Testi critici in nomime domini

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TESTI CRITICIin nomine domini

2007 - 2009

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Per chi come un bambino vuol tenere a lungo acceso il fuoco delle curiosità, devecredere che nel vedere, leggere e ascoltare ci sia già molto del suo futuro fare, quindisaranno fondamentali le occasioni. E le occasioni talvolta capitano nelle circostanzepiù insospettate. In velocissimi scampoli temporali. In sfortunate perdute coincidenze.Per chi poi, per scelta di vita, si applica a tenere alta l’esigenza di comunicare, dall’esercizioacquisirà le capacità che un magnete ha nell’orientarsi e, di conseguenza, saprà crearsiin proprio quei momenti.Ecco perchè ho affittato per le mie curiosità, per le mie fantasie, per darmi risposte, 6stanze confi-nanti un cubico studio; nel suo insieme, visivamente, come fosse unipotetico ipercubo abitativo.Lo studio è quello di Fulvio Leoncini. Pittore. Manipolatore rumorista, un chirurgodella materia, un chimico delle sostanze. Un pitto-biologo. Un pitto-voyeur. La suastanza, centrale alle mie 6, è un’officina che produce rumori e questi, come arruffateapofonie, voglio andare ad intendere e da semplici e indecifrabili suoni tradurli, conl’aiuto del mio archivio mentale, in paraedolie, ovvero ricostruire o intuire qualcosadel suo abitatore, da Fulvio dipinto e da me già visto. Ma presuntuosamente anche no.Questo mio intendimento dalla giocosa apparenza dovrà essermi di aiuto, quale ulteriorecanale di fruizione disponibile, alla comprensione delle complesse applicazioni esistenzialiche fa agire creativamente l’artista.Vado a preparare le stanze.Posso entrare in ciascuna di queste ma non passare da una all’altra. Per farlo debboriuscire. Ognuna delle 6 pareti-confine, anzi 4 pareti, un pavimento-solaio e un soffitto-pavimento in comune al suo studio, viene da me alleggerita dagli sbuffi e dalle muffe.Maculanti macchie fungine, quelle che aggrediscono senza indulgenza anche tutti inostri sensi, aumentandoci le colpe, concludendone gli assedi nei luoghi dei nostripensieri. Ho alleggerito queste pareti divisorie con il palmo della mano e con le unghieliberate dai grumi di calce. Le ho accarezzate soffiandone via le polveri e poi infine,con l’orecchio parabolato che più sente ne ho cercato, provando su ciascuna, il puntopiù vibrante. Quello meglio microfonato. Una prova generale. Bene si sente. Adessosono pronto. Curioso.

"Come in uno specchio corroso dove ancora riconoscersi"

Antonio Bobò

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1 - Dalla prima stanzaSono nella stanza a levante. A terra seduto. Aspetto. Come uno zampettamento sincopatodi topo perimetrante giungono a me i primi segnali. Fulvio è arrivato e si è calato nellasua creativa solitudine. Sta lavorando. Trappetti, bisquigli, piccoli tonfetti. Acufelicampanari, carillon. Tamponamenti. Overtures. Segnali da crociera veloci come titolidi coda; poi preliminari amorosi, chiacchiericci da aula magna. Attendo ora che le luciperiferiche si abbassino. Chiudo gli occhi e ascolto.Caro Fulvio. Fulvio Leoncini: pittore, chirurgo sgraffiatore, fiorettista, sciabolatore.Musico. Inizia pure il tuo concertone: gira e rigira, sospendi e sdraia, sdraia e ribalta.Ballapure un tango con la tua tavola. Sfinisciti, sfinitevi pure. Io ascolto.Sono anni che ad ogni approccio visivo con il tuo operato, qualcosa si è sempre mossointorno al mio orecchio, sembrandomi sentirne lontano quasi un commento. Insomma,mi sono sempre incuriosito dal suono che lo strumento da te portato sulle tue tavole potevaprodurre. Ora voglio ascoltare con mirate attenzioni. Voglio conferme. Avvertire partitureper voci e sentimenti. Indicazioni.Penso al tuo rettangolo aureo di gioco e ti vedo direttore d’orchestra attento al 12° violinoin secondfila, con veloce l’occhio ad anticipare il timpano e il polso ad incupire le viole.Il tuo disseminare sulle tue tavole, come su di un pentagramma, di segni, punti, tratteggi,sgraffi, carezze e fendenti, lo vedo attento e scrupoloso, come ridare un ordine cosmico,alle origini del suo e del tuo caos. Ecco che ne troviamo l’ingresso. Poter così entrare conmappa nel tuo urbano pensiero.Stratifichi i tuoi stati emotivi come ere geologiche per poi piegarle e ripiegarle, fondendoe battendo, forgiandone affilate lame di samurai.Ogni volta che penso al tuo ravvicinarti e nel metterti fisicamente in contatto con i tuoisupporti, tele, carte o tavole che siano, a me sembra l’illuminarsi in alto forno del puntodi fusione e, tra i bagliori del fall out, intuirne i tuoi velocissimi interventi prima cheil magma del tuo momento pensante si solidifichi, si raffreddi. Vedo sì velocità,arrembaggio e schizofreniche agitazioni, ma inscindibile il susseguente stato di quiete.Il momento del cesello. Il mettere Re, Cavallo, Torre e Alfiere, giusto giusto nelle lorocaselle. Dai traccia sulle tue posizioni, sulle tue adesioni e schiera-menti, sottolineandoi tuoi cicli pittorici con titoli, ora con rinascite, senza non prima oscure precipi-tazioni,ora con l’anima e con il cuore, malato o battente che sia, ora con date genovesi tremendee con un bestiario interiore laico e religioso.Il tuo apparecchiare, riconducendo cento e più materiali diversi, potrebbe essere comeil buon pasto e il rifornimento nel paniere per il viaggiatore, una rassicurante autonomiaal percorso pensato.

2 - Dalla stanza sull’ArnoMi sposto sulla parete dell’Arno. Ascolto.Ora sento rumori di carte, batratici cadenzati liberi versi, li sento scorrere sul fiume.Vedo sull’acqua galleggiare barchette in corrente e sopra piccoli messaggi. Un serviziopostale acquatico, missive telepatiche da mezza lega appena dall’antro del nostroSantacrociato. Arrivano campioni di acidi, vernici e bitumi, colofonie e carte veline

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che mettono voglie. Ti sento non trattenerti dall’affogarti nei nitrici, con punte, bulinie piume di uccello.Gli intervalli silenti, i fiati sospesi garanti le culle agli inchiostri e poi, se non basta,sono tue le feroci sgorbiate. Ti sento soffiare e pulire e mi arrivano gli odori e i vaporiacri e nebbiosi dei diluenti ammoniaci deceranti. Esplosivi.Dopo ci sono gli esami e i rumori non sono di attrezzi ma di rotolanti pensieri. Alle tuespalle presunti sostegni. Approvazioni motivate dagli amici.Questa è la stanza da dove sento meglio il tuo fare calcografico e meglio mentalmenterivedo le tue prime incisioni.Dalle acide corrosioni, alle “Germinazioni“. Dalla quiescenza, dal letargo vegetativo,embrioni che scoppiano il seme-placenta sondando radicalmente la terra, facendo esultarei germogli. Nella genesi si imparentano con le tue rappresentazioni cardiache. Il cuorecome il seme. La nascita, la rinascita, la vita. Ne avverto sviluppi vegetativi sutherlandianie grovigli da dripping, apparizioni in frottage, con alcuni umori meccanici dagliamericani, da Pollock a Kline a Rauschenberg, ma misurati. Calibrati. Qualche scattodi mano alla Serpan.

3 - Dalla stanza libecciaOra sono alla parete del mare.Per un momento sto fuori. Sento aria di casa, sento freschezza e come danza su ghiacciovedo sgorbie e punte su cera e metallo, ora lievi ora sospese, ora sbarbanti, aggressivee taglienti e sotto vedo vie contorte e a compasso, nere come il culo del Bosch. Sentopure l’odore dei cotoni bagnati, schiacciati, affogati e salvati dalle due dita più gentili.Alle mie spalle c’è l’archivio, quello dei nostri passati incontri. Un archivio lungocent’anni, uno strato di carta ed uno di inchiostro. Qui ci siamo trovati. Con tutti cisiamo trovati.Entro. Riascolto.Battenti e sbuffanti come coperchi al vapore sento unanimi i tuoi cuori dipinti impegnatiin dediche e futuri viaggi in ex voto. Un cuore per quelli che da te hanno già preso.Li accompagnano biglietti sfrangiati, pettinati e dorati. Questi cuori sono piccole lampadevotive per illuminare gli amici nel buio. Io ne ho una affogata nel gesso.Questa tua stanza è cardiaca. Invadono la parete al mio ascolto appese aortografie,cardiogrammi e tracciati arteriosi, rivestimenti endotelici, reticoli, passaggi anastomosicie cellule emopoietiche disseminate in parete come dipinte. Poi anatomie che sembranovagine e bocche spalancate di ippopotami, e al centro una bella buccia epicardica, ros-sastra come calcedonio con i suoi strati belli concentrici, sembianti sistemi idrici neltronco degli alberi. A chiudere il cerchio sul palpito e il battito. Il vivere.Il “Pulsionale” pittorico e interiore di Fulvio, nel processo dinamico teso al suo obbiettivo,si evidenzia e si dichiara.Sento ora distinti motori in partenze, compagnie di idee e battaglie, sento pagine chegirano, date e appuntamenti e cartine geografiche stropicciate. Sento odore di francobollie il chiudersi delle buste. Sento bicchieri di carta, voci senza microfoni e ombrellibagnati. Sento il fare operaio. Sento, evviva, un sorriso.Sento quella che da sempre io chiamo “Risultanza di forze”. Ora esco.

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4 - La parete a nordQuesta è la stanza affittata più angusta, tanto stretta sulla facciata in accesso allo studioda scorrerci con difficoltà. Una esigenza strutturale ad imitazione della stessa. Quelladove è più facile farsi scoprire ma che offre l’acustica migliore non potendone distaccare,dalla parete divisoria, neppure la guancia. Posso stare a destra o a sinistra della porta,scavalcandola. Mi fermo però sopra.Posso vedere tutto quello che entra e testimoniarne sicuro il raddoppio in uscita. SoloFulvio ne esce ogni volta sgravato, alleggerito. Ogni umore, riflessione, ogni pensieroentra nel suo studio come le carte, le vernici, le cere e gli zinchi, le paraffine. Tutto restaincollato, fermato, cucito sulle sue tavole.Attraversando idealmente la porta mi unisco a Luciano Della Mea sul pensiero e illavoro, sempre e comunque. E con lui mi trovo affiancato sulle stime - sue - per l’uomo,percentuali così tragicamente perdenti sull’amore e la tolleranza di fronte a crudeltà eabominio.Affianco Nicola Micieli che trova le tue materie organiche sulla soglia della putrefazionee da te in successivo assalto, rifiatate, defibrillate da sincopi e cancrene.Puntualmente trovo ben definito da Romano Masoni il luogo del tuo lavoro, la tua tana:“ Luogo di resistenza”. Così lui lo chiama. Per questo vorrei io restare.Ma devo riprendere il viaggio verso la prossima stanza.

5 -Dalla stanza soffittaQuesta è la stanza proprio sopra al suo studio.Mi sdraio e ascolto. Anzi no. Questa volta voglio veramente anche vedere. Apro, trapasso,sfessuro un occhio, proprio al centro del solaio, così che io come su di un geoscopiopossa avere dall’alto una totale, cauta, discreta visione.Le tue opere hanno esatti equilibri geografici ed architettonici e molto sono di aiuto levalenze toponomastiche precise a concederci entrate ed uscite in ogni senso. Accessiper arrivare fino al cuore, seguendo ora il filo del sangue, i labirinti ematici, ora i meandricerebrali fino al centro del tuo dipingere.Tu lavorando in piano, io da sopra girando a orologio, avanti e indietro, vengo risucchiatoda tutti quei canali venosi, tutti aperti fino ai bordi della superficie.Costeggio muraglie, salto crepacci e seracchi e leggo vie ed insegne, lapidi e cartelli,citazioni e graffiti amorosi e anche quelli velenosi, che sono i più. Perfino ingiurie ebestemmie e se tocco mi brucio, oppure mi ustiono con scosse. Le tue esigenze formaliti fanno scultore prospettico e non hai bisogno delle reali profondità, ti bastano piccolisquarci per illuderci sui vortici.Sufficienti gli spessori e gli aggetti, sottili e bassi, per quelle che vuoi siano le indicazionialla lettura, alle interpretazioni da te disseminate in ogni sbalzo delle superfici. L’ingannopittorico fa il resto; ecco arretrare da soli monsignori, priori, abati e prelati, arcipreti asalire, andandosi a nascondere tra i fumi d’incenso e le carte da parati. Con loro arretranoanche i paramenti appena velati da pietosi paraventi. Tutto quanto rinchiuso in confessionalirovesci simili a cupole, a disgregate cattedrali meritevoli delle disintegrazioni divine piùancora che da quelle anticlericali, inevitabili torture e roghi autodistruttivi di ritorno. Ecadono giù dall’esplosione frammenti e cenere, crani decapitati e membra ed occhi, unghie

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e ossa strappate, bruciate. Tutte reliquie ben disegnate come quelle incise da Jan Luyken,testimone delle più orrende torture da Sant’ Uffizio Paolino.Quel che resta su quelle superfici sono macerie sulle quali riflettere, non diverse da quellesaccheggiate ad arene e colossei. Tu le fissi a monumento, a memoria, quali immagini dibellici integralistici eventi. Senza bandiere nè coccarde.Nel disporre i livelli, gli strati e i piani come un susseguirsi di pensieri, sembra, Fulvio,che tu ponga domande a te stesso e a queste tu risponda velando con carte e con calce ivari stati del tuo operare, ma non totalmente, onde evitarne le decapitazioni del sensologico.Per l’esigenza sua poetica, Fulvio sarà pronto ai salvataggi, al recupero dei particolari,a tratteggiarne ed evidenziarne con penna gli incroci e le deviazioni. Opere interrogantie rispondenti, capitoli a formare collana. Una sua interiore esigenza.Rientrando nella mia psico-soffitta, porto con me granelli di colore, farine di ori e argenti.E condivisi sentimenti.

6 - Dalla stanza cantinaQuesta stanza affittata è come fosse la mia e anche, sono sicuro, la tua e del nostroamico navigatore, dispensatore di rinforzi e rincalzi.È quest’ultima stanza un piccolo inferno, caldo il giusto, una cantina-pub dove bere coni nostri Bukowski, i nostri sans papier e tutti i poeti stramaledetti, i diseredati, i confinatie gli esiliati.A versarci i brulè, in servizio, sommeliers poveri diavoli, incazzati come noi ma menoaffratellati.È il luogo basculante, ora sopra ora sotto. È la stanza del tuo studio clonata, caro Fulvio.Il luogo, i luoghi dei confronti, dei ritiri spirituali dove i doni vanno in ricambio e latemperatura è la stessa. Non è vero che il tuo studio visto da sotto è sede della solitudine,le impronte da già sono mille e non importa se sono delle solite scarpe.Dunque il soffitto, tuo pavimento, è trasparente alla vista e il tuo studio senza ostacolie barriere è direttamente collegato, come un vulcano al nucleo, all’inferno vero, piùprofondo ma non più orrorifico di quello terreno.In conclusione. Vedo, sento e anche posso toccare, annusare la tua scrittura dipinta, ituoi messaggi gravitazionali che cadono, scendono giù come pollini e semi, giù dentrodi noi, dove poter rigerminare e moltiplicarsi.

Te e la tua stanza. Nudi. Ti cade un fiotto di colla e vermiglio. Ecco ti abbassi. Mi vedi...Fulvio dammi la mano che salgo!

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1.

Il contenuto del disastro è per intero nel tempo?

Si può dire che il potere temporale del male di credere è tanto esteso da farsi infine

davvero atemporale. Questa l’eternità. Ma: come il potere disintegra negli individui i

presupposti analitici per la sua messa in crisi, così il non-potere della pittura (di alcune

forme - nell’arte contemporanea) può sollecitare e reintegrare e reintegra di fatto la

visione/sguardo di connessione e di critica in chi - se ancora umano - osserva e immette

linee di senso in quel che circoscrive, analizza, apprende.

È un non-potere puntuale, un inciso/incisione; è un graffio anche in grado di ferire il

sé del gesto di graffiare. Dura il tempo riquadrato della tavola dipinta, sovrascritta.

Configura,ri-figura, forma, stabilisce un momento, una macchia di senso avverso in e

contro un flusso aggressivo, e precisamente ha l’energia del muro, della diga o vetro

contro la massa acquea nera del credere = confidare = confessarsi = condannarsi.

Le tavole incise di Fulvio Leoncini, le materie biffate, cancellate, sovrascritte, abrase,

dove i materiali differenti e diffidenti (garza, colore, taglio, rinvio, profilo) congiurano

verso quanto è ancora da dire e costruire, sono già il corpo offeso della sensibilità avversa

al potere, insofferente verso il potere e la sua fabbrica di fides.

L’istante o effimero profondo del gesto pittorico fa muro contro l’atemporale potere

temporale delle chiese, che disintegrano nel corpo e nel pensiero dei fedeli dannati

le attitiudini pensanti, lo scetticismo, la gioia di vivere, ogni traccia di vera e piena

felicità di delirio, sessualità, scienza della differenza, eccesso, dispendio.

Complessità e momento

note suIn nomine Domini

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È - quella di queste opere - una sensibilità non sognante ma segnante (e segnata). La

traccia - escavazione da acido/vita - è quella che Leoncini non lascia che lo sguardo

perda. Ogni ferita è restituita nella sua verità.

Altrettanto, ogni affossamento di verità, finta prospettiva (la prospettiva centrale: vertigine

del teatro cristiano), è non sottovalutata. È ripresentata come ribaltamento in negativo

da Leoncini. Che scaglia contro i prelati la stessa manciata di graffi che le gerarchie

e le chiese hanno imposto alla fodera interna del nostro pensare (e pensarli).

[Si osservi il Principe della chiesa (2008), entro questa sequenza: come balza evidente

la sagoma tagliata del doppio a quasi-sovrapposizione del “principe”]

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Come si reintegra un osservare, uno sguardo di connessione tra gli eventi, dunque critico?

Attraverso la complessità.

In Leoncini una particolare forma di “espressionismo” (se non è illecito tornare a far

uso di questo termine) fa leva non solo e non tanto sul - pur presente - gesto, sulla

registazione in materia - e trattamento della materia - dell’azione aggressiva del segno.

Quello che stupisce ogni osservatore - e forma la gran parte dell’intensità di quel segno

- è la stratificazione, la complessità, la grafia metodicamente e follemente recursiva che

batte o tempesta tanto la superficie dipinta, quanto la stessa materia pittorica e i segni,

nel loro insieme e singolarmente.

Nulla è lasciato a una linearità di tratto, ampiezza immacolata di campitura a spatola,

calligrafia. Ogni tratto è invece minacciato da ogni lato; ogni campitura è ridiscussa da

velature sovrastanti e viraggi; ogni grafia è rattorta lungo l’asse del discorso - tutto esteriore

e tutto interiore - della critica che Leoncini svolge.

L’ordinata e netta ossia recisa funzionalità pittorica, il filo di ferro espressionista, è tagliente

e piegato a gomitolo (non irrazionale, non irrazionalisticamente).

La “bolla papale” asemantica che sovrasta un’Africa - che possiamo immaginare contesa

e dissanguata - si fa debordare a destra e a sinistra in piani spazialmente sfalsati.

È impossibile ridurre e semplificare il Reliquiario (2007) schiacciandolo su una visione

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binaria di ampolla a destra e femore scarnificato a sinistra: ogni dettaglio del “flacone

miracoloso” è una macchina moltiplicante dettagli; come in più punti l’osso assolutamente

ma apparentemente nudo nella campitura nera è pur tagliato verticalmente da tracce.

Per non dire delle opere di ancora più pronunciata complessità, come la Madonna del

rosario (2008), in cui segni cruciformi (da confessionale, trine), fori, tela, macchie,

righe rette, castone che suggerisce un cavo uterino, sommano piani su piani di un discorso

che solo l’occhio attento - catturato dal complesso, dal multiforme - indugiando intende.

Il linguaggio complesso forma sguardi complessi, dunque è - in questo - politico.

Non altro (e sempre eccessivamente altro) è il piano di scorrimento del lavoro di Leoncini.

Visibilissimo in questi otto testi grafici (sovrascritture, discorsi) nati tra 2007 e 2009.

Tre anni di testardo appressamento alla verità delle materie, dei segni, delle grafie ritornanti,

come impronta e difesa di chi - nella storia scolpita delle chiese - è invece senza nome e

senza dominio.

Marco Giovenale

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