sia vantaggioso in pazien-ti di età inferiore ai 5 anni, con canale midollare molto ristretto o con bassa aspettativa di vita o deambulatoria.Il chiodo telescopico trova indicazione in tutti quei casi in cui il diametro del canale midollare ne consente l’inseri-mento, e in tutti i pazienti in crescita di età maggiore di 5 anni 17.Esiste tuttavia un paradosso per cui l’aumento dell’attività e dell’autonomia, rendendo i pazienti più indipendenti, li espone più frequentemente al rischio di nuove cadute e fratture.Nella nostra esperienza abbiamo osservato che pazienti con valori POSNA e GMFCS più elevati hanno subito un maggior numero di reinterventi (cruenti ed incruenti) per complicanze post-traumatiche e fratture.

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S. STILLI, M. LAMPASI, C.N. ABATIStruttura complessa Ortopedia e Traumatologia Pediatrica, Istituto Rizzoli, Bologna

Indirizzo per la corrispondenza:Manuele LampasiS.C. Ortopedia e Traumatologia PediatricaIstituto Ortopedico Rizzolivia G.C. Pupilli 1, 40136 BolognaE-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S125-S130 S125

INTRODUZIONECol termine artrogriposi ci si riferisce ad una condizione patologica caratterizzata da rigidità articolari multiple congenite 1, che coinvolgono due o più distretti anatomi-ci. Tale condizione può essere ritrovata in quadri patolo-gici differenti tra loro 2 3.Differenti meccanismi eziopatogenetici (su base neuropa-tica, miopatica, dovute a anomalie del tessuto connettivo, a problematiche di riduzione dello spazio intrauterino, a patologie materne, ecc.  4 5) possono condurre a una comune conseguenza finale, la riduzione dei movimenti fetali, che a sua volta porta a una proliferazione del colla-gene e alla sostituzione dei muscoli con tessuto fibroso 1 5. Pertanto patologie con eziologia differente possono por-tare a quadri clinici molto simili. La diagnosi eziologica fornisce informazioni utili sull’evoluzione naturale della patologia 3 5, ma una diagnosi specifica si riesce ad otte-nere solo nel 50% dei pazienti 4 5.Vengono distinti quadri con artrogriposi a coinvolgimen-to soprattutto degli arti (amioplasia, artrogriposi distale) e quadri con coinvolgimento anche di altri distretti (ad esempio, viscerale, craniofaciale, ecc) 3 5.Possono inoltre essere distinte forme con alterazione della funzione neurologica (secondarie a patologie del sistema nervoso centrale o a malattie neuromuscolari) ed altre con funzione neurologica normale (amioplasia, artrogriposi distali, disordini del connettivo, patologie da compressio-ne fetale).La forma più comune (rappresenta circa un terzo di tutti i casi 3 5)è l’amioplasia, una condizione rara caratterizzata da coinvolgimento simmetrico degli arti (tutti e quattro gli arti coinvolti nel 57-84% dei casi 6), intelligenza normale, tipicamente spalle addotte e intraruotate, gomiti estesi, polsi flessi e ulnarizzati, dita rigide, pollici nel palmo, anche rigide e spesso lussate, ginocchia iperestese, piedi torti e frequentemente un angioma faciale, mentre il tron-co è spesso risparmiato4; le deformità sono rigide, difficili da trattare e presentano un’elevata tendenza alla recidi-va 1. Le artrogriposi distali includono differenti sindromi con rigidità articolare multipla congenita, caratterizzate da trasmissione genetica autosomica dominante e coin-volgimento principale della porzione distale degli arti, ad espressività variabile 7.La frequenza dell’interessamento dell’arto inferiore è ele-vata e varia a seconda della specifica etiologia di base. Nei pazienti affetti da amioplasia viene riportato un coin-volgimento dell’anca nel 55-90%, del ginocchio nel 38-90% e del piede nell’80-90% dei casi.

PRINCIPI DI TRATTAMENTOL’ortopedico che si approccia a un paziente con artrogri-posi deve tener presente che l’obiettivo del trattamento non è solo il recupero del range articolare e della deam-

TRATTAMENTO DELLE DEFORMITÀ DEGLI ARTI INFERIORI NEI PAZIENTI AFFETTI DA ARTROGRIPOSIManagement of lower limb deformities in arthrogryposis

RiassuntoIl termine artrogriposi include un gruppo eterogeneo di disturbi, caratterizzati da deformità congenite multiple. L’interessamento degli arti inferiori è molto frequente:l’anca è coinvolta nel 55-90% dei pazienti con amioplasia, il ginocchio nel 38-90% e il piede nell’80-90%.Il trattamento deve essere avviato precocemente e le opzioni te-rapeutiche includono la fisioterapia (stretching e mobilizzazione articolare) e l’utilizzo di valve, ortesi o gessi seriali a seconda delle deformità. La chirurgia è riservata alle deformità residue che non rispondono al trattamento conservativo e limitano la funzionalità del paziente.Scopo del presente lavoro è analizzare le possibili deformità caratteristiche di questa condizione e descriverne il trattamento, nonché riportare i principi di base riguardanti la tempistica di approccio alle singole stazioni articolari.Parole chiave: artrogriposi, arti inferiori, amioplasia

SummaryArthrogryposis includes heterogeneous disorders, characterized by multiple congenital contractures. Involvement of lower limbs is very common, with the hip affected in 55-90% of patients with amyoplasia, the knee in 38-90% and the foot in 80-90%.Treatment should begin early. Therapeutic options include: physical therapy (stretching and joint mobilization) use of or-thoses or serial casts depending on the deformity. Surgery is indicated for deformities restricting function despite conserva-tive treatment.Aim of this work is to analyze the typical deformities of the con-dition and describe treatment and basic principles for the timing of surgery at every joint.Key words: arthrogryposis, lower limbs, amyoplasia

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bulazione, ma più in generale quello di incrementare l’in-dipendenza del paziente, lavorando anche sulle sue ca-pacità comunicative e sulle attività della vita quotidiana.Il trattamento deve essere avviato precocemente subito dopo la nascita. Le opzioni terapeutiche includono la fi-sioterapia (stretching e mobilizzazione articolare) e l’uti-lizzo di valve, ortesi o gessi progressivi a seconda delle deformità. La chirurgia è riservata alle deformità residue che non rispondono al trattamento conservativo e limitano la funzionalità del paziente.Nei casi di coinvolgimento contemporaneo di articolazio-ni differenti, consigliamo di iniziare il trattamento chirurgi-co dalle deformità distali, trattando le deformità del piede all’età di 3-4 mesi circa. Successivamente verranno tratta-te le eventuali deformità del ginocchio, all’età di circa 6-8 mesi. Infine ci si dedicherà al trattamento delle deformità o lussazioni delle anche, generalmente all’età di 10-12 mesi. Non siamo favorevoli ad intervenire contemporane-amente su più articolazioni per la complessità delle proce-dure e la difficoltà di bilanciare le correzioni 8 9.

AncaIl coinvolgimento a carico dell’anca può manifestarsi con quadri che vanno dalla retrazione delle parti molli fino alla sublussazione e alla lussazione  10 11. Mentre per i casi di lussazione il trattamento conservativo è solitamen-te destinato ad insuccesso, le retrazioni rispondono bene alla terapia fisica 12. In questi casi, le anche sono per lo più flesse, abdotte ed extraruotate 13 14. Nella nostra espe-rienza, i casi che non rispondono al trattamento conserva-tivo necessitano generalmente di ampie capsulotomie e di release dei tessuti molli 8.La lussazione dell’anca nei pazienti con artrogriposi è tipicamente teratologica 1, si sviluppa molto precocemen-te nella vita intrauterina, è più rigida rispetto a quella idiopatica e non è progressiva 4. L’acetabolo è piccolo, poco profondo e occupato da tessuto fibroso 14, l’epifisi femorale è ipoplasica e deformata per l’assenza di un normale carico sull’articolazione o per la presenza di sublussazione-lussazione dell’anca  9. La lussazione può essere unilaterale o bilaterale, con un’incidenza simile 14.I risultati della riduzione incruenta sono generalmente scar-si, con un elevato rischio di rigidità, rilussazione 1 15 e ne-crosi avascolare 13 16. Tuttavia, anche le riduzioni cruente sono gravate da un’elevata incidenza di rigidità, necrosi avascolare e recidiva 1 16.Nei casi di lussazione d’anca monolaterale, la maggior parte degli autori concorda sull’indicazione alla riduzio-ne 11 14, al fine di rendere simmetrico il bacino, prevenen-do così dismetria degli arti inferiori e scoliosi secondaria. Consigliamo di effettuare la riduzione cruenta utilizzando la via d’accesso anteriore 16, facendo attenzione a preser-vare l’apporto vascolare 16 (viene descritta un’incidenza

di necrosi avascolare del 70%); qualora persistesse una rigidità si può associare l’osteotomia del femore prossi-male 14-16. Consigliamo inoltre di eseguire l’intervento tra i 6 mesi e l’anno di età, poiché con la crescita la riduzione diventa più difficile e l’intervento più complesso 13. Nei casi di lussazione bilaterale vi sono paresi discordanti sull’opportunità di eseguire la riduzione. Noi, in accordo con StClair e Zimbler 15, riteniamo che vi sia indicazione alla riduzione cruenta in caso di pazienti con una buo-na motilità delle anche, con minore coinvolgimento degli arti superiori e dai quali ci si possa aspettare una buona deambulazione (Fig. 1 A-B). Consigliamo di effettuare le riduzioni in tempi diversi, visto il rischio peri-operatorio connesso ad ogni singola procedura, mentre altri auto-ri suggeriscono di eseguirle contemporaneamente 1. Nel post-operatorio viene applicato per 10-12 settimane un apparecchio gessato pelvipodalico, che mantiene le anche abdotte e stabilizza la riduzione. Segue poi un adeguato periodo rieducativo e un’adeguata tutorizza-zione 13 15.Dopo la riduzione cruenta dell’anca può persistere un’in-congruenza tra acetabolo e testa femorale, che però in qualche caso può evolvere in un miglioramento sponta-neo 14. Nei casi in cui non si ottenga un ottimale rimodel-lamento dell’anca e persistano alterazioni della copertura

FIGURA 1A.Paziente di 4 mesi, con artrogriposi: piede torto e lussazione bilaterale, è stata eseguita correzione del piede torto e riduzione cruenta dell’anca bilaterale.

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TRATTAMENTO DELLE DEFORMITÀ DEGLI ARTI INFERIORI NEI PAZIENTI AFFETTI DA ARTROGRIPOSI S127

dell’acetabolo e dell’orientamento dell’epifisi si esegui-ranno, preferibilmente tra i 4 ei 5 anni di età 14, osteoto-mie femorali e/o osteotomie pelviche.

GinocchioIl coinvolgimento del ginocchio nei pazienti con artrogri-posi può manifestarsi sotto forma di deformità in flessione o in estensione (Fig. 2 A); queste ultime vanno dal sempli-ce recurvatum, alla sublussazione e lussazione. Le rigidità in flessione sono più comuni di quelle in estensione (il 22-67% 17, contro il 6-56% 17 18 dei casi), sono più resistenti al trattamento e portano a maggiori disabilità deambula-torie 17. Tra le deformità in estensione le lussazioni hanno un incidenza di circa il 4% 4.Le deformità in flessione coinvolgono soprattutto gli ischio-crurali, la capsula posteriore e il legamento crociato poste-riore  19. Le epifisi sono ipoplasiche alla nascita, ma non sono deformate; la deformità è secondaria all’atteggia-mento prolungato in flessione e può portare a un maggiore rischio di sublussazione tibiale posteriore durante le mano-vre correttive 20. L’effettiva forza del quadricipite influenza la prognosi deambulatoria del paziente e dovrebbe essere oggetto del lavoro fisioterapico, visto che una sua debolez-za può precludere un miglioramento funzionale nonostante si ottenga un aumento dell’arco di movimento 19 21.Il trattamento iniziale si basa su apparecchi gessati pro-gressivi, valve e terapia fisica 19 21 e porta buoni risultati in circa il 25% dei casi, soprattutto in caso di deformità lievi 17. Nei casi che non rispondono, consigliamo di effet-tuare il trattamento chirurgico all’età di 10-11 mesi; altri autori suggeriscono invece di attendere i 2-3 anni 4 9.La chirurgia prevede il release degli ischiocrurali media-li e laterali ed eventualmente della capsula posteriore 1 17; esistono pareri discordanti sul release del legamento

crociato posteriore e dei legamenti collaterali perché ne può derivare un maggior rischio di instabilità 1 17 19. Nel post-operatorio è consigliabile confezionare un apparec-chio gessato in posizione non forzata, effettuando un’e-stensione graduale con progressive gypsotomie 17 (Fig. 2 B). Il release delle parti molli garantisce generalmente un miglioramento dell’estensione del ginocchio e della fun-zione, ma è gravato da un alto tasso di recidiva della deformità 17.Qualora il release non sia sufficiente, e in caso di de-formità severe o recidivanti, è indicata l’osteotomia di estensione del femore distale 1 4 22. Spesso viene effettuata un’osteotomia di accorciamento, con asportazione di un trapezio d’osso a base anteriore, per ridurre la tensione sul fascio vascolonervoso 1. Anche per questa procedura è riportato un alto tasso di recidiva (35-38%), legato al rimodellamento periostale e al riallineamento della fisi nei pazienti con immaturità scheletrica 22.

FIGURA 1B.Ottimo risultato a 5 anni.

FIGURA 2A.Ginocchio con deformità in flessione o in estensione.

FIGURA 2B.Gypsotomia correttiva in paziente operato di osteotomia di estensione del femore distale.

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Nei casi più gravi si possono eseguire correzioni gradua-li con fissatore esterno di Ilizarov 20, tuttavia, il tasso di complicanze è notevole (fratture, infezioni dei tramiti del-le fiches) 20.Lavori recenti hanno descritto l’uso di placche da epifi-siodesi posizionate anteriormente sulla fisi del femore distale  18 per ottenere una progressiva correzione delle deformità in flessione. La tecnica è meno invasiva rispetto ad altre procedure, non richiede immobilizzazione, può essere associata al release dei tessuti molli ed ha un bas-so tasso di complicanze. Sono stati riportati buoni risultati per deformità inferiori ai 45 gradi 18.La presenza di uno pterigio complica notevolmente il trat-tamento, poiché il fascio neurovascolare è accorciato e circondato da una fascia fibrosa 20.Nelle deformità in estensione 23 24 sono coinvolti soprattut-to il muscolo quadricipite, la capsula anteriore e i tessuti periarticolari che sono retratti. Se anche la bandelletta ileo-tibiale è retratta, ne derivano la rotazione esterna e il valgismo del ginocchio 23, l’intero apparato estensore tende ad essere dislocato lateralmente e la rotula si lussa lateralmente e superiormente 23; questo porta un minore stimolo per lo sviluppo della troclea femorale e un ritardo dell’ossificazione rotulea.Il trattamento per le deformità in estensione dovrebbe es-sere iniziato precocemente tramite mobilizzazione passi-va, apparecchi gessati e ortesi 21. Nel 5-23% dei casi 17, tale trattamento conservativo non porta un miglioramen-to significativo. In questi casi e qualora si abbia un gi-nocchio che non riesce a flettere oltre i 35° si consiglia l’allungamento chirurgico del quadricipite, da effettuarsi preferibilmente tra i 4 e i 6 mesi di età 21 23 o comunque prima che il paziente inizi a camminare.Per quanto riguarda gli interventi a livello del quadricipite, vi è discordanza in letteratura circa la tecnica chirurgica da utilizzare 21. L’allungamento a cielo aperto 21 23 preve-de un accesso anteriore con plastica a Z o a V-Y del tendi-ne del quadricipite e capsulotomia anteriore, ma è grava-to dal rischio di retrazione cicatriziale. Roy e Crawford 25

hanno descritto un allungamento percutaneo attraverso tre incisioni (per la fascia del retto femorale, per il retinacolo mediale e per quello laterale). Altri autori suggeriscono un approccio mini-open con incisione mediana verticale tramite la quale si esegue la tenotomia del tendine del quadricipite e eventualmente la capsulotomia anteriore 8.Il problema principale dell’allungamento del tendine del quadricipite è il rischio di iper-allungamento e di debolez-za dell’apparato estensore che ne possono derivare  21. Per tale motivo, nei casi di lussazione del ginocchio, un’altra opzione è quella di effettuare un’osteotomia fe-morale in accorciamento combinata ad artrotomia e ri-duzione della lussazione del ginocchio 24: tale procedura ridurrebbe la necessità di allungare il muscolo quadrici-

pite e quindi limiterebbe il rischio di iperallungamento e debolezza muscolare.

PiedeIl coinvolgimento del piede è presente nel 80-90% dei bambini con amioplasia 4. Nel 90-96% si tratta di piede equino-varo-supinato, nel 3-10% di un astragalo verticale congenito, mentre più raramente è presente una deformi-tà in equinismo4. Si tratta per lo più di deformità rigide, difficili da trattare e con elevato rischio di recidiva 26.L’obiettivo del trattamento deve essere realistico, ed è quello di ottenere un piede non dolente con appoggio plantigrado 26.Il trattamento iniziale prevede manipolazioni, l’applica-zione di ortesi in materiale termoplastico e il confezio-namento di apparecchi gessati  26. È possibile avvalersi della metodica di Ponseti (protocollo originale o modifi-cato), confezionando una serie di gessi che correggono progressivamente le deformità, associati a tenotomia per-cutanea del tendine d’Achille e successivamente a tutori in abduzione 26. Vengono riportati discreti risultati per i casi di artrogriposi distale, mentre vi è discordanza circa l’efficacia della metodica per i pazienti con amioplasia.Altra possibilità è il release dei tessuti molli. Alcuni autori suggeriscono solo il release postero-mediale, ma questo è gravato da una recidiva della deformità nel 27-30% dei casi. Altri autori consigliano invece un release circon-ferenziale, associato a resezione tendinea ed eventuale fissazione con fili di Kirschner, con un rischio di recidive riportato nell’8% dei casi 27. Spesso viene consigliato, per ridurre il rischio di recidiva, l’uso di un tutore gamba-piede per lunghi periodi.Nei pazienti con età maggiore di 1-2 anni, oltre al relea-se dei tessuti molli possono essere associate delle osteoto-mie (Evans, Lichtblau, ecc.).Altra possibilità chirurgica è la talectomia, cioè l’aspor-tazione chirurgica dell’astragalo con l’obiettivo di ridurre la tensione dei tessuti molli e correggere più agevolmente la deformità. Tale procedura viene consigliata da alcuni autori come trattamento primario 28. Considerato il rischio di complicanze a lungo termine e l’elevato rischio di reci-diva (65-70% dei casi 28), consigliamo di eseguirlo come ultima opzione e in caso di recidiva della deformità 28 29.Infine, la correzione mediante fissatore esterno di Iliza-rov permette correzioni progressive per le deformità più gravi e complesse 29, consentendo la correzione di tutte le deformità (supinazione, equinismo, varismo, deformità in adduzione e cavismo). Si ottengono ottimi risultati ma sussiste un alto rischio di complicanze (lesioni nervose, sublussazione tarsali, distacchi epifisari della tibia distale, infezioni dei tramiti, ecc.), per cui la procedura dovrebbe essere effettuata solo in centri con esperienza e riservata solo ai casi di grave deformità 29.

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TRATTAMENTO DELLE DEFORMITÀ DEGLI ARTI INFERIORI NEI PAZIENTI AFFETTI DA ARTROGRIPOSI S129

Per le forme di astragalo verticale congenito, è indicato, in caso di fallimento del trattamento conservativo, il relea-se dei tessuti molli con riduzione delle lussazioni articolari e sintesi con fili di Kirschner percutanei 30. Si tratta gene-ralmente di una deformità rigida, resistente al trattamen-to e con elevato tasso di recidiva per cui è consigliabile l’utilizzo a lungo termine di plantari con sostegno della volta plantare.Eventuali interventi chirurgici come osteotomie correttive, talectomie, artrorisi secondo Grice e duplice/triplice ar-trodesi1verranno eseguite dopo i 10-12 anni a maturità scheletrica raggiunta.

CONCLUSIONIIl coinvolgimento dell’arto inferiore è frequente nei pa-zienti affetti da artrogriposi. La fisioterapia deve essere iniziata precocemente dopo la nascita e il trattamento chirurgico, indicato solo per le deformità residue e le lus-sazioni, è da eseguirsi preferibilmente nel primo anno di vita, per consentire un miglioramento funzionale ed il cor-retto sviluppo del bambino.Va sottolineato che la deambulazione dipende dalla gra-vità dell’interessamento degli arti inferiori e del rachide,

ma anche da fattori psicosociali e dalla precocità e ade-guatezza di un approccio multidisciplinare 10 11 19.Il piano terapeutico dovrebbe prendere in considerazione anche la presenza di comorbidità mediche, come la diffi-coltà nell’intubazione del paziente o nel posizionamento di un accesso venoso, l’aumentato rischio di problemati-che da ab-ingestis nel postoperatorio, ecc. 4Consigliamo di iniziare il trattamento a partire dalle defor-mità distali, correggendo quindi le deformità del piede all’e-tà di 3-4 mesi, del ginocchio all’età di 6-8 mesi e dell’anca all’età di 10-12 mesi. Non consigliamo di intervenire con-temporaneamente su più articolazioni per la complessità delle procedure e la difficoltà di bilanciare le correzioni 8 9.L’insieme dei trattamenti permette di ottenere un migliora-mento della motilità e della forza muscolare 10 13. Inoltre spesso i pazienti sviluppano meccanismi compensatori che li aiutano nella deambulazione e nello svolgere le normali attività nella vita quotidiane 1.Tuttavia le contratture hanno un elevato tasso di recidiva, tanto che la capacità di deambulare può migliorare in breve termine dopo gli interventi, ma col tempo andare incontro a un peggioramento progressivo man mano che il paziente cresce e le deformità recidivano 19.

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S. STILLI ET AL.

S130

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C. RUOSI, S. LICCARDO, G. COLELLADipartimento di Sanità Pubblica Sezione di Ortopedia e Traumatologia Università degli Studi di Napoli “Federico II”

Indirizzo per la corrispondenza:Carlo RuosiDipartimento di Sanità Pubblica Università degli Studi di Napoli “Federico II”via S. Pansini 5, 80131 NapoliE-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S131-S134 S131

di vista economico, in quanto costituisce la causa più costosa di assenza e inabilità al lavoro, sia in termi-ni di spese mediche che di mancato ritorno all’attività precedente. Fattore aggravante di questo dato basale è quando la popolazione affetta è costituita da atleti; qui l’obbiettivo del medico dovrebbe essere quello di favorire un ritorno rapido all’attività sportiva, senza per questo porre le basi per un aggravamento ulteriore futu-ro della patologia.L’approccio al paziente dovrebbe essere escludere pa-tologie “red flags” che richiedono cure mediche urgenti e che possono manifestarsi inizialmente con lombalgia, come ulcera penetrante posteriore, pancreatite, calcoli re-nali, aneurisma dell’aorta addominale. Successivamente il paziente è valutato secondo un algoritmo diagnostico e terapeutico 1 2. Questo lavoro si concentrerà sulla gestione delle lombal-gie in una popolazione sportiva “diversamente giovane”; tale termine in letteratura si riferisce ad individui con età compresa tra i 40 e gli 80 anni 3. In questi pazienti si ri-scontra spesso un reperto radiografico di spondilo-artrosi con la concomitanza di altre patologie quali compressio-ne spinale, osteoporosi e aterosclerosi che contribuiscono ad aggravare il quadro clinico.

EPIDEMIOLOGIA E FATTORI DI RISCHIOLa lombalgia costituisce la seconda causa più comune di ricorso al medico, e la quinta causa più comune di invio allo specialista ortopedico. Nei paesi industrializzati, la prevalenza della patologia nel corso della vita è stata stimata tra il 60% e il 90% della popolazione e potrebbe essere attribuita a diverse cause 4 5. Colpisce le donne più degli uomini ed ha un picco di incidenza di età compreso tra i 40 e i 50 anni. Attraverso diversi studi, possiamo affermare che l’incidenza della lombalgia in una popo-lazione sportiva “diversamente giovane” è compresa tra l’1% e il 30%. Il danno in sede lombare è stimato tra il 10% e il 15% dei traumi sportivi in tale popolazione 6. I ginnasti e i “wrestlers” sono considerati quelli più a ri-schio. In uno studio su tennisti professionisti si stima che almeno il 40% degli atleti ha perso una partita durante la propria carriera per un episodio di lombalgia 7.È molto importante considerare il rapporto tra i sintomi del paziente e l’attività fisica svolta. Chiaramente gli atleti più anziani sono più soggetti ad infortuni di giovani che svolgono lo stesso sport  8 e la sintomatologia dolorosa tende a permanere più a lungo.Altri fattori predittivi per lombalgia nell’atleta più anziano sono costituiti da: precedenti interventi chirurgici, attività lavorativa pesante durante la vita ed elevato BMI  9 10. Ad esempio la menopausa chirurgica o la riabilitazione inadeguata dopo chirurgia in sede pelvica o addominale possono dare esiti a distanza di lombalgia.

LA LOMBALGIA NELLO SPORTIVO “DIVERSAMENTE GIOVANE”Low back pain in the “middle-aged” athlete

RiassuntoQuesto lavoro si concentrerà sulla gestione delle lombalgie in una popolazione sportiva “diversamente giovane”; tale termine in letteratura si riferisce ad individui con età compresa tra i 40 e gli 80 anni. In questi pazienti si riscontra spesso un reperto radiografico di spondilo-artrosi con la concomitanza di altre pa-tologie quali compressione spinale, osteoporosi e aterosclerosi che contribuiscono ad aggravare il quadro clinico.L’approccio al paziente dovrebbe essere escludere patologie “red flags” che richiedono cure mediche urgenti. Successiva-mente il paziente è valutato secondo un algoritmo diagnostico e terapeutico. Sono infine illustrati i principi riabilitativi utilizzati nella prevenzione e nel trattamento degli atleti con patologie del rachide lombare.Parole chiave: Lombalgia, atleta adulto, riabilitazione

SummaryThis work will focus on the management of low back pain in an athletic population “differently young”; this term in literature re-fers to people aged between 40 and 80 years. In these patients, there is often a radiographic evidence of spondyloarthrosis with the combination of other diseases such as spinal cord compres-sion, osteoporosis and atherosclerosis contributing to aggravate the clinical picture. The approach to the patient’s disease should be ruled out “red flags” that require urgent medical attention. Subsequently, the patient is evaluated according to a diagnostic and therapeutic algorithm. Finally, we discuss the rehabilitative principles used in the prevention and treatment in athletes with low back pain.Key words: Low back pain, adult athlete, rehabilitation

INTRODUZIONELa lombalgia può essere una situazione clinica disabi-litante per la vita del paziente ed ha un grande impat-to sulla società nel suo complesso, anche da un punto

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C. RUOSI ET AL.

S132

APPROCCIO DIAGNOSTICO E TERAPEUTICOIl primo passo nella valutazione dell’atleta anziano con lombalgia è quello di escludere diagnosi non correlate alla colonna, quindi neoplasie, tumori o patologie sistemi-che come l’artrite reumatoide 1. Successivamente è fonda-mentale escludere una compressione della cauda equina (CEC), una condizione emergente che è descritta come un complesso di mal di schiena, sciatica bilaterale, ane-stesia “a sella” e debolezza muscolare degli arti inferiori che può evolvere in paraplegia con incontinenza fecale e urinaria 11; tale diagnosi è spesso effettuata sulla base dell’esame clinico e della RMN.Una volta escluse tali patologie, che costituiscono un pe-ricolo di vita imminente per il paziente, il medico può procedere ad individuare le altre possibili cause di lom-balgia. Molti individui miglioreranno pur non avendo una diagnosi specifica. Per fare diagnosi differenziale di lom-balgia è utile considerare le seguenti sindromi cliniche:• Lesione muscolare e distrazione legamentosa: sono le

più comuni cause di lombalgia isolata. Non esiste an-cora in letteratura un riscontro sulle specifiche strutture anatomiche coinvolte nella lesione. Può derivare da un eccessivo range o forza di movimento, e non determi-na instabilità del rachide o sintomi neurologici 7. Tale condizione spesso migliora con trattamento conserva-tivo, che comprende riduzione o sospensione dell’at-tività fisica, farmaci anti-infiammatori non steroidei, terapie topiche e riabilitazione. Tuttavia se i sintomi non regrediscono, è necessario un approfondimento diagnostico.

• Ernia del disco: è spesso presente con lombo sciatal-gia. Il disagio può essere provocato dalla flessione della colonna lombare, o da manovre che aumenta-no la pressione intra-addominale come colpi di tosse, starnuti o contrazione nella defecazione. Le radici più comunemente coinvolte sono L5-S1. Il test di Lasegue e il sollevamento della gamba tesa (SLR) controlatera-le sono essenziali per fare diagnosi. L’esame clinico non è completo se non sono stati valutati i segni di tensione, il cui principio è quello di provare a ricreare i sintomi radicolari avvicinando il nervo infiammato contro l’ernia. Alcuni studi hanno dimostrato il test SLR avere una sensibilità del 90% nella diagnosi di ernia del disco 12. Il coinvolgimento della radice nervosa di L4 è provato con il test di tensione del nervo femorale: si pone il paziente in posizione prona con estensione dell’anca e flessione del ginocchio; dolore localizzato a livello del poplite è un segno di positività. I pazienti affetti da protrusione discale possono essere trattati inizialmente con una terapia conservativa; in mancan-za di esiti favorevoli si ricorre alla chirurgia previa valutazione RMN. Il trattamento chirurgico dell’ernia del disco sembra avere ottimi risultati nel paziente at-

letico 13. In un lavoro retrospettivo su 60 atleti Olimpici trattati con microdiscectomia, 53 pazienti ritornarono al livello precedente di attività e i tempi di ripresa era-no meno di 6 mesi 14.

• Spondiloartrosi: è molto frequente nell’atleta adulto, soprattutto superiore ai 60 anni di età. Clinicamente il paziente può presentare claudicatio neurogena, do-lore posteriore alla coscia o più raramente sciatalgia. Le prime fasi del processo artrosico del rachide lom-bare comprendono disidratazione del nucleo polposo e degenerazione dell’anello fibroso. Con la prima vi è una perdita di proteoglicani nel nucleo e una mino-re capacità del disco di attutire la pressione. I nervi sensoriali che innervano i dischi sono spesso implicati nel dolore associato al processo artrosico. Successiva-mente l’anello fibroso può restringersi diminuendo lo spazio per il midollo spinale e contemporaneamente a questo processo il legamento giallo insieme con la capsula delle faccette articolari adiacenti andranno incontro ad ipertrofia che contribuirà alla stenosi del canale midollare. Il risultato finale di questo processo degenerativo è la compressione del midollo central-mente e delle radici nervose nel recesso laterale. La spondilo artrosi potrebbe anche essere accompagna-ta da listesi.

Il paziente con stenosi spinale potrebbe essere tratta-to inizialmente con trattamento conservativo mentre le indagini strumentali devono essere limitate a quei pazienti con dolore persistente. Gli antiinfiammatori possono essere di sicuro utili nel ridurre i sintomi, ma non cambieranno il processo degenerativo che si sta determinando. Nel caso di sintomatologia a lungo ter-mine e positività all’imaging, il paziente con stenosi vertebrale potrebbe essere candidato alla chirurgia. Tuttavia è da considerare che l’atleta che si sottopone all’intervento chirurgico non deve aspettarsi di ritor-nare allo stesso livello di attività. Il paziente con so-spetta spondilolistesi deve essere valutato con esami radiografici per valutare il grado di instabilità, che se elevato necessita di chirurgia.

• Lombalgia non specifica, nei pazienti in cui non c’è un’elevata correlazione tra i sintomi clinici e i risultati strumentali. Tale condizione è divenuta facilmente ri-scontrabile con le premature richieste di RMN.

Graw et al. 1 hanno ideato un algoritmo diagnostico per la diagnosi e il trattamento della lombalgia negli atleti. Il paziente sportivo “diversamente giovane” con lombalgia, dolore irradiato alla gamba viene sottopo-sto inizialmente a trattamento conservativo, costituito da anti-infiammatori non steroidei e attività fisica con-trollata. Nei casi più gravi si può prescrivere riposo a letto, ma in generale si raccomanda la mobilizzazione rapida e si stimola l’attività fisica. Si possono associare

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LA LOMBALGIA NELLO SPORTIVO “DIVERSAMENTE GIOVANE”

S133

terapie topiche e una graduale bonificazione della mu-scolatura lombare. Indipendentemente dal problema di base molti pazienti (circa 80-90%) miglioreranno e non richiederanno indagini o trattamenti ulteriori; il processo di guarigione può richiedere un tempo più o meno lungo, tuttavia sia il paziente che il medico devono attendere almeno 6-8 settimane per il migliora-mento. Successivamente l’atleta dovrebbe condurre un follow-up ed essere informato sui metodi di prevenzio-ne. Nel caso in cui la sintomatologia non regredisca con il solo trattamento conservativo è necessario richie-dere una RMN per indagare sulle eventuali cause ed indirizzare il paziente verso un trattamento più speci-fico. Nella Figura 1 è illustrato l’algoritmo diagnostico terapeutico sec Graw et al. della lombalgia nell’atleta “diversamente giovane”.

DIAGNOSTICA PER IMMAGINIL’esame radiografico è utile per escludere una frattura vertebrale e patologie a rischio per la vita come tumori o infezioni. È tuttavia indicato per valutare un’artrosi dege-nerativa della colonna o una sospetta ernia discale.La TC fornisce sicuramente un quadro più chiaro dell’ar-chitettura ossea ed è generalmente richiesta in un pazien-te con trauma noto. L’utilizzo della TC per la valutazione di problemi cronici del rachide è stato sostituito dall’uso della RMN, che rap-

presenta il “gold standard” per i pazienti con lombalgia in cui è fallito il trattamento conservativo. Sebbene la RMN costituisca una metodica di indagine altamente costosa, si rivela particolarmente efficiente per la definizione dei tessuti molli della colonna vertebrale. La patologia discale è ben definita sia sui tagli assiali che su quelli sagittali e le immagini in T2 sono particolarmente utili nella valutazione dell’idratazione del disco; una diminuzione dell’intensità del segnale in T2 o un’immagine “dark disk” sono signifi-cative di una degenerazione discale. Le immagini sagittali mostreranno pervietà del forame neurale ed eventuali pro-trusioni discali posteriori. Le sequenze assiali confermano le dimensioni del canale, i legamenti, le faccette articolari, e l’ingerenza delle singole radici nervose. Borenstein et al. 15 hanno dimostrato l’esistenza di un’elevato numero di risultati patologici in RMN di pazienti asintomatici: in più del 20% di tali pazienti sono state diagnosticate ernie del disco. Segni di degenerazione sono presenti in più del 50% della popolazione maggiore di 40 anni (15-16).Nei pazienti che non possono effettuare una RMN, la mielografia può avere un significato importante in caso di sospetta compressione nervosa. La tecnica prevede l’inie-zione di mezzo di contrasto radiopaco nel sacco durale e la successiva scansione con TC. Tuttavia il suo impiego è diminuito data la sua naturale invasività e l’elevato nu-mero di complicazioni quali mal di testa, nausea, vomito e convulsioni.

FIGURA I.Algoritmo diagnostico terapeutico lombalgia dell’atleta “diversamente giovanesec Graw et al.

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C. RUOSI ET AL.

S134

RIABILITAZIONE E PREVENZIONELo sportivo con lombalgia dovrebbe essere gestito con diverse tecniche tra cui allenamento aerobico, stretching, calo di peso e rafforzamento muscolare. Il fitness cardio-vascolare migliora il metabolismo degli acidi grassi, ab-bassa il livello di grassi, migliora l’afflusso di sangue ai muscoli, la gittata cardiaca e persino la flessibilità dei di-schi intervertebrali 17. In termini di rafforzamento muscola-re, recentemente si è diffusa il concetto di “Core strenght” e “Core stability”.“Core stability” può essere definita come la capacità del complesso anca-lombo pelvico di resistere alle solleci-tazioni e garantire la stabilità. Ciò è importante per la nostra popolazione di pazienti poiché questo stato fisio-logico è necessario per evitare lesioni del rachide lom-bare. Nell’anatomia lombo-pelvica sono incluse strutture legamentose e ossee passive ed elementi muscolari attivi. Questi ultimi hanno l’obbiettivo di migliorare la stabilità influenzando la pressione intra-addominale, le forze com-pressive della colonna e la rigidità muscolare dell’anca e del tronco (18-19). I gruppi muscolari raggruppati in que-sto processo sono: il diaframma e i muscoli del pavimento pelvico (per aumentare la pressione intra-addominale), il retto dell’addome, il trasverso, i grandi glutei, il sacro spi-nale e il multifido lombare, i bicipiti femorali (per gli atti di flesso estensione del tronco).“Core strenghtening” dovrebbe iniziare con la colonna in posizione neutra e con esercizi di tonificazione isome-trici. Rivedendo la letteratura, vi sono diversi programmi specifici che potrebbero essere prescritti. Secondo questo modello sono preferiti esercizi specifici funzionali volti

a ritonificare muscoli inibiti e migliorarne la resistenza. Nella radiculopatia lombare, programmi mirati di tonifi-cazione hanno dimostrato nel 96% dei casi risultati buoni o eccellenti. Tra i benefit dell’atleta vi è una stretta corre-lazione tra tonificazione muscolare e funzionalità degli arti inferiori 2-19 20.In generale, quando si programma un ritorno all’attività fisica nell’atleta adulto che è stato affetto da lombalgia,al fine di prevenire recidive e nuovi infortuni, devono essere presi in considerazione quattro criteri fondamentali 3:• riabilitazione con fisioterapia;• riscaldamento pre attività che deve essere di routine;• comprensione della corretta tecnica sportiva;• programmazione dell’attività fisica.

CONCLUSIONILa lombalgia continua ad essere invalidante nella po-polazione generale e negli atleti. Fortunatamente nella maggior parte dei casi è richiesto un trattamento medico conservativo. Nel trattamento dell’atleta con lombalgia è importante un approccio organizzato per la diagnosi e il trattamento 1. La storia clinica e l’esame obbiettivo sono fondamentali, ed è necessario inquadrare rapidamente un paziente con “red flags”. Esclusi tali segni, è compito dell’ortopedico seguire un ordine diagnostico specifico, basandosi in primo luogo sull’esame obbiettivo: in questo modo, sarà meno probabile iniziare un trattamento condi-zionato sulla base dell’imaging. Per pochi pazienti nella popolazione di atleti si fa ricorso alla chirurgia spinale e per tali soggetti deve esistere una concreta aspettativa di ritorno all’attività sportiva precedente.

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G. MEROLLA* **, P. PALADINI*, G. PORCELLINI** U.O Chirurgia Spalla e Gomito, Ospedale “D. Cervesi”, Azienda Sanitaria della Romagna, Ambito Territoriale di Rimini; ** Laboratorio di Biomeccanica “Marco Simoncelli”, Ospedale “D. Cervesi”, Azienda Sanitaria della Romagna, Ambito Territoriale di Rimini

Indirizzo per la corrispondenza: Giovanni MerollaOspedale “D. Cervesi”Azienda Sanitaria della Romagna Ambito Territoriale di Rimini via L.V. Beethoven 5, 47841 Cattolica (RN)E-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S135-S138 S135

co. Episodi di lussazione gleno-omerale dopo i 50 anni, infatti, possono determinare anche lesioni associate della cuffia dei rotatori che non sono sempre agevoli da trattare e hanno una prognosi funzionale talora meno favorevo-le per la severità della lesione tendinea 1. Inoltre non è infrequente, riscontrare nei gravi traumi con lussazione gleno-omerale in soggetti “over” 50, lesioni nervose da trazione a carico del nervo ascellare o fratture da avulsio-ne della grande tuberosità. In passato abbiamo affrontato il problema, pubblicando i risultati della nostra casistica in pazienti trattati per instabilità gleno-omerale e lesioni di cuffia 1. Tali risultati si sono confermati negli anni suc-cessivi, non riscontrando nella pratica clinica differenze significative rispetto al 2007. In questo lavoro passiamo in rassegna dapprima la biomeccanica della spalla insta-bile ed il ruolo della cuffia dei rotatori e poi analizziamo i risultati del trattamento chirurgico dell’instabilità gleno-omerale con lesioni della cuffia dei rotatori.

BIOMECCANICA GLENO-OMERALE E CUFFIA DEI ROTATORILa spalla costituisce l’articolazione più mobile e meno stabile del corpo umano, ove la ipermobilità e la stabili-tà sono bilanciati da una complessa interazione di mec-canismi statici e dinamici  2-4. Un grande contributo alla stabilità dinamica è dato dal meccanismo di “concavi-tà-compresisone” esercitato dalla cuffia dei rotatori  5 6. Questo meccanismo stabilizza la spalla sia ad un grado di movimento intermedio, in cui le strutture capsulolega-mentose sono lasse, sia nei gradi estremi del movimento, attraverso l’attività muscolare che limita il movimento e riduce le tensioni sui legamenti gleno-omerali 5 7. L’attivi-tà dei muscoli della spalla bilancia l’azione delle forze traslazionali destabilizzanti, con quelle compressive che tendono a stabilizzare, creando un perfetto equilibrio in tutto l’arco di escursione della gleno-omerale 8-10. Quan-do l’azione bilanciata dei muscoli della cuffia fallisce può insorgere una instabilità gleno-omerale con variabili gra-di di gravità. Studi su cadaveri hanno dimostrato che una riduzione del 50% di attività dei muscoli della cuffia dei rotatori produce un pari rischio percentuale di lussazione gleno-omerale, per di più una piccola lesione del labbro glenoideo puà indurre una lussazione completa di spalla in presenza di una cuffia anatomicamente insufficiente 11 12.Questi dati percentuali in vivo non differiscono molto da quelli osservati nella pratica clinica in pazienti di età pari o superiore a 45 anni 1. La possibilità di riscontrare una lesione di cuffia dopo una lussazione anteriore fu già po-stulata nel 1926  13 e approfondita negli anni successi-vi, riscontrando che il fallimento della cuffia posteriore (“meccanismo posteriore”) dopo una lussazione anteriore in pazienti di età superiore a 60 anni potesse rendere ragione delle successive recidive di instabilità 14, mentre la frequenza complessiva di lesione di cuffia dopo una

INSTABILITÀ GLENO-OMERALE E LESIONI DELLA CUFFIA DEI ROTATORI NELLO SPORTIVO AMATORIALEGlenohumeral instability and rotator cuff tears in amateur sportsmen

RiassuntoL’instabilità gleno-omerale nello sportivo amatoriale rappresenta un argomento di estremo interesse sia per la frequenza delle le-sioni che per la sempre più diffusa pratica dell’attività sportiva in persone di età non giovanissima. In questo lavoro descriviamo dapprima la biomeccanica gleno-omerale e il ruolo della cuffia dei rotatori nella instabilità gleno-omerale, per poi analizzare i risultati dell’approccio artroscopico nei casi in cui la lussazione gleno-omerale ha determinato una lesione della cuffia dei rotatori.Parole chiave: spalla, instabilità, Bankart, cuffia dei rotatori, ar-troscopia

SummaryGlenohumeral instability in amateur sportsmen is a topic of great interest to both the frequency of injuries and the increase of sport activity in middle age subjects. In this paper we describe the biomechanics of the glenohumeral joint and the role of the rota-tor cuff in glenohumeral instability and we analyze the results of arthroscopic approach in cases where glenohumeral dislocation has led to a lesion of the rotator cuff.Key words: shoulder, instability, Bankart, rotator cuff, arthro-scopy

INTRODUZIONEL’instabilità gleno-omerale nello sportivo amatoriale rap-presenta un argomento di estremo interesse sia per la frequenza delle lesioni che per la sempre più diffusa pra-tica dell’attività sportiva amatoriale in persone di età non giovanissima, ove il rischio di lesioni articolari e tendinee è più alto e complica l’approccio diagnostico e terapeuti-

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G. MEROLLA ET AL.

S136

lussazione anteriore varia dal 7% al 32% 15 incrementan-do significativamente con l’età.

VALUTAZIONE CLINICA E IMAGINGLa diagnosi clinica di spalla instabile e lesione della cuffia viene posta sulla base del dato anamnestico di lussazione gleno-omerale anteriore con positività dei segni clinici di:• Apprensione anteriore nelle manovre di abduzione e

rotazione esterna 16;• Test di relocazione 17;• Test del cassetto anteriore 18;• Test di forza del sovraspinoso (“Jobe test”) 19;• Test di forza dell’infraspinato (“Infraspinatus strength

test”) 20.In tutti i casi è opportuno eseguire radiogrammi conven-zionali nelle 3 posizioni (“trauma series”) per escludere delle lesioni ossee e poi procedere con una valutazione RMN per identificare un distacco capsulo-labrale (lesione di Bankart) e una rottura di cuffia associata (Fig. 1). La lesione di cuffia interessa le componenti posteriori (sovra-spinoso e infraspinato), coinvolgendo molto raramente il sottoscapolare 1. L’ecografia presenta una pari affidabili-tà nel riconoscere una lesione tendinea mentre è difficile che identifichi una lesione articolare capsulo-labrale.

INDICAZIONI CHIRURGICHEL’indicazione chirurgica viene posta in presenza dei se-gni clinici sopra descritti con riscontro di lesioni anatomi-che dei tendini della cuffia e del cercine antero-inferiore all’esame RMN. In pazienti di età media e sportivi noi consigliamo l’approccio artroscopico perché garantisce la mininvasività e il trattamento di entrambe le lesioni evitando un esteso approccio chirurgico aperto. I limiti della chirurgia artroscopica sono rappresentati dalle gra-vi lesioni irreparabili della cuffia postero-superiore ove si rendono necessari interventi chirurgici di trasposizione tendinea (gran dorsale, gran rotondo o entrambi). La pre-senza di fratture (tuberosità e glenoide) può complicare il quadro clinico e richiedere anche interventi di sintesi, an-che questi praticabili con assistenza artroscopica in casi selezionati. Nelle instabilità complesse, ove può associar-si anche una lesione di Hill-Sachs profonda, l’approccio artroscopico può presentare dei limiti, per la difficoltà o impossibilità a praticare una procedura di “remplissage” capsulotendineo con il tendine dell’infraspinato per tratta-re il difetto osseo della testa omerale e ridurre il rischio di recidiva; va sottolineato, tuttavia, che in presenza di una instabilità associata a lesione di cuffia, la sutura tendinea può rappresentare il principale fattore di stabilità gleno-omerale, cui contribuisce anche la rigidità residua che si riscontra in questi pazienti dopo il primo e talora unico episodio di lussazione. Nei pazienti in età più avanzata (> 70 anni) ove la lussazione ha prodotto una rottura irre-

parabile di cuffia con spalla pseudoparalitica va conside-rata la sostituzione totale della spalla con protesi inversa.

APPROCCIO ARTROSCOPICO: TECNICA CHIRURGICAL’intervento viene eseguito in anestesia generale precedu-ta da un blocco interscalenico del plesso brachiale (“blen-ded anesthesia”). Il paziente è posizionato in decubito laterale con l’arto a 70° di abduzione, 15° di elevazione anteriore e 40° di inclinazione posteriore e una trazione di circa 5 kg al braccio. Si utilizzano i portali classici postero-laterale, anterosuperiore e anteroinferiore cui va aggiunto un portale laterale per la fase subacomiale. La procedura inizia con l’ingresso dell’ottica dal portale po-steriore, localizzato 1,5 cm inferiore e 1,5 cm mediale al margine acromiale postero-inferiore, poi si crea il portale antero-superiore con una tecnica “inside-out” e il portale antero-inferiore con tecnica “out-in” utilizzando un ago da spinale. Questi tre portali serviranno per eseguire la riparazione del labbro glenoideo anteriore in presenza di una lesione di Bankart o di una eventuale lesione dei legamenti gleno-omerali dal versante omerale (“Humeral avulsion of gelno-humeral ligament, HAGL”), utilizzando di preferenza ancore riassorbibili per il cercine glenoideo e metalliche per la sutura di un HAGL. La procedura di sutura dei tendini della cuffia richiede che l’arto venga posizionato con una abduzione di circa 30° per passare nello spazio subacromiale ove verrà eseguita la sutura tendina utilizzando un ancoraggio metallico (nostra pre-ferenza) o non metallico (peek o riassorbibile). In tutti i

FIGURA 1.RMN in scansione coronale di lesione massiva della cuffia dei rotatori dopo lussazione completa gleno-omerale in un soggetto di 60 anni. Il tendine sovraspinoso è retratto alla giunzione muscolo-tendinea.

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INSTABILITÀ GLENO-OMERALE E LESIONI DELLA CUFFIA DEI ROTATORI NELLO SPORTIVO AMATORIALE S137

casi abbiamo utilizzato nodi a scivolamento sia per le suture capsulari che tendinee. Al termine della procedura l’arto viene immobilizzato in tutore con abduzione di 15° e rotazione neutra per 3 settimane, poi viene concessa la mobilizzazione passiva nel piano scapolare. A 5 setti-mane sono prescritti i movimenti attivi, preferibilmente in piscina riabilitativa e a 8 settimane il rinforzo muscolare.

RISULTATIDiversi studi hanno esplorato gli effetti di una lussazione gleno-omerale sulla cuffia dei rotatori, i cui sintomi più evidenti erano il dolore, debolezza muscolare e in alcuni casi una vera sensazione di “braccio morto 21-24. Tuttavia, l’analisi dei lavori pubblicati negli anni ‘80 e ‘90 21-23 si riferisce a popolazioni molto eterogenee in cui le diverse variabili confondenti rendevano necessaria una partico-lare cautela nella interpretazione dei dati. In alcuni casi, ad esempio, gli autori avevano inizialmente attribuito la impotenza funzionale della spalla ad una potenziale le-sione del nervo ascellare 22, mentre in altri studi la lesione di cuffia è stata diagnosticata solo nei casi sintomatici, mentre nei casi rimasti asintomatici non sono state esegui-te ulteriori indagini diagnostiche 23. I nostri risultati pubblicati nel 2006 1 hanno evidenziato che nella coorte di 50 pazienti di età compresa tra 40 e 60 anni con episodi di lussazione gleno-omerale ed associata rottura di cuffia, vi era una stretta correlazione tra il numero di lussazioni e lesioni del sovraspinoso e sot-tospinoso; la correlazione risultava più forte dopo 7 epi-sodi di lussazione. Non abbiamo riscontrato correlazione significativa tra lesione capsulare o di Bankart e presenza o assenza di lesione di cuffia. In questo sottogruppo inol-tre, abbiamo riscontrato 2 recidive di lussazione gleno-omerale in pazienti con rottura irreparabile di cuffia che

abbiamo trattato con intervento di Bristow-Latarjet. Sulla base dei dati emersi dalla nostra ricerca non possia-mo dare conclusioni definitive se sia la riparazione della lesione isolata di cuffia o la sola stabilizzazione articola-re a conferire stabilità, tuttavia suggeriamo un approccio artroscopico nei casi in cui entrambe le lesioni sono asso-ciate. I risultati che abbiamo descritto dopo trattamento ar-troscopico sono in linea con quelli riportati in altri studi 24

25. In un recente lavoro sono stati anche descritti 2 casi isolati di lesione parziale del sovraspinoso (“PASTA”)  26 dopo lussazione di spalla in atleti professionisti di judo in assenza di lesioni capsulolegamentose, nei quali la ripa-razione artroscopica intratendinea ha dato buoni risultati sulla stabilità articolare e la funzionalità della spalla 27. Altri autori  15 hanno descritto un approccio combinato, artroscopico per la Bankart e mini-open per la cuffia, ma i risultati erano oggetto di controversia perché la coorte di pazienti esaminata era molto ridotta; ciò nonostante gli autori concludono che la lesione di cuffia non influenza il rischio di recidiva. Gli studi finora pubblicati sono tutti retrospettivi e la quasi totalità non include gruppi di con-trollo che potrebbero fornire dati oggettivi da analizzare, confrontare e discutere.

CONCLUSIONIIn pazienti con lesione di cuffia ed instabilità gleno-omerale, la funzione della spalla migliora e la stabilità articolare viene ripristinata nella maggioranza dei casi sottoposti a sutura di cuffia. In presenza di una lesione capsulo-labrale, la riparazione garantisce una significati-vo miglioramento del dolore e della funzione. Noi consi-gliamo un approccio artroscopico ad entrambe le lesioni sebbene non vi siano evidenze in letteratura che permet-tono di trarre conclusioni definitive.

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G. MEROLLA ET AL.

S138

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M. RONGA, G. LA BARBERA, M. VALOROSO, P. CHERUBINOClinica Ortopedica e TraumatologicaDipartimento di Biotecnologie e Scienze della Vita (DBSV)Università degli Studi dell’Insubria, Varese

Indirizzo per la corrispondenza:Mario RongaClinica Ortopedica e TraumatologicaDipartimento di Biotecnologie e Scienze della Vita (DBSV)Università degli Studi dell’InsubriaOspedale di Circoloviale L. Borri 57, 21100 VareseE-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S139-S144 S139

chondral lesions, aim of this review is to analyze the literature comparing the results of different techniques (palliative, repara-tive, reconstructive) as shown in several prospective comparative studies. Finally, a treatment flow chart for the treatment of these lesions is proposed.Key words: chondral lesion, osteochondral lesion, athletes, re-turn to sport activity

INTRODUZIONE Le lesioni cartilaginee sono una delle più comuni cau-se di disabilità permanente degli atleti, pertanto il loro trattamento ha importanti ripercussioni a lungo termine sulla funzionalità articolare e sulla carriera agonistica 1. La prevalenza di tali lesioni in questa popolazione è in media del 36%. Il 40% è asintomatico al momento del-la diagnosi e i difetti condrali in corrispondenza della femoro-rotulea sono più comuni (37%) rispetto a quelli dei condili femorali (35%) e di piatti tibiali (25%). Le lesioni a livello del condilo mediale sono più frequenti rispetto al laterale (68% contro 32%) e quelle a livello rotuleo si presentano in una percentuale maggiore rispetto a quelle trocleari (64% contro 36%). La lesione associata più fre-quente è quella meniscale (47%), seguita dal legamento crociato anteriore (LCA) (30%) e dei due legamenti colla-terali (14%) 2. In uno studio retrospettivo su 25.124 artroscopie di gi-nocchio, Widuchowski et al.  3 hanno riportato un’asso-ciazione di lesioni cartilaginee ad altre lesioni articolari nel 70% dei casi ed in particolare a carico del menisco mediale (37%) e del LCA (36%). Curl et al. 4 hanno notato come la rottura del LCA fosse la principale lesione asso-ciata a condropatia nei pazienti con età inferiore ai 30 anni, mentre la meniscopatia mediale fosse la principale nei pazienti con età superiore ai 30. Levy et al. 5 hanno ri-portato un’incrementata frequenza di lesioni cartilaginee in giocatori di calcio di livello collegiale o professionistico suggerendo che attività fisiche che richiedessero impatti articolari ripetitivi, movimenti di torsione del ginocchio e rapide decelerazioni esponessero ad un maggior rischio di lesioni rispetto alla popolazione generale.È stato dimostrato che un aumento degli stress in carico incrementa il volume e lo spessore della cartilagine arti-colare. In particolare negli atleti è presente un rapporto direttamente proporzionale tra carichi ripetuti durante l’at-tività sportiva e la funzionalità della cartilagine articola-re. Quando la cartilagine non riesce più a rispondere ai sovraccarichi funzionali si instaura il danno tissutale con diminuzione della quantità di proteoglicani, aumento di livello di enzimi catabolici ed apoptosi dei condrociti. Si tratta di una cascata condropenica che porta all’aumento delle pressioni di contatto ed allo sviluppo/progressione di artrosi in associazione o meno a fattori predisponenti quali malallineamenti della femoro-tibiale o femoro-rotu-lea, instabilità e lesioni meniscali 6.

LESIONI OSTEOCONDRALI: RIPARAZIONE E RIGENERAZIONERepair and regeneration of osteochondral lesions

RIASSUNTONegli ultimi anni si è sviluppato un crescente interesse per il trattamento delle lesioni condrali/osteocondrali dell’atleta sia per la loro elevata incidenza che per la frequente disabilità che ne consegue. La scelta del corretto algoritmo diagnostico e tera-peutico dipende da un’accurata valutazione del paziente volta ad identificare non solo la patologia cartilaginea, ma anche le eventuali lesioni associate (lesioni legamentose e/o meniscali, malallineamenti dell’arto o dell’apparato estensore) che posso-no inficiare il risultato del trattamento della lesione cartilaginea stessa. Il trattamento contemporaneo delle lesioni associate e delle lesioni cartilaginee è alla base del successo dell’intervento chirurgico. Non essendo evidente un consenso unanime sulla scelta del trattamento, obiettivo del lavoro è eseguire una revi-sione della letteratura analizzando studi prospettici comparativi volti a confrontare i risultati di diverse metodiche (palliative, ri-parative o ricostruttive). Infine è proposto un algoritmo terapeu-tico sulla gestione di tali lesioni.Parole chiave: lesione cartilaginea, lesione osteocondrale, atleti, ritorno attività sportiva

SUMMARYDuring the last years, the interest for the treatment of chondral/osteochondral lesions in athletes is increased considerably. This is due to their high incidence and to the possible consequent disability that could undermine the sport career. The choice of a correct diagnostic and therapeutic approach is based on an accurate patient evaluation to identify the chondral defect and the associate lesions such as ligament\meniscal tears, malalign-ment of the lower extremities and of the extensor apparatus. The success of surgery depends on the contemporary treatment of chondral defect and the associate lesions. Since there is not a common consensus for the ideal approach and treatment of

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M. RONGA ET AL.

S140

Il trattamento delle lesioni cartilaginee prevede il ripristino della superficie articolare con un tessuto dalle caratteri-stiche meccaniche e funzionali tali da permettere lo svol-gimento di attività sportive ad alto impatto. I parametri fondamenti che indicano il successo del trattamento sono la riduzione del dolore, il ripristino della mobilità e della funzionalità articolare, il ritorno dell’atleta al livello pre-lesionale ed il suo mantenimento nel tempo.Le diverse tecniche chirurgiche sviluppate possono essere classificate a seconda dell’obiettivo che si vuole raggiun-gere: • Palliativo (debridement e lavaggio): rimozione del tes-

suto malacico. • Riparativo (condroabrasioni, perforazioni, microfrattu-

re): formazione tessuto fibrocartilagineo.• Ricostruttivo (innesti osteocondrali OATS, impianto di

condrociti autologhi ACI, scaffold): ripristino della su-perficie articolare con tessuto ialino o simil ialino.

TRATTAMENTI PALLIATIVI

Debridement e lavaggioIl principio base del debridement e lavaggio è la rimozio-ne dei prodotti di degenerazione articolare, metalloprote-asi e citochine. Tuttavia in letteratura non esiste evidenza che negli sportivi tale tipo di trattamento sia efficace e soprattutto quale sia il grado di lesione che possa benefi-ciare di questo trattamento.Hubbard et al. 7 hanno dimostrato che il semplice debri-dement del tessuto malacico in lesioni focali migliora il quadro clinico per circa 5 anni, tuttavia i risultati si de-teriorano nel tempo. Al contrario in uno studio prospet-tico randomizzato, Moseley et al.  8 hanno evidenziato l’inutilità di tale tipo di trattamento in pazienti con grado medio-avanzato di artrosi.

TRATTAMENTI RIPARATIVIQueste tecniche artroscopiche prevedono in diversi modi la penetrazione dell’osso subcondrale sino a raggiungere gli spazi midollari: l’obiettivo è di liberare cellule stamina-li mesenchimali a livello della superficie articolare che si organizzeranno in un coagulo il quale evolverà verso la formazione di tessuto fibrocartilagineo.

MicrofrattureLe microfratture rappresentano l’evoluzione di questo tipo di metodiche. I vantaggi rispetto alle perforazioni ed alle condroabrasioni includono la riduzione di necrosi termi-ca dovuta all’utilizzo dello strumentario motorizzato e la creazione meno aggressiva di una superficie ossea ruvi-da che faciliterà l’adesione del coagulo. Il risultato clinico a distanza è difficilmente prevedibile, sia per l’incompleta riparazione del difetto, sia per la scarsa resistenza ai ca-richi ciclici del tessuto neoformato.

Mithoefer e al. 9 hanno riportato i risultati funzionali dopo microfratture su un campione di 32 atleti. Al controllo a 2 anni, il 66% dei pazienti presentavano un risultato otti-mo/eccellente. Tuttavia nei controlli seguenti è stata regi-strata una riduzione della funzionalità nel 47% dei casi. Il 44% dei pazienti era in grado di partecipare a sport di salto ed alto impatto. Di questo 44%, il 57% allo stesso livello preoperatorio. Le variabili che hanno condizionato in modo significativo il risultato finale erano: età inferio-re ai 40 anni; lesione di dimensione inferiore a 2 cm2; tempo intercorso tra inizio della sintomatologia algica ed intervento chirurgico inferiore a 12 mesi; nessun prece-dente intervento chirurgico. Tali osservazioni rivestono particolare importanza nei giovani con alte richieste funzionali. In una casistica di 25 giocatori della American National Football League, Steadman et al.  10 hanno registrato una progressiva di-minuzione di risultati positivi in pazienti che praticavano l’attività sportiva allo stesso livello preoperatorio: 76% nei primi 2 anni, 36% ad un follow-up di 4.5 anni. In un recente studio Gobbi et al.  11 hanno valutato 61 atleti sottoposti a microfratture per lesioni condrali a tutto spessore ad un follow-up medio di 15.1 anni. Le dimen-sioni medie della lesione erano di 401 ± 27 mm2 (200-600 mm2). I risultati dei test clinici miglioravano a 2 anni con un ritorno alle attività sportive precedenti al trauma nel 60% degli atleti. Ai successivi follow-up gli autori han-no osservato una riduzione nei punteggi funzionali, con solo il 20% dei pazienti che all’ultimo controllo avevano lo stesso livello di attività sportiva precedente al trauma. I risultati migliori sono stati ottenuti in pazienti giovani (età inferiore a 30 anni), con lesioni di piccole dimensioni (inferiori a 4 cm2). Inoltre 7 pazienti sono stati sottoposti ad un nuovo intervento chirurgico a livello della stessa sede delle microfratture a causa di una nuova lesione o dolore persistente. Durante l’ultimo intervento chirurgico sono stati prelevati campioni dalla zona precedentemente trattata con evidenza istologica di tessuto fibromixoide o fibroso. Al follow-up finale, nel 40% dei casi si documen-tava progressione del quadro di artrosi: tale evenienza è stata riscontrata più frequentemente in pazienti più anzia-ni con lesioni di grandi dimensioni o multiple11.

TRATTAMENTI RICOSTRUTTIVIQueste tecniche prevedono il ripristino della superficie articolare con tessuto cartilagineo di tipo ialino o simil ialino.

MosaicoplasticaLa mosaicoplastica rappresenta la moderna evoluzione degli innesti osteocondrali autologhi (OATS). Essa preve-de l’innesto mediante tecnica press-fit di cilindri di tessuto osteocondrale autologo prelevato da un’area di carico

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LESIONI OSTEOCONDRALI: RIPARAZIONE E RIGENERAZIONE

S141

relativo dell’articolazione stessa o da un’altra donatrice a livello della lesione da trattare (1-4 cm2 ). Due studi prospettici hanno valutato questa tecnica negli atleti con follow-up medio di 24-36 mesi 12 13. Il 95% circa dei pazienti presentava risultati buoni/eccellenti con un significativo aumento della funzionalità del ginocchio. La percentuale di ritorno all’attività sportiva variava dal 61% al 93% in un intervallo di 6-9 mesi dopo l’intervento. Un intervallo di tempo elevato tra insorgenza dei sintomi ed intervento chirurgico, età superiore a 30 anni e segni cli-nici e radiografici di artrosi sono stati considerarti come fattori prognostici negativi per il ritorno allo sport 12 13. Hangody et al. 14 in uno studio multicentrico hanno ripor-tato i risultati clinici e di imaging (radiografie e RM) in 354 atleti sottoposti a mosaicoplastica, con follow-up medio di 9.6 anni (range, 2-17 anni). Il ginocchio era l’articolazio-ne interessata in 303 casi con lesioni di dimensioni medie di 2.5 cm2 (range, 1-5 cm2). Sono state eseguite, quan-do necessarie, procedure associate (142 ricostruzioni di LCA, 26 HTO, 39 meniscectomie, 13 release del retinaco-lo laterale e 5 riallineamenti dell’apparato estensore). Un risultato buono/eccellente è stato registrato nel 91% delle lesioni dei condili femorali, nell’86% di quelle del piatto tibiale e nel 74% delle femoro-rotulee. Nei pazienti con lesioni dell’astragalo la percentuale di successo era del 92%. Solo nel 5% dei casi i pazienti presentavano una morbilità del sito donatore. Il second-look artroscopico è stato eseguito in 21 pazienti in caso di dolore persistente o di una nuova lesione: in 16 casi le superfici articolari si presentavano ben congruenti con una buona copertura di tessuto fibrocartilagineo nel sito di prelievo; nei restanti 5 si sono osservate alterazioni degenerative moderate/avanzate nel sito donatore o ricevente. Alla valutazione con indentometro, in 15 casi è stata documentata una consistenza simile al tessuto cartilagineo circostante, ma nei restanti 6 il tessuto si presentava meno elastico. Un peggioramento a distanza del quadro artrosico è stato osservato nel 36% dei pazienti 14. Visonà et al. 15 hanno osservato l’efficacia della mosaico-plastica in 6 atleti affetti da lesione osteocondrale della ro-tula riportando risultati buoni sia clinici che strumentali ad un follow-up di 26 mesi. In particolare, hanno documentato un buon ripristino della superficie articolare e l’integrazio-ne degli innesti con l’eccezione di un paziente nel quale hanno osservato un difetto cartilagineo di 5 mm di diame-tro e la presenza di un corpo libero intraarticolare 15.Nonostante i risultati incoraggianti sussistono diversi limiti legati alla natura di questa metodica. Il ripristino della superficie articolare concava o convessa può essere tec-nicamente difficile e la stabilità della fissazione a breve termine può diminuire precocemente. Un’errata altezza degli innesti ed eventuali difetti nella congruenza tra gli stessi possono causare un aumento della pressione di

contatto. Inoltre i microtraumi ripetuti tra l’innesto e la pe-riferia della lesione possono determinare la necrosi dei condrociti periferici con perdita dell’integrazione perife-rica e formazione di un difetto persistente. Inoltre la mor-bilità del sito donatore è direttamente proporzionale alle dimensioni del difetto da riparare e secondo alcuni autori diminuirebbe con il tempo 16.

Innesti osteocondrali da cadavereGli allograft rappresentano un’attraente alternativa per gestire i difetti osteocondrali di grandi dimensioni e profondità. In letteratura è documentata una rapida in-tegrazione dell’innesto osseo a livello della lesione con un’ottima ripresa della funzione articolare. Tuttavia è stato osservato un rapido deterioramento dell’innesto a causa della scarsa vitalità dei condrociti, della composizione della matrice e delle proprietà meccaniche in parte do-vuto alle metodiche di sterilizzazione ed alla modalità di conservazione dell’innesto 17.Gross et al. 18 hanno osservato un deterioramento dei ri-sultati nel tempo con il 95% di sopravvivenza dell’innesto a 5 anni, 80% a 10 anni, 65% a 15 anni. I risultati mi-gliori sono stati ottenuti in pazienti con lesioni unipolari, senza malallineamenti femoro-tibiali, con fissazione rigi-da alla fine dell’intervento ed età inferiore a 60 anni 18. Non sono presenti in letteratura studi che abbiano ripor-tato l’uso di questa tecnica negli atleti.

Impianto di condrociti autologhi (ACI) I e II generazioneL’impianto di condrociti autologhi (ACI) è stato proposto nel 1994 da Brittberg 19. La tecnica consiste nel prelievo artroscopico di condrociti da aree di non carico del gi-nocchio, i quali una volta espansi in laboratorio, vengo-no impiantati per via artrotomica nel difetto condrale al di sotto di un lembo periostale in un secondo intervento chirurgico. La percentuale dei risultati a medio e lungo ter-mine, classificati come eccellenti o buoni, varia dal 90% al 66% a seconda della sede e del tipo di lesione conside-rata. Peterson et al. 20 riportano i risultati di 224 pazienti sottoposti ad ACI con follow-up medio di 12.8 anni (ran-ge, 10-20 anni). All’ultimo controllo il 74% dei pazienti presentava un miglioramento clinico rispetto al preopera-torio ed il 92%, una volta intervistati, hanno risposto che rifarebbe l’intervento chirurgico. I risultati peggiori sono stati registrati nel trattamento delle “kissing lesions”. Diversi studi morfologici hanno dimostrato la natura ia-lina o simil ialina del tessuto neoformato in una percen-tuale variabile dal 50% al 70%. Quando è stata testata la rigidità, con un indentometro, quest’ultima è apparsa simile alla cartilagine circostante e superiore alla fibro-cartilagine 19 20. La percentuale di complicanze riportata in letteratura varia tra il 10% ed il 25%. Le più frequenti sono delaminazione, fuoriuscita dei condrociti dalla tasca

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biologica, distribuzione cellulare non omogenea, integra-zione incompleta con la cartilagine circostante, tipo di tessuto di riparazione, ipertrofia periostale ed artrofibrosi conseguente all’ampio accesso artrotomico 20.L’introduzione di supporti tridimensionali o scaffold ha rappresentato la tappa più significativa dell’evoluzione delle tecniche ricostruttive, delineando il passaggio da un concetto di terapia cellulare ad uno di bioingegneria tis-sutale. Con quest’ultimo termine si definisce la possibilità di riparare una lesione organica con un tessuto prodotto in laboratorio a partire da cellule autologhe 21.Molteplici materiali sono stati proposti nella pratica cli-nica come scaffold e possono essere costituiti da carboi-drati (acido polilattico, acido poliglicolico, acido ialuro-nico, agarosio, alginato), da polimeri proteici (collagene, fibrina, gelatina), da polimeri artificiali (fibre di carbonio, idrossiapatite, Teflon, acido polibutirrico), oppure da ma-trici polimeriche composite. Diversi autori hanno ripor-tato risultati a medio termine promettenti nel trattamento delle lesioni cartilaginee del ginocchio e della caviglia utilizzando diversi tipi di scaffold 22 23. Tra i notevoli van-taggi che offre l’utilizzo dei supporti tridimensionali, vi è la possibilità di eseguire l’impianto per via artroscopia con conseguente riduzione dell’invasività chirurgica, la distribuzione più omogenea dei condrociti nel difetto da trattare e la minore percentuale di ipertrofia del graft 23 24.

I migliori risultati sono stati osservati in atleti giovani (età inferiore a 30 anni) e nei professionisti. Ferruzzi et al. 24 hanno osservato risultati clinici migliori nella tecnica ACI artroscopica rispetto a quella artroto-mica ad un follow-up minimo di 5 anni. Inoltre Lindahl et al. 25 hanno dimostrato in uno studio di farmaco econo-mia a lungo termine che i pazienti con lesioni cartilaginee sottoposti ad ACI determinavano un risparmio sulla spesa pubblica rispetto a pazienti trattati con altre tecniche.Due studi multicentrici prospettici hanno valutato questa tecnica negli atleti 9 17. Risultati buoni/eccellenti sono stati osservati in una percentuale variabile dal 72% al 96% dei casi in particolare in caso di lesioni singole in corrispon-denza del condilo femorale mediale. Il ritorno all’attività sportiva è stato raggiunto dal 33% al 96% degli atleti dei quali il 60%-80% hanno mantenuto lo stesso livello di attivi-tà sportiva a distanza. Il livello di attività pre-lesionale era mantenuto dall’87% degli sportivi ad un follow-up di 52 mesi, soprattutto in caso di professionisti ed adolescenti.

Scaffold senza celluleScaffold riassorbibili senza cellule sono stati recentemen-te sviluppati per il trattamento di lesioni focali condrali/osteocondrali con l’obiettivo di superare i limiti delle pre-cedenti tecniche come la morbilità e le potenziali compli-canze degli auto e allograft osteocondrali, i due tempi chirurgici ed i costi delle tecniche ACI. L’impianto di tali

scaffold consente di colmare il difetto osteocondrale per-mettendo la migrazione e la differenziazione in situ di cel-lule mesenchimali con la successiva produzione di tessuto cartilagineo ed osseo. Gli scaffold maggiormente utilizzati oggi sono: TruFit (Smith & Nephew, Andover, MA), costituito da polimeri di glicole polilattico, solfato di calcio, fibre di acido poli-glicolico e surfactante disposti a formare un doppio strato e Maioregen (Fin-Ceramica S.p.A., Faenza, Italy) il quale è costituito da cristalli di idrossipatite nucleati e collagene di tipo I posizionati in 3 strati. I risultati dopo impianto dello scaffold TruFit sono contro-versi. Carmont et al.  26 hanno osservato buoni risultati clinici, ma una ritardata integrazione dello scaffold alla RM ad un follow-up di 2 anni. Dhollander et al. 27 hanno riportato risultati clinici modesti ed il 20% di fallimenti al controllo a 12 mesi. Delcogliano et al. 28 hanno documentato buoni risultati cli-nici e funzionali in 19 pazienti, dei quali 5 atleti, sottopo-sti ad impianto di Maioregen ad un follow-up di 2 anni. In particolare gli autori hanno osservato in tutti i pazienti sportivi un ritorno all’attività pre-lesionale al controllo ad 1 anno.Purtroppo in letteratura non vi sono studi dedicati al trat-tamento di lesioni condrali/osteocondrali con queste me-todiche negli atleti. Case report isolati hanno mostrato risultati controversi. Pertanto si rendono necessari ulteriori studi di tipo prospettico comparativo volti a valutare la reale efficacia degli scaffold nel paziente sportivo.

TABELLA I. Indicazioni e variabili che possono influenzare il risultato finale.

Tecnica Indicazione Risultati non ottimaliMicrofratture - Età < 40 anni - Età > 40 anni

- Lesione focale contenuta - Lesioni non contenute

- Condili femorali - Lesioni > 4 cm2

- Rotula

OATS - Condili femorali < 2-4 cm2 - Lesioni osteocondrali profonde (> 1 cm)

- Lesioni a specchio

ACI - Lesioni > 2cm2 - Lesioni a specchio

- Lesioni non contenute (1a generazione)

Allograft - Lesioni osteocondrali - Lesioni bipolari

- Lesioni > 2-4 cm2 - Artrosi

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LESIONI OSTEOCONDRALI: RIPARAZIONE E RIGENERAZIONE

S143

STUDI COMPARATIVIIn letteratura non esiste un consenso unanime sul tratta-mento delle lesioni cartilaginee e soprattutto su quale sia la migliore tecnica per gli sportivi. Infatti pochi studi sono stati pubblicati su questo argomento, la maggior parte dei quali con una valutazione al Coleman Methodology Score insufficiente. Pertanto per poter valutare l’efficacia delle varie tecniche si rende necessaria la revisione di studi comparativi.In uno studio prospettico comparativo, Kon et al. 29 han-no valutato ad un follow-up medio di 7.5 anni 41 cal-ciatori professionisti sottoposti a microfratture (21 casi) e ACI II generazione (20 casi). In entrambi i gruppi gli atleti presentavano un miglioramento significativo della sintomatologia con una percentuale di ritorno all’attivi-tà sportiva a 2 anni dall’intervento simile (80% micro-fratture e 86% ACI II generazione). Sebbene il ritorno

all’attività agonistica fosse più rapida per il gruppo “microfratture” (8 mesi contro 12.5 mesi), dopo 2 anni dall’intervento si è osservato una significativa e progres-siva riduzione dei risultati clinici nel gruppo “microfrattu-re” (IKDC da 86.8 a 79) rispetto al gruppo “ACI” (IKDC da 90.5 a 91).In uno studio prospettico randomizzato, Gudas et al.  13 hanno confrontato mosaicoplastica e microfratture su un campione di 60 atleti con età media di 24.3 anni e con lesione sintomatica condrale/osteocondrale. A 3 e 10 anni di distanza dall’intervento, entrambi i gruppi presen-tavano un buon risultato in particolare il gruppo “mosai-coplastica”. Dopo 10 anni, il ritorno allo sport allo stesso livello pre-trauma è stato osservato nel 75% dei pazienti trattati con mosaicoplastica e nel 37% di quelli sottoposti a microfratture. All’ultimo controllo, i segni radiografici di artrosi erano evidenti nel 25% (mosaicoplastica) e nel 48% (microfratture). Hindle et al.30 in un recente studio, hanno confrontato mo-saicoplastica e scaffold biomimetico (TruFit). Il ritorno allo sport è stato osservato nel 61% dei pazienti nel gruppo “mosaicoplastica” e nel solo 29% dei pazienti del gruppo “Trufit”. Il tempo medio di ritorno all’attività sportiva era per entrambi i gruppi 6 mesi.

TABELLA II. Algoritmo per le lesioni femoro-tibiali.

Lesione femoro-tibiale↓

Allineamento↓

Legamenti↓

Menischi↓

Difetto osseo < 8 mm

1a opzione

0-1 cm2 1-2 cm2 2-4 cm2 > 4 cm2

Microfratture ++ ++ +/- --

OATS ++ ++ +/- --

ACI -- +/- ++ ++

Allograft -- -- -- +/-

2a opzione

0-1 cm2 1-2 cm2 2-4 cm2 > 4 cm2

Microfratture ++ +/- -- --

OATS ++ +/- -- --

ACI -- ++ ++ ++

Allograft -- -- +/- +/-

Scaffold -- -- +/- +/-

Legenda:-- Trattamento non raccomandato+/- Trattamento discutibile++ Trattamento di scelta

TABELLA III. Algoritmo per le lesioni femoro-rotulee.

Lesione femoro / rotulea↓

Allineamento

1a opzione

0-1 cm2 1-2 cm2 2-4 cm2 > 4 cm2

Fisioterapia ++ ++ ++ ++

Microfratture ++ +/- -- --

OATS ++ +/- -- --

ACI -- +/- ++ ++

2a opzione

0-1 cm2 1-2 cm2 2-4 cm2 > 4 cm2

Fisioterapia ++ ++ ++ ++

Microfratture +/- -- -- --

OATS ++ +/- -- --

ACI +/- ++ ++ ++

Legenda:-- Trattamento non raccomandato+/- Trattamento discutibile++ Trattamento di scelta

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M. RONGA ET AL.

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CONCLUSIONIIl trattamento chirurgico delle lesioni condrali/osteocon-drali negli sportivi è complesso e multifattoriale. Gli obiet-tivi da raggiungere sono il ripristino di un tessuto con una buona resistenza alle forze di stress intrarticolare, la pre-venzione dell’artrosi e possibilmente un’unica procedura chirurgica. Nonostante non esista una metodica gold-stan-dard, i trattamenti riparativi e quelli ricostruttivi permettono una soddisfacente percentuale di ritorno all’attività sporti-

va con buoni risultati a breve e medio termine. La scelta della tecnica chirurgica più idonea si basa su indicazioni primarie (tipo, grado, sede e dimensione della lesione; età del paziente) e secondarie (lesioni associate, richieste funzionali, tempi di recupero ed aspettative del paziente).Di seguito sono riportate le indicazioni e variabili che possono influenzare il risultato finale (Tab. I) ed un poten-ziale algoritmo per il trattamento delle lesioni cartilaginee femoro-tibiali (Tab. II) e femoro-rotulee (Tab. III).

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F. BIGGI, C. D’ANTIMO, S. DI FABIO, F. MARTINELLI*, S. TREVISANIU.O.A. di Ortopedia e Traumatologia; * U.O.A. di Medicina Nucleare, Ospedale San Martino, Belluno

Indirizzo per la corrispondenza:Francesco Biggi U.O.A. di Ortopedia e TraumatologiaOspedale San Martinoviale Europa 22, 32100 BellunoEmail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S145-S148 S145

nell’ambito del rimodellamento osseo, provocano il cedi-mento della corticale e di parte della spongiosa, fino alla evidenza radiografica di piccole rime radiotrasparenti 1-3.

IL FENOMENO FATICA NELLE OSSAIl tessuto osseo è un connettivo altamente differenziato e specializzato per poter assolvere alle sue particolari funzioni meccaniche, sia statiche che dinamiche. Da un punto di vista chimico è costitutito per il 50% da materiale inorganico (tricalcio-fosfato sotto forma di microcristalli di idrossiapatite), per il 25% da materiale organico (matrice glicoproteica), e per il restante 25% da acqua. La sua densità è pari a 2,5 volte quella dell’acqua;il modulo di elasticità è di circa 2000 Kg/mm²; il carico di rottura a trazione è di circa 10 Kg/mm²; il carico di rottura a compressione di circa 12 Kg/mm², e quello di rottura a taglio di circa 4 Kg/mm². Numerose sono le analogie tra il fenomeno fatica dell’osso e quello dei metalli e mate-riali solidi in generale, specie quelli a struttura cristallina: può essere definita come “fatica”la perdita progressiva di resistenza e rigidità che avviene nei materiali soggetti a carichi ripetuti ma nei limiti elastici. Nelle ossa il fe-nomeno dell’affaticamento è la risultante di carichi pe-riodici imposti durante le normali attività quotidiane, ma può essere determinato anche da esercizi fisici ripetitivi e di una determinata intensità: il danno arrecato all’osso dalle sollecitazioni a fatica tende ad accumularsi senza che i processi riparativi riescano ad annullare gli effetti lesivi, con prevalenza del rimaneggiamento osteoclasti-co nei confronti dell’azione produttiva osteoblastica. Si determinano vere e proprie microfratture, invisibili radio-graficamente ed inizialmente paucisintomatiche, che sotto carico ripetuto possono estendersi, diventare sintomatiche e visibili radiograficamente, ovvero procedere spontane-amente verso una osteogenesi ripartiva: questo meccani-smo etiopatogenetico è tipico del soggetto giovane, sia esso fondista, maratoneta, danzatrice o militare di leva, ed avviene nel contesto di un tessuto osseo normale; al contrario, qualsivoglia alterazione del normale rimaneg-giamento osseo, tipo osteoporosi senile od osteomalacia, può produrre danni tali da condurre ad una iniziale mi-crofrattura che, sommandosi ad altre analoghe, può de-terminare una vera e propria frattura 2 3.

LE FRATTURE DA STRESS-FATICA-DURATAÈ stato Breihaupt, medico prussiano al seguito dell’eserci-to, a descrivere per primo nel 1855 alcune fratture delle ossa metatarsali, in soldati di leva, senza evidenza di fatti traumatici che le potessero giustificare. Da allora i medici militari hanno continuato ad osservare simili lesioni, ma in misura sempre più significativa, ed in segmenti diversi, i medici sportivi, stante la grande diffusione dello sport sia a livello agonistico che amatoriale. L’etiologia delle frattu-

LE FRATTURE DA STRESSStress fractures

RiassuntoLe fratture da stress possono interessare ossa diverse, e sono prodotte da sollecitazioni meccaniche ripetute di intensità mi-nore a quella necessaria per determinare una frattura traumat-ica. Frequenti nei soggetti giovani, quali militari e sportivi. È lecito pensare ad una frattura da stress di fronte ad un paziente che lamenta dolore, solitamente ai distretti scheletrici inferiori, dopo cambi dell’attività, in particolare sportiva, che abbiano comportato sollecitazioni importanti e ripetute nel tempo. Pos-sono non essere visibili per settimane nei radiogrammi standard, necessitando di ulteriori indagini. La terapia è frequentemente conservativa.Parole chiave: frattura, sollecitazioni, diagnosi

SummaryStress fracture affect different bones as a result of overuse, usu-ally in patients who give no history of specific trauma to account for the fracture. More frequent in young patients as athletes and military recruits pursuing activities that involve repetitive load-ing. Suspect can arise from patients referring pain, more com-monly in inferior districts. Conventional X-rays cannot show signs for weeks, and observation as well as additional investigation are required. Treatment is frequently conservative.Key words: fracture, strain, diagnosis

INTRODUZIONELa fatica è un fenomeno meccanico per cui un materiale sottoposto a carichi variabili nel tempo (in maniera rego-lare o casuale) si danneggia fino alla rottura (cedimento a fatica o rottura per fatica), ed è stata studiata nell’ambito della metallurgia per molti anni, estendendo le acquisizio-ni all’interno della bioingegneria che da decenni affianca l’ortopedico-traumatologo.Con il termine frattura da stress o da durata vengono clas-sificate lesioni di segmenti scheletrici normostrutturati e con normale resistenza meccanica, che non sono determinate da eventi traumatici, diretti od indiretti, ma da sollecita-zioni reiterate (microtraumi) nel tempo che, determinando la prevalenza di fenomeni di riassorbimento osteoclastico

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F. BIGGI ET AL.

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re da stress è, verosimilmente, multifattoriale, ed essendo, sostanzialmente, i due gruppi più studiati quelli costituiti da militari di leva ed atleti, vengono suggeriti fattori spes-so associati alle fratture da stress 1 4 5 6-8:

TABELLA I.Fattori di rischio.

Fattori probabili Fattori possibili

Sesso Tipo di calzatura

Altezza Morfologia del piede

Peso Mobilità articolare

Diametro diafisario Inadeguato apporto di calcio

Muscolatura Nessuna evidenza

Condizioni fisiche Tipo di superficie

Regime di allenamento Origini etniche

Alimentazione inadeguata Livello sociale

Ritardato menarca Area geografica

Ridotta mineralizzazione ossea

Senza dubbio l’incidenza di fratture da stress è maggiore nelle donne, con un rapporto di 12:1 nei militari di leva, che scende negli sportivi a 2-3:1; con una più frequente localizzazione a livello femorale, metatarsale e pelvico. Vi è inoltre evidenza che una maggiore altezza e per-centuale di massa magra sono associate con minore inci-denza di fratture da stress (gli uomini tendono ad essere più alti, con maggiore strutturazione ossea e conseguente taglia, e masse muscolari più importanti).Abbastanza controverso il ruolo dell’apporto di calcio nel condizionare la BMD ( Bone Mineral Density), specie nei soggetti scheletricamente maturi, anche se vi è correlazione tra disordine alimentare, ritardo nel menarca, amenorrea, osteoporosi ed insorgenza di fratture da durata. Condizio-ni fisiche generali e scarso allenamento muscolare possono spiegare lo svilupparsi di lesioni in soggetti che, di colpo, vengono sottoposti a regimi intensivi di attività, come capi-ta alle reclute ed agli atleti cui vengono aumentati i carichi di lavoro durante l’allenamento: si ritiene che l’affaticamen-to muscolare riduca l’azione protettiva dei muscoli stessi nei confronti delle sollecitazioni angolari e torsionali.Circa il tipo di calzatura utilizzata, sembra che l’inci-denza aumenti quanto più si utilizza, per camminare, gli scarponi da combattimento invece delle scarpe da ginna-stica; per la morfologia del piede, invece, non esistono evidenze decisive, anche se il piede cavo-varo-pronato sembra essere talvolta associato a fratture da fatica; lo stesso dicasi per l’escursione articolare, pur essendo stata descritta l’associazione tra fratture da stress della tibia ed una ridotta extrarotazione dell’anca omolaterale (Tab. I).Le localizzazioni più frequenti, in rapporto ai diversi gruppi studiati, sono di seguitoriportate (Tab. II).

TABELLA II.Localizzazioni anatomiche.

Sede frattura Atleti % Reclute % Danzatori %

Tibia 42,9 53,4 22,0

Tarso 19,8 2,9 -

Femore 9,0 31,6 -

Metatarso 8,2 9,2 63,0

Perone 8,0 1,5 -

Coste 3,9 - -

Vertebre 3,9 - 7,0

Bacino 2,4 1,5 -

Ulna 1,0 - -

Radio 0,6 - -

Malleolo interno 0,2 - -

Rotula 0,2 - -

FIGURA 1. Rx gamba dx.

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LE FRATTURE DA STRESS

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La clinica è, in molti casi, piuttosto subdola all’inizio, con do-lore di diversa frequenza ed intensità insorto in assenza di trauma, riferito al segmento scheletrico interessato, tendente ad esacerbarsi col ripetersi delle sollecitazioni che lo hanno determinato, ed a regredire col riposo. La diagnosi è spesso difficile, se non impossibile, almeno nelle fasi iniziali, perché i radiogrammi eseguiti mostrano rime di frattura ovvero ri-gonfiamenti e nubecole radiopache peri-lesionali solo dopo alcune settimane: a fronte di un dubbio clinico è lecito far

eseguire una scintigrafia ossea oppure una risonanza ma-gnetica, quest’ultima particolarmente utile per evidenziare la presenza di edema midollare. Talora può essere necessaria una diagnosi differenziale con neoplasie, infezioni, tendini-ti, lesioni legamentose, claudicazione di origine vascolare e/o nervosa, reumoartropatie (es. gotta).

TRATTAMENTOMolte fratture da stress vengono trattate conservativamen-te, con riposo ed astensione dal carico, ovvero assistito da bastoni canadesi, terapia medica e fisica. Solo in casi particolari, e per localizzazioni che possono comportare il rischio di scomposizione (es. il collo femorale), può es-sere necessario il ricorso alla chirurgia, pressoché costan-temente sotto forma di osteosintesi 1 4 .La terapia medica si basa sulla somministrazione di anal-gesici ed antiflogistici, mentre è del tutto discrezionale, per il medico curante, la prescrizione di calcio, vit.D, ed antagonisti del riassorbimento osteoclastico.Più complesso può risultere il trattamento fisico-riabilitati-vo, specie quando sono interessati atleti ad elevato impe-gno agonistico o, comunque, professionisti che si aspet-tano tempi rapidi per la guarigione ed il reinserimento lavorativo. È essenziale, ovviamente, una diagnosi quan-to più precoce possibile per adottare tutti i provvedimenti necessari alla risoluzione del quadro sintomatologico, ed a favorire il processo osteoriparativo che tende ad av-venire spontaneamente,. Utili, quindi, possono rivelarsi i CEMP (Campi Elettro Magnetici Pulsanti) a bassa frequen-za, gli Ultrasuoni ad alta energia cinetica (le cosiddette onde d’urto), e la Tecarterapia, sia come favorenti l’oste-oproduzione, che come sintomatici.

FIGURA 2.TC gamba dx.

FIGURA 4. Scintigrafia dinamica.

FIGURA 3.Scintigrafia statica tardiva.

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F. BIGGI ET AL.

S148

Costantemente necessaria è la sospensione di quelle atti-vità che hanno condotto alla estrinsecazione del quadro clinico-strumentale, per periodi solitamente variabili tra le 4 e le 8 settimane, durante i quali è possibile un lavoro

di mantenimento del tono muscolare prevalentemente iso-metrico, associando quando possibile l’idrokinesiterapia. La deambulazione assistita, con carico sfiorante “a soglia del dolore”, è quasi sempre possibile.

FIGURA 5 TC a guarigione avvenuta.

Bibliografia4 Court-Brown C, McQueen M, Tornetta III P.

Stress fractures. In: TRAUMA, Lippincot Wil-liams & Wilkins 2006, pp. 32-42.

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G. GRAPPIOLO, M. LOPPINI*, F. ASTOREIstituto Clinico Humanitas, Rozzano, Milano; *Università Campus Biomedico, Roma

Indirizzo per la corrispondenza:Franco AstoreIstituto Clinico Humanitas via Manzoni 56, 20089 Rozzano (MI)E-mail: [email protected]

2014;40(suppl.3):S149-S151 S149

che influenzano la sopravvivenza e le prestazioni di una PTA, così come in termini di evoluzione dei disegni pro-tesici e dei materiali utilizzati. Per tali motivi, l’intervento di PTA è oggi proposto a pazienti affetti da dolore e limi-tazione funzionale per degenerazione artrosica dell’anca sempre più giovani, i quali hanno però l’aspettativa di recuperare alti livelli di funzionalità articolare e, spesso, anche un ritorno all’attività sportiva. Ciò impone una tec-nica chirurgica standardizzata ed accurata che ripristini la biomeccanica articolare e dei materiali con bassa usu-ra. L’obiettivo attuale di un intervento di PTA è fornire un impianto stabile e durevole su misura per soddisfare le esigenze specifiche del singolo paziente.

FISIOLOGIA ARTICOLARE E SPORT L’articolazione dell’anca è sottoposta a carichi significati-vi durante l’esecuzione delle normali attività quotidiane. Tali sollecitazioni risultano essere ulteriormente incremen-tate durante l’esecuzione di attività sportive. Brand et al. 3 hanno dimostrato che durante la marcia, le forze di cari-co sull’articolazione dell’anca variano da 2,5 a 3,5 volte il peso del corpo. Rydell et al. 4 ha riportato un incremento del 43% degli stress di contatto durante una corsa legge-ra. Van de Bogert et al. 5 hanno riscontrato un aumento delle forze di carico da 2,8 volte (1km/h -1) a 4,8 volte (5km/h -1) il peso del corpo nel jogging.In considerazione delle sollecitazioni meccaniche cui è sottoposto l’impianto protesico durante l’attività sporti-va, diversi autori hanno identificato sport che possono o meno essere raccomandati in questi pazienti. Healy et al. 6 7 hanno delineato 4 categorie di sport: consigliato, ammesso con esperienza, dubbio, e non raccomandato. Un’altra classificazione distingue 3 categorie di sport: a basso impatto (camminare, nuoto, golf, cyclette), a medio impatto (es. tennis, sci alpino, snowboarding), e ad alto impatto (es. jogging, baseball, calcio, basket) 8 9.Le attività a medio impatto sono solitamente concesse ad un numero ristretto di pazienti, in relazione alla condizio-ne fisica precedente e all’esperienza, mentre le attività ad alto impatto non sono raccomandate per l’alto rischio di lesione e l’alto tasso di revisione.

OVERVIEW DELLA LETTERATURA In letteratura, esistono pochi studi che hanno valutato il ritorno allo sport dopo intervento di PTA o di protesi di rivestimento. Inoltre, si tratta molto spesso di studi re-trospettivi con follow-up ridotti. Infine, i dati forniti sono contrastanti, rendendo così difficile desumere delle linee guida univoche.Negli anni passati, diversi autori hanno studiato la rela-zione tra l’attività sportiva e la mobilizzazione asettica delle componenti protesiche. In alcuni studi, è stato evi-denziato che soggetti con PTA che praticano attività spor-

COME CAMBIANO LE INDICAZIONI NELLO SPORTIVO AMATORIALE “DIVERSAMENTE GIOVANE”: CHIRURGIA PROTESICA DELL’ANCAHip prosthesis in amateur sports

RiassuntoL’innovazione in chirurgia protesica dell’anca ha raggiunto oggi risultati molto incoraggianti su ripristino funzionale rapido e so-pravvivenza degli impianti. D’altra parte sempre più pazienti hanno richieste funzionali sempre più esigenti tra le quali il recu-pero dell’attività sportiva. Molti autori hanno valutato l’influenza dell’attività sportiva e del tipo di sport sulla sopravvivenza degli impianti. In conclusione la scelta di sport non ad alto impatto associato ad impianti non cementati a presa metafisaria con tribologia ceramica-polietilene di ultima generazione offrono le maggiori garanzie di sopravvivenza.Parole chiave: anca, protesi, sport

SummaryInnovation in hip surgery has now reached very encouraging results on rapid functional recovery and survival of the implants. On the other hand more and more patients are increasingly de-manding functional requirements including the recovery of the sport. Many authors have evaluated the influence of the sport and the type of sport on the survival of the prosthesis. In conclu-sion, the choice of low/medium-impact sport associated with metaphyseal anchorage cementless stem and latest generation of ceramic-on-polyethylene tribology offers the best guarantee of survival.Key words: hip, prosthesis, sport

INTRODUZIONEL’intervento di protesi totale di anca (PTA) è stato definito “l’intervento del secolo” in quanto è in grado di determi-nare un miglioramento significativo del livello funzionale e dello stato di salute generale nel paziente affetto da dege-nerazione artrosica dell’anca 1. Da quando Sir Charnley introdusse concetti rivoluzionari quali la sostituzione to-tale dell’anca e l’artroplastica a basso attrito a metà del secolo scorso 2, sono stati compiuti notevoli progressi nel campo della protesica in termini di conoscenza dei fattori

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G. GRAPPIOLO ET AL.

S150

tiva dopo l’intervento chirurgico presentano una minore frequenza di mobilizzazione asettica rispetto ad un grup-po controllo di pazienti sedentari con PTA 10 11. Tuttavia, la valutazione dell’usura delle superfici di scorrimento, ha dimostrato una maggiore usura nei pazienti che hanno praticato sport dopo l’intervento 11. Al contrario, altri au-tori hanno dimostrato che pazienti con PTA o protesi di rivestimento che svolgono attività sportive o lavori pesanti hanno un rischio doppio di revisione per mobilizzazione asettica rispetto a pazienti meno attivi 12.Altri autori hanno studiato come si modifica l’attività spor-tiva dopo l’intervento di PTA o protesi di rivestimento. Chatterji et al.  13 hanno rivalutato 235 interventi di PTA a due anni dalla chirurgia. Essi hanno evidenziato come il numero totale di pazienti che svolgono attività sportiva aumenta dopo l’intervento, tuttavia il numero di soggetti che svolgono sport ad alto impatto come golf, tennis e jog-ging si riduce significativamente. Lo studio Ulm 14 su 420 pazienti ha confermato queste evidenze, dimostrando che il numero di pazienti che svolge attività sportiva aumenta dal 36% nel preoperatorio al 52% a 5 anni dalla chirur-gia. Tuttavia, gli sport più eseguiti sono quelli ad impatto basso o moderato come nuoto, ciclismo e trekking.Molto recentemente, Abe et al. 15 hanno eseguito uno stu-dio per valutare la frequenza di esecuzione dello jogging dopo PTA o protesi di rivestimento, così come l’influenza di tale sport ad alto impatto sulla stabilità dell’impianto e l’u-sura delle superfici di scorrimento. In un campione di 608 pazienti, il numero di soggettivi che eseguiva jogging è diminuito da 33 (5,4%) in fase preoperatoria a 23 (3,8%) dopo l’intervento chirurgico. Tra questi, nessun paziente ha riportato dolore di coscia, né un aumento dei livelli serici di cobalto e cromo superiori a 7 ppb. Infine, non è stato riscontrato alcun caso di mobilizzazione asettica ad un tempo medio di follow-up di 4,8 anni dalla chirurgia. Schmidutz et al. 16 hanno invece valutato il livello di atti-vità sportiva di 68 pazienti con PTA con stelo corto ad un follow-up medio di 2,7 anni dalla chirurgia. Il numero di pazienti che svolgono attività sportiva nel postoperatorio era sovrapponibile a quello del preoperatorio, in quanto il 98% dei pazienti ritornava allo sport. Tuttavia, gli autori hanno riscontrato un passaggio dalle attività ad alto a quelle a basso impatto, come già evidenziato in studi con PTA standard o di rivestimento.Altri autori hanno valutato il ritorno allo sport dopo l’inter-vento di protesi di rivestimento, una tipologia di impianto disegnata con l’obiettivo di offrire una soluzione protesi-ca per i pazienti giovani e più atletici. Naal et al.  17 hanno valutato 112 pazienti a 2 anni dall’impianto di una protesi di rivestimento. Gli autori hanno riscontrato un elevato livello di attività sportiva dopo intervento chirurgico, con una significativa quota di pazienti ancora impegnati in attività ad alto impatto.

Gli sport più frequentemente praticati erano: sci alpino (51%), tennis (12%) e sport di contatto (22%). Infine, i pazienti più anziani hanno dimostrato un livello di attività più alto rispetto ai pazienti più giovani, in termini di nu-mero di giorni dedicati ad attività sportiva e lunghezza delle sessioni di attività.Banerjee et al. 18 hanno valutato 138 pazienti a 2 anni dall’impianto di una protesi di rivestimento. Il 98% dei pazienti che eseguivano sport prima della chirurgia, è tor-nato a svolgere attività fisica dopo l’intervento. Il numero di pazienti attivi dopo l’intervento è aumentato significati-vamente soprattutto in sport: ciclismo statico; allenamento in palestra (fitness/pesi); camminata in montagna. Al con-trario, gli sport ad alto impatto come tennis, jogging, cal-cio e pallavolo hanno mostrato una riduzione significativa di partecipazione. Sebbene non siano stati riscontrati epi-sodi di lussazioni e complicanze direttamente attribuite alle attività sportive, il 16% dei pazienti ha riferito limita-zione funzionale all’anca operata per dolore o riduzione dell’arco di movimento o riduzione della forza muscolare. Fouilleron et al.  19 hanno valutato 202 pazienti a 33,3 mesi dall’impianto di una protesi di rivestimento. In questo campione, 40 pazienti che praticavano jogging in fase preoperatoria sono stati esaminati in termini di tempo di corsa e chilometraggio settimanali. Al momento dell’ulti-mo follow-up, 33 pazienti (82,5%) praticavano ancora jogging. Il tempo medio di ritorno all’attività sportiva è stato di 16 settimane. Sebbene il chilometraggio medio settimanale sia stato ridotto significativamente, non è sta-ta riscontrata una differenza significativa nel numero delle ore settimanali dedicate alla corsa. Infine, nessuno di que-sti pazienti è stato sottoposto a revisione.

SCELTA DELL’IMPIANTO: APPROCCIO SUGGERITO DAGLI AUTORIL’atleta è un soggetto ad alta richiesta funzionale. Per tale motivo, la tecnica chirurgica deve essere estremamente accurata al fine di ripristinare la biomeccanica articola-re. Inoltre, la scelta del disegno protesico e dei materiali utilizzati deve tenere conto delle richieste funzionali del singolo paziente in modo da poter garantire un impianto stabile e durevole nel tempo.Per quanto riguarda la scelta dello stelo, preferiamo l’uso di steli corti non cementati con presa metafisaria 20. Infatti, sebbene gli steli non cementati standard hanno dimostrato risultati clinici e radiografici eccellenti nel lungo termine 21

22, essi possono prevedere una generosa rimozione di osso dalla regione trocanterica, uno stelo lungo nella diafisi femorale con possibile dolore di coscia e talvolta, ancoran-dosi nella diafisi femorale, favorire lo stress shielding. Gli steli corti garantiscono una mini-invasività sull’osso e tessuti molli, e sembrano ripristinare una trasmissione dei carichi più fisiologica a livello del femore prossimale, prevenendo

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COME CAMBIANO LE INDICAZIONI NELLO SPORTIVO AMATORIALE “DIVERSAMENTE GIOVANE”: CHIRURGIA PROTESICA DELL’ANCA S151

quindi il fenomeno dello stress shielding 23. Inoltre, gli steli corti con presa metafisaria hanno dimostrato di garantire la stessa stabilità primaria degli steli tradizionali 24.Per quanto riguarda la scelta dei materiali per le superfici di carico, preferiamo l’accoppiamento ceramica-polietilene altamente reticolato (CP). Tale scelta è dovuta al fatto che il polietilene altamente reticolato di ultima generazione è un materiale con tassi di usura notevolmente ridotti rispetto a quelli del polietilene di vecchia generazione 25. Inoltre pre-senta un rischio estremamente basso di frattura, che sembra infatti essere associato a valori elevati dell’angolo di ab-duzione dell’acetabolo associati ad un polietilene sottile 26.Alternative a questa combinazione sono l’accoppiamento ceramica-ceramica (CC) e metallo-metallo (MM). Tuttavia, entrambe le soluzioni presentano potenziali controindica-zioni all’utilizzo in soggetti che vogliono praticare attività sportiva. L’accoppiamento CC è sicuramente un’ottima scel-ta per ciò che concerne l’usura 27, tuttavia questo materiale è estremamente rigido. Per tale motivo può essere meno

adatto alla trasmissione di forze elevate in compressione. Inoltre, sono stati documentati in letteratura casi di frattura della testa e dell’inserto acetabolare 28 29. Il rischio di frat-tura sembra essere notevolmente più basso nelle ceramiche di ultima generazione 30, tuttavia studi osservazionali con lunghi follow-up non sono ancora disponibili. L’accoppiamento MM ha dimostrato avere ottimi risultati in termini di stabilità, arco di movimento, usura e soprav-vivenza. Tuttavia, tale accoppiamento è stato associato con elevate concentrazioni di ioni nel siero, pseudotumori ed osteolisi 31. De Haan et al. 32 hanno studiato i livelli di ioni cromo e cobalto nel siero e nelle urine in un atleta di tri-athlon attivo con protesi di rivestimento, dimostrando che il rialzo dei livelli di ioni è correlato con l’attività ed è tran-sitorio.In conclusione la scelta di sport non ad alto impatto asso-ciato ad impianti non cementati a presa metafisaria con tribologia ceramica-polietilene di ultima generazione of-frono le maggiori garanzie di sopravvivenza.

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P. ADRAVANTI, A. AMPOLLINICasa di Cura “Città di Parma”, Parma

Indirizzo per la corrispondenza:Paolo Adravanti, Aldo AmpolliniCasa di Cura “Città di Parma”p.le A. Maestri, 43123 ParmaE-mail: [email protected]; [email protected]

2014;40(suppl.3):S152-S154S152

Key words: patellofemoral pain syndrome (PFPS), chondromala-cia patella, rehabilitation treatment, surgical Intervention

INTRODUZIONELa patologia femoro rotulea è una delle cause più fre-quenti di ginocchio doloroso. All’interno delle problema-tiche femoro rotulee, la sindrome dolorosa rotulea dello sportivo adulto, è una entità clinica ben definita che esclu-de tutti i problemi di instabilità come causa del dolore 3. Rispetto alla sindrome dolorosa rotulea dell’adolescente si differenzia in quanto è predominante il danno cartila-gineo che è invece è spesso assente nelle sindromi dolo-rose rotulee dell’adolescente. Il dolore, che non sempre è correlato alla gravità del danno cartilagineo, è il sintomo principale accompagnato da pseudoblocchi, sensazione di instabilità legata al dolore che causa improvviso rila-sciamento del quadricipite ed episodi di versamento. Si tratta di una patologia da sovraccarico e gli sport più a rischio sono quelli che sollecitano particolarmente la funzione di frenata del quadricipite come la discesa e la corsa su terreni duri.

ESAME CLINICOL’artrosi femoro patellare viene definita come una erosio-ne cartilaginea che interessa la faccetta articolare interna e/o esterna della rotula o della troclea femorale. Quando entrambi le superfici sono interessate si parla di erosione a specchio. La faccetta laterale è quella più frequentemen-te interessata 4.L’anamnesi è importante per capire l’insorgenza del dolo-re ed escludere traumi. Il dolore che si aggrava nel salire e scendere le scale, in posizione accovacciata, alzandosi da posizione seduta è suggestivo per una problematica rotulea. L’esame clinico inizia in posizione eretta valutando l’alli-neamento degli arti inferiori ed eventuali vizi torsionali, l’angolo Q patologico sopra i 15°, la presenza di prona-zione del piede causa di dolore anteriore 5.In posizione prona si valuta l’antiversione femorale cau-sa di gonalgia anteriore 6 una eventuale retrazione del quadricipite e degli ischiocrurali. Si passa quindi all’esa-me del ginocchio. Dopo avere escluso lesione meniscali e legamentose, si passa alla valutazione della artico-lazione femoro rotulea. Importante valutare la mobilità della rotula, crepitii e la positività del segno di Smillie. Il dolore rotuleo che si accentua nei primi 30° di flessio-ne indica una condropatia distale di rotula mentre nelle condropatie prossimali il dolore si accentua ai massimi gradi di flessione. Va inoltre esclusa una instabilità di rotula in quanto, anche se le due patologie sono sepa-rate, una instabilità di rotula può coesistere con una do-lore rotuleo. Vanno pertanto ricercati il J sign, il segno dell’apprensione 7.

LA SINDRME DOLOROSA ROTULEA NEL GIOVANE ADULTOPatello femoral pain sindrome in the middle age

RiassuntoIl dolore femoro rotuleo è una condizione molto frequente e rap-presenta circa il 10% delle visite ortopediche per gonalgia1. Le cause sono multifattoriali e includono malallineamenti, overu-se, riduzione della forza muscolare o della flessibilità di alcuni gruppi muscolari, difetti osteocondrali e anomalie biomeccani-che del piede, caviglia e anca1 2. È fondamentale per la diagno-si una accurata anamnesi e un esame clinico completo dell’arto inferiore analizzando l’allineamento, la mobilità, la mobilità, lo scorrimento rotuleo, la forza e la retrazione muscolare. La dia-gnostica per immagini comprende sia un accurato studio radio-logico che la TAC e la RM. Il trattamento di scelta è conservativo e comprende la terapia medica con antinfiammatori e la terapia fisica e riabilitativa. Il trattamento chirurgico dovrebbe essere ri-servato in casi ben selezionati dopo il fallimento del trattamento riabilitativo.Parole chiave: sindrome dolorosa femoro rotulea, condromala-cia rotulea, trattamento riabilitativo, trattamento chirurgico

SummaryPatellofemoral pain syndrome (PFPS) is one of the most frequently diagnosed knee conditions in the primary care, orthopedic, and sports medicine settings 1. and has been reported to account for almost 10% of all visits to sports injury clinics.Proposed causes of this pain include overuse; muscle or strength imbalances; oste-ochondral defects; and foot, ankle, hip, and pelvis biomechani-cal abnormalities 1 2. Patellofemoral malalignment should be excluded A thorough history and physical examination focusing on the alignment and strength of the lower extremity as well as specific maneuvers to assess patella mobility and tracking are essential to diagnosis. Radiographs as well as advanced ima-ging including CT scan MRI can evaluate the alignment as well as articular cartilage of the patellofemoral joint. Patellofemoral pain can be well treated with oral anti-inflammatory medication, activity modification, physical therapy focused on strengthening and flexibility, and, if indicated, intra-articular injections. When conservative management fails, surgical treatment in the form of distal realignment and unloading procedures are effective.

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LA SINDROME DOLOROSA ROTULEA NEL GIOVANE ADULTO

S153

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10 Clarke S, Lock V, Duddy J, et al. Intra-artic-

Lo studio radiologico comprende le radiografie in carico in AP, LL e Schuss e le proiezioni di Merchant a 45° di flessione con angolo di incidenza del tubo radiologico di 30°  8. La TAC secondo il protocollo lionese e per lo studio della TA-GT e della bascule rotulea e la RM per la valutazione del danno cartilagineo completano lo studio diagnostico.

TRATTAMENTO CONSERVATIVOIl trattamento conservativo è il trattamento di scelta per questo tipo di patologia. Riposo, modificazione della at-tività sportiva, ghiaccio e terapia antinfiammatoria per brevi periodi sono alla base del trattamento. Tutori per la stabilizzazione della rotula e plantari per correggere una eventuale pronazione del piede sono utili per il controllo del dolore  9. Anche la terapia infiltrativa sia di cortiso-ne che di acido ialuronico può essere utile a risolvere il dolore e l’infiammazione 10. II trattamento riabilitativo gioca un ruolo fondamentale nel trattamento del dolore femoro rotuleo. Dovrebbe essere individualizzato in base alla clinica. Il miglioramento dello scorrimento della rotula si può ottenere tramite una sua mobilizzazione mediale passiva, allo scopo di detendere il retinacolo laterale. Il rinforzo muscolare deve essere effettuato sia a catena ci-netica aperta che chiusa ad opportuni angoli di lavoro. L’esercizio a catena cinetica chiusa verrà effettuato tra gli 0° e i 40°-50° mentre quello a catena cinetica aperta tra i 90° e i 30° 11. Lo stretching è molto importante cercare di allungare sia i muscoli del polpaccio, dal momento che una loro retrazione comporta una pronazione compensa-toria del piede che a sua volta causa un aumento dell’in-trarotazione tibiale con conseguente ipersollecitazione rotulea,sia gli ischio-crurali, il tensore della fascia lata, la bendelletta ileo-tibiale ed il quadricipite.

TRATTAMENTO CHIRURGICOIl trattamento artroscopico di lavaggio articolare, shaving condrale e/o radiofrequenze è stato abbandonato per i risultati contraddittori e poco duraturi nel tempo. Nei casi di artrosi della faccetta laterale di rotula con becco

ostofitico laterale è stato proposto come trattamento chi-rurgico la resezione parziale della faccetta laterale di ro-tula associata alla lisi dell’alare esterno 12. Le tecniche di stimolazioni midollare tipo le microfrattura o nano fratture sono indicate per lesione della troclea femorale inferiori a 2,5 cm mentre nelle lesioni più grandi e in casi ben selezionati utilizziamo la tecnica one- step associando le microfratture all’utilizzo di una membrana composta da una matrice di collagene porcino I/III fissato con colla di fibrina. La tecnica può essere associata all’utilizzo di PRP e/o midollo osseo concentrato e trapianti ossei nelle perdite di sostanza ossea associate 13. Altra tecnica chi-rurgica è l’utilizzo di uno scaffold biomimetico osteocon-drale (Maioregen) in presenza di un importante danno osteocondrale 14.

CONCLUSIONILa sindrome dolorosa rotulea dello sportivo adulto è una entità clinica ben definita che esclude tutti i problemi di instabilità come causa del dolore. Il dolore anteriore di ginocchio in questi casi è spesso associato alla presenza di lesioni condrali della femoro rotulea ma non sempre è collegato alla gravità del danno cartilagineo. La lesione cartilaginea può determinare indirettamente lo sviluppo di dolore attraverso la liberazione di mediatori chimici dell’infiammazione ma in altri casi il dolore può avere origine neurogena o da alterata omeostasi dell’artico-lazione femoro-rotulea. In pazienti con dolore anteriore di ginocchio è fondamentale comprendere la causa del dolore: se primario o secondario ad altre problematiche e se il danno cartilagineo è isolato alla femoro rotulea o combinato. La terapia conservativa è il primo approccio terapeutico nella gran parte delle lesioni cartilaginee sin-tomatiche della femoro rotulea. Il trattamento chirurgico viene riservato a pazienti ben selezionati. Varie sono le opzioni chirurgiche a seconda della gravità del danno cartilagineo ma ancora oggi non vi è unanimità nel defi-nire quale sia il trattamento migliore nei difetti cartilaginei maggiori 15.

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P. ADRAVANTI, A. AMPOLLINI

S154

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13 Volpi P, de Girolamo L. Rigenerazione tissutale: applicazioni cliniche nel tratta-mento della cartilagine articolare. G.i.o.t. 2010;36:200-5.

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Abati C.N., S109, S125Adravanti P., S152Ampollini A., S152Astore F., S149Benazzo F., S36Berardi M., S62Bertani B., S82Biggi F., S145Boero S., S88Bonetti I., S14Bottiglia Amici-Grossi P., S50Brambilla L., S47Caizzi G., S62Carimati G., S50Carolla A., S8Carulli C., S93Castaman E., S31Catagni M.A., S24Ceccarelli F., S8Celli M., S115Cerullo G., S20 Cherubino P., S139Cipolla M., S20Civinini R., S93Colella G., S131Combi A., S36D’Antimo C., S145De Rosa F., S82Deanesi V., S96Della Rosa L., S35Delli Sante E., S42Di Domenica M., S115Di Fabio S., S145Di Palma F., S42Dilonardo M., S62Donzelli O., S109Ferrua P., S50Franco V., S20Gallo A., S14Gianni’ E., S20Giannini S., S1Grappiolo G., S149Guerreschi F., S24Innocenti M., S93La Barbera G., S139Lampasi M., S125Liccardo S., S131Loppini M., S149Lovisetti L., S24Lucanto S., S82Luciani D., S1Macera A., S93Magnan B., S14

Mannino S., S88Marcovici L.L., S77Martinelli F., S145Martini L., S115Marullo M., S36Matassi F., S93Mazzotti A., S1Merolla G., S135Mora R., S82Moretti B., S62Mosca M., S1Nicoletta F., S42Paladini P., S135Pederzini L.A., S42Pedrotti L., S82Persiani P., S77, S115Perticarini L., S36Porcellini G., S135Postorino A., S102Puddu G., S20 Quaglia A., S47Racano C., S109Rampoldi M., S55Ranaldi F.M., S115Randelli F., S50Ratto F., S88Riganti S., S88Ronga M., S139Ruosi C., S131Sacco E., S77Samail E., S14Scialabba C., S31Serrao L., S50Stasi A., S31Stilli S., S125Trevisani S., S145Tuvo G., S82Valcarenghi A., S102Valoroso M., S139Varotto D., S102Villani C., S77, S115Violi C., S8Vittore D., S62Volpe A., S102Volpi P., S47Zambrano A., S115Zanon G., S36Zucchi B., S77

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