Testi critici elettroshock

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La mostra “Elettroshock” di Fulvio Leoncini non poteva cadere in un momento migliore. L’autunno ri-chiama con i suoi colori e i suoi silenzi i luoghi delle c.d. “Istituzioni Totali” cioè le residenze di persone che - tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo - si trovano a trascorrere parte della loro vita in un regime chiuso come sono le prigioni o gli ospedali psichiatrici.

Questa mostra che ha prodotto anche un bel catalogo raccoglie la “sofferta” opera di Fulvio Leoncini che tratta il problema delle istituzioni totali in generale, e degli ospedali psichiatrici in particolare, con lo sco-po precipuo di mettere a fuoco il mondo dell’internato o del “matto”.I “matti” appaiono qua e là, quasi avessero il timore di farsi notare, ormai offesi nel profondo dell’anima; solo la capacità artistica di un grande pittore riesce a scuotere questa monotonia, la nebbia si dissolve e tornano i colori, i quadri, appena incorniciati con un listello, emergono dal grigiore, le immagini sono definite e i drammi riportati alla luce.La mostra che ho promosso nei locali del Consiglio Regionale si colloca quindi in un progetto molto più ampio di sensibilizzazione della nostra collettività su alcune vicende che fanno parte del nostro recente passato e che non debbano essere dimenticate.

La presenza di un artista come Fulvio Leoncini, nato a Empoli e vissuto artisticamente a Santa Croce sull’Arno, si inserisce in quelle eccellenze toscane che molto più spesso dovrebbero avere visibilità nelle nostre Istituzioni dato che con la loro qualità, sensibilità, passione artistica rendono la Regione Toscana, ancora oggi, luogo di grande cultura e arte.

Paolo Bambagioni Consigliere Regionale

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Fulvio Leoncini, un “santacrocese”

Fulvio Leoncini non è santacrocese per nascita , ma lo è nel profondo, nel midollo della sua arte e della sua pittura. Le sue opere hanno il colore della pelle e del cuoio, hanno la sostanza sofferta della lavorazio-ne conciaria, sono artigianali, nascono dal bulino, dalla cura attenta della mano dell’uomo. Leoncini vive da troppi anni nella nostra cittadina perché il suo lavoro non ne porti le stigmate: da troppi anni respira l’aria di Santa Croce sull’Arno, guarda i muri delle sue concerie, girella paziente negli stradoni della zona industriale, “sente” da lontano la presenza del grande depuratore, è ipnotizzato dal viavai incessante delle auto che da Fucecchio, da Ponte a Egola, da Castelfranco di Sotto, da Staffoli, da Ponte a Cappiano si riversano incessantemente, a qualsiasi ora del giorno, nella nostra cittadina.

Ma se questo è il colore, la pelle, il rivestimento formale delle opere di Leoncini, il grande tema di questa mostra è la follia, un’ulteriore testimonianza della maturità dell’artista, della sua umanità, del suo co-raggioso addentrarsi nel dolore incompreso degli emarginati. La follia: da quando, tanti anni fa (grazie a Dio!), la riforma Basaglia ha fatto anche del nostro Paese un’oasi di civiltà, dove non è più possibile, anzi non ha più alcun senso, letteralmente!, parlare di matti, di manicomi, di camicie di forza, di elettro-shock, di docce gelate… il tema della cosiddetta “follia” è diventato uno dei modi per riconoscere la nostra umanità, la nostra diversità, l’essere comunque fratelli, l’essere accomunati in un percorso accidentato e difficile che, dalla nascita alla morte, ci costringe ad abbracciarci e ad aiutarci a vicenda, solidali nel destino comune dell’Uomo.

Di Fulvio Leoncini ho sempre apprezzato la riservatezza, la modestia, il vivere appartato fin quasi ai limiti della scontrosità: le sue opere nascono in un piccolo cenacolo di amici, ai limiti, ai bordi della vita caotica degli altri, lontano dal frastuono dissonante della vita di massa. Queste, ovviamente, non sono le parole di un critico specializzato e nemmeno di una persona che frequenta con assiduità e competenza mostre d’arte e Musei. Sono soltanto le parole affettuose di un altro santacrocese, che apprezza profondamente e sinceramente il suo lavoro e che ora, in questa fausta occasione, gli vuole augurare di cuore il più schietto dei successi.

Osvaldo Ciaponi Sindaco di Santa Croce sull’Arno

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Fulvio LeonciniELETTROSHOCK

2010 - 2012

Testo di

Nicola Nuti

Testimonianze

Fabrizio MugnainiCarlo Ricciardi

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Si racconta che in vecchiaia, dopo un ictus, Ardengo Soffici un giorno si sia visto allo specchio e abbia mormorato: “Che schi-fo”. Il giorno dopo era morto. Forse era passato dall’altra parte

dello specchio. Perché lo sguardo di un artista vive nel discrimine tra la vita e il suo opposto; tra il qui e ora e il dappertutto e in nessun posto. L’artista ha negli occhi la morte e celebra, in qualche modo, la vita. Fulvio Leoncini dipinge la follia. Non solo questa, di essere artista, ma anche quella “vera”, di chi soffre rinchiuso e nascosto nella pro-pria mente. Dipinge i sogni, i desideri; dipinge le assenze, i fantasmi della storia e della memoria. Fin dalle sue prime esperienze espositive, è stato chiaro che l’artista si stava radicando in una sorta di denuncia esistenziale avendo chiaro che il nostro tempo è, non solo per la sua opera, un involucro che tutto contiene e annulla. Dunque, negli anni ha trasportato ogni storia in un corpo e ha dato un corpo ad ogni storia: possibile che in lui resista l’illusione di salvare qualcosa o qualcuno con una presa di coscienza univoca, attraverso una pittura di contenuto che contiene pittura?Per questo, merita leggere con attenzione la serie di opere “Elet-troshock”, creata dopo la visita di Leoncini all’antico ospedale psi-

chiatrico di Volterra (1888 - 1978) che custodisce ancora le tracce di esistenze tormentate, e, a parte, i documenti, le attrezzature e il corpo epistolare dei degenti (lettere conservate nelle cartelle cli-niche e mai spedite). In quest’operazione, l’artista perde la “giusta distanza”, ovvero il ruolo di osservatore, e precipita, appunto, in un vortice di dolore dal quale si può riemergere solo con un atto cre-ativo. Dipingere, quindi, rivendicare all’arte le sofferenze uma-ne che finora erano state relegate alla cronaca, alla storia minore. L’impianto della pittura di Leoncini, che potrebbe dirsi informale, conduce a un unico esito espressivo le due direttrici principali su cui si è sempre svolto il suo lavoro: figura e materia. Tuttavia, il quadro non si disperde in accumuli di colori-materia, è fit-tamente elaborato secondo un ductus espressivo che ha radici proprio nel lavoro giovanile dell’artista, nel suo segno che fluttuava alla ricerca del corpo dell’immagine, creando embrioni di figure in inquieta rela-zione con lo spazio. Adesso la parola scritta diventa segno, traccia, e il segno è una lacerazione, e la figura un’ombra, una memoria di vita. I dipinti di Leoncini sono storie senza descrizioni, come arrivate al cuore del non detto. Una sensibilità schiva, la sua, che si esprime in

Elettroshock, la memoria al negativoNicola Nuti

“La vertigine è qualcosa di diverso dalla paura di cadere.La vertigine è la voce del vuoto sotto di noi che ci attira che ci alletta,è il desiderio di cadere, dal quale ci difendiamo con paura”.

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Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere.

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trame grafiche dal ritmo controllato, mai uguale; uno stupore quasi timido che sollecita accensioni di luce, bianco-nero, come di una lam-pada che oscilla nel vuoto a scacciare, a tratti, il buio di una stanza. Da un particolare rivelato, da un accordo afferrato in fuga, Leoncini tende a ordire una pagina fatta di richiami, somiglianze non spente, non dimenticate nel loro valore di spunto e, in definitiva, di tema. Poi-ché proprio la presenza del tema, al fondo di ogni variazione, sostiene l’intero intreccio del quadro. I suoi “Santi senza nome” sono imma-gini che sembrano scaturire dal fondo stesso del dipinto, come nelle antiche fotografie che pretendevano di ritrarre fenomeni paranormali. Ma se le memorie mute, le storie taciute, i dolori nascosti, generano fantasmi, allora queste sono le tracce di spiriti anonimi sofferenti, gli stessi in cui ogni vivente può riconoscersi. Tematica suscitatrice di fan-tasmi baudelairiani, più che contemplazione di partiture armoniche.Osservando oggettivamente le sue composizioni, e come lui tratta la materia sezionandola in segni duri e in rari, acuti, espressivi lampeg-giamenti di colore, che sembrano avvinghiarsi a un’idea centrale ri-velata, si schiude un paradigma di simboli-segni e di simboli-luci che danno appiglio al pensiero, portandolo là dove Leoncini voleva con-

durlo: le sue tavole hanno allora il valore di una figura, e ciò che egli rappresenta non è l’espressione lamentosa o soffocante del dramma, ma il dramma stesso, preso a sé, come strappato dal resto delle sensa-zioni. Questo effetto straniante, simile a un’azione del “Teatro nero”, si deve alla robusta ossatura figurativa di Leoncini. L’artista non poteva arrivare a sonorità così profonde senza aver prima sperimentato il mondo della realtà esterna, esteriore, e la figurazione. Decenni di ricerca figurativa stanno a sostegno (forse a spiegazione) di questo divenire all’attuale espressione, che si rifà ai climi figurativi, poiché le dominanti di Leoncini sono sempre derivate da un sottofon-do psicologico aperto al dramma e da una natura schiva, sensibile alle ore malinconiche della nostra vita.«Ora prendete il telescopio e misurate le distanze e guardate fra me e voi chi è il più pericoloso», queste le parole, mai riferite agli originali destinatari, contenute in una lettera di un uomo che era stato chiuso nel manicomio di Volterra dai parenti, senza che egli soffrisse di una partico-lare patologia. La frase diventa dunque emblematica di ogni rapporto di potere, di prevaricazione: esprime l’ ambiguità di una realtà rovesciata. Allo stesso modo, nei dipinti di Leoncini vengono sovvertite le va-

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lenze espressive da “positivo” a “negativo”: la pagina non grida, ma accoglie il grido; non racconta, ma mostra; il segno non contiene, ma viene contenuto. E la memoria, quella, è una memoria che non ricorda niente, ma che resta, perché qualcuno ne nota il vuoto e decide di darle forma, magari su tavole rese come intonaco calcinato e ossidato, com-plessi di spessori e scrostature, allucinati con squarci di bianchi aggru-mati. Per Leoncini l’esistenza è un muro, che raccoglie graffi, ingiurie, scritte, ma anche momenti di dolcezza, di fantasticherie astratte che servono a dare un senso all’insensato. La pittura è un muro, un corpo sostanziato di equivalenze organiche e plastiche, mentali e materiali.Se dovessimo avvicinare la qualità di pensiero che è alla base dell’o-pera di Leoncini, alle suggestioni letterarie, sentiremmo la scossa mentale scatenata da Artaud, ma più probabilmente ci troveremmo di fronte alla crisi senza riscatto, la desolazione del tempo di Bianciardi, per restare a un’epoca e un luogo che gli si confanno. Certo, alla fine l’artista lavora su pochi temi, ma dalle mille facce: il dolore, la pietà (pietas), la compassione, l’esercizio del potere, l’alienazione, la passione, la carne e l’anima (che certo non è quella di cattolica configurazione), ma lo fa attingendo all’accumulo di visioni,

segni-simboli, sentimenti maturati con l’esperienza, elaborati nel tor-mento personale. Leoncini non cerca l’effetto, non mostra compiaci-menti stilistici, se non l’indimenticato orgoglio di padroneggiare figu-ra e composizione. Per lui, non è questione di seguire una scuola, una tendenza o un’ideologia: è in gioco l’esistenza che si fa pittura, l’uni-co modo per manifestare la propria inequivocabile presenza nell’arte. In questo nostro tempo assistiamo spesso al rapido, quasi camale-ontico, aggiornamento degli artisti alle forme espressive più seguite. Un fenomeno legato al mercato, quando c’è, o, più genericamente alla civiltà del consumo, e che poco ha a che vedere con un reale e meditato interesse della critica. Anche il linguaggio dell’arte perde la sua concretezza che sta nell’ancoramento all’esperienza individuale. Ma esiste un’altra, più appartata e sofferta, forma di ricerca, aperta alle suggestioni della cultura attuale e non provinciale. È il modo di procedere scelto da artisti che interpretano le proposte stilistiche con-temporanee attraverso il loro autentico mondo esistenziale e poetico, senza snaturarsi, senza estraniarsi dalla loro realtà individuale. Credo che Fulvio Leoncini appartenga a questa autentica e onesta ca-tegoria di pittori.

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Ciao Fulvio,

anche ieri sera sono passato alla solita ora ed ho trovato il cancello

chiuso, quel cancello di ferro così pesante che mi mette anche sogge-

zione. Ormai è più di un mese che passo da te per fare due chiacchie-

re ed inevitabilmente trovo tutto sprangato: al di là suor Rosaria che

non accenna una mossa per aprirmi, quasi non mi saluta. Forse dopo

la nostra conversazione sulla orizzontalità dei tuoi lavori non mi vede

di buon occhio e mi considera come un eretico. Mi spiace, ma che ci

posso fare, i quadri in fila nel tuo studio mi hanno sempre messo in

subbuglio l’anima, hanno graffiato la pelle e lasciato cicatrici sulla

schiena, non posso considerarli che per quello che sono, grida di do-

lore, partiture rosse di vergogna, attimi di forte partecipazione emo-

tiva. La loro non verticalità significa sicuramente l’impossibilità di

Dio di presentarsi in quei luoghi di sofferenza, anche perché se fosse

riuscito a fare capolino non si sarebbero vissuti quei drammi e soprat-

tutto ripetuti nel tempo. Questo è quello che ho cercato di spiegare

alla sorella, l’ho vista titubante, come se difendesse un fortino ormai

conquistato, con le guardie che si sono arrese, mi auguro che con il

tempo capisca e riapra quel portone, ho voglia di venire a trovarti e

parlare con te. Ti ricordi i bei momenti passati a parlare del Nannetti,

internato nel manicomio di Volterra, struttura infernale, fortunata-

mente chiusa nel 1978 per merito della legge Basaglia? Sì, sono stati

istanti di intensa commozione, te sempre pensieroso, meditabondo,

con la voce roca, il respiro pesante e le parole che inciampavano nei

denti, io assorto, ammirato ad ascoltare quello che mi raccontavi.

Ad ogni parola un sussulto, ad ogni commento vedevo davanti i tuoi

lavori e riuscivo a percepire la tua sofferenza fisica di questi due anni,

sofferenza che hai vissuto al pari di quelle povere persone che non

avevano possibilità di fuga. Un nucleo di persone variegato, che prove-

nivano da tutta Italia ed appartenevano a varie tipologie, la più esigua

i malati di mente, poi gli omosessuali, le figure socialmente scomode,

gli orfani e quell’Oreste Fernando Nannetti che ti ha tanto colpito e

che mi hai fatto amare. Spesso, tornando a casa, dopo i nostri incon-

tri, ho rivisto il Nannetti, curvo, aggroppato, chino che con la punta

della fibbia della divisa da “matto” incideva i tuoi quadri, affondava il

ferro nel legno, si aprivano ferite sanguinanti che te cercavi di conte-

nere, non cancellare, poi di notte sviluppavi mostrandoci, la mattina,

il valore del dipinto anche lui sofferente. Sì, la sofferenza la puoi

nascondere, mettere da parte, ma non la puoi né dimenticare né can-

cellare. Ho pensato a te quando sono andato all’inaugurazione della

scuola di magistratura nel rinnovato ex manicomio di Castelpulci,

lì è stato rinchiuso per tanto tempo Dino Campana, hanno stucca-

to, rinnovato l’intonaco, e ridipinto le pareti ma non sono riusciti

a cancellare il dolore e le grida degli internati. Le prime volte che

ti dicevo che da casa mia si sentivano ancora le grida di Campana

non ci credevi, ma quella volta, che il vento soffiava forte e faceva

mulinello tra il gelsomino e l’olivo, sei riuscito ad ascoltarlo anche

te, un grido di tormento-amore, quel grido che poi sei riuscito a tra-

sporre nei tuoi quadri, trasferendo la vivida sofferenza su una tavola

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di legno che, se vuoi, può anche assomigliare al lettino dove veniva

legato il paziente per sottoporlo allo straziante elettroshock. Grazie

Fulvio, non posso che esserti riconoscente per avermi dato la possi-

bilità di immergermi, come un vero subacqueo, in questo mondo di

atrocità, sei riuscito a resuscitare la memoria, quella parte di noi che

non deve mai morire. Il tuo modo di presentarti al pubblico in quanto

artista mi affascina, la tua voglia di protagonismo mi rapisce, sei la

persona più umile e meno presenzialista che io abbia conosciuto, mi

piace quel protagonismo assente, come un quadro bianco senza cor-

nice. Parli poco ma ci regali ogni giorno nuove emozioni attraverso

i tuoi quadri, quei quadri che associano ad una pratica segnica mille

altri interventi che nessuno può percepire se non riesce a toccare con

mano, ad appoggiare i polpastrelli sul dipinto ed individuare i segni,

gli scalini, le protuberanze, la carta incollata e poi strappata, quella

che rimane sgrossata con ripetute passate di carta a vetro, poco ma-

terico il tuo quadro anche se potrebbe sembrare il contrario, sei più

propenso a portare via, assottigliare che aggiungere. Fai benissimo,

credimi, a non invischiarti in certi nugoli di artisti prezzolati, il tuo

modo di fare arte è puro e a me piace questa tua purezza che è anche

la tua purezza d’animo, certo non sarai bello a vederti, ma sei sicu-

ramente “bello” come amico, aggettivo che in questo caso assume

l’accezione di buono, nobile, generoso, limpido. Troppe sono le cose

superflue al giorno d’oggi, non è giusto aggiungere altro disordine

al disordine, qualche volta, e te lo sai bene, è meglio distruggere che

creare, sei una persona, o meglio un Artista, educato al “silenzio” l’u-

nica forma passiva per sconvolgere il mondo, credimi, ci stai riuscen-

do. Ogni volta che ci incontriamo mi assomigli sempre di più ad un

guerriero normanno, disarmato, senza usbergo, con in mano un lapis

che brandisci come spada per inchiodare su carta quelle visioni che

ti avvolgono la mente. Cambia pure il manufatto, scegli il ricamo ma

non alterare l’atteggiamento. Salutami suor Rosaria, dille pure che in

questo momento il mio equilibrio è sano, la nostra incomprensione è

solo contenuto dolore e che si ricordi del sacrificio umano, la prossi-

ma volta ti aspetto da Nando.

Fabrizio

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Carissimo Fulvio,

un’altra tua opera arricchisce la mia collezione e mi offre l’occasione per ringraziarti e per riflettere.Negli ultimi due anni i miei brevi passaggi domenicali nel tuo stu-dio, al mattino presto, quando il sapore del caffè tiene ancora vivo il desiderio di fumare una sigaretta in compagnia di un amico prima di iniziare la giornata dedicandoci ognuno alla propria attività preferita o necessaria, mi hanno consentito di assistere, partecipe, alla creazio-ne dell’ultimo ciclo di opere.La tua particolarissima tecnica pittorica fatta di stratificazioni di co-lori che con pazienza e attenzione riporti in superficie fino a ferma-re quella luminosità che con una “semplice” pennellata non avrebbe avuto lo stesso sapore e forza espressiva. Le incisioni, le scarnifica-zioni che con sapienza attraversano la superficie piatta e levigata, a tratti più fitte e a tratti più rade; le puntiformi o estese applicazioni di materiali eterogenei, funzionali al messaggio, giustapposti con arti-gianale abilità contribuiscono ad allertare l’attenzione di chi osserva le tue opere per coglierne il messaggio.Questo linguaggio esprime pienamente la tua partecipazione personale ai temi che ti ispirano, la gioia, il godimento, la rabbia e la sofferenza. E proprio la sofferenza di un uomo che riflette sulle vicende della mente e dei corpi di altri uomini che, “meno fortunati”, hanno avuto dal “destino” una dote di esperienze complesse e spesso insupera-bili, è quel sentimento che nel corso di questi mesi ha mosso la tua mano di “artista”. I volti di questi compagni di strada, gli strumenti adoperati per fornire aiuto alle loro sofferenze sono la traccia di un percorso attraverso le dinamiche che sfiorano la nostra quotidianità. Può essere rischioso soffermarsi a riflettere.

Ammirevole il tuo coraggio soprattutto in questo periodo storico così povero di stimoli positivi.Hai voluto parlare di persone che hanno sofferto per la loro condi-zione umana e per l’intervento di altri uomini, gli strumenti di cura (leggi elettroshock) talvolta grossolani e spesso inadeguati e crudeli ed hai saputo cogliere l’intensità del dolore e la violenza dell’impatto terapeutico, senza giudicare, ma con partecipazione, per consentire a chi osserva di assorbire in modo originale l’onda di emozioni .La lettura dei tuoi messaggi non è semplice se dalle immagini richiedi immediatezza espressiva secondo i canoni dell’arte figurativa classica. Le immagini che produci hanno l’impatto emotivo di una sgassata su una pista di cross e possono trasmettere il brivido di una piega su una pista di super bike. Per usare confronti meno dissacranti potrei sbilanciarmi su sensazioni evocate da una sinfonia o da un brano di musica rock. Riesci con la tua Arte a trasmettere il sapore della vita. In questo caso un sapore amaro ma che non lascia l’amaro in bocca. In questa tua nuova produzione è ancora più facile cogliere lo strug-gente effimero del corpo e l’eterna bellezza dell’anima.Proprio nella tavola dell’annegato che ora possiedo e che hai recen-temente esposto nella mostra dedicata al fiume Arno vivono tutte le sensazioni che hai voluto suscitare nel percorso di Elettroshock, su-blimate e pacate nei magici colori della profondità del fiume.Il dramma dell’affogato compendia le sante vicende terrene e il rag-gio di luce che emana dal corpo indica il percorso della speranza. La lucida patina di cera distesa su tutta la superficie del “quadro” è un pudico velo sulla vicenda umana.

Carlo amico tuo

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